Leone Magno - XXIII.      Da un’altra lettera sulla Pasqua, scritta da san Teofilo di Alessandria contro Origene

XXIII.      Da un’altra lettera sulla Pasqua, scritta da san Teofilo di Alessandria contro Origene


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Unico è il Figlio del Padre, è il nostro mediatore; il Figlio non perse l’eguaglianza che ha con il Padre, ma nemmeno è separato dall’essere consorte della nostra situazione; invisibile in quanto Dio, visibile in quanto uomo; come nascosto per la forma di servo che ha assunto, ma Signore della gloria riconosciuto per tale per unanime confessione dei credenti. Di fatti il Padre nulla gli ha tolto dalla proprietà della sua natura (divina) dopo che - per noi - si è fatto uomo e si è reso povero. Nel battesimo, al fiume Giordano, quando venne battezzato, il Padre non ha fatto ricorso ad un altro nome, ma lo ha chiamato, anche lì, Figlio unigenito: Tu sei il Figlio mio diletto, nel quale ho poste tutte le mie compiacenze 59 60. L’essere il Figlio in tutto simile a noi non lo ha privato della natura divina, né la divinità che aveva si è cambiata nella nostra natura.



XXIV. Ed ora un testo (da un’omelia sull’Epifania) di san Gregorio Nazianzeno

Essendo Dio nato dalla Vergine, nella quale aveva assunto la natura umana, risultando così di due realtà in contrasto tra di loro, ossia fatto di carne e di spirito, la carne viene elevata sino alla divinità, e lo spirito viene donato per bontà divina all’uomo 61.

59 Anche di questa lett. di Teofilo si deve la traduz. a san Girolamo; vedi san Girolamo, Le lettere, cit., pp. 102-129 (anche consistente, come si vede); per il testo cit.: dai n. 3-4, ivi, p. 105.
60     Mt. 3, 17 e parall.; già presente nel testo preced.; cf. nota 56.
61  All’inizio del brano è ravvisabile 1 Tim. 2, 5, che Teofilo aveva appena citato.


XXV. E poco più avanti (sempre nella stessa omelia di san Gregorio Nazianzeno)


Il Verbo fu inviato sì, ma come uomo, perché possedeva due nature. Per il fatto che era uomo soffrì la stanchezza nei viaggi, per il fatto che era uomo ebbe fame, ebbe sete, fu contristato, ha pianto secondo che può succedere a qualsiasi uomo62.

62     Testo latino dei due brani in PL 54, 1185.



XXVI. Ed ora un testo di san Basilio, vescovo di Cesarea di Cappadocia (capitolo X\i)\263

In Cristo noi ci troviamo di fronte a due specie di realtà: le une appartenenti all’ordine della natura umana, così che - per questo aspetto - Cristo non si distingue affatto dalla fragilità comune a tutti i mortali; le altre, quelle divine, tali che non possono assolutamente appartenere a nessun altro che non sia Dio in ragione della sua natura ineffabile; davanti a tanto la mente umana resta sorpresa; non sa che pensare, sopraffatta dalla meraviglia e dallo stupore; non sa dove andare; non sa che cosa debba fare, dove dirigersi... Se lo pensa uomo, sa, però, che lo vede anche tornare dai morti, sgominata la morte nel suo regno, e lo scorge con il bottino strappato alla morte. Pertanto capisce di doverlo contemplare con ogni timore e reverenza, cosicché nello stesso soggetto si deve vedere presente la realtà delle due nature, di modo che nulla si possa pensare di men che conveniente o di non confacente alla natura divina tanto eccelsa, né - d’altra parte - che quanto il Verbo ha fatto come uomo si possa pensare che sia stato fatto da lui solo apparentemente in quanto uomo.

63  Qualche codice attribuisce il testo qui riportato non a san Basilio, vescovo di Cesarea di Cappadocia, ma ad un certo san Sabino; ma i fratelli Ballerini ragionevolmente l’attribuiscono a san Basilio; cf. PL 54, 1185, nota e).


XXVII.      \IDi san Cirillo vescovo di Alessandria (dal discorso II sulla retta fede\i)\264



È stato chiamato uomo, pur essendo Dio, pur essendo il Verbo di Dio Padre, per il fatto che egli ha voluto essere partecipe con noi della nostra carne e del nostro sangue. È apparso in terra non per perdere ciò che egli era, ma assumendo la natura umana, in sé perfetta in quanto tale.

64  Dopo Teofilo, san Leone cita anche san Cirillo di Alessandria, nipote di Teofilo e zio di Dioscoro; per i quali cf. perciò le note precedenti, soprattutto 49 e 58. Inoltre - per san Cirillo - cf. gli anatematismi contro Nestorio, in Denzinger, op. cit., nn. 113-124, e l’ultimo testo allegato da san Leone (più avanti, n. XXX). Il primo brano qui riportato dei tre testi che va sotto il nome di De recta fide, il 2° e il 3° Ad reginas (le sorelle e la moglie dell’imperatore Teodosio III).



XXVIII.     \IAncora di san Cirillo di Alessandria; dal libro intitolato\i Commenti sull’incarnazione dell’Unigenito \264 65

Uno solo, dunque, ed è il Dio vero prima dell’incarnazione, e tale che, pur fatto uomo, restò colui che era già, ed è, e sarà. Non si può dunque, in Gesù Cristo, distinguere e separare, da una parte, l’uomo e, dall’altra, Dio. Noi teniamo salda la confessione di fede che Gesù Cristo è uno solo e sempre lo stesso, non perché ignoriamo la differenza sostanziale delle due nature, ma perché ben sappiamo che esse rimangono distinte tra di loro.

65  Gli Scholia de incarnatione Unigeniti sono posteriori al 428, sempre, comunque, intorno al concilio di Efeso (431), che è la grande battaglia condotta da Cirillo contro Nestorio (e contro Costantinopoli); essi si trovano nella Patrologia greca del Migne, vol. 75.


XXIX. \IAncora di san Cirillo, stesso luogo

Si deve pensare che certamente una realtà è in un’altra, ossia, che la natura divina, unendosi all’umana, non ha subito confusione, né cambiamento, per diventare ciò che prima non era. Qualsiasi cosa che si trovi ad abitare dentro un’altra, non per questo diventa tale e quale quella nella quale si trova ad abitare, ma - piuttosto - si deve pensare che una cosa è dentro un’altra. Ma nella natura del Verbo e dell’umanità la diversità delle due nature sta ad indicare la sola differenza che c’è tra lui e noi. Ma si deve dire che il Cristo è uno solo, pur constando delle due nature. Perciò - come ho già detto - si deve precisare che dice che il Verbo è venuto ad abitare in noi, senza che perciò ne nascesse confusione di sorta. Conosce bene infatti che uno solo è il Figlio unigenito, ossia colui che si è fatto carne della nostra sostanza 66.

XXX. Ultimo testo: san Cirillo di Alessandria, dalla II lettera di Cirillo a Nestorio\i\267

Il grande e santo sinodo (di Nicea) ha affermato che il Figlio unigenito dal Padre, dal Padre è nato secondo la sua natura (divina), ed è Dio vero da Dio vero, che è luce da luce, mediante il quale e con il quale il Padre ha creato tutte le realtà esistenti. Ed afferma il santo sinodo che proprio l’unigenito Figlio è disceso dal cielo, si è incarnato, si è fatto uomo (della nostra sostanza), ha subito la passione, il terzo giorno è risorto da morte; infine che è ritornato ai cieli. Questa è la professione di fede che dobbiamo tenere; queste le verità da credere. Ed occorre ben capire che significhi che il Figlio si è fatto carne; che significhi che il Verbo di Dio si è fatto uomo.

Noi non andiamo dicendo che la natura del Verbo di Dio si sia trasformata, né che si sia mutata così da risultarne un uomo completo, perché codesto deve risultare di anima e di corpo. Ma confessiamo che,

66  Il soggetto dei verbi deve essere san Giovanni, secondo Gv. 1, 14, cui allude nel testo.

67  La lettera a Nestorio (la IV dell’ epistolario di Cirillo) è dell’anno 430. Essa venne ratificata dai Padri del sinodo di Efeso il 22 giugno del 431; al pari degli anatematismi (cf. nota 64) essa può essere tenuta in conto di definizione dogmatica. Il testo greco è in Patrologia greca, vol. 87; san Leone dà solo il testo latino (una versione, forse, preparata da lui). Parte della lett. (bilingue) si trova anche nel Denzinger, cit., al n.

invece, il Verbo ha unito a sé in modo personale la carne animata da anima razionale 68. In questo modo (ma è realtà incomprensibile all’intelletto umano e tale che non può essere espressa a parole) il Verbo si è fatto uomo 69, contemporaneamente non ha disdegnato di essere pure detto figlio dell’uomo, non per semplice volontà, né per dovere prendere su di sé la persona; ma perché le due diverse nature (divina ed umana) si sono compaginate insieme; da due nature ne è risultato una persona sola, quella del Cristo, che è sempre Figlio; l’unità delle due nature in un’unica persona non ha annullato la loro differenza; esse - confluendo insieme indissolubilmente - hanno costituito un solo Signore, ossia Cristo, ossia il Figlio, che è come dire che in lui sono conglutinate divinità e umanità; e ciò è avvenuto mediante quella straordinaria e inesprimibile coesione che ha dato luogo a un’unità profondissima. Perciò colui che era nato prima dei secoli eterni dal Padre, si deve dire che - ora - è nato secondo la carne dalla Vergine. Ma non si deve intendere in modo tale che quasi la sua divina natura abbia incominciato ad esistere quando si è incarnato nella Vergine santa, e nemmeno che - per se stessa - la natura divina abbia avuto bisogno di nascere una seconda volta, dopo la nascita che aveva dal Padre. Sarebbe da sciocchi e da stolti sostenere che colui che è coeterno con il Padre per essere nato prima dei secoli eterni, abbia poi avuto bisogno di nascere una seconda volta, perché cominci ad esistere. No; si deve dire che per noi uomini, per la nostra salvezza 70, ha associato a sé la natura umana, e così è nato dalla Vergine; per questa nascita nel tempo si deve confessare che egli è stato generato secondo la carne. Infatti non è che, prima, sia nato un uomo comune dalla Vergine santa e, poi, vi si sia immesso il Verbo; ma si deve confessare - invece -

111 a.

68  Ciò è contro Apollinare di Laodicea; cf. note preced. e nell’ Introduzione.
69     Et hominem factum Dei Verbum = Gv. 1, 14.
70     Tolto dal simbolo niceno-costantinopolitano; sottolinea l’aspetto soteriologico cui papa Leone è attento; cf. Jossua, op. cit.


che il Verbo unì a sé la carne umana nello stesso seno verginale, per nascere secondo la legge di natura dell’uomo: così fu generato, così nacque, così fece propria la natura umana. Allo stesso modo diciamo che il Cristo ha patito ed è risorto non perché il Verbo-Dio abbia sofferto nella sua natura divina, né, soggiungiamo, che abbia sopportato trafitture di chiodi o piaghe corporee, oppure altro genere di ferite. È evidente: Dio infatti, che non ha corpo, è impassibile. Confessiamo invece che quel corpo che il Verbo ha fatto proprio, è quello che ha patito: perciò si dice che il Verbo ha sofferto per noi tutte le pene della sua passione. Nel corpo assunto dal Verbo per cui soffriva c’era Dio il quale non poteva patire. Alla stessa maniera va intesa anche la sua morte: il Verbo è, per natura, immortale e incorruttibile: è la vita di Dio, e dà vita. Ma, poiché proprio il suo corpo - stiamo a ciò che asserisce san Paolo - per un dono di Dio ha gustato la morte per tutti71, perciò si dice che egli ha affrontato, per noi, la morte. Non perché egli fosse soggetto alla morte, per quanto riguarda il suo essere divino; sarebbe una pazzia pensarlo, nonché dirlo; ma - come abbiamo cercato di spiegare più sopra - la sua carne ha gustato la morte. Alla stessa maniera ci si esprime allorché si dice che, risorgendo egli nella carne, egli stesso è colui che è risorto; e non perché il suo corpo sia stato soggetto alla corruzione (lontana da noi simile affermazione!); ma perché il corpo che risorse fu il suo. Così confessiamo un solo Cristo e un solo Signore, non perché adoriamo un uomo accanto al Verbo, perché si avrebbe un dualismo di persone, ma - così facendo - noi adoriamo ormai un unico e lo stesso Signore; questo perché il corpo gli appartiene; vogliamo dire: appartiene al Verbo; e con il corpo assunto egli è assiso accanto allo stesso Padre. Ma non diciamo che ci siano due figli assisi alla destra del Padre! No, ma uno solo assiso con la carne che ha assunto; perché l’unione della natura divina con l’umana è talmente stretta nella persona del Verbo. Che se riteniamo tale unità sostanziale o pressoché impossibile o poco conveniente, finiamo per cadere nell’errore che vorrebbe che si siano avuti due figli. È necessario riconoscere e dire che l’uomo venne unicamente onorato con l’appellativo di Figlio da una parte; dall’altra, che il Verbo, che è da Dio, è - sia per il nome che per la realtà - veramente Figlio di Dio. Ma non dobbiamo assolutamente disgiungere in due figli l’unico Signore Gesù Cristo. Ciò non asseconderebbe di certo una comprensione della retta fede, anche se non pochi - e non capisco come facciano a motivare simile ragionamento! - parlano di congiunzione di più persone 72. La Scrittura non ha certo asserito che il Verbo di Dio abbia assunto a sé la persona di un uomo, ma che il Verbo si è fatto carne 72 73. Ciò sta a significare che il Verbo si è fatto solidale con noi nella carne e nel sangue, che ha fatto proprio il nostro corpo, che è uscito dal seno di una madre in quanto uomo, senza aver né deposta né rigettata la sua divinità e nemmeno quella generazione (eterna) che egli ha dal Padre. Dio, anche dopo aver assunto la natura 74 dell’uomo, è pur sempre rimasto ciò che era prima. È questo quanto la comprensione della retta fede va dicendo dovunque. Siamo certi che la fede dei santi Padri è stata sempre questa, che abbiamo detto. Di conseguenza essi non ebbero dubbi di sorta nel definire la santa Vergine con l’appellativo di «madre di Dio» 75: non che la natura del Verbo, non che la sua divinità, abbiano avuto origine dal seno della Vergine, ma perché da lei è nato quel corpo santo dotato di anima razionale, al quale il Verbo di Dio si è unito sostanzialmente per essere egli nato dalla Vergine

provare la morte (o simili); cf. Mt. 16, 28 e parall.; Gv. 8, 52.

72     Evidentemente, tra costoro, Nestorio, cui è indirizzata la lett.

73  Cf. Gv. 1, 14; dice: Non dixit enim Scriptura Verbum Dei personam hominis sibi assumpsisse, sed carnem factum esse; cf. nota 69.

74     Per la precisione dice: della carne (in assumptione carnis).

secondo la carne 75 76.

75     È il termine difeso con energia da Cirillo.

76 Il testo della lett. è chiaro, attento nell'uso dei termini, eppure - partendo da Cirillo (Apollinare di Laodicea, Atanasio,...) - è stato possibile ne venisse Eutiche e l'eutichianesimo. Ciò sta a dire ancora una volta quanto fosse e fu difficile anche solo fissare termini che non si prestassero ad equivoci e fraintendimenti (come natura, persona, sostanza; o cosa si intendesse per carne, corpo, anima...).

Si vedano anche le note 25 e 32 dell'Introduzione.



Appendice: La definizione del Concilio di Calcedonia


NOTA INTRODUTTIVA

Non è il caso di fermarsi sull’importanza della formulazione calcedonese: essa è iscritta nella teologia e nella storia. Qui le ragioni per dire come essa è nata. Si è all’indomani del concilio di Efeso (del 431), che aveva condannato Nestorio (in sostanza, espressione della «scuola» di Antiochia). Tra gli esponenti di Alessandria d’Egitto (era allora vescovo san Cirillo, 412-444), c’era il monaco Eutiche, monaco però a Costantinopoli, che andò tant’oltre da attestarsi su posizioni esattamente opposte a quelle di Nestorio. Per difendere l’unicità della persona del Verbo incarnato (Gesù Cristo), finì per sostenere che la natura divina aveva «assorbito» anche la natura umana (dunque - pensava - una sola persona, una sola natura, la divina). Alcuni vescovi avvertirono la pericolosità delle idee diffuse da Eutiche. Tra di essi ci furono Domno, vescovo di Antiochia ed Eusebio di Dorilea. In un sinodo convocato, per altre ragioni, a Costantinopoli nel novembre del 448 (quando ad Alessandria ormai era vescovo Dioscoro) (444; deposto nel 451, a Calcedonia) - dopo tergiversazioni e rifiuti a comparire - si condannò Eutiche, il quale però si lamentò presso papa Leone del modo tenuto per il processo e per come si era svolto. Inoltre protestava la sua fedeltà a Nicea, mentre condannava tutta una serie di eretici (Apollinare, Valentino, Nestorio, e Simon Mago; cf. alle lett. 20a e 21a, di Eutiche questa al papa). Ma era chiaro: anche dalla lettera 21a il monofisismo risultava evidente. Papa Leone, dapprima, si meravigliò con Flaviano, il vescovo di Costantinopoli, della procedura tenuta nei confronti di Eutiche. Ma poi - meglio informato da

Flaviano (cf. lett. 22a e 26a cfe//’epistolario di Leone Magno) - si pensò alla celebrazione di un sinodo; quello che si tenne ad Efeso (sarebbe dovuto essere il secondo in tale sede e di tale nome). Se Eutiche fu colui che richiese il sinodo, fu anche colui che lo manipolò a suo talento. La preparazione e la presidenza fu affidata dall’imperatore Teodosio II a Dioscoro. Lo appoggiarono Eudossia imperatrice e Crisafio nemico dichiarato di Flaviano e ciambellano di Teodosio; vi fu invitato il monaco archimandrita Barsuma; dieci metropoliti ed altri ecclesiastici vi presero parte, favorevoli tutti al partito di Eutiche.

I delegati del papa e i pochi ortodossi (Flaviano, Domno, Eusebio di Dorilea e qualche altro) vennero a trovarsi isolati, umiliati e vessati. Si sa bene poi come andasse a finire quello che Leone ebbe a definire latrocinio (cf. lett. 95, 2); e avrebbe dovuto essere il 2° di Efeso (agosto 449). Proprio in vista di tale sinodo il papa aveva scritto a Flaviano la lettera 28a (assieme ad altre sullo stesso motivo); una era indirizzata ai padri convocati per il concilio (lett. 33a). Poi venne il conciliabolo, con tutto quello che ne seguì. Quando papa Leone fu informato dell’esito di quella convocazione, si mosse in più direzioni, scrivendo all’imperatore, ad Ilario, a Giuliano di Cos, ai fedeli di Costantinopoli, ecc. (cf. dalla lett. 43 in poi). Si dovette provvedere alla celebrazione di un altro sinodo (che il papa voleva in Occidente, e preparato con calma), un sinodo che cancellasse l’infamia di Efeso.

L’indizione prevedeva quale sede Nicea; poi - dati gli impegni dell’imperatore, onde fosse consentito seguire più da vicino i lavori - l’assise si trasferì di sede a Calcedonia. Dati i tempi richiesti per l’indizione, per la preparazione, per recarvisi, la celebrazione potè avere inizio solo l’8 ottobre del 451 (cf. lett. 43 e ss.).

Come rappresentanti del papa erano appena giunti Pascasino, Lucenzio e Bonifacio. Essi pretesero che, per prima cosa, venisse allontanato dalla presidenza Dioscoro (che dovette, invece, prendere allora posto tra gli accusati). Ci furono anche disordini e tumulti; ma poi

le cose si misero al meglio. Furono letti gli atti del conciliabolo: appariva evidente quanto fosse stata manipolata quell’adunanza. In seconda riunione (10 OTT 188,214-189,213) Dioscoro e soci non si fecero vedere. Furono letti, allora, i simboli di Nicea (325) e di Costantinopoli (381), le lettere di Cirillo a Nestorio e la ormai celebre lettera 28a di Leone a Flaviano. Si passò quindi alla deposizione di Dioscoro (13 ottobre). Il 17 gli ufficiali imperiali insistettero perché si addivenisse ad una definizione della fede. Ma i padri non la ritenevano necessaria, esistendo già quelle di Nicea e di Efeso e la lett. 28a di papa Leone a Flaviano. Pure se ne approntò una 5 seduta generale del 22 ott.), che scontentò tutti. Se ne preparò un’altra, perché l’imperatore in persona faceva pressione in tal senso. La formula venne solennemente ratificata da tutta l’assemblea (600 e più tra vescovi e rappresentanti), dopo si lesse il testo in latino e in greco: era il 25 ottobre del 451. I presenti firmarono la definizione solenne. Essa soddisfaceva sia alla richiesta avanzata dall’imperatore (voleva una formulazione dogmatica a tutti i costi), sia a quella del papa (era accolta la formula che gli tornava cara e che costituisce il cuore di Calcedonia: una sola persona, ma in due nature). In sostanza: il sinodo di Calcedonia, nella formulazione della definizione teneva ben presente l’insegnamento della lettera 28a a Flaviano. Erano maturi, dunque, i tempi per una definizione solenne. (Per tutta questa vicenda si consultino trattazioni ad hoc, come l’Enciclopedia Cattolica, cit. alla nota 43 dell’Introduzione; più ampiamente, vedi Moricca, op. cit., 1046-1067, con ampia sintesi, come detto della lett. 28a, e qua e là nelllntroduzione stessa).

Perciò la definizione di Calcedonia (25 OTT 188,214-189,213) è in perfetta aderenza al pensiero di papa Leone, come è possibile riscontrare in un confronto tra la lettera e la definizione di Calcedonia che si riporta di seguito.


CONCILIO DI CALCEDONIA - Definizione delle due nature di Gesù Cristo

Il santo sinodo anatematizza tutti coloro che hanno potuto pensare che, nel Signore Gesù, prima dell’unione, vi erano sì due nature ma che, ad unione avvenuta, ve ne sia una soltanto. Tenendo perciò fede al magistero dei santi Padri 1, tutti noi - unanimemente - insegniamo che occorre confessare che il Figlio e Signore nostro Gesù Cristo è uno solo e sempre il medesimo. Insegniamo altresì che egli è egualmente sempre lo stesso e perfetto quanto alla divinità, lo stesso e perfetto quanto all’umanità. Insegniamo che egli è vero Dio, che è anche vero uomo 2, e che consta di anima razionale 3 e di corpo vero 4 5; che è consostanziale con il Padre quanto alla divinità; consostanziale con noi quanto alla natura umana 5, in tutto simile a noi, fuorché nel peccato 6 7. Affermiamo che è stato generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità; ma che, - negli ultimi tempi - per noi, per la nostra salvezza, è nato dalla madre e Vergine Maria, madre di Dio secondo la natura umana 7. Insegniamo altresì che Cristo, Figlio di Dio, è uno solo ed è sempre lo stesso, unigenito (dal Padre), in due nature 8, non confuse tra di loro 9, immutabili e tali che non si possono dividere. Asseriamo che va riconosciuto fermamente che l’umanità e la divinità sono inseparabilmente unite, ma che non sono state abolite le differenze delle due nature in forza dell’indissolubile unione intercorsa tra di esse; ma - piuttosto - affermiamo che ognuna delle due nature conserva le sue proprietà; ed esse nature le conservano insieme, inscindibilmente, nell’unica persona, ossia in una sussistenza 10: perciò il Signore non è né diviso né scisso. Confessiamo sempre che l’unico 11 e medesimo Figlio unigenito di Dio 12, è Dio, che è il Verbo e il Signore Gesù Cristo. Così preannunciano le voci dei profeti, tale è l’insegnamento dello stesso Signore Gesù sul suo proprio essere; e questo è pure l’insegnamento trasmesso a noi dai Padri 13. Espressa in questi termini la nostra professione di fede 14, viene precisata da parte di questo santo sinodo generale 15 con la massima preoccupazione, perché non è lecito a nessuno di professare una fede diversa, né di proporre o comporre formulazioni differenti da questa 16, e nemmeno di sentire secondo una fede diversa e neppure è lecito insegnare altro ad altri.



1  I Padri del concilio sentono di seguire la Tradizione, che è norma di fede.

2  Risponde a tutte le eresie cristologiche: Apollinare, Nestorio, Eutiche, ma anche Ario ed altre precedenti. Persona completa; uomo completo; essere personale, in due nature (divina ed umana). Formula calibrata ed armoniosa.

3     Contro Apollinare di Laodicea.

4  Contro i doceti e affini, accanto ai quali è anche Eutiche; cf. nota 13 della lett. 28a.

5  Non è una creatura inferiore al Padre e a lui sottomessa (quanto alla divinità); né è un «mezzo» uomo, avendo assunto tutto l’uomo (anima e corpo). Il Verbo eguale al Padre: è Nicea (oJmoouvsioi).

6    Ebr. 4, 15.

7     È la doppia generazione del Verbo (generato, non creato, della stessa sostanza del Padre, come è detto nel simbolo). Generazione ante saecula (o tempora) e generazione nel tempo da Maria vergine e madre di Dio, nella pienezza dei tempi (cf. Gal. Ga 4,4). Si vedano testi non solo nelle lett. 28a di papa Leone, ma pure testi di altri Padri, quale, ad es., san Cromazio (per es. sermone 11, passim ; in questa collana, n. 20, PP 87-94 oppure, dal trattato 1°, dal 4 paragr.; in questa collana, n. 46, PP 63 s.; trattato 2°; ivi, p. 71, ecc.).

Nel testo c’è un’acquisizione molto importante, ed è l’adozione del termine theotòkos (qeotovko) tanto caro a Cirillo di Alessandria (cf. anatematismi e lettera IV a Nestorio; cf. nota 64 ai testi allegati da san Leone Magno; vedi Denzinger, op. cit., nn. 111a; 113, da cui Efeso). Era acquisizione già di Efeso, avendo quel concilio fatto propria la lett. IV di Cirillo a Nestorio; cf. nota 67 dei testi allegati da papa Leone.

8  È il cuore della definizione di Calcedonia: in due nature (in duabus naturis) (contro Eutiche); ma il Cristo è sempre uno e lo stesso (unum eundemque), contro Nestorio.

9  Nature non confuse, immutabili, indivise, inseparabili.

10  Persona è precisato da sussistenza, ad evitare una terminologia incerta (san Cirillo la diceva anche phùsis, che sarebbe eguale a natura; il concilio per persona usa non phùsis, ma ipòstasis, pròsopon).

11  Non diviso in due persone, ché sarebbe Nestorio.

12  Ribadisce: unum eundemque Filium, ecc.

13  Il fondamento della definizione è la Scrittura (AT/NT) e la Tradizione dei Padri (non necessariamente solo i Padri dei concili di Nicea, cui si deve la definizione che il Figlio è eguale al Padre, e di Efeso, cui si deve l’affermazione che Maria è madre di Dio, qeotovko|; ma anche i Padri dell’età apostolica e successivi).

14  Il simbolo è quello apostolico e quello niceno costantinopolitano.

15  Il concilio di Calcedonia è ecumenico fin dalla sua indizione (a differenza, ad es., del costantinopolitano del 381, che non lo era all’inizio). Il suo pronunciamento è definizione, come sottolinea.

16  È stato detto che papa Leone non riteneva - date le precedenti definizioni - che fosse necessaria un’altra definizione conciliare, ad indicare la retta fede della Chiesa, dato che essa ha sempre creduto, e questo ovunque, e da parte di tutti (cf. Commonitorium di Vincenzo di Lerino, il cui pensiero - per la Tradizione - si rifà a sant’Ireneo e Tertulliano; vedi note 27 e 28 dell’Introduzione, ecc.). Tale considerazione riporta là donde ci siamo mossi, all’ambiente di Cassiano che - su sollecitazione del diacono Leone - compone il De incarnatione Domini contra Nestorium; cf. Introduzione, alle note 27 e 28.

Per più ampie trattazioni si rinvia all’Enciclopedia Cattolica, cit., III, coll. 323-328 (ove c’è anche la bibliogr. ) o a dei testi che ne trattino esplicitamente. Per la storia, oltre che ivi, cf. Moricca, op. cit., pp. 10631074.



Leone Magno - XXIII.      Da un’altra lettera sulla Pasqua, scritta da san Teofilo di Alessandria contro Origene