B. Paolo VI Omelie 40465

I Domenica di Passione, 4 aprile 1965: SANTA MESSA NELLA CHIESA ROMANA DI NOSTRA SIGNORA DI GUADALUPE

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Ora lo spirito e il cuore di tutti sono chiamati a meditare alquanto, e in raccoglimento, il brano del santo Vangelo testé letto.

È una pagina grave e triste. Narra, infatti, lo scontro fra Gesù e il popolo ebraico. Quel popolo, predestinato a ricevere il Messia, che Lo aspettava da migliaia di anni ed era completamente assorto in questa speranza e in questa certezza, al momento giusto, quando, cioè, il Cristo viene, parla e si manifesta, non solo non lo riconosce, ma lo combatte, lo calunnia ed ingiuria; e, infine, lo ucciderà.

Con la presente Domenica noi entriamo nel periodo liturgico della Passione, che ci prepara ai santi Misteri Pasquali: siamo invitati dalla Chiesa a meditare sulle sofferenze, fino alla morte, di Gesù e quindi sulla sua resurrezione. Quando, il prossimo Venerdì Santo, rivedremo Gesù, il Figlio di Dio vivo, - il nostro Redentore, l’Amico degli uomini; il più amabile, il più santo - crocifisso, noi ci chiederemo il motivo di tale patibolo e di così atroci tormenti.

Perché Gesù è stato confitto in croce? Che aveva egli fatto di male? Ora il Vangelo, proprio per le labbra di Gesù, ripete, la medesima domanda: «Quis ex vobis arguet me de peccato?»: che cosa mi potete addebitare o rinfacciare; che cosa ho io mai fatto per vedervi tutti ostili? È perché non ascoltate la parola di verità.

La Chiesa desidera che i fedeli considerino questi inizi della Passione del Signore: vuole che ne conoscano le cause, le radici, l’origine psicologica, all’interno delle anime. Di là incomincia l’avversione a Cristo e il moto che arriva sino a crocifiggere il Signore. Questo ripensamento è salutare, perché ci predispone a meglio comprendere il dramma del Calvario.

E così, oggi, noi che cosa diremo? Osserveremo che questo fatto, all’apparenza assurdo ed impensabile, di Gesù, Figlio di Dio, venuto al mondo e non riconosciuto né accettato, bensì avversato ed ucciso, si ripete, si prolunga: è una realtà storica con un seguito: arriva sino a noi.

Dobbiamo chiederci perché il Signore trovi, pure oggi, tanti nemici. Che cosa ha Egli fatto di male all’umanità, se tanta parte gli si volge contro, sino al punto che taluni ritengono di fare bene scagliandosi avverso al Cristianesimo, che ha profuso tesori di giustizia, pace, liberazione, santità: doni mirabili che Gesù ha portato con Sé

Perché il Vangelo, dopo venti secoli dacché è predicato, non suscita l’amicizia del mondo, l’accoglienza facile, spontanea e gioiosa? La trova, sì, in non poche anime, in voi certamente; ma quel fatto merita d’essere da noi esaminato e ben conosciuto. È il dramma dell’innocenza calunniata ed uccisa; è l’urto fra il bene ed il male. Gesù ha voluto oggi confermare in Se stesso la parola, con cui lo aveva definito il Precursore Giovanni: è l’Agnello di Dio, cioè la Vittima, che prende sopra di Sé i peccati del mondo. E ancora noi ci chiediamo perché.

Tra le molte scuse, ne indicheremo una sola: la udiamo dalle labbra di Gesù nelle ore dell’agonia sulla croce. È il momento in cui la bontà di Cristo si effonde in una maniera sublime, si da raggiungere vette impensabili. Che cosa Egli dice dalla croce? Condanna forse quelli che lo hanno inchiodato sul patibolo? Ne desidera la rovina? Gesù parla col Padre celeste, e così prega: Signore, perdona loro, poiché non sanno quello che fanno!

Non sanno . . . La stessa cosa si ripete. Noi scorgeremo nel dramma del cristianesimo, nello stesso dramma di Cristo che trova inimicizie, opposizioni ed ostilità nel mondo, un fenomeno di ignoranza, cioè di non conoscenza. Non sanno quello che fanno coloro che non vogliono accogliere Cristo o si ribellano a Lui.

Vorrei, figliuoli miei, lasciarvi, come ricordo di questo incontro, di questa mia visita alla vostra parrocchia, una raccomandazione: cercate di conoscere meglio il Signore; cercate di avere in voi un’ informazione onesta e precisa sul Messaggio di Cristo; su questa nostra Religione, nei confronti della quale si incontrano sovente atteggiamenti tanto contrari, addirittura spaventosi.

Per quale ragione? Perché, sotto sotto, alligna un peccato di ignoranza, c’è incoscienza, dimenticanza, superficialità, accecamento nelle anime. Guardiamoci da questi mali. Io vorrei che tutti voi, tutti noi, fossimo solleciti di conoscere meglio il Signore e che la parola del Vangelo or ora letta - nella quale si afferma che i buoni ascoltano la parola di Dio - fosse il ricordo di questo mio incontro. Voglia, cioè, ciascuno di voi, rendersi conto del grande impegno di ascoltare la parola del Signore. È il dovere più ovvio e primordiale, come se si dicesse; aprite gli occhi e guardate la luce del sole. Ciò è indispensabile per la nostra vita temporale e fisica: se uno resta cieco, quali giornate può avere?

Ebbene, anche nella vita dello spirito, in quella concernente i nostri destini presenti e futuri, noi abbiamo bisogno di aprire gli occhi; o meglio, di ascoltare, di ascoltare sempre la voce del Signore.

Essa risuona in tante maniere. O nel segreto delle coscienze, o per bocca di chi la espone quando predica il Vangelo, ovvero nei libri che la riportano e che la offrono alla nostra meditazione. Ma procurino tutti - se vogliono essere cristiani e, direi di più, se intendono rimanere nella nostra civiltà maturata dal cristianesimo, se vogliono essere coerenti con la nostra tradizione, se tengono ad essere uomini intelligenti - di conoscere Cristo. E conoscendo Cristo, figliuoli, si potrà magari provare come un tumulto di pensieri e forse di problemi nella coscienza; ci si potrà sentire forse come da Lui stesso rimproverati, e avvertire una specie di insofferenza verso Chi viene ad accusarci e a toglierci la nostra miserabile pace umana; ma poi succederà, luminoso, un grande conforto: e potremo esclamare: o Signore, Tu solo hai parole di vita eterna! Tu sei il nostro Salvatore! Tu la luce del mondo!

Mi pare che venendo io fra voi si ripeta, a venti secoli di distanza, quanto operò il primo Apostolo, di cui sono umilissimo ed ultimo Successore: San Pietro. Egli esortava, appunto, nella sua prima Lettera: Affrettatevi a conoscere il Signore; guardate che il Signore può essere come una pietra, la quale per alcuni è d’inciampo, di scandalo, e conseguente rovina; per altri, invece, è la pietra angolare, su cui erigono l’edificio della loro esistenza.

Questo stesso messaggio riporto a voi. Esso è sempre vivo, attuale, autentico, come allora; e decide dei destini delle nostre singole persone e dell’intera collettività sociale. O accettiamo Cristo, e saremo salvi; o non lo riconosciamo, e allora dove andrà, quale sarà la sorte della nostra vita?

Bisogna accettare Cristo e costituirlo quale fondamento, base, principio della nostra esistenza. Gesù entra misteriosamente, ma trionfalmente nelle nostre anime, nelle nostre vite. Entrerà dolce e buono, amico e maestro; noi certo sentiremo ch’Egli diventa il padrone del nostro essere; ma Egli viene per salvarci e consolarci, per dirci le parole che rischiarano i misteri di questo nostro oscuro e doloroso pellegrinaggio terreno.

Figliuoli miei, non disprezzate questa umile voce che vi parla e accettatela davvero come l’eco non del mio pensiero e della mia anima, bensì come la voce medesima di Cristo, perché sono suo Vicario, perché sono mandato da Lui, perché sono messaggero del suo verbo e della sua parola. È necessario credere in Cristo, avere la fede in Cristo. Dobbiamo accettare un Signore e Maestro così amabile e adorabile; introdurlo nel giro dei nostri pensieri e dei nostri affari, dei nostri avvenimenti. Occorre farne il centro delle nostre sollecitudini, preoccupazioni, speranze.

Non temete, non temete Cristo; non abbiate paura di Lui; non siate restii a conoscerlo. Sentite, al contrario, il grande, dolce dovere di studiarlo e accoglierne i precetti. Sarete, dapprima, abbagliati dalla sua luce; e poi resi felici, infinitamente, dalla sua bontà e dalla sua salvezza.




Domenica, 11 aprile 1965: II DOMENICA DI PASSIONE O DELLE PALME

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Siamo presi da due timori, il primo è di parlare, quasi venissimo a sminuire l’impressione che, certamente, il racconto sacro e tragico della Passione, ora ascoltato, ha recato nelle anime vostre, ben riflettendo quale urto di fatti e di sentimenti è in questo racconto; l’altro timore è che, se tacessimo, lasceremmo sfuggire il significato delle presenti rievocazioni e di mirabili pagine del Vangelo.

Dobbiamo, però invitare le anime nostre a impossessarsi di questo racconto; a ricordarlo, a meditarlo, a introdurlo nel circolo dei nostri pensieri; ed a coglierne qualche cosa, una, anzitutto: dalla Passione di Cristo dipende il nostro ultimo fine, la nostra salvezza.

Ci limiteremo a menzionare gli elementi, di cui si compone il rito solenne che stiamo compiendo. Esso ha due parti.

La prima riguarda le Palme: e cioè il trionfo messianico di Cristo. Voi avete in mano i rami di olivo e di palma; li agitate, quasi per rievocare e ripetere l’avvenimento che allora dichiarò chi era Gesù. In quel giorno gli fu attribuito il nome che è diventato suo: Cristo, che vuoi dire Messia, Re, l’unto e il Consacrato da Dio; e che è poi il nome nostro, poiché ci chiamiamo cristiani.

Proprio in quel giorno, in quel concorso di popolo, Gesù lasciò che fossero cantate e conosciute la sua personalità e la sua missione, e gli venisse debitamente attribuito il completo, grande titolo: ecco il Cristo, ecco il Messia!

Per comprendere quell’ora evangelica, occorrerebbe adesso guardare, quasi in sintesi, il contesto storico in cui quel momento si innesta; e riflettere come una speranza millenaria stava attuandosi, al termine predisposto da Dio. Quel popolo aveva aspettato per secoli chi l’avrebbe condotto, guidato, chi l’avrebbe personificato e gli avrebbe dato gloria e pienezza di vita. Nell’attesa, aveva sperimentato vicissitudini senza numero, progressi, cadute, vittorie, eventi politici, profezie; ma il grande pensiero direttivo del popolo ebraico, specialmente dopo l’esilio da Gerusalemme, era stato questo punto proiettato nel futuro: l’avvento di Colui che ci salverà; è il Messia, l‘Inviato da Dio, il nostro Re, il Figlio di Davide. Orbene la speranza, nel corso della discesa di Gesù dal Monte Oliveto verso la Città Santa, si palesa realtà. E considerate, figliuoli, voi giovani specialmente, come ciò avvenne.

Fu il popolo che Lo riconobbe; furono i ragazzi, i fanciulli a gridare osanna al Figlio di Davide. D’improvviso la scintilla accese la fiamma, il fuoco divampò in tutta quella moltitudine, inducendola a dare, finalmente, una risposta a un attuale interrogativo: quel Gesù di Nazareth, il quale aveva predicato per tre anni lungo le vie della Galilea e della Giudea; quel Gesù, - che mostrava tanta potenza e tanta umiltà, e del quale si ignorava il nome, pur cercandosi di indovinare, si che lo ritenevano uno dei famosi personaggi: quali Elia, Geremia, il Battista od altro profeta -, chi mai sarà?

Ebbene, nel radioso mattino, la coscienza del popolo ha il grande intuito della realtà: è il Cristo; è Lui: il centro della storia. Da Lui dipendono i destini nostri; Egli è l’Aspettato, il nostro Re, Colui che rende felici le nostre anime. Fu tale l’esplosione, che Gesù ne pianse. Ed essa ebbe tale intensità che i dissenzienti quasi invocarono la stessa autorità di Cristo, perché facesse tacere quel popolo. E invece Gesù, che aveva sempre cercato di velare la sua personalità, considerò propizio quel momento perché essa si manifestasse, e rispose : Se non parlassero in questo momento le lingue degli uomini, le pietre parlerebbero e proclamerebbero ciò che costoro stanno acclamando ed osannando: cioè la messianità del Cristo, il suo carattere di Inviato da Dio, la sua missione salvatrice.

Questa è la prima fase liturgica della presente Domenica; simboleggiata dalle Palme, dalla processione, dalla letizia, che la pervade, con una nota di misticismo, diffuso dall’oriente all’occidente.

Nella seconda parte è la Santa Messa caratterizzata dalla lettura, poco fa udita, della Passione del Signore. A differenza della prima essa è improntata da mestizia, da un profondo senso di commozione e di tragedia. La liturgia si fa, d’improvviso, triste e grave: e la Croce, che in questi giorni è stata coperta - e lo sarà ancora, dopo questa cerimonia, per farci pensare al mistero espresso da sì alto emblema di dolore e di redenzione -, la Croce, eccola qui: dinanzi a noi. È visibile; è offerta a tutti, perché tutti abbiamo a fissare il nostro pensiero, i sentimenti, l’anima sul ricordo solenne, doloroso, pio e commovente della morte di Nostro Signore Gesù Cristo.

Come si connettono le due memorie, le due cerimonie? La prima, festante, riconosce in Gesù il trionfatore della storia, il centro del genere umano, Colui che segna le ore del tempo e dei secoli; la seconda parte sembra, al contrario, tutta negativa, luttuosa, funebre, parlandoci, essa, del processo a Gesù, della sua condanna, riprovazione e crocifissione; degli scherni da Lui subiti; del suo annientamento sino alla morte. Come perciò si congiungono i due ricordi? Il modo c’è: benché si tratti di una lezione difficile, che Gesù stesso volle già spiegare ai suoi discepoli, senza che, allora, questi la comprendessero.

Quel Cristo che la speranza del popolo attendeva quale condottiero trionfante, dispensatore di glorie e potenza, di ricchezza e felicità, quel Cristo, invece, doveva venire nel dolore, nella umiliazione, nella morte. E la misteriosa contraddizione si rinnova e si perpetua. Infatti, ogniqualvolta noi aspettiamo una eredità di elevazione e di prestigio da Cristo, Egli ci lascia delusi e ci si mostra ancora con le sue braccia distese, le mani inchiodate e il capo chino del morente e del morto.

Che cosa vuol dire ciò? Qui deve concentrarsi il nostro pensiero, se vuole comprendere il senso della Grande Settimana, delle odierne cerimonie e delle altre che seguiranno. Vuol dire che dobbiamo collocare i nostri aneliti, la nostra sorte, i nostri veri bisogni, la nostra speranza non nel mondo presente, bensì nell’altro, in quello eterno; non nella supremazia temporale e materiale, esteriore, ma in assai diverso trionfo, quello conseguito da Gesù con la sua morte di croce; portando, cioè, a noi un sacrificio.

Si rifletta al valore di questa parola. Sacrificio vuol dire che uno muore per un altro, si immola per il prossimo. Gesù è morto per noi. Il Signore ci ha salvati con l’estrema dedizione di Sé, nel suo dolore incommensurabile, nella sua oblazione libera e totale. Diciamo la grande parola: Gesù ci ha salvato nell’amore! Gesù ci ha salvato con il dono di Sé per noi; e così ci ha liberato dai veri mali incombenti sulla nostra vita: il peccato e la sua conseguenza, la morte.

Questa, dunque, è l’essenza della storia, della filosofia, e della saggezza umana. Se noi vogliamo comprendere bene la nostra vita e l’indirizzo che sempre intendiamo imprimerle, dobbiamo guardare a Cristo: Egli è il Re, il sovrano della storia, il centro di ogni aspirazione e la meta dell’uomo. Egli consegue il suo trionfo nel dare quanto ha: il sangue, l’onore, la sua libertà, la sua vita per noi. Gesù ci ha salvato nel dolore e nell’amore.

Figliuoli, lasciamoci impressionare da queste altissime verità. Incominciamo a comprendere le scene che il racconto evangelico e le cerimonie liturgiche rievocano davanti alle nostre anime. Lasciamoci commuovere, si, commuovere. C’è molto bisogno proprio di scuotere i nostri sentimenti stagnanti, opachi, tetri, incapaci di vibrare dinanzi a queste supreme lezioni, che riguardano la storia e le finalità stabilite per l’uomo. Ripensiamoci e facciamo in modo che le parole di San Paolo, testé rilette nell’Epistola odierna, entrino nelle nostre anime e le governino.

Sentite cioè nelle vostre anime ciò che Gesù Cristo senti in Sé medesimo. Che da Lui passi a noi il fluido, la corrente dei suoi sentimenti per trasformare ed accendere i nostri! Gesù ci ha amato; ha offerto la sua vita per noi: ciascuno di noi è debitore a Lui d’una salvezza per cui è occorso il prezzo del suo Sangue. Gesù si è avvicinato a noi con la dedizione più completa e più generosa. E noi non possiamo rimanere inerti, figli carissimi, non dobbiamo più oltre comportarci come insensibili, refrattari, nemici. Curviamo, invece, la fronte e col centurione - il quale, dopo aver confitto in croce Gesù, quando lo vide morto, lo confessò - ripetiamo: «Veramente Costui era Figlio di Dio!».




Giovedì Santo, 15 aprile 1965: SANTA MESSA IN COENA DOMINI

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Venerati Confratelli,

Figli diletti!

Ora scenda il silenzio nei nostri spiriti, e grande raccoglimento ci renda capaci di ascoltare la voce stessa di Cristo. Viene a noi da lontano, dalla notte ultima della vita temporale di Lui, come un saluto estremo a chi gli è discepolo e seguace, come un testamento che sempre deve durare, come un precetto che il tempo non deve consumare, ma compiere. Ciò che Egli disse e ora noi ascoltiamo è un memoriale, una parola ch'Egli volle non fosse mai più dimenticata per tutto l'intervallo di anni e di secoli, che intercede da quel momento, da Lui intensamente desiderato (
Lc 22,15) come epilogo d'una storia uscente dalla penombra di un significato figurativo, e come principio d'un'epoca nuova caratterizzata da un realismo soprannaturale, il regno di Dio, ma anch'esso tuttora espresso in simboli ed in enigmi, comprensibili solo alla fede, e preludio d'una futura luminosa e meravigliosa palingenesi escatologica, fino al momento in cui Gesù, visibile e trionfante, al termine della storia, ritornerà: donec veniat; finché Egli non venga (1Co 11,26).

Preghiamo, affinché non solo l'eco, ma la virtù di quella parola sia da noi accolta, con la trepidazione e con la confidenza degli umili. Preghiamo, affinché la parola pasquale di Cristo sia così viva ed operante nelle nostre anime da farle partecipi ai misteri che Egli in essa racchiuse non soltanto perché ne rimanesse perenne ricordo, ma perché ne derivasse in noi comunione. Preghiamo, affinché la fortuna d'essere noi uditori di quella parola divina semplice e misteriosa, non ci trovi distratti e sordi, non dubbiosi e renitenti, non indolenti e soddisfatti, ma pronti ad accoglierla, a viverla, ad annunciarla a nostra volta come un segreto di rinascita e d'immortalità. E preghiamo, affinché ascoltata ed accolta qui, in questa Chiesa centrale di tutte le Chiese, quella parola a tutte le Chiese si irradi con fraterna e felice franchezza, e da tutte le Chiese in comunione con questa qua ritorni con eco fedele e corale, e dica a noi, dica al mondo: Cristo vivo è con noi.

Ecco: la voce, quella voce di Lui, Noi la ripeteremo tra poco compiendo questo santissimo rito, suona così: "Prendete e mangiate, questo è il mio corpo, che sarà immolato per voi; fate questo in ricordo mio. . . Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, e quante volte ne beviate fatelo in mia memoria" (1Co 11,24-25).

Come sono brevi, come sono dense, come sono semplici, come sono profonde queste parole! Vorremmo subito renderci conto del loro significato immediato: sono parole trasformatrici; vorremmo renderci conto del loro significato intenzionale: sono parole conviviali, che invitano alla cena del Signore, per la quale Egli ha preparato alimento sorprendente, quasi sconcertante: il suo corpo, il suo sangue, Lui stesso cioè; ma che cosa vuol dire un convito in cui tale cibo e tale bevanda sono offerti, tale presenza è realizzata, se non la oblazione d'una vittima, d'un sacrificio? Ma come è possibile farci un concetto almeno simbolico di così inaudita realtà? Il Signore sembra risponderci: fermate lo sguardo alle apparenze sensibili, alle specie sacramentali, cui tuttora lascio rivestire i nuovi misteri che io vi ho posti davanti; e mediante queste apparenze, pane e vino, sollevate a valore di segni, cercate, cercate di qualche cosa comprendere, e di molto sapere, di molto adorare, di molto credere, di molto amare (cfr. S. Th. III 61,1).

Fratelli e Figli e Fedeli e uomini tutti! A questo punto si pronuncia una crisi. Noi non comprendiamo più con la nostra sola ragione. Noi vorremmo comprendere! Ma il discorso di Cristo, così limpido e piano, a chi vi pensa si è fatto duro. "Durus est hic sermo" (Jn 6,60). Avviene una ribellione interiore nello spirito umano. Allora ecco chi se ne va scuotendo il capo, e tutto geloso di conservare la sua rispettabile, ma piccola dignità, la sua preziosa, ma modesta razionalità; ma uscendo dal cenacolo del banchetto eucaristico sacrificale non si avvede, e se ne accorgerà poi, di camminare nella notte. È più buio fuori, che dentro. "Erat autem nox" (Jn 13,30).

Altri lotta e cerca di vincere mediante facili raffronti del racconto scritturale con le leggende fantastiche dei misteri antichi del paganesimo; vano e punto scientifico sfoggio di erudizione, che fa di se stesso velo alla rivelazione evangelica. E vi è chi cerca di ridurre la pienezza della parola divina: si tratta d'una semplice cena rituale, ovvero si tratta non d'una presenza reale, ma solo simbolica; o anche d'un'elevazione di cose familiari a significati superiori. Il mistero, nel senso della oscurità a comprendere, così rimane e cresce; il mistero nel senso della realtà divina presente e nascosta, così si dilegua. E si dilegua e svanisce la parola di Cristo.

La sua parola divina, la sua parola onnipotente. La sua parola amica, che a noi domanda un'offerta sola, uno sforzo nostro, d'intelligenza non umiliata, ma docile, d'intelligenza vigilante e amorosa; domanda la fede. Chi crede nella parola di Cristo raggiunge la realtà di Cristo. Chi accetta la sua verità, avrà la propria salvezza. La crisi che dicevamo, solo si risolve in un sincero e intelligente atto di fede.

E noi, questa sera, celebrando questo rito, sacro e soave fra tutti, veramente umano e divino, siamo invitati a emettere questo atto decisivo davanti al "mysterium fidei" per eccellenza; a rinnovare il nostro atto di fede. Quell'atto di fede che lascia entrare, come da finestra aperta, la luce della parola di Cristo nelle nostre anime, e porta in noi, foriera della sua presenza reale e sacramentale, la sua presenza concettuale e spirituale. Quell'atto di fede, che riassume le nostre regali facoltà di conoscere e di volere, di sentire e di esprimere, la nostra personalità, e ne fa omaggio a Lui, il Maestro, il Signore, il Salvatore. Quell'atto di fede, che rende il nostro pensiero ed il nostro cuore di uomini di questo secolo ribelle e spregiudicato, ma sempre derivato dai secoli che lo precedono, solidale e coerente con la storia del Cristianesimo, con la Tradizione che ci affratella ai Santi e ai Maestri ed ai figli del Popolo di Dio, che ci precedettero e nel sonno della pace attendono, in virtù del Pane dell'immortalità di cui si nutrirono, il risveglio nel secolo eterno. Quell'atto di fede che ci distingue, si, da quei Fratelli, che ancora non lo sanno con noi pronunciare, ma che ci rende altrettanto amorosi al Cristo vivo e vero, che portiamo con noi, quanto amorosi e solleciti di condividere con loro tanta fortuna, tanta pace, tanta felicità.

Quell'atto di fede, che ci consente in questa veglia benedetta, di celebrare insieme la Pasqua di nostro Signore Gesù Cristo, e di saperlo, con ineffabile certezza, di sentirlo quasi, sotto la convergenza di tanti segni eloquenti e di tante significative esperienze, di sentirlo qui, con noi, e di udire ancora la sua voce amplissima e dolcissima: "Ecce vobiscum sum; ecco Io sono con voi" (Mt 28,20).




Venerdì Santo, 16 aprile 1965: «VIA CRUCIS» AL COLOSSEO

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Il Santo Padre si rivolge agli ascoltatori, chiamandoli - per tutti comprendere nel suo colloquio - fratelli, figli carissimi, pellegrini e visitatori presenti al sacro rito.

E anzitutto un augurio cordiale: che il Signore ricolmi delle sue grazie e dei suoi favori quanti hanno seguito il cammino della Croce e condiviso meditazioni e preci di questa singolare cerimonia.


GESÙ IL PRIMO DEI SOFFERENTI

Ora il Papa desidera concluderla con un pensiero e con una preghiera.

Quanto al primo, Egli lo enuncia e lo spiega. Quale relazione esiste fra il dolore di Cristo e il dolore umano; fra la sua Passione e le sofferenze dell’umanità? La Passione di Cristo si innesta soltanto come un numero nell’infinita serie dei dolori umani, ovvero esiste un rapporto con questi dolori?

Bisogna ricordare che Gesù è il Figlio dell’uomo: si è chiamato e definito Egli stesso così. È il Primogenito di tutta l’umanità, il nuovo Adamo, come lo indica San Paolo; è il Re spirituale del mondo e delle anime; vale a dire che ogni uomo, ogni vita hanno un nesso con Lui. Gesù è in relazione con ogni creatura, e quindi Gesù è in rapporto con chiunque soffre. E lo è, anzi, con una particolare, complessa intenzione. Innanzitutto perché è il primo dei sofferenti. Se la sofferenza è pari alla sensibilità fisica, può esservi sensibilità maggiore, più squisita e più vulnerabile di quella di Cristo? Chi mai ha sudato sangue; chi mai ha preveduto la propria Passione; chi l’ha assorbita come un calice sino in fondo, come Lui? E se lo spirituale soffrire è proporzionato alla coscienza che uno ha della propria dignità, quale non dovette essere quella di Cristo! In una parola, Gesù porta il primato del dolore, e non soltanto, perciò, Egli è al centro di questo regno desolato della sofferenza umana, e la fa sua. Lo ha detto esplicitamente. Allorché sarò sollevato in alto, «omnia traham ad meipsum», io attrarrò ogni cosa a me. Gesù polarizza verso di Se ogni dolore umano; e non solo perché è Colui che ha sofferto in maggior grado e per maggiore ingiustizia, ma anche perché - entriamo nei misteri della psicologia di Cristo e della teologia della Redenzione - ha immensa simpatia, compassione, comunione con quelli che patiscono. Tutte le volte che voi farete del bene, ha detto il Signore, ad uno di questi minorati, miseri, affamati, di questi poveri e languenti - Gesù si nasconde dietro quel volto umano - l’avrete fatto a Me. E quando l’aveste negato ad uno di questi miseri, a Me lo avreste rifiutato. E cioè: l’umanità sofferente diviene un simbolo, un segno, un sacramento umano, il quale nasconde la presenza mistica, misteriosa di Gesù.


LA VIRTÙ REDENTRICE TRASFUSA NEL DOLORE UMANO

Gesù è in ogni sofferente. Che questi lo sappia o no, Gesù sicuramente c’è. E c’è pure - altro capitolo ineffabile di questa analisi della storia e dei destini umani - non soltanto per condividere, elevare e lenire i patimenti, ma per associarli ai propri, per attribuire ad essi la medesima virtù di redenzione che la Croce, la sua Croce, ebbe per il mondo. San Paolo ci dichiara ancora: Io compio nella mia carne ciò che manca alla Passione di Cristo: vale a dire che a noi viene comunicata la virtù redentrice della sofferenza di Cristo. Occorrerà un contatto spontaneo per questo, bisognerà volere, amare: ed è una realtà che la virtù redentrice di Cristo può trasfondersi in ogni tormento dell’uomo. Ora se noi ci siamo innalzati a considerare il panorama del regno del dolore, dove Cristo domina e dove distende le sue grazie ed i suoi aiuti, siamo quasi presi dalla curiosità di classificare questa umanità che soffre. E sarebbe ed è compito di tanta pietà, sapienza e penetrazione delle cose terrene e delle cose divine.

PREGHIERA PER QUANTI VERSANO NELLA TRIBOLAZIONE

E qui - continua Sua Santità - sospendiamo il nostro pensiero per far seguire la nostra preghiera conclusiva di questo pio esercizio. Guardando alla grande molteplicità delle angosce umane, il nostro occhio si ferma su una prima categoria di sofferenti, che quasi ci aumenta la ripugnanza e il mistero del dolore.

Gli innocenti

Alludiamo al dolore innocente. Chi non l’ha visto nei poveri bambini che portano forse l’eredità di mancanze paterne e materne? Chi non ha visto tante malattie ed infelicità non meritate, non previste, che non hanno una spiegazione? Eppure l’hanno: proprio il dolore innocente è il più prezioso. Cristo era il perfetto innocente. Se non fosse stato tale, non avrebbe avuto la forza, la potenza, il carisma di redenzione da Lui posseduti. Era l’Agnello,di Dio, la Vittima, e perciò ha potuto salvare il mondo. Allora tutto questo dolore innocente ci viene in profonda simpatia e grandissima pietà. Sono gli agnelli di Dio; sono forse quelli che ancora espiano e tolgono i peccati del mondo, senza saperlo. Ma il Signore, che tutto conosce, trae dal soffrire degli innocenti un prezzo che non chiederebbe ad altri cuori e ad altre esistenze.

I peccatori

C’è, poi, una seconda categoria di dolore, opposta alla prima: il dolore colpevole, quello che ci procuriamo da noi, che andiamo costruendo con le lotte, gli odi, gli egoismi; con le guerre diventate oramai un insulto alla storia degli uomini e al progresso, alla libertà e maturità del genere umano. C’è ancora chi crede a tale soluzione, e con quanta arte, con quanto impiego di forze, di ingegno, di denaro e di vite, per creare altri affanni sulla terra! Sono affanni che vengono come sanzioni delle nostre colpe, dei nostri peccati. Ora, anche per questi la Passione di Cristo apre la Sua infinita misericordia. Non c’è peccato che non possa essere perdonato dal Signore. Uno solo sfuggirebbe alla virtù della sua clemenza, e sarebbe quello della disperazione: il poter non dire più «Padre nostro . . .» - uno scrittore lo rileva - è la più grande infelicità quaggiù.

Il mondo del lavoro

Il nostro sguardo si volge ancora ad ulteriori sofferenze, a quelle comuni, della vita quotidiana, della famiglia, delle esistenze pesanti, povere, stentate; ci soffermiamo, in modo speciale, sulle sofferenze del mondo del lavoro. Chi lo conosce, sa che cosa è la fatica umana ancor oggi; sa che cosa è la mancanza di riconoscimenti terrestri adeguati, che cosa è l’insicurtà e l’insufficienza del pane, che cosa la fiamma che il nostro tempo ha fatto divampare nell’intimo del lavoratore: desideri immensi che lo fanno soffrire e alcune volte lo incattiviscono, mentre, per sé, il lavoro dovrebbe rendere nobile, forte e lieto chi lo compie. Preghiamo, preghiamo, affinché il Signore anche qui effonda la sua rugiada di bontà e di consolazione, attenuando tutte le asperità inerenti al nostro passaggio sulla terra.

I perseguitati

Altra sofferenza ancora. Incombe nei paesi dove i nostri fratelli di fede non possono concedersi spettacoli come quello a cui noi partecipiamo questa sera. Colà è minacciata la fede; è derisa, è oppressa; non c’è libertà di espressione, di associazione; la coscienza è intimidita da continue minacce e pericoli. Vorremmo che questi diletti fedeli, - se mai a loro giungesse la Nostra voce - sapessero che noi preghiamo per loro; condividiamo e conosciamo i loro spasimi, e vorremmo infondere, proprio per l’onore delle nazioni a cui appartengono, una speranza di giorni migliori.

I nostri defunti

E infine rivolgiamo lo sguardo al dolore che ha varcato i confini del tempo, al dolore dei nostri defunti, che è originato da una tensione divenuta estremamente cosciente, di desiderare la felicità in Dio e di non poterla presto conseguire: questo è il Purgatorio. Per tali care anime il Signore, che, appena morto, è disceso a dare ai trapassati l’annuncio della Redenzione, salga la nostra supplica al Cielo, porti loro refrigerio e, a Dio piacendo, la visione beatifica.

Dunque, a tutti, - conclude l’Augusto Pontefice - a tutti quelli che soffrono nello spirito, nel corpo; a tutti coloro che hanno le stimmate di Gesù nella loro persona, giunga il conforto di Cristo, il grande Paziente, il grande Consolatore, il grande Redentore, mediante la Nostra Benedizione Apostolica.




17 aprile 1965: VEGLIA PASQUALE

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Prima di procedere al rinnovo delle Promesse Battesimali, il Santo Padre desidera rivolgere a tutti gli astanti una breve parola di riflessione e di gioia intorno a un punto centrale del sacro Rito, che richiama il pensiero e i propositi.

Anzitutto Egli saluta i numerosi pellegrini venuti dall'estero e presenti in Basilica, nelle lingue: francese, inglese, tedesca e spagnuola. Quindi prosegue in italiano.

La nota dominante - riassumiamo i concetti di Sua Santità -della Liturgia, così complessa, alta e ricca, della Veglia Pasquale, vero poema di teologia e di spiritualità, è data da un fatto ricorrente e sempre nuovo. Come in ogni altra sacra manifestazione, si verifica il congiungimento di due poli: il divino e l'umano. E qui - lo abbiamo testé accolto nel Preconio Pasquale, l'Exsultet - se viene ribadito che "terrenis caelestia, humanis divina junguntur", è per mettere in evidenza che l'interesse, a un certo punto, più che soffermarsi sul Cristo, il protagonista, il centro benedetto d'ogni atto liturgico, si effonde sopra il popolo umano, sul mondo creato.

Si potrebbe, con un paragone, spiegare questo sorprendente fenomeno. Chi è abbagliato da un potente faro di luce, quale è il Lumen Christi, poco fa acclamato, resta come sbalordito e incapace di rifissare lo sguardo su tanto splendore. Si rende conto, invece, della potenza di esso, soffermandosi su le cose che lo circondano, prendendo conoscenza di quanto gli sta intorno.

Ripensa, perciò, in questa Vigilia, al canto delle profezie, alla benedizione del fuoco, del cero, dell'acqua; e vede che il cosmo intero partecipa a una festa, in cui la storia umana trova il suo fulcro. Soprattutto avverte che la prima conseguenza della Resurrezione di Cristo sta nella resurrezione dell'uomo, nella partecipazione dell'intera umanità a così ineguagliabile vittoria.

In che modo la Liturgia Pasquale presenta tale realtà? Lo sappiamo: con il riferimento principe al Santo Battesimo. Tutti i particolari della sacra Azione, che stiamo compiendo e vivendo, fanno corona al Battesimo. Questo Sacramento, - ce lo assicura precipuamente San Paolo - rispecchia e riproduce la Resurrezione di Cristo in noi. Significa la nuova vita dopo la morte. Il Battesimo è il Sacramento pasquale per eccellenza.

Due sono le forze - ecco i poli, a cui si accennava poc'anzi che lo attuano e ne procurano i sublimi effetti. L=una, eccelsa, potentissima, quella divina, la sola che dà la grazia e il potere redentore; l=altra, misera, vacillante, ma indispensabile, più condizione che causa, la nostra volontà.

Insieme, dunque: la volontà di Dio salvatrice; la nostra, che accetta e risponde. Qui è il punto su cui deve fermarsi la nostra attenzione e azione. Il Battesimo ha due aspetti, due coefficienti, giacché è un fatto divino e un fatto umano. Da una parte la grazia; dall'altra la promessa. Cosi la vita del cristiano è un impegno fondamentale e decisivo. Essa introduce in noi uno stile; ci rigenera; ci fa rinascere in Dio. È il principio della nostra resurrezione. Siamo diventati cristiani. Lo siamo realmente? Siamo, cioè, forti, coerenti, veri cristiani? O, invece, siamo dimentichi e deboli? Fino dove arriva il disimpegno dell'uomo moderno di fronte agli obblighi assunti col santo Battesimo. Oltre al male in se steso, è noto come ogni noncuranza e trascuratezza è di scandalo e di cattivo esempio per molti. Ognuno di noi, invece, - ammonisce il Santo Padre - faccia proprio e rafforzi personalmente il Rito pasquale, nel senso di assicurare al Signore, con fermezza e con gioia, che intendiamo essere fedeli e rispondere alla grazia, associandoci alla sua stessa vita.

Se vogliamo davvero rendere leggiero il giogo di Cristo, non useremo certo il mezzo di portarlo male o di scuoterlo dalle nostre spalle. Se lo desideriamo, così come Egli lo ha definito, soave e lieve, e cioè fonte di energia, fiducia, vita, dobbiamo portarlo con lealtà, coerenza, comprensione, vale a dire con tutto il cuore. Gioia pasquale è, dunque, il sentire che l'essere cristiani non è cosa vana, bensì principio di vita nuova e di speranza che non muore.

(Sabato Santo, 17 aprile 1965)





B. Paolo VI Omelie 40465