Mulieris dignitatem 21

La maternità secondo lo spirito

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21. La verginità nel senso evangelico comporta la rinuncia al matrimonio, e dunque anche alla maternità fisica. Tuttavia, la rinuncia a questo tipo di maternità, che può anche comportare un grande sacrificio per il cuore della donna, apre all'esperienza di una maternità di diverso senso: la maternità "secondo lo spirito" (cfr.
Rm 8,4). La verginità, infatti, non priva la donna delle sue prerogative. La maternità spirituale riveste molteplici forme. Nella vita delle donne consacrate che vivono, ad esempio, secondo il carisma e le regole dei diversi istituti di carattere apostolico, essa si potrà esprimere come sollecitudine per gli uomini, specialmente per i più bisognosi: gli ammalati, i portatori di handicap, gli abbandonati, gli orfani, gli anziani, i bambini, la gioventù, i carcerati e, in genere, gli emarginati. Una donna consacrata ritrova in tal modo lo sposo, diverso e unico in tutti e in ciascuno, secondo le sue stesse parole: "Ogni volte che avete fatto queste cose a uno solo di questi..., l'avete fatto a me" (Mt 25,40). L'amore sponsale comporta sempre una singolare disponibilità ad essere riversato su quanti si trovano nel raggio della sua azione. Nel matrimonio questa disponibilità, pur essendo aperta a tutti, consiste in particolare nell'amore che i genitori donano ai figli. Nella verginità questa disponibilità è aperta a tutti gli uomini, abbracciati dall'amore di Cristo sposo.

In rapporto a Cristo, che è il redentore di tutti e di ciascuno, l'amore sponsale, il cui potenziale materno si nasconde nel cuore della donna-sposa verginale, è anche disposto ad aprirsi a tutti e a ciascuno. Ciò trova una conferma nelle comunità religiose di vita apostolica, ed una diversa conferma in quelle di vita contemplativa o di clausura. Esistono inoltre altre forme di vocazione alla verginità per il regno, come, per esempio, gli istituti secolari oppure le comunità di consacrati che fioriscono all'interno di movimenti, gruppi e associazioni: in tutte queste realtà la stessa verità sulla maternità spirituale delle persone che vivono nella verginità trova una multiforme conferma. Comunque, non si tratta solamente di forme comunitarie, ma anche di forme extra-comunitarie.

In definitiva la verginità, come vocazione della donna, è sempre vocazione di una persona, di una concreta ed irripetibile persona. Dunque, profondamente personale è anche la maternità spirituale che si fa sentire in questa vocazione.

Su questa base si verifica anche uno specifico avvicinamento tra la verginità della donna non sposata e la maternità della donna sposata. Un tale avvicinamento muove non solo dalla maternità verso la verginità, come è stato messo in rilievo sopra, essa muove anche dalla verginità verso il matrimonio, inteso come forma di vocazione della donna in cui questa diventa madre dei figli nati dal suo grembo. Il punto di partenza di questa seconda analogia è il significato delle nozze. La donna, infatti, è "sposata" sia mediante il sacramento del Matrimonio, sia spiritualmente mediante le nozze con Cristo. Nell'uno e nell'altro caso le nozze indicano il "dono sincero della persona" della sposa verso lo sposo. In questo modo - si può dire - il profilo del matrimonio si ritrova spiritualmente nella verginità. E se si tratta della maternità fisica, non deve forse anch'essa essere una maternità spirituale, per rispondere alla verità globale sull'uomo che è un'unità di corpo e di spirito? Esistono, quindi, molte ragioni per scorgere in queste due diverse vie - due diverse vocazioni di vita della donna - una profonda complementarietà e, addirittura, una profonda unione all'interno dell'essere della persona.

"Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore"

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22. Il Vangelo rivela e permette di capire proprio questo modo di essere della persona umana. Il Vangelo aiuta ciascuna donna e ciascun uomo a viverlo e così a realizzarsi. Esiste, infatti, una totale uguaglianza rispetto ai doni dello Spirito Santo, rispetto alle "grandi opere di Dio" (
Ac 2,11). Non solo questo.

Proprio di fronte alle "grandi opere di Dio" l'Apostolo-uomo sente il bisogno di ricorrere a ciò che è per essenza femminile, al fine di esprimere la verità sul proprio servizio apostolico. Proprio così agisce Paolo di Tarso, quando si rivolge ai Galati con le parole: "Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore" (Ga 4,19). Nella prima lettera ai Corinzi (1Co 7,38) l'Apostolo annuncia la superiorità della verginità sul matrimonio, dottrina costante della Chiesa nello spirito delle parole di Cristo, riportate nel Vangelo di Matteo (Mt 19,10-12), senza affatto offuscare l'importanza della maternità fisica e spirituale. Per illustrare la fondamentale missione della Chiesa, egli non trova di meglio che il riferimento alla maternità.

Troviamo un riflesso della stessa analogia - e della stessa verità - nella costituzione dogmatica sulla Chiesa. Maria è la "figura" della Chiesa (cfr. LG 63; S. Ambrosii "In Luc.", II, 7: S. Ch. 45, 74; "De instit. virg.", XIV, 87-89: PL 16, 326-327; S. Cyrilli Alexandrini "Hom.", 4: PG 77, 996; S. Isidori Hispalensis "Allegoriae", 139: PL 83, 117). "Infatti, nel mistero della Chiesa, la quale pure è giustamente chiamata madre e vergine..., Maria è andata innanzi, presentandosi in modo eminente e singolare, quale vergine e quale madre... Diede poi alla luce il Figlio, che Dio ha posto quale primogenito tra i molti fratelli (Rm 8,29), cioè tra i fedeli, alla cui rigenerazione e formazione essa coopera con amore di madre" (LG 63). "Orbene, la Chiesa, la quale contempla l'arcana santità di lei e ne imita la carità e adempie fedelmente la volontà del Padre, per mezzo della Parola di Dio accolta con fedeltà, diventa essa pure madre, poiché con la predicazione e il Battesimo genera a una vita nuova e immortale i figlioli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio" (LG 64). Si tratta qui della maternità "secondo lo spirito" nei riguardi dei figli e delle figlie del genere umano. E una tale maternità - come si è detto - diventa la "parte" della donna anche nella verginità. La Chiesa "pure è vergine, che custodisce integra e pura la fede data allo Sposo" (LG 64). Ciò trova in Maria il più perfetto compimento. La Chiesa, dunque, "ad imitazione della Madre del suo Signore, con la virtù dello Spirito Santo, conserva verginalmente integra la fede, solida la speranza, sincera la carità" (LG 64. Sul rapporto Maria-Chiesa, che ininterrottamente ricorre nella riflessione dei Padri della Chiesa e di tutta la Tradizione cristiana, cfr. "Redmptoris Mater", 42-44 et notae 117-127. Cfr. insuper Clementis Alexandrini "Paed." 1, 6: S. Ch. 70, 186s.; S. Ambrosii "In Luc." II, 7: S. Ch. 45, 74; S. Augustini "Sermo 192", 2: PL 38, 1012; "Sermo 195", 2: PL 38, 1018; "Sermo 25", 5: PL 54, 211; "Sermo 26", 2: PL 54, 213; Bedae Venerabilis "In Luc." I, 2: PL 92, 330. "Ambedue madri- scrive Isacco della Stella, discepolo di S. Bernardo -, ambedue vergini, ambedue concepiscono per opera dello Spirito Santo... Maria... ha generato al corpo il suo capo; la Chiesa... dona a questo capo il suo corpo. L'una e l'altra sono madri del Cristo: ma nessuna delle due lo genera tutto intero senza l'altra. perciò giustamente... quel che è detto in generale della vergine madre Chiesa s'intende singolarmente della vergine madre Maria; e quel che si dice in modo speciale della vergine madre Maria va riferito in generale alla vergine madre Chiesa; e quanto si dice di una delle due può essere inteso indifferentemente dell'una e dell'altra". ["Sermo 51", 7-8: S. Ch. 339, 202-205]).

Il Concilio ha confermato che, se non si ricorre alla Madre di Dio, non è possibile comprendere il mistero della Chiesa, la sua realtà, la sua essenziale vitalità. Indirettamente troviamo qui il riferimento al paradigma biblico della "donna", quale si delinea chiaramente già nella descrizione del "principio" (cfr. Gn 3,15) e lungo il percorso che va dalla creazione, attraverso il peccato, fino alla redenzione. In questo modo si conferma la profonda unione tra ciò che è umano e ciò che costituisce l'economia divina della salvezza nella storia dell'uomo. La Bibbia ci convince del fatto che non si può avere un'adeguata ermeneutica dell'uomo, ossia di ciò che è "umano", senza un adeguato ricorso a ciò che è "femminile". Analogamente avviene nell'economia salvifica di Dio: se vogliamo comprenderla pienamente in rapporto a tutta la storia dell'uomo, non possiamo tralasciare, nell'ottica della nostra fede, il mistero della "donna": vergine-madre-sposa.

VII. La Chiesa-sposa di Cristo

Il "grande mistero"

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23. Un'importanza fondamentale hanno al riguardo le parole della lettera agli Efesini: "E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell'acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno, infatti, ha preso mai in odio la propria carne; al contrario, la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo, l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna, e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!" (
Ep 5,25-32).

In questa lettera l'autore esprime la verità sulla Chiesa come sposa di Cristo, indicando altresi come questa verità si radica nella realtà biblica della creazione dell'uomo maschio e femmina. Creati a immagine e somiglianza di Dio come "unità dei due", entrambi sono stati chiamati ad un amore di carattere sponsale.

Si può anche dire che, seguendo la descrizione della creazione nel libro della Genesi (Gn 2,18-24), questa chiamata fondamentale si manifesta insieme con la creazione della donna e viene iscritta dal Creatore nell'istituzione del matrimonio, che, secondo Genesi (Gn 2,24), sin dall'inizio possiede il carattere di unione delle persone ("communio personarum"). Anche se non direttamente la stessa descrizione del "principio" (cfr. Gn 2,24) indica che tutto l'"ethos" dei reciproci rapporti tra l'uomo e la donna deve corrispondere alla verità personale del loro essere.

Tutto questo è già stato considerato precedentemente. Il testo della lettera agli Efesini conferma ancora una volta la suddetta verità, e nello stesso tempo paragona il carattere sponsale dell'amore tra l'uomo e la donna al mistero di Cristo e della Chiesa. Cristo è lo sposo della Chiesa, la Chiesa è la sposa di Cristo. Questa analogia non è senza precedenti: essa trasferisce nel nuovo testamento ciò che già era contenuto nell'antico testamento, in particolare, presso i profeti Osea, Geremia, Ezechiele, Isaia (cfr., ex. gr., "Os 1,2;2,16-18; Jr 2,2 Ez 16,8 Is 50,1;54,5-8"). I rispettivi passi meritano una analisi a parte. Riportiamo almeno un testo. Ecco come Dio parla al suo popolo eletto per mezzo del profeta: "Non temere, perché non dovrai più arrossire; non vergognarti, perché non sarai più disonorata; anzi, dimenticherai la vergogna della tua giovinezza e non ricorderai più il disonore della tua vedovanza. Poiché tuo sposo è il tuo Creatore, Signore degli eserciti è il suo nome; tuo redentore è il Santo di Israele, è chiamato Dio di tutta la terra ... Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? Dice il tuo Dio. Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti riprendero con immenso amore. In un impeto di collera ti ho nascosto per un poco il mio volto; ma con affetto perenne ho avuto pietà di te, dice il tuo redentore, il Signore... Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace" (Is 54,4-8 Is 54,10).

Se l'essere umano - uomo o donna - è stato creato a immagine e somiglianza di Dio, Dio può parlare di sé per bocca del profeta servendosi del linguaggio che è per essenza umano: nel citato testo di Isaia, "umana" è l'espressione dell'amore di Dio, ma l'amore stesso è divino. Essendo amore di Dio, esso ha un carattere sponsale propriamente divino, anche se espresso con l'analogia dell'amore dell'uomo verso la donna. Questa donna-sposa è Israele, in quanto popolo eletto da Dio, e questa elezione ha la sua fonte esclusivamente nell'amore gratuito di Dio. Proprio con questo amore si spiega l'alleanza, presentata spesso come l'alleanza matrimoniale, che Dio sempre nuovamente stringe col suo popolo eletto. Essa è da parte di Dio "un impegno" duraturo: egli rimane fedele al suo amore sponsale, anche se la sposa più volte si è dimostrata infedele.

Questa immagine dell'amore sponsale insieme alla figura dello sposo divino - un'immagine molto chiara nei testi profetici - trova conferma e coronamento nella lettera agli Efesini (Ep 5,23-32). Cristo è salutato come sposo da Giovanni Battista (cfr. Jn 3,27-29): anzi, Cristo stesso applica a sé questo paragone attinto dai profeti (cfr. Mc 2,19-20). L'apostolo Paolo, che porta in sé tutto il patrimonio dell'antico testamento, scrive ai Corinzi: "Io, provo, infatti, per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo" (2Co 11,2). L'espressione più piena, pero, della verità sull'amore di Cristo redentore, secondo l'analogia dell'amore sponsale del matrimonio, si trova nella lettera agli Efesini: "Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei" (Ep 5,25), ed in ciò riceve piena conferma il fatto che la Chiesa è la sposa di Cristo: "Tuo redentore è il Santo d'Israele" (Is 54,5). Nel testo paolino l'analogia della relazione sponsale va contemporaneamente in due direzioni, che compongono l'insieme del "grande mistero" ("sacramentum magnum"). L'alleanza propria degli sposi "spiega" il carattere sponsale dell'unione di Cristo con la Chiesa; ed a sua volta questa unione, come "grande sacramento", decide della sacramentalità del matrimonio quale alleanza santa dei due sposi, uomo e donna. Leggendo questo passo, ricco e complesso, che è nell'insieme una grande analogia, dobbiamo distinguere ciò che in esso esprime la realtà umana dei rapporti interpersonali da ciò che esprime con linguaggio simbolico il "grande mistero" divino.

La "novità" evangelica

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24. Il testo è rivolto agli sposi come a donne e uomini concreti e ricorda loro l'"ethos" dell'amore sponsale che risale all'istituzione divina del matrimonio sin dal "principio". Alla verità di questa istituzione risponde l'esortazione "Voi, mariti, amate le vostre mogli", amatele a motivo di quello speciale e unico legame mediante il quale l'uomo e la donna diventano nel matrimonio "una carne sola" (
Gn 2,24 Ep 5,31). Si ha in questo amore una fondamentale affermazione della donna come persona, un'affermazione grazie alla quale la personalità femminile può pienamente svilupparsi ed arricchirsi. Proprio così agisce Cristo come sposo della Chiesa, desiderando che essa sia "gloriosa, senza macchia né ruga" (Ep 5,27). Si può dire che i qui sia pienamente assunto quanto costituisce lo "stile" di Cristo nel trattare la donna. Il marito dovrebbe far propri gli elementi di questo stile nei riguardi della moglie: e, analogamente, dovrebbe fare l'uomo nei riguardi della donna, in ogni situazione. così tutt'e due, uomo e donna, attuano il "dono sincero di sé"! L'autore della lettera agli Efesini non vede alcuna contraddizione tra un'esortazione così formulata e la costatazione che "le mogli siano sottomesse ai loro mariti come al Signore; il marito, infatti, è capo della moglie" (Ep 5,22-23). L'autore sa che questa impostazione, tanto profondamente radicata nel costume e nella tradizione religiosa del tempo, deve essere intesa e attuata in un modo nuovo: come una "sottomissione reciproca nel timore di Cristo" (Ep 5,21); tanto più che il marito è detto "capo" della moglie come Cristo è capo della Chiesa, e lo è al fine di dare "se stesso per lei" (Ep 5,25) e dare se stesso per lei è dare perfino la propria vita. Ma, mentre nella relazione Cristo-Chiesa la sottomissione è solo della Chiesa, nella relazione marito-moglie la "sottomissione" non è unilaterale, bensi reciproca! In rapporto all'"antico" questo è evidentemente "nuovo": è la novità evangelica. Incontriamo diversi passi in cui gli scritti apostolici esprimono questa novità, sebbene in essi si faccia pure sentire ciò che è "antico", ciò che è radicato anche nella tradizione religiosa di Israele, nel suo modo di comprendere e di spiegare i sacri testi, come, ad esempio, quello di Genesi (Gn 2 cfr. Col 3,18 1Th 3,1-6 Tt 2,4-5 Ep 5,22-24 1Co 11,3-16;14,33-35; 1Tm 2,11-15).

Le lettere apostoliche sono indirizzate a persone che vivono in un ambiente che ha lo stesso modo di pensare e di agire. La "novità" di Cristo è un fatto: essa costituisce l'inequivocabile contenuto del messaggio evangelico ed è frutto della redenzione. Nello stesso tempo, pero, la consapevolezza che nel matrimonio c'è la reciproca "sottomissione dei coniugi nel timore di Cristo", e non soltanto quella della moglie al marito, deve farsi strada nei cuori, nelle coscienze, nel comportamento, nei costumi. E' questo un appello che non cessa di urgere, da allora, le generazioni che si succedono, un appello che gli uomini devono accogliere sempre di nuovo. L'Apostolo scrisse non solo: "In Gesù Cristo... non c'è più uomo né donna", ma anche: "Non c'è più schiavo né libero". E tuttavia, quante generazioni ci sono volute perché un tale principio si realizzasse nella storia dell'umanità con l'abolizione dell'istituto della schiavitù! E che cosa dire delle tante forme di schiavitù, alle quali sono soggetti uomini e popoli, non ancora scomparse dalla scena della storia? La sfida, pero, dell'"ethos" della redenzione è chiara e definitiva.

Tutte le ragioni in favore della "sottomissione" della donna all'uomo nel matrimonio debbono essere interpretate nel senso di una "reciproca sottomissione" di ambedue "nel timore di Cristo". La misura del vero amore sponsale trova la sua sorgente più profonda in Cristo, che è lo sposo della Chiesa, sua sposa.

La dimensione simbolica del "grande mistero"

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25. Nel testo della lettera agli Efesini incontriamo una seconda dimensione dell'analogia che, nel suo insieme, deve servire alla rivelazione del "grande mistero". E' questa una dimensione simbolica. Se l'amore di Dio verso l'uomo, verso il popolo eletto, Israele, viene presentato dai profeti come l'amore dello sposo per la sposa, una tale analogia esprime la qualità "sponsale" e il carattere divino e non umano dell'amore di Dio: "Tuo sposo è il tuo Creatore..., è chiamato Dio di tutta la terra" (
Is 54,5). Lo stesso si dica anche dell'amore sponsale di Cristo redentore: "Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito" (Jn 3,16). Si tratta, dunque, dell'amore di Dio espresso mediante la redenzione, operata da Cristo. Secondo la lettera paolina questo amore è "simile" all'amore sponsale dei coniugi umani, ma naturalmente non è "eguale". L'analogia, infatti, implica insieme una somiglianza, lasciando un margine adeguato di non-somiglianza. E' facile rilevarlo, se consideriamo la figura della "sposa". Secondo la lettera agli Efesini la sposa è la Chiesa, così come per i profeti la sposa era Israele: dunque, è un soggetto collettivo, e non una persona singola. Questo soggetto collettivo è il Popolo di Dio, ossia una comunità composta da molte persone, sia donne che uomini. "Cristo ha amato la Chiesa" proprio come comunità, come Popolo di Dio e, nello stesso tempo, in questa Chiesa, che nel medesimo passo è chiamata anche suo "corpo" (cfr. Ep 5,23), egli ha amato ogni singola persona.

Infatti, Cristo ha redento tutti senza eccezione, ogni uomo e ogni donna. Nella redenzione si esprime proprio questo amore di Dio e giunge a compimento nella storia dell'uomo e del mondo il carattere sponsale di tale amore.

Cristo è entrato in questa storia e vi rimane come lo sposo che "ha dato se stesso". "Dare" vuol dire "diventare un dono sincero" nel modo più completo e radicale: "Nessuno ha un amore più grande di questo" (Jn 15,13). In tale concezione, per mezzo della Chiesa, tutti gli esseri umani - sia donne che uomini - sono chiamati ad essere la "sposa" di Cristo, redentore del mondo. In questo modo "essere sposa", e dunque il "femminile", diventa simbolo di tutto l'"umano", secondo le parole di Paolo: "Non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Ga 3,28).

Dal punto di vista linguistico si può dire che l'analogia dell'amore sponsale secondo la lettera agli Efesini riporta ciò che è "maschile" a ciò che è "femminile", dato che, come membri della Chiesa, anche gli uomini sono compresi nel concetto di "sposa". E ciò non può meravigliare, poiché l'Apostolo, per esprimere la sua missione in Cristo e nella Chiesa, parla dei "figlioli che partorisce nel dolore" (cfr. Ga 4,19). Nell'ambito di ciò che è "umano", di ciò che è umanamente personale, la "mascolinità" e la "femminilità" si distinguono e nello stesso tempo si completano e si spiegano a vicenda. Ciò è presente anche nella grande analogia della "sposa" nella lettera agli Efesini. Nella Chiesa ogni essere umano - maschio e femmina - è la "sposa", in quanto accoglie in dono l'amore di Cristo redentore, come pure in quanto cerca di rispondere col dono della propria persona.

Cristo è lo sposo. Si esprime in questo la verità sull'amore di Dio che "ha amato per primo" (cfr. 1Jn 4,19) e che col dono generato da questo amore sponsale per l'uomo ha superato tutte le attese umane: "Amo sino alla fine" (Jn 13,1). Lo sposo - il Figlio consostanziale al Padre in quanto Dio - è divenuto Figlio di Maria, "Figlio dell'uomo", vero uomo, maschio. Il simbolo dello sposo è di genere maschile. In questo simbolo maschile è raffigurato il carattere umano dell'amore in cui Dio ha espresso il suo amore divino per Israele, per la Chiesa, per tutti gli uomini. Meditando quanto i Vangeli dicono circa l'atteggiamento di Cristo verso le donne, possiamo concludere che come uomo, figlio di Israele, rivelo la dignità delle "figlie di Abramo" (cfr. Lc 13,16), la dignità posseduta dalla donna sin dal "principio" al pari dell'uomo. E nello stesso tempo Cristo mise in rilievo tutta l'originalità che distingue la donna dall'uomo, tutta la ricchezza ad essa elargita nel mistero della creazione. Nell'atteggiamento di Cristo verso la donna si trova realizzato in modo esemplare ciò che il testo della lettera agli Efesini esprime col concetto di "sposo". Proprio perché l'amore divino di Cristo è amore di sposo, esso è il paradigma e l'esemplare di ogni amore umano, in particolare dell'amore degli uomini-maschi.

L'Eucaristia

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26. Sull'ampio sfondo del "grande mistero", che si esprime nel rapporto sponsale tra Cristo e la Chiesa, è possibile anche comprendere in modo adeguato il fatto della chiamata dei "dodici". Chiamando solo uomini come suoi apostoli, Cristo ha agito in un modo del tutto libero e sovrano. Ciò ha fatto con la stessa libertà con cui, in tutto il suo comportamento, ha messo in rilievo la dignità e la vocazione della donna, senza conformarsi al costume prevalente e alla tradizione sancita anche dalla legislazione del tempo. Pertanto, l'ipotesi che egli abbia chiamato come apostoli degli uomini, seguendo la mentalità diffusa ai suoi tempi, non corrisponde affatto al modo di agire di Cristo. "Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità..., perché non guardi in faccia ad alcuno" (
Mt 22,16). Queste parole caratterizzano pienamente il comportamento di Gesù di Nazaret. In questo si trova anche una spiegazione per la chiamata dei "dodici". Essi sono con Cristo durante l'ultima cena; essi soli ricevono il mandato sacramentale: "Fate questo in memoria di me" (Lc 22,19 1Co 11,24), collegato all'istituzione dell'Eucaristia. Essi, la sera del giorno della risurrezione, ricevono lo Spirito Santo per perdonare i peccati: "A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi" (Jn 20,23).

Ci troviamo al centro stesso del mistero pasquale, che rivela fino in fondo l'amore sponsale di Dio. Cristo è lo sposo perché "ha dato se stesso": il suo corpo è stato "dato", il suo sangue è stato "versato" (cfr. Lc 22,19-20). In questo modo "amo sino alla fine" (Jn 13,1). Il "dono sincero", contenuto nel sacrificio della croce, fa risaltare in modo definitivo il senso sponsale dell'amore di Dio. Cristo è lo sposo della Chiesa, come Rl edentore del mondo. L'Eucaristia è il sacramento della nostra redenzione. E' il sacramento dello sposo, della sposa. L'Eucaristia rende presente e in modo sacramentale realizza di nuovo l'atto redentore di Cristo, che "crea" la Chiesa suo corpo. Con questo "corpo" Cristo è unito come lo sposo con la sposa. Tutto questo è contenuto nella lettera agli Efesini. Nel "grande mistero" di Cristo e della Chiesa viene introdotta la perenne "unità dei due", costituita sin dal "principio" tra uomo e donna.

Se Cristo, istituendo l'Eucaristia, l'ha collegata in modo così esplicito al servizio sacerdotale degli apostoli, è lecito pensare che in tal modo egli voleva esprimere la relazione tra uomo e donna, tra ciò che è "femminile" e ciò che è "maschile", voluta da Dio, sia nel mistero della creazione che in quello della redenzione. Prima di tutto nell'Eucaristia si esprime in modo sacramentale l'atto redentore di Cristo sposo nei riguardi della Chiesa sposa. Ciò diventa trasparente ed univoco, quando il servizio sacramentale dell'Eucaristia, in cui il sacerdote agisce "in persona Christi", viene compiuto dall'uomo. E' una spiegazione che conferma l'insegnamento della dichiarazione "Inter Insigniores", pubblicata per incarico di Paolo VI per rispondere all'interrogativo circa la questione dell'ammissione delle donne al servizio ministeriale (cfr. S. Congr. pro Doctrina Fidei "Declaratio Inter Insigniores" circa quaestionem admissionis mulierum ad sacerdotium ministeriale, die 15 oct. 1976: AAS 69 [1977] 98-116).

Il dono della sposa

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27. Il Concilio Vaticano II ha rinnovato nella Chiesa la coscienza dell'universalità del sacerdozio. Nella nuova alleanza c'è un solo sacrificio e un solo sacerdote: Cristo. Di questo unico sacerdozio partecipano tutti i battezzati, sia uomini che donne, in quanto devono "offrire se stessi come vittima viva, santa, a Dio gradita" (cfr.
Rm 12,1), dare in ogni luogo testimonianza di Cristo e, a chi la richieda, rendere ragione della loro speranza della vita eterna (cfr. 1P 3,15, LG 10). La partecipazione universale al sacrificio di Cristo, in cui il Redentore ha offerto al Padre il mondo intero, e, in particolare, l'umanità, fa si che tutti nella Chiesa siano "un regno di sacerdoti" (Ap 5,10 cfr. 1P 2,9), partecipino cioè non solo alla missione sacerdotale, ma anche a quella profetica e regale di Cristo Messia. Questa partecipazione determina, inoltre, l'unione organica della Chiesa, come Popolo di Dio, con Cristo. In essa si esprime nel contempo il "grande mistero" della lettera agli Efesini: la sposa unita al suo sposo; unita, perché vive la sua vita; unita, perché partecipa della sua triplice missione ("tria munera Christi"); unita in una maniera tale da rispondere con un "dono sincero" di sé all'ineffabiile dono dell'amore dello sposo, redentore del mondo. Ciò riguarda tutti nella Chiesa, le donne come gli uomini, e riguarda ovviamente anche coloro che sono partecipi del "sacerdozio ministeriale" (cfr. 1P 2,10), che possiede il carattere di servizio.

Nell'ambito del "grande mistero" di Cristo e della Chiesa tutti sono chiamati a rispondere - come una sposa - col dono della loro vita all'ineffabile dono dell'amore di Cristo, che solo, come redentore del mondo, è lo sposo della Chiesa.

Nel "sacerdozio regale", che è universale, si esprime contemporaneamente il dono della sposa.

Ciò è di fondamentale importanza per comprendere la Chiesa nella sua propria essenza, evitando di trasferire alla Chiesa - anche nel suo essere un'"istituzione" composta di essen umani ed inserita nella storia - criteri di comprensione e di giudizio che non riguardano la sua natura. Anche se la Chiesa possiede una struttura "gerarchica" (cfr. 1P 2,18-19), tuttavia tale struttura è totalmente ordinata alla santità delle membra di Cristo. La santità poi si misura secondo il "grande mistero", in cui la sposa risponde col dono dell'amore al dono dello sposo, e questo fa "nello Spirito Santo", poiché "l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato" (Rm 5,5). Il Concilio Vaticano II, confermando l'insegnamento di tutta la Tradizione, ha ricordato che nella gerarchia della santità proprio la "donna", Maria di Nazaret, è "figura" della Chiesa. Ella "precede" tutti sulla via verso la santità; nella sua persona "la Chiesa ha già raggiunto la perfezione, con la quale esiste immacolata e senza macchia (cfr. Ep 5,27, LG 65 cfr. quoque LG 63 cfr. RMA 2-6). In questo senso si può dire che la Chiesa è insieme "mariana" ed "apostolico-petrina" ("Questo profilo mariano è altrettanto - se non lo è di più - fondamentale e caratterizzante per la Chiesa quanto il profilo apostolico e petrino, al quale è profondamente unito... La dimensione mariana della Chiesa antecede quella petrina, pur essendole strettamente unita e complementare. Maria, l'Immacolata, precede ogni altro, e, ovviamente, lo stesso Pietro e gli apostoli: non solo perché Pietro e gli apostoli, provenendo dalla massa del genere umano che nasce sotto il peccato, fanno parte della Chiesa "sancta ex peccatoribus", ma anche perché il loro triplice "munus" non mira ad altro che a formare la Chiesa in quell'ideale di santità, che già è preformato e prefigurato in Maria. Come bene ha detto un teologo contemporaneo, "Maria è Regina degli apostoli, senza pretendere per sé i poteri apostolici. Essa ha altro e di più" [H. U. von Balthasar "Neue Klarstellungen", trad. it., Milano 1980, p.181]". "Allocutio ad Patres Cardinales Romanaeque Curiae Praelatos", 3, die 22 dec. 1987: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, X, 3 [1987] 1484).

Nella storia della Chiesa sin dai primi tempi c'erano - accanto agli uomini - numerose donne, per le quali la risposta della sposa all'amore redentore dello sposo assumeva piena forza espressiva. Come prime vediamo quelle donne, che personalmente avevano incontrato Cristo, l'avevano seguito e, dopo la sua dipartita, insieme con gli apostoli "erano assidue nella preghiera" nel cenacolo di Gerusalemme sino al giorno di Pentecoste. In quel giorno lo Spirito Santo parlo per mezzo di "figli e figlie" del Popolo di Dio, compiendo l'annuncio del profeta Gioele (cfr. Ac 2,17). Quelle donne, ed in seguito altre ancora, ebbero parte attiva ed importante nella vita della Chiesa primitiva, nell'edificare sin dalle fondamenta la prima comunità cristiana - e le comunità successive - mediante i propri carismi e il loro multiforme servizio. Gli scritti apostolici annotano i loro nomi, come Febe, "diaconessa di Cencre" (Rm 16,1), Prisca col marito Aquila (cfr. 2Tm 4,19), Evodia e Sintiche (cfr. Ph 4,2), Maria, Trifena, Perside, Trifosa (cfr. Rm 16,6 Rm 16,12). L'Apostolo parla delle loro "fatiche" per Cristo, e queste indicano i vari campi del servizio apostolico della Chiesa, iniziando dalla "Chiesa domestica". In essa, infatti, la "fede schietta" passa dalla madre nei figli e nei nipoti, come appunto si verifico nella casa di Timoteo (cfr. 2Tm 1,5).

Lo stesso si ripete nel corso dei secoli, di generazione in generazione, come dimostra la storia della Chiesa. La Chiesa, infatti, difendendo la dignità della donna e la sua vocazione, ha espresso onore e gratitudine per coloro che - fedeli al Vangelo - in ogni tempo hanno partecipato alla missione apostolica di tutto il Popolo di Dio. Si tratta di sante martiri, di vergini, di madri di famiglia, che coraggiosamente hanno testimoniato la loro fede ed educando i propri figli nello spirito del Vangelo hanno trasmesso la fede e la Tradizione della Chiesa.

In ogni epoca e in ogni paese troviamo numerose donne "perfette" (Pr 31,10), che - nonostante persecuzioni, difficoltà e discriminazioni - hanno partecipato alla missione della Chiesa. Basta menzionare qui Monica, la madre di Agostino, Macrina, Olga di Kiev, Matilde di Toscana, Edvige di Slesia ed Edvige di Cracovia, Elisabetta di Turingia, Brigida di Svezia, Giovanna d'Arco, Rosa di Lima, Elisabeth Seton e Mary Ward.

La testimonianza e le opere di donne cristiane hanno avuto significativa incidenza sulla vita della Chiesa, come anche su quella della società. Anche in presenza di gravi discriminazioni sociali le donne sante hanno agito in "modo libero", fortificate dalla loro unione con Cristo. Una simile unione e libertà radicata in Dio spiegano, ad esempio, la grande opera di santa Caterina da Siena nella vita della Chiesa e di santa Teresa di Gesù in quella monastica.

Anche ai nostri giorni la Chiesa non cessa di arricchirsi della testimonianza delle numerose donne che realizzano la loro vocazione alla santità.

Le donne sante sono una incarnazione dell'ideale femminile, ma sono anche un modello per tutti i cristiani, un modello di "sequela Christi", un esempio di come la sposa deve rispondere con l'amore all'amore dello sposo.

Mulieris dignitatem 21