Mulieris dignitatem 14

La donna sorpresa in adulterio

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14. Gesù entra nella situazione concreta e storica della donna, situazione che è gravata dall'eredità del peccato. Questa eredità si esprime tra l'altro nel costume che discrimina la donna in favore dell'uomo ed è radicata anche dentro di lei. Da questo punto di vista l'episodio della donna "sorpresa in adulterio" (cfr.
Jn 8,3-11) sembra essere particolarmente eloquente. Alla fine Gesù le dice: "Non peccare più", ma prima egli provoca la consapevolezza del peccato negli uomini che l'accusano per lapidarla, manifestando così quella sua profonda capacità di vedere secondo verità le coscienze e le opere umane. Gesù sembra dire agli accusatori: questa donna con tutto il suo peccato non è forse anche, e prima di tutto, una conferma delle vostre trasgressioni, della vostra ingiustizia "maschile", dei vostri abusi? E' questa una verità valida per tutto il genere umano. Il fatto riportato nel Vangelo di Giovanni si può ripresentare in innumerevoli situazioni analoghe in ogni epoca della storia. Una donna viene lasciata sola, è esposta all'opinione pubblica con "il suo peccato", mentre dietro questo "suo" peccato si cela un uomo come peccatore, colpevole per il "peccato altrui", anzi corresponsabile di esso. Eppure, il suo peccato sfugge all'attenzione, passa sotto silenzio: appare non responsabile per il "peccato altrui"! A volte si fa addirittura accusatore, come nel caso descritto, dimentico del proprio peccato.

Quante volte, in modo simile, la donna paga per il proprio peccato (può darsi che sia lei, in certi casi, colpevole per il peccato dell'uomo, come "peccato altrui"), ma paga essa sola, e paga da sola! Quante volte essa rimane abbandonata con la sua maternità, quando l'uomo, padre del bambino, non vuole accettarne la responsabilità? E accanto alle numerose "madri nubili" delle nostre società, bisogna prendere in considerazione anche tutte quelle che molto spesso, subendo varie pressioni, pure da parte dell'uomo colpevole, "si liberano" del bambino prima della nascita. "Si liberano": ma a quale prezzo? L'odierna opinione pubblica tenta in diversi modi di "annullare" il male di questo peccato; normalmente, pero, la coscienza della donna non riesce a dimenticare di aver tolto la vita al proprio figlio, perché essa non riesce a cancellare la disponibilità ad accogliere la vita, inscritta nel suo ethos dal "principio".

E' significativo l'atteggiamento di Gesù nel fatto descritto in Giovanni (Jn 8,3-11). Forse in pochi momenti come in questo si manifesta la sua potenza - la potenza della verità - nei riguardi delle coscienze umane. Gesù è tranquillo, raccolto, pensieroso. La sua consapevolezza, qui come nel colloquio con i farisei (cfr. Mt 19,3-9), non è forse in contatto col mistero del "principio", quando l'uomo fu creato maschio e femmina, e la donna fu affidata all'uomo con la sua diversità femminile, ed anche con la sua potenziale maternità? Anche l'uomo fu affidato dal Creatore alla donna. Furono reciprocamente affidati l'uno all'altro come persone fatte ad immagine e somiglianza di Dio stesso. In tale affidamento è la misura dell'amore, dell'amore sponsale: per diventare "un dono sincero" l'uno per l'altro, bisogna che ciascuno dei due si senta responsabile del dono. Questa misura è destinata a tutt'e due - uomo e donna - sin dal "principio". Dopo il peccato originale operano nell'uomo e nella donna forze opposte, a causa della triplice concupiscenza, "fomite del peccato". Esse agiscono nell'uomo dal profondo. Per questo Gesù nel discorso della montagna dirà: "Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" (Mt 5,28).

Queste parole, rivolte direttamente all'uomo, mostrano la verità fondamentale della sua responsabilità nei confronti della donna: per la sua dignità, per la sua maternità, per la sua vocazione. Ma esse riguardano indirettamente anche la donna.

Cristo faceva tutto il possibile perché - nell'ambito dei costumi e dei rapporti sociali di quel tempo - le donne ritrovassero nel suo insegnamento e nel suo agire la propria soggettività e dignità. In base all'eterna "unità dei due", questa dignità dipende direttamente dalla stessa donna, quale soggetto per sé responsabile, e viene nello stesso tempo "data come compito" all'uomo.

Coerentemente Cristo si appella alla responsabilità dell'uomo. Nella presente meditazione sulla dignità e vocazione della donna, oggi bisogna riferirsi necessariamente all'impostazione che incontriamo nel Vangelo. La dignità della donna e la sua vocazione - come, del resto, quelle dell'uomo - trovano la loro eterna sorgente nel cuore di Dio e, nelle condizioni temporali dell'esistenza umana, sono strettamente connesse con l'"unità dei due". perciò ciascun uomo deve guardare dentro di sé e vedere se colei che gli è affidata come sorella nella stessa umanita, come sposa, non sia diventata nel suo cuore oggetto di adulterio; se colei che, in vari modi, è il co-soggetto della sua esistenza nel mondo, non sia diventata per lui "oggetto": oggetto di godimento, di sfruttamento.

Custodi del messaggio evangelico

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15. Il modo di agire di Cristo, il Vangelo delle sue opere e delle sue parole, è una coerente protesta contro ciò che offende la dignità della donna. perciò le donne che si trovano vicine a Cristo riscoprono se stesse nella verità che egli "insegna" e che egli "fa", anche quando questa è la verità sulla loro "peccaminosità". Da questa verità esse si sentono "liberate", restituite a se stesse: si sentono amate di "amore eterno", di un amore che trova diretta espressione in Cristo stesso. Nel raggio d'azione di Cristo la loro posizione sociale si trasforma. Sentono che Gesù parla con loro di questioni delle quali, a quei tempi, non si discuteva con una donna. L'esempio, in un certo senso più significativo al riguardo, è quello della Samaritana presso il pozzo di Sichem.

Gesù - il quale sa che è peccatrice, e di questo le parla - discorre con lei dei più profondi misteri di Dio. Le parla del dono infinito dell'amore di Dio, che è come "sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna" (
Jn 4,14). Le parla di Dio che è Spirito e della vera adorazione, che il Padre ha diritto di ricevere in spirito e verità (cfr. Jn 4,24). Le rivela, infine, di essere il Messia promesso ad Israele (cfr. Jn 4,26).

E' questo un evento senza precedenti: quella donna, e per di più "donna-peccatrice", diventa "discepola" di Cristo; anzi, una volta istruita, annuncia il Cristo agli abitanti di Samaria, così che essi pure lo accolgono con fede (cfr. Jn 4,39-42). Un evento senza precedenti, se si tiene presente il modo comune di trattare le donne proprio di quanti insegnavano in Israele, mentre nel modo di agire di Gesù di Nazaret un simile evento si fa normale. A questo proposito, meritano un particolare ricordo anche le sorelle di Lazzaro: "Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella Maria e a Lazzaro" (cfr. Jn 11,5). Maria "ascoltava la parola" di Gesù: quando va a trovarli in casa, egli stesso definisce il comportamento di Maria come "la parte migliore" rispetto alla preoccupazione di Marta per le faccende domestiche (cfr. Lc 10,38-42). In un'altra occasione anche Marta - dopo la morte di Lazzaro - diventa interlocutrice di Cristo, ed il colloquio riguarda le più profonde verità della rivelazione e della fede.

"Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto" - "Tuo fratello risusciterà" - "So che risusciterà nell'ultimo giorno". Le disse Gesù: "Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?" - "Si, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, Figlio di Dio, che deve venire al mondo" (Jn 11,21-27). Dopo questa professione di fede Gesù risuscita Lazzaro. Anche il colloquio con Marta è uno dei più importanti del Vangelo.

Cristo parla con le donne delle cose di Dio, ed esse le comprendono: un'autentica risonanza della mente e del cuore, una risposta di fede. E Gesù per questa risposta spiccatamente "femminile" esprime apprezzamento e ammirazione, come nel caso della donna cananea (cfr. Mt 15,28). A volte egli propone come esempio questa fede viva, permeata dall'amore: insegna, dunque, prendendo spunto da questa risposta femminile della mente e del cuore. così avviene nel caso di quella donna "peccatrice" il cui modo di agire, in casa del fariseo, è assunto da Gesù come punto di partenza per spiegare la verità sulla remissione dei peccati: "Le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco" (Lc 7,47). In occasione di un'altra unzione, Gesù prende la difesa, davanti ai discepoli e in particolare davanti a Giuda, della donna e della sua azione: "Perché infastidite questa donna? Essa ha compiuto una azione buona verso di me... Versando questo olio sul mio corpo lo ha fatto in vista della sepoltura. In verità vi dico: dovunque sarà predicato questo Vangelo, nel mondo intero, sarà detto ciò che essa ha fatto, in ricordo di lei" (Mt 26,6-13).

In realtà, i Vangeli non solo descrivono ciò che ha compiuto quella donna a Betania, nella casa di Simone il lebbroso, ma mettono anche in rilievo come, al momento della prova definitiva e determinante per tutta la missione messianica di Gesù di Nazaret, ai piedi della croce, si siano trovate, prime fra tutti, le donne. Degli apostoli solo Giovanni è rimasto fedele. Le donne, invece, sono molte. Non solo c'erano la Madre di Cristo e la "sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala" (Jn 19,25), ma "molte donne che stavano ad osservare da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo" (Mt 27,55). Come si vede, in questa che fu la più dura prova della fede e della fedeltà, le donne si sono dimostrate più forti degli apostoli: in questi momenti di pericolo quelle che "amano molto" riescono a vincere la paura. Prima c'erano state le donne sulla via dolorosa, "che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui" (Lc 23,27).

Prima ancora c'era stata la moglie di Pilato, che aveva avvertito il proprio marito: "Non avere a che fare con quel giusto; perché oggi fui molto turbata in sogno, per causa sua" (Mt 27,19).

Prime testimoni della risurrezione

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16. Sin dall'inizio della missione di Cristo la donna mostra verso di lui e verso il suo mistero una speciale sensibilità che corrisponde a una caratteristica della sua femminilità. Occorre dire, inoltre, che ciò trova particolare conferma in relazione al mistero pasquale, non solo al momento della croce, ma anche all'alba della risurrezione. Le donne sono le prime presso la tomba. Sono le prime a trovarla vuota. Sono le prime ad udire: "Non è qui. E' risorto, come aveva detto" (
Mt 28,6). Sono le prime a stringergli i piedi (Mt 28,9). Sono anche chiamate per prime ad annunciare questa verità agli apostoli (cfr. Mt 28,1-10 Lc 24,8-11). Il Vangelo di Giovanni (cfr. anche Mc 16,9) mette in rilievo il ruolo particolare di Maria di Magdala. E' la prima ad incontrare il Cristo risorto. All'inizio crede che sia il custode del giardino: lo riconosce soltanto quando egli la chiama per nome. "Gesù le disse: "Marià". Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: "Rabbuni!", che significa: "Maestro". Gesù le disse: "Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre, ma va' dai miei fratelli e di' loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro". Maria di Magdala ando subito ad annunciare ai discepoli: "Ho visto il Signore" e anche ciò che le aveva detto" (Jn 20,16-18).

Per questo essa venne anche chiamata "l' apostola degli apostoli" (Rabani Mauri "De vita beatae Mariae Magdalenae", XXVII: "Salvator... ascensionis suae eam [= Mariam Magdalenam] ad apostolos istituit apostolam" [PL 112, 1574].

"Facta est Apostolorum apostola, per hoc quod ei committitur ut resurrectione dominicam discipulis annuntiet": In Ioannem Evangelistam expositio, C. XX. L. III, 6 [S. Thomae Aquinitas "Comment. in Matthaeum et Ioannem Evangelistas"], X, 629).

Maria di Magdala fu la testimone oculare del Cristo risorto prima degli apostoli e, per tale ragione, fu anche la prima a rendergli testimonianza davanti agli apostoli. Questo evento, in un certo senso, corona tutto ciò che è stato detto in precedenza sull'affidamento delle verità divine da parte di Cristo alle donne, al pari degli uomini. Si può dire che in questo modo si sono compiute le parole del profeta: "Io effondero il mio spirito sopra ogni uomo, e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie" (Jl 3,1). Nel cinquantesimo giorno dopo la risurrezione di Cristo, queste parole trovano ancora una volta conferma nel cenacolo di Gerusalemme, durante la discesa dello Spirito Santo, il Paraclito (cfr. Ac 2,17).

Quanto è stato detto finora circa l'atteggiamento di Cristo nei riguardi delle donne conferma e chiarisce nello Spirito Santo la verità sulla eguaglianza dei due, uomo e donna. Si deve parlare di un'essenziale "parità": poiché tutt'e due - la donna come l'uomo - sono creati ad immagine e somiglianza di Dio, tutt'e due sono suscettibili in eguale misura dell'elargizione della verità divina e dell'amore nello Spirito Santo. Ambedue accolgono le sue "visite" salvifiche e santificanti.

Il fatto di essere uomo o donna non comporta qui nessuna limitazione, così come non limita per nulla quella azione salvifica e santificante dello Spirito nell'uomo il fatto di essere giudeo o greco, schiavo o libero, secondo le ben note parole dell'Apostolo: "Poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Ga 3,28). Questa unità non annulla la diversità. Lo Spirito Santo, che opera una tale unità nell'ordine soprannaturale della grazia santificante, contribuisce in egual misura al fatto che "diventano profeti i vostri figli" e che lo diventano anche "le vostre figlie". "Profetizzare" significa esprimere con la parola e con la vita "le grandi opere di Dio" (cfr. Ac 2,11), conservando la verità e l'originalità di ogni persona, sia donna che uomo. L'"eguaglianza" evangelica, la "parità" della donna e dell'uomo nei riguardi delle "grandi opere di Dio", quale si è manifestata in modo così limpido nelle opere e nelle parole di Gesù di Nazaret, costituisce la base più evidente della dignità e della vocazione della donna nella Chiesa e nel mondo. Ogni vocazione ha un senso profondamente personale e profetico. Nella vocazione così intesa ciò che è personalmente femminile raggiunge una nuova misura: è la misura delle "grandi opere di Dio", delle quali la donna diventa soggetto vivente ed insostituibile testimone.

VI. Maternità-Verginità

Due dimensioni della vocazione della donna

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17. Dobbiamo ora rivolgere la nostra meditazione alla verginità e alla maternità, come due dimensioni particolari nella realizzazione della personalità femminile.

Alla luce del Vangelo, esse acquistano la pienezza del loro senso e valore in Maria, che come vergine divenne Madre del Figlio di Dio. Queste due dimensioni della vocazione femminile si sono in lei incontrate e congiunte in modo eccezionale, così che l'una non ha escluso l'altra, ma l'ha mirabilmente completata. La descrizione dell'annunciazione nel Vangelo di Luca indica chiaramente che ciò sembrava impossibile alla Vergine di Nazaret. Quando si sente dire: "Concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù", ella subito chiede: "Come avverrà questo? Non conosco uomo" (
Lc 1,33-34). Nell'ordine comune delle cose la maternità è frutto della reciproca "conoscenza" dell'uomo e della donna nell'unione matrimoniale. Maria, ferma nel proposito della propria verginità, pone la domanda al divino messaggero, e ne ottiene la spiegazione: "Lo Spirito Santo scenderà su di te"; la tua maternità non sarà conseguenza di una "conoscenza" matrimoniale, ma sarà opera dello Spirito Santo, e la "potenza dell'Altissimo" stenderà la sua "ombra" sul mistero del concepimento e della nascita del Figlio. Come Figlio dell'Altissimo egli ti viene dato esclusivamente da Dio, nel modo conosciuto da Dio. Maria, dunque, ha mantenuto il suo verginale "Non conosco uomo" (cfr. Lc 1,34) e, al tempo stesso, è diventata Madre. La verginità e la maternità coesistono in lei: non si escludono reciprocamente e non si pongono dei limiti. Anzi, la persona della Madre di Dio aiuta tutti - specialmente tutte le donne - a scorgere in quale modo queste due dimensioni e queste due strade della vocazione della donna, come persona, si spieghino e si completino reciprocamente.

Maternità

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18. Per prender parte a questo "scorgere", occorre ancora una volta approfondire la verità sulla persona umana, ricordata dal Concilio Vaticano II. L'uomo - sia il maschio che la femmina - è l'unico essere nel mondo che Dio abbia voluto per se stesso: è una persona, è un soggetto che decide di sé. Al tempo stesso, l'uomo "non può trovarsi pienamente se non mediante un dono sincero di sé" (
GS 24). E' stato già detto che questa descrizione, anzi, in un certo senso, questa definizione della persona corrisponde alla fondamentale verità biblica circa la creazione dell'uomo - uomo e donna - a immagine e somiglianza di Dio.

Questa non è un'interpretazione puramente teorica, o una definizione astratta, poiché essa indica in modo essenziale il senso dell'essere uomo, mettendo in rilievo il valore del dono di sé, della persona. In questa visione della persona è contenuta anche l'essenza di quell'"ethos" che, collegandosi alla verità della creazione, sarà sviluppato pienamente dai libri della rivelazione e, in particolare, dai Vangeli.

Questa verità sulla persona apre, inoltre, la strada ad una piena comprensione della maternità della donna. La maternità è frutto dell'unione matrimoniale di un uomo e di una donna, di quella "conoscenza" biblica che corrisponde all'"unione dei due nella carne" (cfr. Gn 2,24), e in questo modo essa realizza - da parte della donna - uno speciale "dono di sé" come espressione di quell'amore sponsale col quale gli sposi si uniscono tra loro così strettamente da costituire "una sola carne". La "conoscenza" biblica si realizza secondo la verità della persona solo quando il reciproco dono di sé non viene deformato nè dal desiderio dell'uomo di diventare "padrone" della sua sposa ("Egli ti dominerà"), né dal chiudersi della donna nei propri istinti ("Verso tuo marito sarà il tuo istinto") (cfr. Gn 3,16).

Il reciproco dono della persona nel matrimonio si apre verso il dono di una nuova vita, di un nuovo uomo, che è anche persona a somiglianza dei suoi genitori. La maternità implica sin dall'inizio una speciale apertura verso la nuova persona: e proprio questa è la "parte" della donna. In tale apertura, nel concepire e nel dare alla luce il figlio, la donna "si ritrova mediante un dono sincero di sé". Il dono dell'interiore disponibilità nell'accettare e nel mettere al mondo il figlio è collegato all'unione matrimoniale, che - come è stato detto - dovrebbe costituire un momento particolare del reciproco dono di sé da parte e della donna e dell'uomo. Il concepimento e la nascita del nuovo uomo, secondo la Bibbia, sono accompagnati dalle seguenti parole della donna-genitrice: "Ho acquistato un uomo dal Signore" (cfr. Gn 4,1). L'esclamazione di Eva, "madre di tutti i viventi", si ripete ogni volta che viene al mondo un nuovo uomo ed esprime la gioia e la consapevolezza della donna di partecipare al grande mistero dell'eterno generare. Gli sposi partecipano della potenza creatrice di Dio! La maternità della donna, nel periodo tra il concepimento e la nascita del bambino, è un processo bio-fisiologico e psichico che ai nostri giorni è conosciuto meglio che non in passato ed è oggetto di molti studi approfonditi.

L'analisi scientifica conferma pienamente come la stessa costituzione fisica della donna e il suo organismo contengano in sé la disposizione naturale alla maternità, al concepimento, alla gravidanza e al parto del bambino, in conseguenza dell'unione matrimoniale con l'uomo. Al tempo stesso, tutto ciò corrisponde anche alla struttura psicofisica della donna. Quanto i diversi rami della scienza dicono su questo argomento è importante ed utile, purché non si limitino ad un'interpretazione esclusivamente bio-fisiologica della donna e della maternità.

Una simile immagine "ridotta" andrebbe di pari passo con la concezione materialistica dell'uomo e del mondo. In tal caso, andrebbe purtroppo smarrito ciò che è veramente essenziale: la maternità, come fatto e fenomeno umano, si spiega pienamente in base alla verità sulla persona. La maternità è legata con la struttura personale dell'essere donna e con la dimensione personale del dono: "Ho acquistato un uomo dal Signore" (Gn 4,1). Il Creatore fa ai genitori il dono del figlio. Da parte della donna, questo fatto è collegato in modo speciale ad "un dono sincero di sé". Le parole di Maria all'annunciazione: "Avvenga di me quello che hai detto" significano la disponibilità della donna al dono di sé e all'accoglienza della nuova vita.

Nella maternità della donna, unita alla paternità dell'uomo, si riflette l'eterno mistero del generare che è in Dio stesso, in Dio uno e trino (cfr. Ep 3,14-15). L'umano generare è comune all'uomo e alla donna. E, se la donna, guidata dall'amore verso il marito, dirà: "Ti ho dato un figlio", le sue parole nello stesso tempo significano: "Questo è nostro figlio". Eppure, anche se tutti e due insieme sono genitori del loro bambino, la maternità della donna costituisce una "parte" speciale di questo commune essere genitori, nonché la parte più impegnativa. L'essere genitori - anche se appartiene ad ambedue - si realizza molto più nella donna, specialmente nel periodo prenatale. E' la donna a "pagare" direttamente per questo comune generare, che letteralmente assorbe le energie del suo corpo e della sua anima. Bisogna, pertanto, che l'uomo sia pienamente consapevole di contrarre, in questo loro comune essere genitori, uno speciale debito verso la donna. Nessun programma di "parità di diritti" delle donne e degli uomini è valido, se non ti tiene presente questo in un modo del tutto essenziale.

La maternità contiene in sé una speciale comunione col mistero della vita, che matura nel seno della donna: la madre ammira questo mistero, con singolare intuizione "comprende" quello che sta avvenendo dentro di lei. Alla luce del "principio" la madre accetta ed ama il figlio che porta in grembo come una persona. Questo modo unico di contatto col nuovo uomo che si sta formando crea, a sua volta, un atteggiamento verso l'uomo - non solo verso il proprio figlio, ma verso l'uomo in genere -, tale da caratterizzare profondamente tutta la personalità della donna. Si ritiene comunemente che la donna più dell'uomo sia capace di attenzione verso la persona concreta e che la maternità sviluppi ancora di più questa disposizione. L'uomo - sia pure con tutta la sua partecipazione all'essere genitore - si trova sempre "all'esterno" del processo della gravidanza e della nascita del bambino, e deve per tanti aspetti imparare dalla madre la sua propria "paternità". Questo - si può dire - fa parte del normale dinamismo umano dell'essere genitori, anche quando si tratta delle tappe successive alla nascita del bambino, specialmente nel primo periodo. L'educazione del figlio, globalmente intesa, dovrebbe contenere in sé il duplice contributo dei genitori: il contributo materno e paterno. Tuttavia, quello materno è decisivo per le basi di una nuova personalità umana.

La maternità in relazione all'alleanza

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19. Ritorna nelle nostre riflessioni il paradigma biblico della "donna", assunto dal Protoevangelo. La "donna", come genitrice e come prima educatrice dell'uomo (l'educazione è la dimensione spirituale dell'essere genitori), possiede una specifica precedenza sull'uomo. Se la sua maternità (innanzitutto in senso biofisico) dipende dall'uomo, essa imprime un "segno" essenziale su tutto il processo del far crescere come persona i nuovi figli e figlie della stirpe umana.

La maternità della donna in senso biofisico manifesta un'apparente passività: il processo della formazione di una nuova vita "avviene" in lei, nel suo organismo, tuttavia avviene coinvolgendolo in profondità. Nello stesso tempo, la maternità in senso personale-etico esprime una creatività molto importante della donna, dalla quale dipende in misura principale l'umanità stessa del nuovo essere umano. Anche in questo senso la maternità della donna manifesta una speciale chiamata ed una speciale sfida, che si rivolgono all'uomo e alla sua paternità.

Il paradigma biblico della "donna" culmina nella maternità della Madre di Dio. Le parole del Protoevangelo: "Porro inimicizia tra te e la donna" trovano qui una nuova conferma. Ecco che Dio in lei, nel suo "fiat" materno ("Avvenga di me"), dà inizio ad una nuova alleanza con l'umanità. E' questa l'alleanza eterna e definitiva in Cristo, nel suo corpo e sangue, nella sua croce e risurrezione.

Proprio perché questa alleanza deve compiersi "nella came e nel sangue" il suo inizio è nella genitrice. Il "Figlio dell'Altissimo" solamente grazie a lei e al suo verginale e materno "fiat" può dire al Padre: "Un corpo mi hai preparato. Ecco io vengo per fare, o Dio la tua volontà" (
He 10,5 He 10,7).

Nell'ordine dell'alleanza, che Dio ha stretto con l'uomo in Gesù Cristo, è stata introdotta la maternità della donna. E ogni volta, tutte le volte che la maternità della donna si ripete nella storia umana sulla terra, rimane ormai sempre in relazione all'alleanza che Dio ha stabilito col genere umano mediante la maternità della Madre di Dio.

Questa realtà non è forse dimostrata dalla risposta che Gesù dà al grido di quella donna in mezzo alla folla, che lo benediceva per la maternità della sua Genitrice: "Beato il grembo che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte"? Gesù rispose: "Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano" (Lc 11,27-28). Gesù conferma il senso della maternità in riferimento al corpo; nello stesso tempo, pero, ne indica un senso ancor più profondo, che si collega all'ordine dello spirito: essa è segno dell'alleanza con Dio che "è spirito" (Jn 4,24). Tale è soprattutto la maternità della Madre di Dio. Anche la maternità di ogni donna, intesa alla luce del Vangelo, non è solo "della carne e del sangue": in essa si esprime il profondo "ascolto della Parola del Dio vivo" e la disponibilità a "custodire" questa Parola, che è "parola di vita eterna" (cfr. Jn 6,68). Sono, infatti, proprio i nati dalle madri terrene, i figli e le figlie del genere umano, a ricevere dal Figlio di Dio il potere di diventare "figli di Dio" (Jn 1,12). La dimensione della nuova alleanza nel sangue di Cristo penetra l'umano generare rendendolo realtà e compito di "creature nuove" (2Co 5,17). La maternità della donna, dal punto di vista della storia di ogni uomo, è la prima soglia, il cui superamento condiziona anche "la rivelazione dei figli di Dio" (cfr. Rm 8,19).

"La donna quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell'afflizione, per la gioia che è venuto al mondo un uomo" (Jn 16,21). L parole di Cristo si riferiscono, nella loro prima parte, a quei "dolori del parto" che appartengono al retaggio del peccato originale; nello stesso tempo, pero, indicano il legame che la maternità della donna ha col mistero pasquale. In questo mistero, infatti, è contenuto anche il dolore della Madre sotto la croce - della Madre che mediante la fede partecipa allo sconvolgente mistero della "spogliazione" del proprio Figlio.

"E' questa forse la più profonda "kénosi" della fede nella storia dell'umanità" (RMA 18).

Contemplando questa Madre, alla quale "una spada ha trafitto il cuore" (Lc 2,35), il pensiero si volge a tutte le donne sofferenti nel mondo, sofferenti in senso sia fisico che morale. In questa sofferenza ha una parte la sensibilità propria della donna; anche se essa spesso sa resistere alla sofferenza più dell'uomo. E' difficile enumerare queste sofferenze, è difficile chiamarle tutte per nome: si possono ricordare la premura materna per i figli, specialmente quando sono ammalati o prendono una cattiva strada, la morte delle persone più care, la solitudine delle madri dimenticate dai figli adulti o quella delle vedove, le sofferenze delle donne che da sole lottano per sopravvivere e delle donne che hanno subito un torto o vengono sfruttate. Ci sono, infine, le sofferenze delle coscienze a causa del peccato, che ha colpito la dignità umana o materna della donna, le ferite delle coscienze che non si rimarginano facilmente. Anche con queste sofferenze bisogna porsi sotto la croce di Cristo.

Ma le parole del Vangelo sulla donna che prova afflizione, quando per lei giunge l'ora di dare alla luce il figlio, esprimono subito dopo la gioia: e "la gioia che è venuto al mondo un uomo". Ed anch'essa è riferita al mistero pasquale, ossia a quella gioia che viene comunicata agli apostoli il giorno della risurrezione di Cristo: "così anche voi, ora, siete nella tristezza" (queste parole furono pronunciate il giorno prima della passione); "ma vi vedro di nuovo, e il vostro cuore si rallegrerà, e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia" (Jn 16,22-23).

La verginità per il regno

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20. Nell'insegnamento di Cristo la maternità è collegata alla verginità, ma è anche distinta da essa. Al riguardo, rimane fondamentale la frase detta da Gesù ed inserita nel colloquio sull'indissolubilità del matrimonio. Sentita la risposta data ai farisei, i discepoli dicono a Cristo: "Se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi" (
Mt 19,10). Indipendentemente dal senso che quel "non conviene" aveva allora nella mente dei discepoli, Cristo prende lo spunto dalla loro errata opinione per istruirli sul valore del celibato: egli distingue il celibato per effetto di deficienze naturali, anche se causate dall'uomo, dal "celibato per il regno dei cieli". Cristo dice: "E vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli" (Mt 19,12). Si tratta, dunque, di un celibato libero, scelto a motivo del regno dei cieli, in considerazione della vocazione escatologica dell'uomo all'unione con Dio. Egli poi aggiunge: "Chi può capire, capisca", e queste parole sono una ripresa di ciò che aveva detto all'inizio del discorso sul celibato (cfr. Mt 19,11). Pertanto il celibato per il regno dei cieli è il frutto non solo di una libera scelta da parte dell'uomo, ma anche di una speciale grazia da parte di Dio, che chiama una determinata persona a vivere il celibato. Se questo è un segno speciale del regno di Dio che deve venire, nello stesso tempo serve a dedicare in modo esclusivo tutte le energie dell'anima e del corpo, durante la vita temporale, per il regno escatologico.

Le parole di Gesù sono la risposta alla domanda dei discepoli. Esse sono rivolte direttamente a coloro che ponevano la domanda: in questo caso erano uomini. Nondimeno, la risposta di Cristo, in se stessa, ha valore sia per gli uomini che per le donne. In questo contesto essa indica l'ideale evangelico della verginità, ideale che costituisce una chiara "novità" in rapporto alla tradizione dell'antico testamento. Questa tradizione certamente si collegava in qualche modo anche con l'attesa di Israele, e specialmente della donna di Israele, per la venuta del Messia, che doveva essere della "stirpe della donna". In effetti l'ideale del celibato e della verginità per una maggiore vicinanza a Dio non era del tutto alieno in certi ambienti giudaici, soprattutto nei tempi immediatamente precedenti alla venuta di Gesù. Tuttavia il celibato per il regno, ossia la verginità, è una novità innegabile connessa con l'incarnazione di Dio.

Dal momento della venuta di Cristo l'attesa del Popolo di Dio deve volgersi verso il regno escatologico che viene e nel quale egli stesso deve introdurre "il nuovo Israele". Per una simile svolta e cambiamento di valori, infatti, è indispensabile una nuova consapevolezza della fede. Ciò Cristo sottolinea due volte: "Chi può capire, capisca". Ciò comprendono solo "coloro ai quali e stato concesso" (cfr. Mt 19,11). Maria è la prima persona nella quale si è manifestata questa nuova consapevolezza, poiché chiede all'angelo: "Come avverrà questo? Non conosco uomo" (Lc 1,34). Anche se è "promessa sposa di un uomo, chiamato Giuseppe" (Lc 1,27), ella è ferma nel proposito della verginità, e la maternità che in lei si compie proviene esclusivamente dalla "potenza dell'Altissimo", è frutto della discesa dello Spirito Santo su di lei (cfr. Lc 1,35). Questa maternità divina, dunque, è la risposta del tutto imprevedibile all'attesa umana della donna in Israele: essa giunge a Maria come dono di Dio stesso.

Questo dono è divenuto l'inizio e il prototipo di una nuova attesa di tutti gli uomini a misura dell'eterna alleanza, a misura della nuova e definitiva promessa di Dio: segno della speranza escatologica.

Sulla base del Vangelo si è sviluppato e approfondito il senso della verginità come vocazione anche per la donna, in cui trova conferma la sua dignità a somiglianza della Vergine di Nazaret. Il Vangelo propone l'ideale della consacrazione della persona, che significa la sua dedizione esclusiva a Dio in virtù dei consigli evangelici, in particolare quelli della castità, povertà ed obbedienza. La loro perfetta incarnazione è Gesù Cristo stesso. Chi desidera seguirlo in modo radicale sceglie di condurre la vita secondo questi consigli.

Essi si distinguono dai comandamenti ed indicano al cristiano la via della radicalità evangelica. Sin dagli inizi del cristianesimo su questa via s'incamminano uomini e donne, dal momento che l'ideale evangelico viene rivolto all'essere umano senza alcuna differenza di sesso.

In questo più ampio contesto occorre considerare la verginità anche come una via per la donna, una via sulla quale, in un modo diverso dal matrimonio, essa realizza la sua personalità di donna. Per comprendere questa via bisogna ancora una volta ricorrere all'idea fondamentale dell'antropologia cristiana. Nella verginità liberamente scelta la donna conferma se stessa come persona, ossia come essere che il Creatore sin dall'inizio ha voluto per se stesso (cfr. GS 24), e contemporaneamente realizza il valore personale della propria femminilità, diventando "un dono sincero" per Dio che si è rivelato in Cristo, un dono per Cristo redentore dell'uomo e sposo delle anime: un dono "sponsale". Non si può comprendere rettamente la verginità, la consacrazione della donna nella verginità, senza far ricorso all'amore sponsale: è, infatti, in un simile amore che la persona diventa un dono per l'altro (cfr. "Allocutiones diebus Mercurii habitae", 7 et 21 apr. 1982: , V, 1 [1982] 1126-1131 et 1175-1179). Del resto analogamente, è da intendere la consacrazione dell'uomo nel celibato sacerdotale oppure nello stato religioso.

La naturale disposizione sponsale della personalità femminile trova una risposta nella verginità così intesa. La donna, chiamata fin dal "principio" ad essere amata e ad amare, trova nella vocazione alla verginità, anzitutto, il Cristo come il redentore che "amo sino alla fine" per mezzo del dono totale di sé, ed essa risponde a questo dono con un "dono sincero" di tutta la sua vita. Ella si dona, dunque, allo sposo divino, e questa sua donazione personale tende all'unione, che ha un carattere propriamente spirituale: mediante l'azione dello Spirito Santo diventa "un solo spirito" con Cristo-sposo (1Co 6,17).

E' questo l'ideale evangelico della verginità, in cui si realizzano in una forma speciale sia la dignità che la vocazione della donna. Nella verginità così intesa si esprime il cosiddetto radicalismo del Vangelo: lasciare tutto e seguire Cristo (cfr. Mt 19,27). Ciò non può esser paragonato al semplice rimanere nubili o celibi, perché la verginità non si restringe al solo "no", ma contiene un profondo "si" nell'ordine sponsale: il donarsi per amore in modo totale ed indiviso.


Mulieris dignitatem 14