Laborem exercens 20

20. L'importanza dei sindacati

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Sulla base di tutti questi diritti, insieme con la necessità di assicurarli da parte degli stessi lavoratori, ne sorge ancora un altro: vale a dire, il diritto di associarsi, cioè di formare associazioni o unioni, che abbiano come scopo la difesa degli interessi vitali degli uomini impiegati nelle varie professioni. Queste unioni hanno il nome di sindacati. Gli interessi vitali degli uomini del lavoro sono fino ad un certo punto comuni per tutti; nello stesso tempo, pero, ogni tipo di lavoro, ogni professione possiede una propria specificità, che in queste organizzazioni dovrebbe trovare il suo proprio riflesso particolare.

I sindacati trovano la propria ascendenza in un certo senso, già nelle corporazioni artigianali medioevali, in quanto queste organizzazioni univano tra di loro uomini appartenenti allo stesso mestiere e, quindi, in base al lavoro che effettuavano. Al tempo stesso, pero, i sindacati differiscono dalle corporazioni in questo punto essenziale: i moderni sindacati sono cresciuti sulla base della lotta dei lavoratori, del mondo del lavoro e, prima di tutto, dei lavoratori industriali, per la tutela dei loro giusti diritti nei confronti degli imprenditori e dei proprietari dei mezzi di produzione. La difesa degli interessi esistenziali dei lavoratori in tutti i settori, nei quali entrano in causa i loro diritti, costituisce il loro compito. L'esperienza storica insegna che le organizzazioni di questo tipo sono un indispensabile elemento della vita sociale, specialmente nelle moderne società industrializzate. Ciò, evidentemente, non significa che soltanto i lavoratori dell'industria possano istituire associazioni di questo tipo. I rappresentanti di ogni professione possono servirsene per assicurare i loro rispettivi diritti. Esistono, quindi, i sindacati degli agricoltori e dei lavoratori di concetto; esistono pure le unioni dei datori di lavoro. Tutti, come già è stato detto, si dividono ancora in successivi gruppi o sottogruppi, secondo le particolari specializzazioni professionali.

La dottrina sociale cattolica non ritiene che i sindacati costituiscano solamente il riflesso della struttura "di classe" della società e che siano l'esponente della lotta di classe, che inevitabilmente governa la vita sociale.

Si, essi sono un esponente della lotta per la giustizia sociale, per i giusti diritti degli uomini del lavoro a seconda delle singole professioni. Tuttavia, questa "lotta" deve essere vista come un normale adoperarsi "per" il giusto bene: in questo caso, per il bene che corrisponde alle necessità e ai meriti degli uomini del lavoro, associati secondo le professioni; ma questa non è una lotta "contro" gli altri. Se nelle questioni controverse essa assume anche un carattere di opposizione agli altri, ciò avviene in considerazione del bene della giustizia sociale, e non per "la lotta", oppure per eliminare l'avversario. Il lavoro ha come sua caratteristica che, prima di tutto, esso unisce gli uomini, ed in ciò consiste la sua forza sociale: la forza di costruire una comunità. In definitiva, in questa comunità devono in qualche modo unirsi tanto coloro che lavorano, quanto coloro che dispongono dei mezzi di produzione, o che ne sono i proprietari. Alla luce di questa fondamentale struttura di ogni lavoro - alla luce del fatto che, in definitiva, in ogni sistema sociale il "lavoro" e il "capitale" sono le indispensabili componenti del processo di produzione - l'unione degli uomini per assicurarsi i diritti che loro spettano, nata dalle necessità del lavoro, rimane un fattore costruttivo di ordine sociale e di solidarietà, da cui non è possibile prescindere.

I giusti sforzi per assicurare i diritti dei lavoratori, che sono uniti dalla stessa professione, devono sempre tener conto delle limitazioni che impone la situazione economica generale del paese. Le richieste sindacali non possono trasformarsi in una specie di "egoismo" di gruppo o di classe, benché esse possano e debbano tendere pure a correggere--per riguardo al bene comune di tutta la società - anche tutto ciò che è difettoso nel sistema di proprietà dei mezzi di produzione o nel modo di gestirli e di disporne. La vita sociale ed economico-sociale è certamente come un sistema di "vasi comunicanti", ed a questo sistema deve pure adattarsi ogni attività sociale, che ha come scopo quello di salvaguardare i diritti dei gruppi particolari.

In questo senso l'attività dei sindacati entra indubbiamente nel campo della "politica", intesa questa come una prudente sollecitudine per il bene comune. Al tempo stesso, pero, il compito dei sindacati non è di "fare politica" nel senso che comunemente si dà oggi a questa espressione. I sindacati non hanno il carattere di "partiti politici" che lottano per il potere, e non dovrebbero neppure essere sottoposti alle decisioni dei partiti politici o avere dei legami troppo stretti con essi. Infatti, in una tale situazione essi perdono facilmente il contatto con ciò che è il loro compito specifico, che è quello di assicurare i giusti diritti degli uomini del lavoro nel quadro del bene comune dell'intera società, e diventano, invece, uno strumento per altri scopi.

Parlando della tutela dei giusti diritti degli uomini del lavoro a seconda delle singole professioni, occorre naturalmente aver sempre davanti agli occhi ciò che decide circa il carattere soggettivo del lavoro in ogni professione, ma al tempo stesso, o prima di tutto, ciò che condiziona la dignità propria del soggetto del lavoro. Qui si dischiudono molteplici possibilità nell'operato delle organizzazioni sindacali e ciò anche nel loro impegno di carattere istruttivo, educativo e di promozione dell'auto-educazione. Benemerita è l'opera delle scuole, delle cosiddette "università operaie" e "popolari", dei programmi e corsi di formazione, che hanno sviluppato e tuttora sviluppano proprio questo campo di attività. Si deve sempre auspicare che, grazie all'opera dei suoi sindacati, il lavoratore possa non soltanto "avere" di più, ma prima di tutto "essere" di più: possa, cioè, realizzare più pienamente la sua umanità sotto ogni aspetto.

Adoperandosi per i giusti diritti dei loro membri, i sindacati si servono anche del metodo dello "sciopero", cioè del blocco del lavoro, come di una specie di ultimatum indirizzato agli organi competenti e, soprattutto, ai datori di lavoro. Questo è un metodo riconosciuto dalla dottrina sociale cattolica come legittimo alle debite condizioni e nei giusti limiti. In relazione a ciò i lavoratori dovrebbero avere assicurato il diritto allo sciopero, senza subire personali sanzioni penali per la partecipazione ad esso. Ammettendo che questo è un mezzo legittimo, si deve contemporaneamente sottolineare che lo sciopero rimane, in un certo senso, un mezzo estremo. Non se ne può abusare; non se ne può abusare specialmente per giochi "politici". Inoltre, non si può mai dimenticare che, quando trattasi di servizi essenziali alla convivenza civile, questi vanno, in ogni caso, assicurati mediante, se necessario, apposite misure legali. L'abuso dello sciopero può condurre alla paralisi di tutta la vita socio-economica, e ciò è contrario alle esigenze del bene comune della società, che corrisponde anche alla natura rettamente intesa del lavoro stesso.



21. Dignità del lavoro agricolo

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Tutto ciò che è stato detto in precedenza sulla dignità del lavoro, sulla dimensione oggettiva e soggettiva del lavoro dell'uomo, trova un'applicazione diretta al problema del lavoro agricolo e alla situazione dell'uomo che coltiva la terra nel duro lavoro dei campi. Si tratta, infatti, di un settore molto vasto dell'ambiente di lavoro del nostro pianeta, non circoscritto all'uno o all'altro continente, non limitato alle società che hanno già conquistato un certo grado di sviluppo e di progresso. Il mondo agricolo, che offre alla società i beni necessari per il suo quotidiano sostentamento, riveste una importanza fondamentale. Le condizioni del mondo rurale e del lavoro agricolo non sono uguali dappertutto, e diverse sono le posizioni sociali dei lavoratori agricoli nei diversi Paesi. E ciò non dipende soltanto dal grado di sviluppo della tecnica agricola, ma anche, e forse ancora di più, dal riconoscimento dei giusti diritti dei lavoratori agricoli e, infine, dal livello di consapevolezza riguardante tutta l'etica sociale del lavoro.

Il lavoro dei campi conosce non lievi difficoltà, quali lo sforzo fisico continuo e talvolta estenuante, lo scarso apprezzamento, con cui è socialmente considerato, al punto da creare presso gli uomini dell'agricoltura il sentimento di essere socialmente degli emarginati, e da accelerare in essi il fenomeno della fuga in massa dalla campagna verso la città e purtroppo verso condizioni di vita ancor più disumanizzanti. Si aggiungano la mancanza di adeguata formazione professionale e di attrezzi appropriati, un certo individualismo serpeggiante ed anche situazioni obiettivamente ingiuste. In taluni Paesi in via di sviluppo, milioni di uomini sono costretti a coltivare i terreni di altri e vengono sfruttati dai latifondisti, senza la speranza di poter mai accedere al possesso neanche di un minimo pezzo di terra in proprio. Mancano forme di tutela legale per la persona del lavoratore agricolo e per la sua famiglia in caso di vecchiaia, di malattia o di mancanza di lavoro. Lunghe giornate di duro lavoro fisico vengono miseramente pagate. Terreni coltivabili vengono lasciati abbandonati dai proprietari; titoli legali al possesso di un piccolo terreno, coltivato in proprio da anni, vengono trascurati o rimangono senza difesa di fronte alla "fame di terra" di individui o di gruppi più potenti. Ma anche nei Paesi economicamente sviluppati, dove la ricerca scientifica, le conquiste tecnologiche o la politica dello Stato hanno portato l'agricoltura ad un livello molto avanzato, il diritto al lavoro può essere leso quando si nega al contadino la facoltà di partecipare alle scelte decisionali concernenti le sue prestazioni lavorative, o quando viene negato il diritto alla libera associazione in vista della giusta promozione sociale, culturale ed economica del lavoratore agricolo.

In molte situazioni sono dunque necessari cambiamenti radicali ed urgenti per ridare all'agricoltura - ed agli uomini dei campi - il giusto valore come base di una sana economia, nell'insieme dello sviluppo della comunità sociale. Perciò occorre proclamare e promuovere la dignità del lavoro, di ogni lavoro, e specialmente del lavoro agricolo, nel quale l'uomo in modo tanto eloquente "soggioga" la terra ricevuta in dono da Dio ed afferma il suo "dominio" nel mondo visibile.



22. La persona handicappata e il lavoro

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Recentemente, le comunità nazionali e le organizzazioni internazionali hanno rivolto la loro attenzione ad un altro problema connesso col lavoro, e che è ricco di incidenze: quello delle persone handicappate. Anche esse sono soggetti pienamente umani, con corrispondenti diritti innati, sacri e inviolabili, che, pur con le limitazioni e le sofferenze inscritte nel loro corpo e nelle loro facoltà, pongono in maggior rilievo la dignità e la grandezza dell'uomo. Poiché la persona portatrice di "handicaps" è un soggetto con tutti i suoi diritti, essa deve essere facilitata a partecipare alla vita della società in tutte le dimensioni e a tutti i livelli, che siano accessibili alle sue possibilità. La persona handicappata è uno di noi e partecipa pienamente alla nostra stessa umanità. Sarebbe radicalmente indegno dell'uomo, e negazione della comune umanità, ammettere alla vita della società, e dunque al lavoro, solo i membri pienamente funzionali perché, così facendo, si ricadrebbe in una grave forma di discriminazione, quella dei forti e dei sani contro i deboli ed i malati. Il lavoro in senso oggettivo deve essere subordinato, anche in questa circostanza, alla dignità dell'uomo, al soggetto del lavoro e non al vantaggio economico.

Spetta quindi alle diverse istanze coinvolte nel mondo del lavoro, al datore diretto come a quello indiretto di lavoro, promuovere con misure efficaci ed appropriate il diritto della persona handicappata alla preparazione professionale e al lavoro, in modo che essa possa essere inserita in un'attività produttrice per la quale sia idonea. Qui si pongono molti problemi pratici, legali ed anche economici, ma spetta alla comunità, cioè alle autorità pubbliche, alle associazioni e ai gruppi intermedi, alle imprese ed agli handicappati stessi di mettere insieme idee e risorse per arrivare a questo scopo irrinunciabile: che sia offerto un lavoro alle persone handicappate, secondo le loro possibilità, perché lo richiede la loro dignità di uomini e di soggetti del lavoro. Ciascuna comunità saprà darsi le strutture adatte per reperire o per creare posti di lavoro per tali persone sia nelle comuni imprese pubbliche o private, offrendo un posto ordinario di lavoro o un posto più adatto, sia nelle imprese e negli ambienti cosiddetti "protetti".

Una grande attenzione dovrà essere rivolta, come per tutti gli altri lavoratori, alle condizioni di lavoro fisiche e psicologiche degli handicappati, alla giusta rimunerazione, alla possibilità di promozioni ed all'eliminazione dei diversi ostacoli. Senza nascondersi che si tratta di un impegno complesso e non facile, ci si può augurare che una retta concezione del lavoro in senso soggettivo porti ad una situazione che renda possibile alla persona handicappata di sentirsi non ai margini del mondo del lavoro o in dipendenza dalla società, ma come un soggetto del lavoro di pieno diritto, utile, rispettato per la sua dignità umana, e chiamato a contribuire al progresso e al bene della sua famiglia e della comunità secondo le proprie capacità.



23. Il lavoro e il problema dell'emigrazione

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Occorre, infine, pronunciarsi almeno sommariamente sul tema della cosiddetta emigrazione per lavoro. Questo è un fenomeno antico, ma che tuttavia si ripete di continuo ed ha, anche oggi, grandi dimensioni per le complicazioni della vita contemporanea. L'uomo ha il diritto di lasciare il proprio Paese d'origine e per vari motivi - come anche di ritornarvi - e di cercare migliori condizioni di vita in un altro Paese. Questo fatto, certamente, non è privo di difficoltà di varia natura; prima di tutto, esso costituisce, in genere, una perdita per il Paese dal quale si emigra. Si allontana un uomo e insieme un membro di una grande comunità ch'è unita dalla storia, dalla tradizione, dalla cultura, per iniziare una vita in mezzo ad un'altra società, unita da un'altra cultura e molto spesso anche da un'altra lingua. Viene a mancare in tale caso un soggetto di lavoro, il quale con lo sforzo del proprio pensiero o delle proprie mani potrebbe contribuire all'aumento del bene comune nel proprio Paese; ed ecco, questo sforzo, questo contributo viene dato ad un'altra società, la quale, in un certo senso, ne ha diritto minore che non la patria d'origine.

E tuttavia, anche se l'emigrazione è sotto certi aspetti un male, in determinate circostanze questo è, come si dice, un male necessario. Si deve far di tutto - e certamente molto si fa a questo scopo - perché questo male in senso materiale non comporti maggiori danni in senso morale, anzi perché, in quanto possibile, esso porti perfino un bene nella vita personale, familiare e sociale dell'emigrato, per quanto riguarda sia il Paese nel quale arriva sia la patria che lascia. In questo settore moltissimo dipende da una giusta legislazione, in particolare quando si tratta dei diritti dell'uomo del lavoro. E s'intende che un tale problema entra nel contesto delle presenti considerazioni, soprattutto da questo punto di vista.

La cosa più importante è che l'uomo, il quale lavora fuori del suo Paese natio tanto come emigrato permanente quanto come lavoratore stagionale, non sia svantaggiato nell'ambito dei diritti riguardanti il lavoro in confronto agli altri lavoratori di quella determinata società. L'emigrazione per lavoro non può in nessun modo diventare un'occasione di sfruttamento finanziario o sociale. Per quanto riguarda il rapporto di lavoro col lavoratore immigrato, devono valere gli stessi criteri che valgono per ogni altro lavoratore in quella società. Il valore del lavoro deve essere misurato con lo stesso metro, e non con riguardo alla diversa nazionalità, religione o razza. A maggior ragione non può essere sfruttata una situazione di costrizione, nella quale si trova l'emigrato. Tutte queste circostanze devono categoricamente cedere - naturalmente dopo aver preso in considerazione le speciali qualifiche - di fronte al fondamentale valore del lavoro, il quale è collegato con la dignità della persona umana. Ancora una volta va ripetuto il fondamentale principio: la gerarchia dei valori, il senso profondo del lavoro stesso esigono che sia il capitale in funzione del lavoro, e non il lavoro in funzione del capitale.

V. Elementi per una spiritualità del lavoro

24. Particolare compito della Chiesa

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Conviene dedicare l'ultima parte delle presenti riflessioni sul tema del lavoro umano, collegate col 90° anniversario dell'enciclica "Rerum Novarum", alla spiritualità del lavoro nel senso cristiano dell'espressione. Dato che il lavoro nella sua dimensione soggettiva è sempre un'azione personale, actus personae, ne segue che ad esso partecipa l'uomo intero, il corpo e lo spirito, indipendentemente dal fatto che sia un lavoro manuale o intellettuale. All'uomo intero è pure indirizzata la Parola del Dio vivo, il messaggio evangelico della salvezza, nel quale troviamo molti contenuti - come luci particolari - dedicati al lavoro umano. Ora, è necessaria un'adeguata assimilazione di questi contenuti; occorre lo sforzo interiore dello spirito umano, guidato dalla fede, dalla speranza e dalla carità, per dare al lavoro dell'uomo concreto, con l'aiuto di questi contenuti, quel significato che esso ha agli occhi di Dio, e mediante il quale esso entra nell'opera della salvezza al pari delle sue trame e componenti ordinarie e, al tempo stesso, particolarmente importanti.

Se la Chiesa considera come suo dovere pronunciarsi a proposito del lavoro dal punto di vista del suo valore umano e dell'ordine morale, in cui esso rientra, in ciò ravvisando un suo compito importante nel servizio che rende all'intero messaggio evangelico, contemporaneamente essa vede un suo dovere particolare nella formazione di una spiritualità del lavoro, tale da aiutare tutti gli uomini ad avvicinarsi, per il suo tramite a Dio, Creatore e Redentore, a partecipare ai suoi piani salvifici nei riguardi dell'uomo e del mondo e ad approfondire nella loro vita l'amicizia con Cristo, assumendo mediante la fede una viva partecipazione alla sua triplice missione: di Sacerdote, di Profeta e di Re, così come insegna con espressioni mirabili il Concilio Vaticano II.



25. Il lavoro come partecipazione all'opera del Creatore

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Come dice il Concilio Vaticano II, "per i credenti una cosa è certa: l'attività umana individuale e collettiva, ossia quell'ingente sforzo col quale gli uomini nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni di vita, considerato in se stesso, corrisponde al disegno di Dio. L'uomo infatti, creato a immagine di Dio, ha ricevuto il comando di sottomettere a sé la terra con tutto quanto essa contiene per governare il mondo nella giustizia e nella santità, e così pure di riportare a Dio se stesso e l'universo intero, riconoscendo in lui il Creatore di tutte le cose, in modo che, nella subordinazione di tutta la realtà all'uomo, sia glorificato il nome di Dio su tutta la terra" (
GS 34).

Nella Parola della divina Rivelazione è iscritta molto profondamente questa verità fondamentale, che l'uomo, creato a immagine di Dio, mediante il suo lavoro partecipa all'opera del Creatore, ed a misura delle proprie possibilità, in un certo senso, continua a svilupparla e la completa, avanzando sempre più nella scoperta delle risorse e dei valori racchiusi in tutto quanto il creato. Questa verità noi troviamo già all'inizio stesso della Sacra Scrittura, nel Libro della Genesi, dove l'opera stessa della creazione è presentata nella forma di un "lavoro" compiuto da Dio durante i "sei giorni" (cfr. Gn 2,2 Ex 20,8 Ex 20,11 Dt 5,12ss), per "riposare" il settimo giorno (cfr. Gn 2,3). D'altronde, ancora l'ultimo libro della Sacra Scrittura risuona con lo stesso accento di rispetto per l'opera che Dio ha compiuto mediante il suo "lavoro" creativo, quando proclama: "Grandi e mirabili sono le tue opere, o Signore Dio onnipotente" (Ap 15,3), analogamente al Libro della Genesi, il quale chiude la descrizione di ogni giorno della creazione con l'affermazione: "E Dio vide che era una cosa buona" (Gn 1,4 Gn 1,10 Gn 1,12 Gn 1,18 Gn 1,21 Gn 1,25 Gn 1,31).

Questa descrizione della creazione, che troviamo già nel primo capitolo del Libro della Genesi è, al tempo stesso, in un certo senso il primo "Vangelo del lavoro". Essa dimostra, infatti, in che cosa consista la sua dignità: insegna che l'uomo lavorando deve imitare Dio, suo Creatore, perché porta in sé - egli solo - il singolare elemento della somiglianza con lui. L'uomo deve imitare Dio sia lavorando come pure riposando, dato che Dio stesso ha voluto presentargli la propria opera creatrice sotto la forma del lavoro e del riposo. Quest'opera di Dio nel mondo continua sempre, così come attestano le parole di Cristo: "Il Padre mio opera sempre..." (Jn 5,17): opera con la forza creatrice, sostenendo nell'esistenza il mondo che ha chiamato all'essere dal nulla, e opera con la forza salvifica nei cuori degli uomini, che sin dall'inizio ha destinato al "riposo" (He 4,1, in unione con se stesso, nella "casa del Padre" (Jn 14,2). Perciò, anche il lavoro umano non solo esige il riposo ogni "settimo giorno" (Dt 5,12ss; Ex 20,8-12), ma per di più non può consistere nel solo esercizio delle forze umane nell'azione esteriore; esso deve lasciare uno spazio interiore, nel quale l'uomo, diventando sempre più ciò che per volontà di Dio deve essere, si prepara a quel "riposo" che il Signore riserva ai suoi servi ed amici. (cfr. Mt 25,21).

La coscienza che il lavoro umano sia una partecipazione all'opera di Dio, deve permeare - come insegna il Concilio - anche "le ordinarie attività quotidiane. Gli uomini e le donne, infatti, che per procurarsi il sostentamento per sé e per la famiglia, esercitano le proprie attività così da prestare anche conveniente servizio alla società, possono a buon diritto ritenere che col loro lavoro essi prolungano l'opera del Creatore, si rendono utili ai propri fratelli e danno un contributo personale alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio nella storia" (GS 34).

Bisogna, dunque, che questa spiritualità cristiana del lavoro diventi patrimonio comune di tutti. Bisogna che, specialmente nell'epoca odierna, la spiritualità del lavoro dimostri quella maturità, che esigono le tensioni e le inquietudini delle menti e dei cuori: "I cristiani, dunque, non solo non pensano di contrapporre le conquiste dell'ingegno e della potenza dell'uomo alla potenza di Dio, quasi che la creatura razionale sia rivale del Creatore; ma, al contrario, essi piuttosto sono persuasi che le vittorie dell'umanità sono segno della grandezza di Dio e frutto del suo ineffabile disegno. E quanto più cresce la potenza degli uomini, tanto più si estende e si allarga la loro responsabilità individuale e collettiva... Il messaggio cristiano lungi dal distogliere gli uomini dal compito di edificare il mondo, lungi dall'incitarli a disinteressarsi del bene dei propri simili, li impegna piuttosto a tutto ciò con un obbligo ancora più pressante" ().

La consapevolezza che mediante il lavoro l'uomo partecipa all'opera della creazione, costituisce il più profondo movente per intraprenderlo in vari settori: "I fedeli perciò - leggiamo nella Costituzione "Lumen Gentium" - devono riconoscere la natura intima di tutta la creazione, il suo valore e la sua ordinazione alla lode di Dio e aiutarsi a vicenda per una vita più santa anche con opere propriamente secolari, affinché il mondo sia imbevuto dello spirito di Cristo e raggiunga più efficacemente il suo fine nella giustizia, nella carità e nella pace... Con la loro competenza, quindi, nelle discipline profane e con la loro attività, elevata intrinsecamente dalla grazia di Cristo, contribuiscano validamente a che i beni creati, secondo la disposizione del Creatore e la luce del suo Verbo, siano fatti progredire dal lavoro umano, dalla tecnica e dalla civile cultura" (LG 36).


26. Cristo, l'uomo del lavoro

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Questa verità, secondo cui mediante il lavoro l'uomo partecipa all'opera di Dio stesso, suo Creatore, è stata in modo particolare messa in risalto da Gesù Cristo - quel Gesù del quale molti dei suoi primi uditori a Nazareth "rimanevano stupiti e dicevano: Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? ... Non è costui il carpentiere?" (
Mc 6,2s). Infatti, Gesù non solo proclamava, ma prima di tutto compiva con l'opera il "Vangelo" a lui affidato, la parola dell'eterna Sapienza. Perciò, questo era pure il "Vangelo del lavoro", perché colui che lo proclamava, era egli stesso uomo del lavoro, del lavoro artigiano come Giuseppe di Nazareth (cfr. Mt 13,55). E anche se nelle sue parole non troviamo uno speciale comando di lavorare - piuttosto, una volta, il divieto di una eccessiva preoccupazione per il lavoro e l'esistenza (Mt 6,25-34) -, pero, al tempo stesso, l'eloquenza della vita di Cristo è inequivoca: egli appartiene al "mondo del lavoro", ha per il lavoro umano riconoscimento e rispetto; si può dire di più: egli guarda con amore questo lavoro, le sue diverse manifestazioni, vedendo in ciascuna una linea particolare della somiglianza dell'uomo con Dio, Creatore e Padre. Non è lui a dire: "Il Padre mio è il vignaiolo..." (Jn 15,1), trasferendo in vari modi nel suo insegnamento quella fondamentale verità sul lavoro, la quale si esprime già in tutta la tradizione dell'Antico Testamento, iniziando dal Libro della Genesi? Nei Libri dell'Antico Testamento non mancano molteplici riferimenti al lavoro umano, alle singole professioni esercitate dall'uomo: così per es. al medico (cfr. Si 38,1ss), al farmacista (cfr. Si 38,4-8), all'artigiano-artista (cfr. Ex 31,1-5 Si 38,27), al fabbro (cfr. Gn 4,22 Is 44,12) - si potrebbero riferire queste parole al lavoro del siderurgico d'oggi -, al vasaio (cfr. Jr 18,3s; Si 38,29s), all'agricoltore (cfr. Gn 9,20 Is 5,1s), allo studioso (cfr. Qo 12,9-12 Si 39,1-8), al navigatore (cfr. Ps 107,23-30 Sg 14,2-3a), all'edile (cfr. Gn 11,3 2R 12,12s; 2R 22,5s), al musicista (Gn 4,21), al pastore (cfr. Gn 4,2 Gn 37,3 Ex 3,1 1S 16,11), al pescatore (cfr. Ez 47,10). Sono conosciute le belle parole dedicate al lavoro delle donne (cfr. Pr 31,15-27).

Gesù Cristo nelle sue parabole sul Regno di Dio si richiama costantemente al lavoro umano: al lavoro del pastore (Jn 10,1-16), dell'agricoltore (cfr. Mc 12,1-12), del medico (cfr. Lc 4,23), del seminatore (cfr. Mc 4,1-9), del padrone di casa cfr. Mt 13,52), del servo (cfr Mc 24,45 Lc 12,42-48), dell'amministratore (cfr. Lc 16,1-8), del pescatore (cfr. Mt 13,47-50), del mercante (cfr. Ibid. Mt 13,45s), dell'operaio (cfr. Mt 20,1-16). Parla pure dei diversi lavori delle donne (cfr. Mt 13,33 Lc 15,8s). Presenta l'apostolato a somiglianza del lavoro manuale dei mietitori (cfr Mt 9,37 Jn 4,35-38) o dei pescatori (cfr Mt 4,19). Inoltre, si riferisce anche al lavoro degli studiosi (cfr Mt 13,52).

Questo insegnamento di Cristo sul lavoro, basato sull'esempio della propria vita durante gli anni di Nazareth, trova un'eco particolarmente viva nell'insegnamento di Paolo apostolo. Paolo si vantava di lavorare nel suo mestiere (probabilmente fabbricava tende) (cfr. Ac 18,3), e grazie a ciò poteva pure come apostolo guadagnarsi da solo il pane (Ac 20,34). "Abbiamo lavorato con fatica e sforzo, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi" (2Th 3,8, Paolo riconosce ai missionari el diritto ai mezzi di sussistenza; 1Co 9,6-14 Ga 6,6 2Th 3,9 cfr. Lc 10,7). Da qui derivano le sue istruzioni sul tema del lavoro, che hanno carattere di esortazione e di comando: "A questi... ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace", così scrive ai Tessalonicesi (2Th 3,12). Infatti, rilevando che "alcuni" vivono disordinatamente, senza far nulla (2Th 3,11), l'apostolo nello stesso contesto non esita a dire: "Chi non vuol lavorare, neppure mangi" (2Th 3,10). In un altro passo invece incoraggia: "Qualunque cosa facciate, fatela di cuore come per il Signore e non per gli uomini, sapendo che quale ricompensa riceverete dal Signore l'eredità" (Col 3,23s).

Gli insegnamenti dell'apostolo delle genti hanno, come si vede, un'importanza-chiave per la morale e la spiritualità del lavoro umano. Essi sono un importante complemento a questo grande, anche se discreto, Vangelo del lavoro, che troviamo nella vita di Cristo e nelle sue parabole, in ciò che Gesù "fece e insegno" (Ac 1,1).

In base a queste luci emananti dalla sorgente stessa, la Chiesa sempre ha proclamato ciò di cui troviamo l'espressione contemporanea nell'insegnamento del Vaticano II: "L'attività umana, invero, come deriva dall'uomo, così è ordinata all'uomo. L'uomo, infatti, quando lavora, non soltanto modifica le cose e la società, ma perfeziona anche se stesso. Apprende molte cose, sviluppa le sue facoltà, è portato a uscire da sé e a superarsi. Tale sviluppo, se è ben compreso, vale più delle ricchezze esteriori che si possono accumulare... Pertanto, questa è la norma dell'attività umana: che secondo il disegno e la volontà di Dio essa corrisponda al vero bene dell'umanità, e permetta all'uomo singolo o come membro della società di coltivare e di attuare la sua integrale vocazione" (GS 35).

Nel contesto di una tale visione dei valori del lavoro umano, ossia di una tale spiritualità del lavoro, si spiega pienamente ciò che nello stesso punto della Costituzione pastorale del Concilio leggiamo sul tema del giusto significato del progresso: "L'uomo vale più per quello che è che per quello che ha. Parimente tutto ciò che gli uomini fanno per conseguire una maggiore giustizia, una più estesa fraternità e un ordine più umano nei rapporti sociali, ha più valore dei progressi in campo tecnico. Questi, infatti, possono fornire, per così dire, la materia alla promozione umana, ma da soli non valgono in nessun modo ad effettuarla" (Ac 35).

Tale dottrina sul problema del progresso e dello sviluppo - tema così dominante nella mentalità moderna - può essere intesa solamente come frutto di una provata spiritualità del lavoro umano, e solamente in base a una tale spiritualità essa può essere realizzata e messa in pratica. Questa è la dottrina, ed insieme il programma, che affonda le sue radici nel "Vangelo del lavoro".


27. Il lavoro umano alla luce della Croce e della Risurrezione di Cristo

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C'è ancora un aspetto del lavoro umano, una sua dimensione essenziale, nella quale la spiritualità fondata sul Vangelo penetra profondamente. Ogni lavoro - sia esso manuale o intellettuale - va congiunto inevitabilmente con la fatica.

Il Libro della Genesi lo esprime in modo veramente penetrante, contrapponendo a quella originaria benedizione del lavoro, contenuta nel mistero stesso della creazione, ed unita all'elevazione dell'uomo come immagine di Dio, la maledizione che il peccato ha portato con sé: "Maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita" (
Gn 3,17). Questo dolore unito al lavoro segna la strada della vita umana sulla terra e costituisce l'annuncio della morte: "Col sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto..." (Gn 3,19). Quasi come un'eco di queste parole, si esprime l'autore di uno dei libri sapienziali. "Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo durato a farle..." (Qo 2,11). Non c'è un uomo sulla terra che non potrebbe far proprie queste espressioni.

Il Vangelo pronuncia, in un certo senso, la sua ultima parola anche a questo riguardo nel mistero pasquale di Gesù Cristo. E qui occorre cercare la risposta a questi problemi così importanti per la spiritualità del lavoro umano.

Nel mistero pasquale è contenuta la croce di Cristo, la sua obbedienza fino alla morte, che l'apostolo contrappone a quella disubbidienza, che ha gravato sin dall'inizio la storia dell'uomo sulla terra (cfr. Rm 5,19). E' contenuta in esso anche l'elevazione di Cristo, il quale mediante la morte di croce ritorna ai suoi discepoli con la potenza dello Spirito Santo nella risurrezione.

Il sudore e la fatica, che il lavoro necessariamente comporta nella condizione presente dell'umanità, offrono al cristiano e ad ogni uomo che è chiamato a seguire Cristo, la possibilità di partecipare nell'amore all'opera che il Cristo è venuto a compiere (cfr. Jn 17,4)). Quest'opera di salvezza è avvenuta per mezzo della sofferenza e della morte di croce. Sopportando la fatica del lavoro in unione con Cristo crocifisso per noi, l'uomo collabora in qualche modo col Figlio di Dio alla redenzione dell'umanità. Egli si dimostra vero discepolo di Gesù, portando a sua volta la croce ogni giorno (cfr Lc 9,23) nell'attività che è chiamato a compiere.

Cristo, "sopportando la morte per noi tutti peccatori, ci insegna col suo esempio che è necessario anche portare la croce; quella che dalla carne e dal mondo viene messa sulle spalle di quanti cercano la pace e la giustizia"; pero, al tempo stesso, "con la sua risurrezione costituito Signore, egli, il Cristo, a cui è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra, opera ormai nel cuore degli uomini con la virtù del suo Spirito,... purificando e fortificando quei generosi propositi, con i quali la famiglia degli uomini cerca di rendere più umana la propria vita e di sottomettere a questo fine tutta la terra" (GS 38).

Nel lavoro umano il cristiano ritrova una piccola parte della croce di Cristo e l'accetta nello stesso spirito di redenzione, nel quale il Cristo ha accettato per noi la sua croce. Nel lavoro, grazie alla luce che dalla risurrezione di Cristo penetra dentro di noi, troviamo sempre un barlume della vita nuova, del nuovo bene, quasi come un annuncio dei "nuovi cieli e di una terra nuova" (cfr. 2P 3,13 Ap 21,1), i quali proprio mediante la fatica del lavoro vengono partecipati dall'uomo e dal mondo. Mediante la fatica - e mai senza di essa. Questo conferma, da una parte, l'indispensabilità della croce nella spiritualità del lavoro umano; d'altra parte, pero, si svela in questa croce e fatica un bene nuovo, il quale prende inizio dal lavoro stesso: dal lavoro inteso in profondità e sotto tutti gli aspetti- e mai senza di esso.

E già questo nuovo bene - frutto del lavoro umano - una piccola parte di quella "terra nuova", dove abita la giustizia (cfr. 2P 3,13)? In quale rapporto sta esso con la risurrezione di Cristo, se è vero che la molteplice fatica del lavoro dell'uomo è una piccola parte della croce di Cristo? Anche a questa domanda cerca di rispondere il Concilio, attingendo la luce dalle fonti stesse della Parola rivelata: "Certo, siamo avvertiti che niente giova all'uomo se guadagna il mondo, ma perde se stesso (cfr. Lc 9,25). Tuttavia, l'attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì stimolare piuttosto la sollecitudine a coltivare questa terra, dove cresce quel corpo dell'umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo. Pertanto, benché si debba accuratamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del Regno di Cristo, tuttavia nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l'umana società, tale progresso è di grande importanza per il Regno di Dio" (GS 39).

Abbiamo cercato, nelle presenti riflessioni dedicate al lavoro umano, di mettere in rilievo tutto ciò che sembrava indispensabile, dato che mediante esso devono moltiplicarsi sulla terra non solo "i frutti della nostra operosità", ma anche "la dignità dell'uomo, la fraternità e la libertà" (GS 39).

Il cristiano che sta in ascolto della parola del Dio vivo, unendo il lavoro alla preghiera, sappia quale posto occupa il suo lavoro non solo nel progresso terreno, ma anche nello sviluppo del Regno di Dio, al quale siamo tutti chiamati con la potenza dello Spirito Santo e con la parola del Vangelo.

Nel concludere queste riflessioni, mi è gradito impartire di vero cuore a tutti voi, venerati fratelli, figli e figlie carissimi, la propiziatrice benedizione apostolica.

Questo documento, che avevo preparato perché si pubblicasse il 15 maggio scorso, nel 90° anniversario dell'enciclica "Rerum Novarum", ha potuto essere da me definitivamente riveduto, soltanto dopo la mia degenza ospedaliera.

Dato a Castel Gandolfo, il 14 settembre, festa dell'Esaltazione della Santa Croce, dell'anno 1981, terzo di Pontificato.

Ioannes Paulus PP. II

Data: 1981-09-15
Martedi 15 Settembre 1981

Laborem exercens 20