Leone Magno - 8. Il mistero redentivo e la sua celebrazione

8. Il mistero redentivo e la sua celebrazione

La celebrazione del mistero del Natale nasce verso la metà del secolo IV (il Cronografo romano è dell’anno

Lemarié, La manifestazione del Signore. La liturgia di Natale e dell’Epifania, Ediz. Paoline, Milano 1960.

101  Ne abbiamo raccolti alcuni nell'alt di cui alla nota 30.

102  San Leone usa prevalentemente il termine caro (carnis), o anche corpus (corporis), intendendo però tutto l'uomo; come è del termine latino, in Gv. 1, 14: il Verbo si è fatto carne = uomo. Per il diverso valore, in san Paolo, del termine caro, cf. esegesi biblica; del resto, con quest'accezione, è anche in Gv., per es., Gv. 3, 6; 6, 63 (caro, savrx); ben diverso valore ha, sempre in Gv., il termine carne (caro): es. 6, 53-56.

103  Cf. alla nota 101.

354; vi si parla del Natale, nella Depositio martyrum del 335/36). La «nascita» della celebrazione del Natale è da legare alle eresie cristologiche, in primo luogo l’arianesimo, ma anche le successive - nestorianesimo, eutichianesimo/monofisismo - hanno notevolmente concorso a «potenziare» il ciclo celebrativo di Natale 97. È evidente pertanto il contributo di papa Leone a rassodare tale ciclo celebrativo, qualsiasi cosa si voglia o debba pensare del Sacramentarium cosiddetto leoniano 98. Anche il Natale è orientato alla Pasqua, cardine e cuore della salvezza; ma, nel Natale, sono già le «radici» della redenzione, ossia della soteriologia. Chi percorra le lettere di san Leone oppure le sue omelie, noterà subito come sia fortemente sottolineata dal papa la finalità redentiva (pasquale) dell’incarnazione. Qui non è il caso di trattenersi 99. Le comunità ecclesiali, a seconda delle fonti di ispirazione, celebravano variamente - tanto all’est che all’ovest - il Natale, anche relazionato ad altre celebrazioni (Epifania, Battesimo, Cana). La Chiesa di Roma, ad ogni buon conto, aveva fissato (almeno dal 354, se non dal 336, quindi poco dopo il concilio di Nicea, 325) la celebrazione della nascita (degli esordi, per dirla con san Leone I, della redenzione) sempre al 25 dicembre, e per più ragioni, tra le quali va ricordata la festa pagana del Sol invictus,109

In conclusione: l’opera sia omiletica (sermoni, omelie) sia epistolare (lettere) di papa Leone riprende una suggestione molto diffusa nei Padri della Chiesa, ed è la totalità della redenzione (il Natale ne è l’inizio) dell’uomo: tutto l’uomo - mediante l’opera redentiva del Signore - è sanato, salvato, reintegrato, elevato alla dignità di figlio,... Sono suggestioni che discendono necessariamente dalla Sacra Scrittura (vedi, ad es. , Gv. Jn 1,14 Ef., incipit; Col., incipit; ).

Tutto ciò viene ben riassunto da qualcuno degli aforismi101 che tornavano cari ai Padri della Chiesa, e che rispondono alla legge fondamentale 105 106

105     Cf. Jossua cit. alla nota 99.
106    Cf. 2 Tim. 3, 16.

dell’incarnazione: non tutto è sanato, se non tutto è stato assunto; ciò che non è stato assunto (dal Verbo) non è stato salvato; tutto l’uomo (anima e corpo) è stato sanato... Ciò è comprensibile alla luce di Gv. 1, 14: Il Verbo si è fatto uomo 102, e ha posto la sua tenda fra di noi. Risulta pacifico sia dalla Scrittura (per questo è legge fondamentale dell’incarnazione: tutto l’uomo è stato assunto dal Verbo nella sua incarnazione) che dai Padri, da san Giustino, da sant’Ireneo, a Tertulliano, dai padri Cappàdoci, a sant’Ilario, a sant’Ambrogio, a sant’Agostino 103... Ed è realtà che trova la sua espressione cultuale soprattutto nei sacramenti. Il concilio Vaticano II ha riportato la considerazione salvifica su tale scia 104.

Papa Leone, così saldamente ancorato alla Tradizione della Chiesa, ha il senso forte, robusto, dell’incarnazione in vista del fine soteriologico della stessa105. Chi percorrerà la traduzione che proponiamo, in una silloge pur limitata dei testi, lo avvertirà facilmente. I confronti poi andrebbero fatti con i testi omiletici, ad esempio, quelli relativi al Natale, all’Epifania, sulla passione del Signore, sulla risurrezione e ascensione; per tutti basterà riferirsi all’ultimo sermone della raccolta del papa, il sermone 96, che è proprio un affondo contro Eutiche: «(Sunt) qui incarnationis Dominicae denegant sacramentum (...), quod unigenitus Dei Filius, aequalis per omnia Patri, nostrae assumptione substantiae, manens quod erat, dignatus est esse quod non erat, verus scilicet homo, verus Deus, qui absque cuiusquam sorde peccati, integram sibi nostram perfectamque naturam veritate et carnis et animae univit, et intra uterum beatae Virginis matris Spiritus Sancti virtute conceptus (...) ut Verbum Dei Patris humanam sibi inesse substantiam, et deitatis potentia, et carnis infirmitate loqueretur, de corpore habens corporeas actiones, et spiritales de deitate virtutes...». Il papa non poteva esprimere meglio, in forma sintetica e completa, il significato dell’incarnazione del Verbo divino.

9. Il rapporto lettere-discorsi

Dello stile dei due generi letterari s’è detto ad apertura della vita di san Leone Magno, quando si è cercato di segnalare quella che dovette essere la formazione culturale, religiosa del futuro papa, tenuto conto della sua famiglia e della sua preparazione.

Resta da dire qualcosa sulla relazione che intercorre tra le lettere e i sermoni (o discorsi). Il genere da cui nascono giustifica talune differenze di stile. I sermoni, colti dalla viva voce e trasferiti - con ogni probabilità ad opera di tachigrafi o stenografi - hanno tutto il colorito dell’immediatezza di un dialogo che il pastore intrattiene con l’uditorio sempre attento e interessato alla sua voce. Un’altra differenza può essere vista anche nel tono, data la natura dell’uditorio: i sermoni, pur presentando la dottrina, nella sua interezza e nella purezza non sono il luogo per disquisizioni sottili o difficili. Il pastore offre al suo gregge sì pane sostanzioso e solida dottrina, ma con l’intento che i fedeli partano dalla celebrazione nutriti alla duplice mensa imbandita, non solo ammirati dell’abilità oratoria del parlatore. Ciò papa Leone non avrebbe assolutamente voluto.

Le lettere hanno un’altra natura, che è data dalla destinazione delle stesse. Ciò può spiegare il livello diverso, sia della circostanza che ha provocato la lettera, sia della qualità del personaggio che la riceve. Ora, se nell’epistolario ampio di papa Leone sono diverse le relazioni delle persone cui egli scrive, differenti sono anche i toni che il papa adopera. Si potrebbe, quasi quasi, applicare ciò che si sa della Scrittura divina: essa è utile in ogni circostanza 106. I registri delle lettere variano secondo tale gamma di vibrazioni. Ora il pontefice deve spronare, ora esortare, ora rimproverare con ogni dottrina, ora illuminare, ora proporre, ora risolvere quesiti posti. Ne risulta una serie di lettere assai diverse nello svolgimento, pur conservando unità di stile (lo stile personalissimo e nobile di papa Leone). Le lettere

che proponiamo in traduzione hanno prevalentemente il taglio dottrinale. Esso sarebbe rintracciabile - pur a livello diverso, come s’è detto - anche nei sermoni, perché la dottrina non vi fa certo difetto; solo che è presentata in moduli differenti. Nessuno scrittore smentisce se stesso; né poteva farlo Leone nella proposta vitale del depositum fidei; lo fa, invece, in modo diverso; ma è sempre il medesimo messaggio. Quello che Leone presenta è sempre solido elemento: non vi sono fuoriuscite di campo

0 giri inutili. Chi ha letto anche poco dei testi di san Leone Magno lo ha constatato con facilità: la dottrina è sempre solida, robusta, sicura, proposta in termini comprensibili anche ai semplici, cui è aperto l’accesso al regno dei cieli.

Se una differenza ulteriore può esserci, è quella che dipende tra un testo parlato (sermoni, omelie) e un testo scritto (nel caso, lettere). Un testo scritto, pur se soffre del limite della parola «rappresa» ha, per altro verso, il vantaggio di essere adoperato con maggiore precisione, come di parola che è pensata e «fermata», e non immediata. Ma la diversità - torniamo a ripetere - è di forma, non di contenuti o di sostanza. Non abbiamo il tempo per farlo: ma sarebbe assai utile, sempre nella parzialità delle proposte della silloge, poter istituire un confronto con testi paralleli dei sermoni, soprattutto quelli intorno al ciclo natalizio, senza peraltro escludere quelli sulla passione, sulla Pasqua-ascensione-Pentecoste. Ma cenni rilevanti sono qua e là disseminati pure nei sermoni relativi alla sua elezione a papa e incoronazione, alla festa dei santi apostoli Pietro e Paolo. Ciò si spiega facilmente: il papa è di fronte a delle tematiche relative alla cristologia che - nelle eresie di Nestorio e di Eutiche - ponevano in questione la fede delle comunità dei credenti. Un pastore vigile com’era papa Leone non poteva non essere sulla breccia per difendere il depositum fidei affidato a Pietro ed ai suoi successori (cf.

1 Tim. 6, 20 e parall.). Tra costoro, certamente Leone Magno è dei grandi, se giustamente i posteri vollero gratificare la personalità del potenfice, chiamato a reggere la Chiesa in tempi di scelte decisive per la fede,

con l’appellativo di Grande (Magnus).

10. Bibliografia e testi

Si dà l’essenziale, rinviando ai singoli testi citati, oppure ai personaggi o agli avvenimenti che, direttamente o indirettamente, interessarono papa Leone Magno. Notizie perciò più ampie si potranno trovare nei voll. della PL del Migne, nell’Enciclopedia Cattolica, nei vari manuali o storie letterarie della letteratura cristiana in lingua latina. La più articolata, per quanto limitata all’anno 1932, è data dal Moricca, da noi ripetutamente citato. Buona, abbastanza ampia (20 ), con ricca bibliografia (fino al 1978), è l’edizione italiana del Quasten, di cui si dirà qui sotto. La riflessione è di B. Studer; sulla valutazione complessiva di papa Leone si potrebbe anche discordare.

Tralasciamo del tutto di ripercorrere la vicenda della trasmissione dei codici.

a) Fonti e notizie generali:

- nel Migne, Patrologia Latina, i voll. LIV-LV-LVI (tolto dai fratelli Ballerini); Parigi 1881ss.;

- nell’Enciclopedia Cattolica, vol. VII, coll. 1139-1144, Città del Vaticano 1951;

- U. Moricca, Storia della letteratura cristiana, SEI, Torino 1932, III/I, pp. 1031-1106; bibliografia alle pp. 995-997, sempre del vol. III/I;

- AA.VV., Patrologia, I Padri latini (secc. IV-V), Marietti, Casale M. 1978, III, pp. 557-578 (a cura di A. Di Berardino); buona bibliografia; è la continuazione ital. del Quasten.

b) Raccolta di testi:

- P. Quesnel, 2 voll., Parigi 1675; Lione 1700;

- P.T. Cacciari, Roma 1751-1755, in tre voll.;

- dei fratelli G. e P. Ballerini, Venezia 1753-1757, tre voll. riportati in PL;

- J.-P. Migne, Patrologia Latina, i voll. LIV-LV-LVI, Parigi

1881ss.;

- Corpus Christianorum, series latina (= CCL), voli. 138 e 138A, a cura di A. Chauvasse, Turnhout 1973;

- sermoni, collana ««Sources Chrétiennes», S. Léon le Grand, Sermons I-IV; Parigi i voll. 22 (1947), 22 bis (1964), 49 (1957), 49 bis (1969), 74 (1961), 200 (1973);

- sermoni (o discorsi) (in trad. it.) Il mistero pasquale, Il mistero del Natale, Alba-Roma, Ediz. Paoline 1965 (a cura di A. Valeriani).

c) Notizie dai testi di Patrologia Latina; come:

- B. Altaner, Patrologia, Marietti, Torino; più edizioni; la 7a del 1981;

- M. Simonetti, Letteratura cristiana antica greca e latina, Firenze-Milano 1969, p. 387;

- M. Pellegrino, Letteratura latina cristiana, Studium, n. 45, Roma 1985, pp. 127-128;

- S. D’Elia, Letteratura latina cristiana, Jouvence, Roma 1982, p. 162;

- J. Quasten, Patrologia, III vol. dell’«Institutum Patristicum Augustinianum», vol. curato da A. Di Berardino, Marietti, Casale M. (AL) 1978, pp. 557-578, con amplissima bibliografia sino al 1978; lo studio è di B. Studer;

- al momento in cui vedrà la luce, risulterà la più completa e aggiornata la riedizione del Bosio G., Iniziazione ai Padri, SEI, Torino 1964, nella nuova versione: Introduzione ai Padri della Chiesa, SEI, Torino, a cura di G. Bosio - E. Dal Covolo - M. Maritano (il I vol. è uscito nel 1990, il II nel 1991, il III nel 1993).

d) Tra gli interventi del Magistero pontificio va annoverata l’Istruzione sullo studio dei Padri della Chiesa nella formazione sacerdotale, della Congregazione per l’educazione cattolica, Roma 10 novembre 1989, nella festa di san Leone Magno.

e) Un cenno a parte - anche se testo difficilmente accessibile - merita J.-P. Jossua, Le salut. Incarnation

ou mystère pascal, ed. du Cerf, Parigi 1968. A papa Leone sono dedicate ben 130 pp. (PP 251-382), per la tematica che l’autore esamina in relazione al mistero redentivo e soteriologico in alcuni Padri, tra i quali appunto san Leone, dopo sant’Ireneo di Lione, Cromazio d’Aquileia, Gaudenzio di Brescia.

f) Si veda, infine, Liberato di Cartagine, Breve storia della controversia nestoriana ed eutichiana, Pontificio Collegio Leoniano, Anagni (FR) 1989, a cura di F. Carcione. Tale testo va posto in relazione all’opera di Giovanni Cassiano, L’incarnazione del Signore, che viene citata più volte nel corso dell’opera, Città Nuova, Roma 1991, a cura di L. Dattrino.


11. La nostra scelta

Nel vasto epistolario di papa Leone Magno abbiamo dato la precedenza alle lettere di carattere prevalentemente dogmatico. Tenuto conto del dibattito teologico del sec. V in genere e della straordinaria attività


LETTERA 28\2a\0 A FLAVIANO, VESCOVO DI COSTANTINOPOLI


Capitolo I La presunzione e l’incompetenza hanno portato Eutiche all’eresia

Finalmente m’è stato consentito, dilettissimo fratello nell’episcopato, di poter leggere la lettera che tu ci hai inviato. Mi meravigliavo che essa tardasse tanto a giungere 1. Insieme ho potuto leggere gli atti sinodali che la accompagnavano 2. Così ho potuto - con dolore - prendere conoscenza dello scandalo che si è sviluppato tra di voi, a tutto danno della vera fede. Prima, molti elementi ci sfuggivano nella loro precisa natura; ma, adesso, li conosciamo per quello che essi sono in realtà. Eutiche si fregiava del nome di presbìtero; ma nelle sue asserzioni s’è rivelato per quello che è in verità: un uomo imprudente quant’altri mai, e uno che non se ne intende per niente. Pare proprio attagliarsi ad Eutiche ciò che si legge nella Scrittura ed è detto da parte del profeta: Non ha voluto capire, così da bene operare. Sul suo giaciglio ha meditato l’iniquità 3.

1  Per l’ambientazione di questa e delle altre lettere si rinvia all’Introduzione. Qui siamo alla vigilia del latrocinium di Efeso (449); Introduzione n. 4, pp. 21 ss. Cf. poi la definizione di Calcedonia. La lett. 28 esce dalla Cancelleria papale presso la quale lavorava come collaboratore per la teologia S. Prospero di Aquitania (morto dopo il 455). Secondo Gennadio (De viris illustribus, cap. 84), Prospero redasse gli scritti pontifici diretti a combattere il monofisismo, come è nella lett. 28 a Flaviano.
2  Vedi Moricca, op. cit., p. 1044.
3  Sal. 35, 4.


Cosa v’è di più iniquo che essere competenti nell’empietà, mentre non si vuole prestare ascolto a chi è sapiente e più dotto? Finiscono per cadere entro le maglie dell’insipienza coloro che, impediti da qualche ostacolo, non fanno ricorso (per liberarsene) alle attestazioni dei profeti, non alla voce degli apostoli, non all’autorità dell’evangelo, ma si basano soltanto su se stessi. Qual è la conseguenza? Diventano maestri dell’errore, perché non hanno voluto farsi discepoli della verità. Che razza di conoscenza può ricavare dalla Scrittura sia dell’antica che della nuova legge, colui che è talmente ignorante che neanche riesce a capire il significato del simbolo apostolico? E ciò che nel mondo intero suona come professione di fede dei nuovi cristiani, costui - così vecchio nel tempo - non riesce a comprenderlo proprio per nulla4 5.

Capitolo II Duplice natura e duplice nascita del Cristo


Non sapendo esattamente quanto egli, Eutiche, dovesse conoscere con precisione intorno all’incarnazione del Verbo, né - d’altra parte - dandosi d’attorno a cercare luce al fine di meritarsi di capirlo attraverso l’esame delle sacre Scritture, per non dover fare fatica, gli sarebbe, almeno!, bastato avere capito, se fatto con passione, la comune e da tutti condivisa confessione della fede, quella che tutta la Chiesa accoglie, ossia: Credere in Dio Padre onnipotente, in Gesù Cristo, unico figlio del Padre, il quale è nato, ad opera dello Spirito Santo, da Maria Vergine 5. Bastano questi tre semplici articoli della nostra fede per debellare

4  L’errore di Eutiche e, più in generale, di ogni eretico, viene da ignoranza e soprattutto da presunzione, tanto più grande quanto più cresce la prima (l’ignoranza).

5  Circa le formule della fede (il credo, il simbolo, ecc.), si veda qualsiasi testo di dogmatica o di liturgia, per es., Eisenhofer-Lechner, op. cit., pp. 75-76. In questa collana il n. 11, Rufino, Spiegazione del credo, Città Nuova, Roma 1978, l’introduzione premessa di M. Simonetti, pp. 7-32.

qualsiasi sofisticazione intellettuale di quasi tutti gli eretici. Dal momento infatti che si crede in Dio, Padre onnipotente, si confessa immediatamente che anche il Figlio è coeterno con il Padre, senza che intercorrano differenze di sorta, dal momento che Gesù Cristo è Dio da Dio, onnipotente dall’onnipotente, che è nato coeterno dall’eterno; e non posteriore nel tempo, non inferiore nella potestà, non diverso quanto alla gloria, non diviso nell’essenza. Il Figlio unigenito dell’eterno Padre, pure sempiterno, è nato ad opera dello Spirito Santo dalla Vergine Maria. Tale nascita, avvenuta nel tempo, nulla tolse alla nascita divina ed eterna (che ha dal Padre), niente gli ha aggiunto, ma è tutta diretta a rifar nuovo l’uomo, che era stato ingannato. Così il Figlio ha vinto la morte, ha sconfitto il diavolo che aveva il potere della morte; e lo ha fatto in forza della sua facoltà. Perché a noi non sarebbe stato consentito essere liberati dalla morte e dal dominatore della morte e del peccato, il diavolo, se il Verbo non avesse preso sopra di sé la nostra natura umana, al punto di farla propria, dato che il Verbo non potè minimamente essere intaccato dal peccato, né la morte potè avere diritti di sorta su di lui. Il Verbo fu concepito ad opera dello Spirito Santo nel ventre della madre Vergine; essa - permanendo la sua verginità - lo diede alla luce, allo stesso modo che l’aveva concepito, sempre restando vergine 6.

6 In questa parte c’è già l’eco del simbolo niceno- costantinopolitano, oltre che Gv. 1, 1ss., Mt. e Lc. Ma subito tiene dietro l’aspetto soteriologico: cf. Introduz., n. 8, pp. 66 ss.



Ma se anche Eutiche non avesse potuto attingere da questo purissimo fonte della fede cristiana una intelligenza chiara e perspicua, dal momento che egli stesso a sé aveva sottratto, con il favore delle tenebre, una verità talmente palmare, avrebbe - almeno - dovuto attenersi agli insegnamenti dell’evangelo, a cominciare dall’inizio del testo di san Matteo che scrive: Il libro della generazione di Gesù Cristo, figlio di David, figlio di Abramo 7. Ed avrebbe potuto chiedere lume all’apostolo, e gli sarebbe stato consentito di leggere all’inizio della lettera ai Romani: Paolo, servo di Gesù Cristo, chiamato apostolo, posto al servizio dell’evangelo di Dio, che egli aveva promesso per mezzo dei profeti nelle sante Scritture riguardo il Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne 8. Poi sarebbe occorso che egli si fosse riferito alle attestazioni dei profeti, facendolo con grande sollecitudine. Così avrebbe potuto trovare le seguenti attestazioni: quelle fatte da Dio ad Abramo, che attestavano: Nella tua discendenza saranno benedette tutte le genti9; e perché potesse ben comprendere di quale genere di discendenza si trattava, l'avrebbe potuto trovare scritto presso l’apostolo Paolo, che asserisce: Le promesse furono fatte ad Abramo ed alla sua discendenza. E non dice la Scrittura: «Alle tue discendenze (al plurale)»; ma dice: «alla tua discendenza», come ad uno solo, ossia al Cristo10. E non si discosta l'attestazione profetica di Isaia, quando afferma: Ecco che una vergine concepirà nel suo seno, e partorirà un figlio, cui verrà dato il nome di Emmanuele, che significa: Dio con noi11. Ed anche, Eutiche, poteva ben leggere un'altra chiarissima attestazione del medesimo profeta: È nato per noi un bambino, un figlio ci è stato dato; il potere è sulle sue spalle; si fregerà di più appellativi, come:     Angelo del grande consiglio, Ammirabile, Consigliere, Dio potente, Principe della pace, Padre del secolo che verrà12. Eutiche non avrebbe detto delle sciocchezze, come, ad esempio, che il Verbo, sì, si era fatto uomo, che - nato dalla Vergine - il Cristo aveva, sì, forma di uomo, ma non aveva un corpo vero e proprio della stessa natura di quello della madre 13. O, forse, ha 8 9 10 11 12 13 pensato che nostro Signore Gesù Cristo non fosse connaturale a noi, cioè non avesse la nostra precisa natura, se prestiamo fede alla parola dell’angelo inviato alla beata sempre Vergine Maria, per dirle: Lo Spirito Santo scenderà su di te; la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra; perciò anche il bimbo che nascerà da te, sarà santo e sarà chiamato il Figlio di Dio 14. E che? Dal momento che la concezione verginale fu opera divina, Eutiche ha forse potuto ritenere che il corpo del concepito non fosse connaturale alla madre che l’aveva concepito e generato? Ma è questo il modo di ritenere singolarissima quella nascita straordinaria, unica nel suo genere sempre straordinaria ed unica al mondo, così che per la novità di tale creazione, se ne debbano poi pensare rimosse le proprietà della natura umana? Lo Spirito Santo ha concorso a dare alla Vergine la fecondità, ma la realtà del corpo umano del concepito viene dal corpo umano della Vergine, perché è la Sapienza divina a costruirsi un’abitazione 15: Il Verbo si è fatto uomo e ha posto le sue tende fra di noi16. Il che, in altri termini, sta a dire che ciò è avvenuto proprio in quel corpo, in quella carne, che ha preso dall’uomo e che ha animato con lo spirito di una vita razionale17 18 19 20.



7    Mt. 1, 1.
8    Rom. 1, 1-3.
9    Gen. 12, 3; 22, 18.
10    Gal. 3, 16.
11    Is. 7, 14; cf. Mt. 1,23.
12    Is. 9, 6.
13  Così pensavano i doceti: il Verbo non si sarebbe realmente incarnato, ma avrebbe assunto la parvenza di un corpo, svuotando così essi di significato sia l’incarnazione che la redenzione. Contro tale «movimento» avevano preso posizione già san Paolo (cf. Col. Col 1,20 Col. Col 1,22 1Tm 2,5) e Giovanni (cf. Gv. Jn 1,14 1Jn 1,1 1Jn 4,2 2Jn 7), nonché dei primi Padri della Chiesa, come sant’Ignazio di Antiochia, sant’Ireneo di Lione, Tertulliano, fino a sant’Agostino. Si veda un bellissimo testo di Paciano (sec. IV): «Negli ultimi tempi Cristo prese da Maria l’anima e la carne. Questa è la carne che egli venne a salvare, che non abbandonò negli inferi e che unì al suo spirito e che fece sua» (Discorso sul battesimo, 5-6; vedi PL 13, 1092s.).
14  Lc. 1, 35. La negazione dell’essere il Cristo connaturale con noi porta alla stessa conclusione negativa dei doceti.
15  Cf. Prov. 9, 1. È riferimento che ricorre anche in tanti altri autori con questo significato; per es., in Cromazio, trattato II.
16  Gv. 1, 14; non c’è bisogno di dire che esso costituisce il cardine della fede cristologica. Di nuovo, si vedano Ignazio di A., passim; Ireneo di L. (libro III dell’Adversus haereses, passim), Tertulliano (Adv. Valentinianos, Adv. Marcionem e soprattutto nel De carne Christi); cf. nota 13 - Gv. 1, 14 è ricorrentissimo in san Leone M.
17  Qui Leone ha di mira Apollinare di Laodicea, il quale pensava, sì, che il Verbo, incarnandosi, avesse assunto un corpo, ma privo dell’anima razionale sostituita dal Logos ; per la ragione, cf. Simonetti, La crisi ariana..., cit., pp. 368-370; Trisoglio, Cristo nei Padri. I cristiani delle origini dinanzi a Gesù, La Scuola, Brescia 1981, pp. 21-22. Cirillo di Alessandria, come s’è visto, fece propria la formula di Apollinare, credendola di Atanasio di Aless.; vedi nell’Introduzione al n. 2, pp. 11 ss.
18  Quanto è detto in questo capitolo è tema ricorrente un po’ in tutti i Padri, poiché vi viene espressa la finalità dell’incarnazione e della redenzione (finalità soteriologica): è il cardine della fede.
19  L’unico e medesimo mediatore tra Dio e gli uomini (unus atque idem mediator Dei et hominum, homo Iesus Christus) è citazione che discende da 1 Tim. 2, 5, ed è frequentissima in Leone M., tanto nelle lettere (vedi, ad es., 124, 2), quanto nei discorsi (, che è tutto contro l’eresia di Eutiche).
20  Il latino dice: et mori posset ex uno, et mori non posset ex altero .


Capitolo III Viene proposta la retta fede e il piano di Dio circa l’incarnazione del Verbo


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Perciò tenuto ben fermo quanto appartiene alle singole nature - quella divina e quella umana -, parimenti affermato con forza quanto appartiene alla sostanza, unite in un’unica persona, la maestà divina ha fatto propria la debolezza umana; la onnipotenza ha fatto propria la fragilità dell’uomo; e quanto è eterno ha preso su di sé quanto è mortale. Per scontare il debito della nostra colpa d’origine piombata nella condizione terrena, la natura divina che non soffre variazioni di sorta, s’è voluta unire alla nostra che è passibile. Per fare quanto era congruente a portare rimedio al nostro essere, l’unico e medesimo mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Gesù Cristo19, fece sì che, per un verso, potesse morire, e, per un altro, morire non potesse20. Dio vero è nato nella natura integra di un uomo vero e completo nella sua natura umana; con tutto ciò che gli appartiene in quanto Dio; con tutto ciò che ci appartiene in quanto uomo.

Quando diciamo «nostra», intendiamo riferirci a tutte le realtà create da Dio fin dall’inizio dell’esistenza dell’uomo, ossia tutto ciò che il Verbo assunse su di sé per restaurare la natura umana. Ma quanto lo spirito ingannatore immise nell’uomo, e quanto l’uomo ingannato perse, di tutto ciò non vi fu traccia alcuna nel nostro Salvatore. E poiché per rendersi in tutto simile a noi ha preso su di sé tutto quanto è nostro, non perciò diciamo che egli si sia reso partecipe delle nostre colpe. Ha assunto la forma di servo 21, ma senza la macchia di peccato che è nell’uomo; ha potenziato la natura umana senza però portare danno alla divina, in quanto l’abbassamento mediante il quale da invisibile che era si è reso visibile, e da Creatore e Signore di tutte le realtà volle anch’egli essere uno tra i mortali, fu per la condiscendenza 22 della sua misericordia, non per il venire meno della sua onnipotenza. Pertanto, colui che rimanendo Dio, si è insieme fatto anche uomo nella forma di schiavo, è lui che aveva creato l’uomo. Conserva la proprietà che gli appartiene, senza nulla perdere, dell’una o dell’altra natura; e come la forma di schiavo non toglie nulla alla forma di Dio, allo stesso modo la forma dello schiavo nulla tolse alla forma che appartiene alla divinità. E, dato che il diavolo menava vanto d’avere soggiogato ingannevolmente l’uomo e d’averlo spogliato dei doni avuti da Dio, d’averlo sottomesso alla dura condizione di morte, dopo che l’aveva depredato del dono dell’immortalità, così - il diavolo - in qualche modo, trovava un sollievo per avere compagno di sventura qualcuno e, in certo modo, uno compartecipe della sua prevaricazione. Si poteva rallegrare, in un certo senso, il diavolo, che Dio - dato che lo esigeva la ragionevolezza della giustizia - avesse cambiato atteggiamento nei confronti dell’uomo, creato all’inizio dei tempi ad un livello di così alta dignità. Era necessario un nuovo piano di salvezza voluto da Dio, perché colui che è immutabile per natura e la cui volontà salvifica non può essere smentita, che si instaurasse una misteriosa disposizione della sua misericordia nei nostri confronti, così da completare l’antico progetto con un intervento straordinario; così si restaurava l’antico piano misericordioso: il diavolo, con la sua ingannevole astuzia, aveva cercato di spingere l’uomo contro Dio; ma l’uomo non poteva perire23.


21  Leone ripete spesso il concetto che in Cristo c’è la forma (= natura) di Dio e la forma (= natura) umana, che si può ritenere mutuata (almeno il concetto, se non anche il termine) da Fil. 2, 6-11. Per l’espressione: senza macchia di peccato: è da Ebr. 4, 15, almeno come eco.
22     Poco sopra ha parlato di abbassamento (exinanitio); qui adopera il termine inclinatio, da noi reso con condiscendenza, che risponde a una parola-chiave della patristica greca, la katàbasis; altrove ricorre al verbo voluit (qui subito dopo), oppure all’altro dignatus est (pure ricorrente nei Padri, cf. Cromazio). Tale concetto si pone sulla linea di Fil. 2,6-11; ma è un po’ tutta la teologia dell’incarnazione/redenzione qui compresa.
23  Come è dato di vedere anche da questo capitolo, la riflessione del papa, pur non rinunciando ad una sistemazione speculativa, è fortemente segnata dalla soteriologia. Per questo verso si può pensare che entri in gioco, rispetto ai Padri orientali, il senso di concretezza propria dei romani.


Capitolo IV Si esaminano le due nascite del Figlio di Dio e le proprietà delle due nature


Il Figlio di Dio entra perciò all’interno delle realtà più umili di questo mondo, scendendo dal trono della gloria celeste, ma senza abbandonare la gloria che ha in comune con il Padre, generato in un nuovo ordine e nato con una generazione nuova. Nuovo è l’ordine, in quanto, da invisibile che era nella sua natura, si è reso visibile nella nostra; da incomprensibile che era, ha voluto essere racchiuso entro termini limitati; e mentre esisteva prima del tempo, ha cominciato ad esistere nel tempo; occultata in qualche modo l’immensità della sua maestà divina, il Signore di tutto si è degnato di assumere la forma di servo; Dio impassibile, non ha disdegnato di divenire passibile uomo, e, da immortale, si è sottomesso a tutte le leggi di morte24. È una nuova generazione quella nella quale il Figlio di Dio si è manifestato nascendo, perché l’integra e inviolata verginità di Maria non ha conosciuto concupiscenza alcuna, mentre ella ha fornito ciò che è proprio della carne, ossia la materia corporea. La natura umana viene al Signore dal corpo della madre sua, ma senza colpa di sorta: Gesù Cristo ha preso dalla madre la natura umana. E tuttavia non ne segue che la natura del Cristo sia differente dalla nostra, anche se la sua è straordinaria, perché generato nel seno di una vergine. Infatti colui che è vero Dio è anche vero uomo; nell’unione dell’elemento divino con quello umano non c’è falsità di sorta, perché sono in reciproco rapporto sia l’umiltà in quanto uomo, e l’altezza in quanto Dio. Poiché come Dio non muta per il fatto che usa misericordia, così l’uomo non è assorbito dalla dignità divina. Reciprocamente le due nature operano in unione vicendevole, secondo la loro propria natura: il Verbo opera secondo la natura di Verbo per ciò che gli è proprio; e la carne in quanto opera per il fatto di essere carne. Il primo elemento, quello divino, brilla per i miracoli; il secondo, l’umano, soggiace alle offese. E come il Verbo non si allontana dalla gloria che ha in comune con il Padre, così la carne non abbandona ciò che le appartiene per essere solidale con il nostro genere. Il Figlio di Dio rimane sempre uno solo e sempre il medesimo - è affermazione che occorre ripetere spesso -, ma è anche e sempre allo stesso modo figlio dell’uomo. È Dio, per ciò che si legge nell’evangelista: In principio esisteva il Verbo, il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio25; ma anche uomo, come si ha dal seguito del testo evangelico: Il Verbo si è fatto uomo ed è venuto a porre le sue tende in mezzo a noi26. Era Dio, per il fatto che ogni realtà creata è stata creata per mezzo del Verbo, e senza il Verbo nulla è stato creato27; ma uomo per il fatto che è nato da donna, nato sotto la legge28. La nascita nella carne è chiara prova della natura umana; il parto da una vergine è prova della divina potenza. Il neonato si rende manifesto nell’umiltà del presepio29, ma la sublimità dell’Altissimo trova testimonianza nelle voce degli angeli 30. All’apparenza è in tutto simile agli uomini che fanno ingresso in questo mondo; mentre l’empio Erode cerca ogni mezzo per ucciderlo, mentre quell’infante, che i magi vengono ad adorare, è il Signore di tutti. Allorché venne per essere battezzato dal suo precursore, Giovanni Battista, perché non sfuggisse che la divinità era come nascosta sotto il velame della carne 31, si udì la voce del Padre che dal cielo diceva: Questi è il mio figlio diletto nel quale ho riposto ogni mia compiacenza 32. Colui che l’astuzia diabolica vuol 25 26 27 28 29 30 31


24  È sempre presente la suggestione di Fil. 2, 6ss. È un testo splendido, soprattutto nel cursus latino. Il pensiero è stato accolto dal concilio di Calcedonia: Denzinger, op. cit., n. 144.
25  Gv. 1, 1; analogamente a Gv. 1, 14, che ritorna subito dopo, ripercorre l’opera di Leone; cf. alla nota 16.
26    Gv. 1, 14.
27     Gv. 1, 2.
28  Gal. 4, 4. In ragione di questa serie di citazioni, cf. Sant’Agostino, Trattati all’evangelo secondo Gv., 15, 6-9, Città Nuova, Roma 1968, pp. 350-355. Introduce le citaz. un’espressione quasi formulare: Unus enim idemque est (quod saepe dicendum est), vere Dei Filius, et vere hominis filius (cf. nota 19). Coloro che credono confessano che il Cristo è Figlio di Dio, ecc. (cf. evangelo, passim), mentre è Gesù stesso a chiamarsi figlio dell’uomo (, Mt. 9, 6; 10, 23; 12, 8; 12, 32.40; 13, 37; ecc.). Ma è pregnante pure l’altra espressione che anticipa le citazioni bibliche: Verbo scilicet operante quod Verbi est, et carne exequente quod carnis est.
29    Cf. Lc. 2, 7.
30  Cf Lc. 2, 9-14. Anche presente nei Padri; cf., ad es., san Cromazio, sermone 32, 2; di questa collana di testi patristici, n. 20, p. 205, dove è pure un testo cristologico molto interessante (primogenito, unigenito: dal Padre, dalla Vergine).
31  Ma non è docetismo! L’uomo non può vedere Dio direttamente; cf. Es. 20, 19; 33, 18-23, Gv. 1, 18, ecc. Si veda quante volte papa Leone ribadisce la verità, la realtà, del corpo del Signore. Per il battesimo: Mt. 3, 13.



provare, in quanto lo vede solo uomo, è lo stesso cui gli angeli recano i servigi celesti 33. Soffrire la fame, avere sete, essere stanco, sentire l’esigenza del sonno, son tutte prove che attestano che ci si trova di fronte ad un uomo. Ma vi sono altrettante prove del suo essere divino, come - ad esempio - nutrire cinquemila persone con cinque pani 34, oppure fare dono dell’acqua viva alla samaritana35, perché chi ne beve non avverta più la sete; o camminare sulle onde del mare a piedi asciutti 36, rimproverare le onde sollevate o placare la tempesta scatenata 37: ciò non può che essere proprio della divinità. Per tralasciare di addurre una serie impressionante di fatti, non è certo di una stessa natura soltanto umana piangere di compassione un amico morto 38 e - nello stesso tempo - al comando della sua voce, restituirlo ancora vivo, dopo che ha fatto rimuovere l’ostacolo di pietra che occludeva la tomba 39. Come non è dell’uomo, appeso ad una croce, far sì che il pieno giorno si trasformi in notte, e far sì che tutti gli elementi della natura si scuotano come per un terremoto; oppure - trafitto che fu dai chiodi - contemporaneamente essere capace di promettere il paradiso al ladro pentito 40. Nemmeno è di uomo poter dire: Io e il Padre siamo una realtà sola 41; oppure: Il Padre è più grande di me 42. Benché in Gesù Cristo, nostro Signore, sia unica la persona, divina e umana, pure diverse sono le fonti da cui provengono, da una parte l’umiliazione (che è dell’uomo), e la gloria (che è di Dio). Il Signore è inferiore al Padre per quello che appartiene all’umanità; con il Padre, invece, ha in comune la divinità42 43 44 45.


32  Mt. 3, 17 e paralleli.
33  Di ciò ampiamente Cromazio; vedi trattato 14 di commento a Mt. in questa collana, n. 46, pp. 134 ss.).
34  Cf. Gv. 6, 12 e parall.
35 Cf. Gv. 4, 10 ecc.
36 Cf. Mt. 14, 25.
37  Cf. Lc. 8, 24. La sobrietà dei riferimenti evangelici pare esprimere una duplice preoccupazione: da una parte la brevità; dall’altra il timore di allontanarsi dal dato biblico.
38  Cf. Gv. 11, per intero.
39 Ivi, 11,39.
40 Cf. Lc. 23, 43.
41 Gv. 10, 30.
42    Gv. 14, 28.
43  Il filo conduttore del capitolo, dunque, è l’unità della persona di Gesù Cristo, del Verbo incarnato, del Figlio di Dio e figlio dell’uomo, nella duplicità delle due nature : divina e umana, con l’intento di sottolineare - oltre che la connaturalità e compartecipazione all’uomo - la finalità soteriologica; cf. nota 18, ecc.



Leone Magno - 8. Il mistero redentivo e la sua celebrazione