B. Paolo VI Omelie 18465

18 aprile 1965: DOMENICA DI RISURREZIONE

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Dopo un amabile saluto a Monsignor Vicegerente, ai vescovi Ausiliari del Cardinale Vicario, ai Parroci della zona, all'on. Sindaco, che rappresenta l'intera Città, il Santo Padre dà a tutti il cordialissimo augurio di "Buona Pasqua!", nell'intensità del gaudio cristiano, che tale voto porta con sé.

Sua Santità desidera, quindi, svolgere due punti di necessaria meditazione: il primo concerne l'avvenimento celebrato in questa fondamentale Domenica, il secondo reca una parola di esortazione.

Alla moltitudine dei fedeli, che gli sta dinanzi, Paolo VI narra, nei vari portenti che l'hanno accompagnata, la Resurrezione del Signore, prendendo inizio dal brano del Vangelo del giorno, quello di San Marco, scritto verosimilmente in Roma e sotto la dettatura di San Pietro, del quale Marco era discepolo e segretario.

La rievocazione è viva, sentita, ardente, e suscita intensa letizia negli ascoltatori. Incomincia da quel che avvenne dopo la Crocifissione e la Morte del Signore, con l'affrettata deposizione del Corpo Sacratissimo - doveva effettuarsi prima del tramonto di venerdì - nel sepolcro nuovo appartenente a Giuseppe d'Arimatea. Segue il primo pellegrinaggio delle pie donne - tanto esemplari nella loro devozione verso il Divino Maestro - all'alba della Domenica; l'attonito sguardo al Sepolcro aperto e all'Angelo sfolgorante di luce, che dà il grandioso annuncio; la sollecita corsa di Pietro e di Giovanni, che ricevono la strabiliante conferma; le prime apparizioni di Gesù: ai discepoli di Emmaus e agli Undici nel Cenacolo; l'incontro con Maria Maddalena. Un succedersi di stupende rivelazioni, dirette a rinsaldare sempre più il convincimento, sino allora parziale e dubbioso, di quanti avevano ascoltato Gesù.

Si può affermare che alla sera di quel giorno beato, il più solenne della storia, nacque il sentimento, lo stato d'animo, la certezza che noi chiamiamo la fede.

Dunque è risorto. È vero quanto aveva predetto. Nessuna esitazione, perciò. E' Lui, Gesù, il Messia, il Redentore del mondo! Tale convincimento trasforma, ormai, i seguaci del Risorto da timidi in forti, da discepoli in apostoli. Saranno, domani, i garanti della Resurrezione.

Ed ora la parola esortatrice, che è connessa con l'evento storico. La Resurrezione di Cristo interessa noi? Certissimamente. Noi tutti siamo compresi in quel massimo prodigio e come avvolti dalla sua luce.

E cioè: fra i battezzati, i cristiani e il Cristo esiste un rapporto arcano, ma vivo e vero, che ha mutato sostanzialmente gli esseri umani, e con sommo privilegio li ha introdotti al Mistero della Resurrezione. Col Battesimo il Signore ha infuso in ogni suo seguace il principio, il seme di una nuova vita, la Sua, che ci porterà al Paradiso. Ed ecco il dono incomparabile.

Avviene un reale innesto della vita di Cristo in noi e ci fa entrare nel circuito divino della sua energia e della sua forza. Siamo vivificati da Lui, insieme risuscitati, come dice San Paolo. E perciò: "Si consurrexistis cum Christo, quae sursum sunt quaerite... quae sursum sunt sapite, non quae super terram". Se siete risuscitati con Cristo, cercate le cose dell'alto... gustate le cose supreme, non quelle della terra.

Tale verità sarà confermata, tra breve, in reale pienezza, dalla Comunione Eucaristica. Sentirci, quindi, cristiani cioè appartenenti a Cristo, è insigne risultato della Resurrezione.

Gli abitanti di Acilia hanno, poi, un motivo particolare a tale elevazione; esso riguarda i primordi stessi della loro borgata. Il Santo Padre li conosce e ricorda in ogni particolare: da quando si recò da Lui, nella Segreteria di Stato, durante il 1945, l'ottimo ing. Tito Rebecchini e chiese l'interessamento della Santa Sede per la costruzione d'un apposito villaggio a beneficio dei più poveri tra i nostri fratelli. La provvida idea fu subito ed alacremente assecondata; così, grazie alla carità del Papa, con il concorso del Comune e di persone generose, sorse il nuovo centro urbano denominato "San Francesco".

Quindi - dichiara Paolo VI - se v'è una città cristiana, questa è proprio la vostra, sorta nel nome e con la carità di Cristo. Si ponga mente, ora, al modo con cui la Resurrezione di Cristo interessa ciascun credente in Lui.

Occorre, vivere da cristiani, vale a dire in adesione perfetta all'insegnamento del Signore. Tutti dobbiamo accogliere pienamente il salvifico annuncio di speranza, libertà, dignità, amore da Lui dato al mondo con il suo Vangelo. È necessario, inoltre, capire il riflesso terreno e temporale di tale Messaggio: ed essere ansiosi di attuarlo, segnatamente nei rapporti tra noi, nel volerci bene, nell'aiutarci scambievolmente.

Si deve, infine, imparare da Cristo ad avere il concetto soprannaturale della vita, poiché ogni essere umano nel nome di Cristo diviene sacro. E il Signore lo conferma allorché dichiara di ognuno di noi: questi è il mio fratello.

Pertanto, essendo tutti noi fratelli in Cristo, occorre vedere nel nostro prossimo il riflesso, la dignità, il diritto alla fratellanza: doni del Redentore, il quale ha illuminato il volto umano di Se stesso, con fulgori che risplendono su tutta la terra.

Di conseguenza, è esplicito l'invito del Papa: Figliuoli, siate cristiani, sappiate comprendere, in ogni circostanza, il valore di questa parola. Non vogliate essere cristiani solo per una distinzione anagrafica conseguente al battesimo. Siatelo nella realtà. Questa esige: conoscere bene il Signore, amarlo, pregarlo, specie nei giorni a Lui particolarmente dedicati; dirigere la coscienza secondo la regola da Lui prescritta; rifuggire dalla menzogna, dalla disonestà; uniformare i costumi ai precetti del Decalogo; rispettare ed amare gli altri; concorrere a formare una società migliore, più giusta, più attenta alle necessità umane.

Questo dev'essere il principio informatore della vita. Se sarete buoni cristiani - sia questo il ricordo speciale dell'odierna solennità pasquale - troverete non solo la linea da seguire in questa nostra esistenza, ma tanto conforto nel giorno in cui avrete bisogno di qualcuno che vi rassicuri e vi consoli. Contemplerete, nella vostra anima, il grande cielo aperto su di noi, cioè la speranza, la certezza anzi, di ciò che Gesù ha portato con la sua Resurrezione: la vita eterna.




Venerdì, 23 aprile 1965: INCORONAZIONE DELL’EFFIGIE DELLA MADONNA DI POMPEI

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Basilica Vaticana


Ai cari fedeli della Madonna di Pompei, venuti numerosi con altri di Napoli e della Campania per riprendere la venerata Immagine della Vergine del Rosario e per riportarla nel suo celebre Santuario, al Signor Cardinale Carlo Confalonieri, Presidente della benemerita Commissione cardinalizia, dalla cui autorità dipende quel centro di pietà mariana e di opere benefiche, a Monsignor Aurelio Signora, Nostro zelante Delegato pontificio e Prelato di Pompei, ai Sacerdoti, ai Religiosi e alle Religiose qui presenti, che assistono il Santuario e le istituzioni che gli fanno corona, agli Ecclesiastici e alle persone devote accorse alla celebrazione di questi solenni riti, alle Autorità civili che parimente sono qua intervenute, diamo ora il Nostro deferente e cordiale saluto.

Ci diciamo lieti di codesta venuta: il vostro numero, la vostra disposizione, la vostra premura di rivedere e di riavere il quadro famoso dimostrano un’esemplare ed encomiabile pietà verso Maria Santissima, e attestano quanto la devozione verso la Madonna abbia radice nei vostri cuori e importanza effettiva nella vostra vita. Questo è molto bello; e come ciò fa onore a voi, che Ci offrite la visione di così caro e significativo incontro, così dà a Noi la felice occasione di poter celebrare con figli così pii e sinceri un particolare atto di omaggio alla Vergine del Rosario, e incoraggiare e benedire quanto in sua venerazione è religiosamente e caritatevolmente compiuto nella nuova Pompei.

Ricordi e pensieri sorgono nel Nostro spirito in così singolare circostanza, ma non ne faremo menzione nel breve momento concesso alla Nostra parola; solo avremo un cenno, che Ci sembra doveroso per riconoscenza e per ammirazione, alla memoria del Servo di Dio Bartolo Longo, a cui Pompei deve il suo Santuario, le opere che lo circondano e l’immenso alone di pietà mariana che ne rende famoso nella Chiesa e nel mondo il nome benedetto. Grande memoria, che ci svela arcani e materni disegni della Madonna e ci invita a un perenne risveglio di culto e di fiducia verso la Madre di Cristo. Né possiamo dimenticare il giorno lontano, nell’aprile del 1907, quando Noi fanciullo, con i Nostri piissimi Familiari, visitammo per la prima volta il Santuario di Pompei e pregammo davanti alla sacra Immagine, che ora abbiamo il gaudio di vedere e di venerare davanti a Noi.

Siamo perciò tanto più lieti di restituire al vostro Santuario il quadro benedetto, restaurato dai Monaci Olivetani con grande rispetto e con rara perizia. Voi sapete quanto opportuno fosse tale restauro, attese le condizioni di fatiscenza e di deperimento in cui si trovavano sia il venerato dipinto, sia la tela che lo portava; ora un’arte, che tutti possiamo ammirare, non meno paziente che esperta, ha ridato integrità e freschezza alla sacra Immagine, che nella sua semplice, ma degna e pia composizione, ritornerà ad effondere sulle anime oranti e sulle folle devote, la dolce e attraente impressione della figura materna e regale della Madre di Cristo, assiso sulle ginocchia di Lei, mentre Gesù e Maria offrono ai Santi, prostrati lì presso, Domenico e Caterina, le corone del santo Rosario, quasi per invitarli a farne oggetto di devozione e di fiducia. La pia e popolare corona riappare come catena di salvezza, che pende dalle mani del Salvatore e della sua beatissima Madre, e che indica donde scende a noi ogni grazia, e per dove deve da noi salire ogni speranza.

E Ci commuove il fatto, che ora devotamente compiremo, di dovere Noi stessi, con mani tremanti, rimettere sulle sacre effigie di Gesù e di Maria, le preziose corone, che la vostra pietà e la vostra generosità, servite da arte squisita, vogliono espressione simbolica del sommo onore dovuto a Cristo, e per suo riflesso alla sua santissima Madre. Il mistero dell’Incarnazione ha in questo quadro, come in altri rappresentanti analoga composizione, la sua principale intenzione, e per questo è consentito al nostro culto di fissarsi direttamente sulla Madonna, su Colei che fu eletta a generare Cristo nel mondo e a diventare la Madre di Dio fatto uomo, e spiritualmente la Madre degli uomini sollevati da Cristo all’adozione divina. Quanto, quanto la voce della Chiesa ha annunciato, insegnato, cantato tale mistero! Fra le innumerevoli lodi, salite alla Vergine Madre per tale sua elezione e per tale nostra fortuna, Ci sovviene quella dolcissima dell’inno orientale, detto «Acathistos», rivolto a Maria:

«Come la lampada che porta luce,
apparsa a chi giace nelle tenebre,
noi vediamo la santa Vergine.
Accesa (in lei) l’immateriale luce,
tutti ella guida alla conoscenza divina
illuminando le menti col suo splendore» (XXI).

E lasciando che la sua luce benigna rischiari ora anche i nostri spiriti, possiamo emettere l’augurio che come è stata riparata e decorata l’Immagine della Vergine, che abbiamo davanti, così sia restaurata, rinnovata e arricchita l’immagine che di Maria ogni fedele cristiano deve dentro di sé. Dobbiamo restaurare nei nostri cuori il culto dovuto alla Madonna. Dobbiamo riaccendere in noi la vera, la buona devozione a Maria Santissima, cominciando a far centro della nostra pietà mariana il mistero della sua divina maternità, che in questa sacra pittura ci è ricordato: il mistero, dicevamo, dell’Incarnazione.

Sarà questo il primo, il principale e fondamentale restauro della venerazione specialissima, che il disegno divino della nostra salvezza vuole sia tributato alla piena di grazia, alla benedetta fra tutte le creature, alla «porta del cielo», alla Madre di Dio. Come il restauro di questo quadro mette in limpida evidenza le sembianze della Vergine, così il restauro della nozione che noi abbiamo di Maria ci deve portare ad una più nitida, più vera, più profonda conoscenza di Lei, quale la Sacra Scrittura, la Tradizione, la dottrina dei Santi e dei Maestri della Chiesa ci hanno delicatamente delineata, e quale la recente parola del Concilio Ecumenico ci ha sapientemente riassunta.

Verrà così il restauro del culto che a Maria tributeremo, e che in modo particolare rimetterà nelle nostre mani la corona del santo Rosario, preghiera semplice e profonda, che ci educa a fare di Cristo il principio e il termine non solo della devozione mariana, ma di tutta la nostra vita spirituale. Verrà poi il restauro del nostro proposito di cercare in Maria il modello perfetto d’ogni umana e cristiana virtù, lo «Speculum iustitiae», la maestra e la guida del nostro pellegrinaggio terreno. E verrà insieme il restauro della nostra fiducia nella materna assistenza della Madonna nelle nostre necessità, nelle nostre tribolazioni, nelle nostre aspirazioni: il ricorso alla sua amabile e potente intercessione ci sarà abituale e spontaneo. E finalmente quel senso umano, che viene dalla scuola di Nazareth, quell’amore ai fratelli di cui Cristo ci lasciò esempio e precetto, quella visione della vita che si acquista nella conversazione col Vangelo, rinasceranno e fioriranno in sentimenti ed in opere di utilità sociale, come vediamo appunto sorgere e svilupparsi intorno al Santuario di Pompei, se dalla devozione a Maria, la «Madre del bello amore», trarremo ispirazione ed energia al grande e sommo dovere nostro: la Carità.

Così ci aiuti Maria, specialmente in questo tempo pasquale, a risorgere con Cristo cristiani.




Domenica, 30 maggio 1965: IN PREPARAZIONE ALLA PENTECOSTE

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Sostiamo un momento sulle parole sacre che ora ci sono state lette. Donde vengono? Dal Vangelo di San Giovanni; da quel Discorso nella notte precedente la Passione del Signore, che fu in gran parte trascorsa in una lunga effusione di Cristo, quasi un soliloquio, in cui, per l’ultima volta durante la vita temporale, Egli esortò e consolò i suoi Discepoli, nella pace dell’ultima Cena e nella tensione spirituale di quella vigilia tremenda.

Il Signore apre il cuore e dice le ultime cose, come fosse già morente e avesse da consegnare gli estremi ricordi a coloro che gli sono rimasti fedeli. Queste solenni espressioni riguardano ciò che sarebbe avvenuto dopo il grande dramma ormai imminente. Hanno accenti di predizione, di profezia: ed ecco perché la Liturgia ci presenta questo brano evangelico nella domenica che segue la memoria della gloriosa dipartita di Gesù da questo mondo, cioè la sua Ascensione al Cielo. Pensando precisamente al suo commiato, si pone la domanda: che cosa ci ha detto, anzi predetto? La risposta si trova appunto in quanto è riferito dall’Evangelista Giovanni. Vediamo, in quel ch’egli ci narra, quasi due paragrafi. L’uno concerne la duplice testimonianza: dello Spirito Santo ai Discepoli di Gesù, e quella dei Discepoli al mondo. Il secondo paragrafo, sul quaLe ora sostiamo, riguarda una predizione triste che il Signore fa ai suoi Alunni. Ricordatevi: sarete accolti male; incontrerete difficoltà, e proprio per il mio nome vi escluderanno dagli altri consessi, dalle altre riunioni, dalla società sia religiosa che civile. Sarete oggetto di avversioni, e si giungerà fino al punto di credere che il sopprimere voi sia rendere ossequio a Dio: come a significare gli eccessi a cui, secondo il previsto, gli atti persecutori contro il Cristianesimo potranno arrivare.

La profezia non deve produrre smarrimento, come se si pensasse che il Signore ha mancato di parola circa le sue promesse e che noi ci troviamo delusi nel non vedere il trionfo della sua missione liberatrice, e quasi che ad annunciarla, invece di raccogliere consensi e gioia, si debba incontrare una serie resistente e insormontabile di ostacoli. Noi siamo piuttosto indotti a considerare un fatto che sembra non giustificato da motivi plausibili. Perché il Vangelo deve essere accolto male? Manca forse di intrinseca verità il suo insegnamento? È forse privo di bellezza, di corrispondenza alle aspirazioni umane, di vantaggi anche sensibili e terreni? Sappiamo che così non è. E allora, perché gli uomini non accolgono il Cristo, non Lo ascoltano; perché sono tanto prevenuti a suo riguardo, e si rivoltano ostili a coloro che lo annunciano, considerandoli molesti, indiscreti, o perturbatori d’una così sudata festa con il loro moralismo e i loro annunci estranei all’ordine temporale

In realtà, come occorse al Divino Maestro in persona, il Vangelo rimarrà sempre, lungo le epoche, segno di contraddizione. Gesù non ha avuto vasta e felice rispondenza al suo apostolato. Ha incontrato, sì, anime aperte e pronte e poi fedelissime, ma si è imbattuto pure in tante anime sorde, fredde, piene di preconcetti e di reazione contro la sua parola. Il suo stesso popolo non è stato accogliente; alla fine il Signore ha dovuto soccombere; non è stato proclamato quale la gente si aspettava. Il Messia dei tempi e il Messia della liberazione viene condannato e messo in croce. Il Signore è stato Egli stesso vittima della sua parola. Aveva detto tante volte nel Vangelo: Beati coloro che non si scandalizzeranno di me, che non avranno vergogna di me, che accoglieranno la mia parola. Ebbene, l’accogliere questa parola non arreca felicità esterna; mentre Gesù fa, di tale accoglienza, la ragione discriminante tra coloro che ascoltano e si salvano e gli altri che si ostinano ad ignorare.

Il fenomeno si ripete per i Discepoli, nella predicazione dei primi anni dell’era cristiana. Chi legge gli Atti degli Apostoli resta colpito dal dramma inerente alla enunciazione dell’insegnamento di Cristo: una fitta serie di scontri, rifiuti, diffidenze. Quale dolore per i Dodici! San Paolo, nel suo tratto autobiografico, pone in evidenza le acute tribolazioni che egli dovette sopportare. Il retaggio di sofferenze si prolunga nella tradizione e nella storia successiva. Il Cristianesimo ha conseguito buone accoglienze e vittorie; ha suscitato numerosi fedeli, ha avuto la gioia di vedere innumerevoli anime che hanno ben compreso lo spirito del Vangelo e la sua potenza nella economia della salvezza. Ma, nel contempo, non sono mancate grandi opposizioni. Per secoli tanta parte dell’umanità ha cercato di soffocarlo, di reprimerlo; lo ha condannato con la sentenza grave ed assurda: non è lecito essere cristiani! Non dobbiamo dimenticare che siamo presso la Tomba del Principe degli Apostoli, il quale è morto, ha dato il sangue appunto perché la parola sua non era accettata. Tutto ciò è proseguito, attraverso successive età, nella vita della Chiesa.

Né ignoriamo che, pure ai nostri giorni, l’accoglienza riservata alla Chiesa, al Cristianesimo, non è logica, non è uniforme. C’è, senza dubbio, chi capisce il Vangelo, lo pratica, se ne alimenta, ed è convinto che ivi è la soluzione autentica della vita; là il segreto della perfetta felicità. Ma quanti, al contrario, sono distratti, o annoiati dalla predicazione cristiana! Quanti la criticano, la travolgono o cercano di soverchiarla con altre predicazioni; la dicono sorpassata, inutile, nociva; e quanti altri cercano perfino di distruggerla, come se fosse un impedimento al vero progresso umano e alla desiderata pienezza dei tempi!

Ancor oggi e sempre vige la profezia di Cristo, sulla quale stiamo meditando. In proposito il Vangelo insinua una spiegazione misteriosa che, invece di illuminarci subito, ci lascia quasi abbagliati. Faranno questo - dice Gesù - perché non hanno conosciuto Me, né il Padre. Tale ignoranza dichiarata su Dio e circa la salvezza, da Lui offerta per mezzo di Cristo, sarà la causa del grande equivoco storico in cui si identifica la persecuzione inflitta al Cristianesimo. All’origine di tale opposizione è questa ignoranza, con le attenuanti sue proprie, ma anche con tutte le aberrazioni conseguenti, che arrivano sino a negare la scienza di Dio.

Pertanto noi, che siamo e intendiamo rimanere sempre fedeli, che cosa dobbiamo fare? La risposta ci viene ancora dalle labbra stesse di Gesù: «Non abbiate paura, non scandalizzatevi!». Vocabolo caratteristico del Vangelo: che cosa vuol dire scandalizzarsi? Vuol dire inciampare; urtare in un ostacolo imprevisto; rovesciarsi e cadere per terra. Ebbene, il Signore ci dice: State attenti; incontrerete sicuramente molte difficoltà; ma non dovete scoraggiarvi, non dovete perdervi d’animo, né lasciarvi vincere dallo stupore, dalla meraviglia, dal paradosso, insomma, di questa vicenda. Essa dovrebbe svolgersi trionfalmente, ed è, invece, irta di contrarietà ed opposizioni.

Non scandalizzatevi! Potremmo qui applicare proprio a noi stessi l’esperienza attuale, e quasi misurare sulle nostre anime questa parola di Gesù. Certo, chi ama il Signore, e si dedica alla sua causa; chi ama il prossimo e vuole il bene dei fratelli, della propria famiglia civile, ha il desiderio di effondersi, è l’apostolato, come lo si definisce oggi, ha sete di condividere con altri questa salutare convinzione della fede e questa operante esperienza della carità. Il vedere che, al contrario, gli altri non accolgono l’invito e ne prendono anzi motivo o pretesto per divenire avversari; il notare che, di fronte al Vangelo, non vibra subito pienezza di consensi, ma gli si attribuisce una logica più debole di quella umana, produce sgomento. Si direbbe che gli altri sono più abili nella propaganda e nell’organizzazione, e perciò la sapienza terrena ha una forza persuasiva più agile e immediata.

Ne consegue una specie di scandalo interiore: forse noi sbagliamo? siamo davvero diffusori della parola di Dio? abbiamo piena fiducia in essa? In profonda angustia, qualcuno arriva a dubitare di se medesimo o a credersi in colpa per non essere riuscito ad annunciare bene la verità del Signore. È possibile. Comunque, o per insufficienze soggettive o per la tristezza dei tempi, può esservi realmente chi cede, temendo di non aver scelto il cammino giusto. Altri invece cercano di adattarsi, di andare d’accordo. In fondo - asseriscono - il Vangelo è pieno di elasticità, di possibilismi. È: tanto umano, che può essere applicato ad ogni evenienza. Mettiamo da parte - dicono - le obbiezioni, gli ostacoli, anche se sostanziali; cerchiamo di essere calmi e transigenti, arriveremo ad una pace... Così pensando ed agendo, si discende al livello degli altri, piuttosto che sollevarli al livello nostro. Perciò questo non è un irenismo buono, non è la vittoria del Vangelo, bensì una acquiescenza verso l’ideologia altrui. Il caso è frequente anche nelle nostre file, anche ai giorni nostri.

Occorre, adunque, rimanere saldi, ancorati alla parola di Gesù: - Non scandalizzatevi, non abbiate paura! E cioè: non crediate che la verità si misuri dai risultati subito evidenti nelle anime a cui è proposta. Dovrebbe, si, essere immediatamente accolta, trionfare, passare da cuore a cuore e produrre una festa di splendori in quanti sono conquisi da questa illuminazione divina. Ma così non è. La statistica dei consenzienti al Vangelo paragonata a quella della opposizione presenta, non di rado, dati sconcertanti.

Ora il Signore così indica il rimedio per riconfortarci: Ricordate - e ve l’ho detto e predetto - che tale è la storia del Vangelo; che nulla v’è di strano in quanto accade, che tutto entra in un quadro molto più vasto e profondo di quello ora comprensibile: il quadro del bene e del male insieme conviventi e dove il bene sembra essere più debole del male.

Seguendo ed imitando il Divino Maestro, il suo Vicario in terra ripete ora a chi lo ascolta le stesse parole del Salvatore: Siate forti, siete coraggiosi, siate apostoli. Non perdetevi d’animo mai, qualora i risultati non corrispondano alle vostre fatiche, alle vostre aspettative. Guardate che il Vangelo non è stato mai sconfitto. Siamo noi forse ad esserlo, noi poveri operai che il Vangelo non sappiamo bene divulgare e personificare. Ma il Messaggio di Gesù rimane sempre quello che è: via, verità e vita per gli uomini. Siamo dunque fiduciosi, perseveranti, fedeli; secondo la formula che San Pietro indicava già alle nascenti comunità cristiane, divenuta oggi speciale programma di azione delle donne cattoliche: «Fortes in fide». Siate forti nella fede, anche se questa non è confortata da successi, applausi, e da pronte adesioni.

Raccogliamo la parola di Cristo e l’invito dell’Apostolo; incidiamo l’una e l’altro nel nostro cuore; e procediamo generosi e ferventi nel cammino intrapreso, uniti in piena adesione a Nostro, Signore : «Fortes in fide!».

Nel centenario del Servo di Dio A. Kolping

Euch, liebe Kolpingssöhne, die ihr aus aller Welt nach Köln gekommen seid, um des 100. Todestages des grossen Volkserziehers und Sozialreformers Adolph Kolpings zu gedenken, gilt Unser herzlicher Gruss. Ihr wollt euch damit zum Werk Kolpings bekennen, das heute Auftrag und Aufgabe besitzt wie in der Zeit seiner ersten Anfänge.

Ihr habt eure Tagung unter das Thema «In Liebe gebunden frei für die Welt» gestellt und sagt damit aus, was Kolping zum Inhalt seines und eures Werkes machen wollte.

Das Kolpingwerk ist eine Erziehungsgemeinschaft, in der sich junge Handwerker durch die Liebe Christi gebunden fühlen, die sich alsdann frei in der Welt ausbreitet in einer Aktionsgemeinschaft katholischer Männer. Eure Erziehungsgemeinschaft hat zum Ziel die Formung der Jugend, der Familie, des Volkes. Euer Merkmal ist, katholische Gemeinschaft zu sein. Eure Formung hat daher ihr Schwergewicht in der religiösen Bildung, von der ihr wisst, dass sie Grundlage jedes echten und wahrhaft glücklichen Lebens sein muss. Eure tiefe religiöse Oberzeugung schenkt euch zugleich jene beglückende Sicherheit, die den Christen in dieser Welt auszeichnen soll. So ist das erste Anliegen eures Gründers, glaubensstarke Persönlichkeiten heranzubilden.

Ihr nennt eure Gemeinschaft «beseeltes Instrument der Kirche», das sich bewusst in ihr soziales Apostolat stellt. Solcher Dienst fordert persönliche Tüchtigkeit im Beruf, fordert die Pflege gesunden christlichen Ehe- und Familienlebens und ernste Verpflichtung der Einzelpersönlichkeit für Volk und Staat. Die heutige pluralistische Gesellschaft erwartet mehr denn je hochherzige Einstellung zum Besten des Gemeinwohls, wie es euer Werk von jedem seiner Mitglieder verlangt.

Diese Gesinnung suchen über 250.000 Kolpingssöhne im eignen täglichen Leben zu verwirklichen, in den Gemeinschaften eurer Vereine, in hunderten von Gesellenhäusern und Jugendheimen, in Jugendlagern und nicht zuletzt durch Unterstützung der Gastarbeiter oder durch Hilfen für berufliche Fortbildung der Handwerker in den Entwicklungsländern.

Allen diesen Werken liegt letzten Endes das Anliegen Kolpings zu Grunde, die werktätig schaffende Welt in der Kraft und Liebe Christi zu erneuern. Dieser Geist möge in euch, geliebte Söhne, nach dem Treffen in Köln neu erstarken! Dazu erteilen Wir euch und euren Familien wie allen Kolpingssöhnen auf der weiten Welt von ganzem Herzen den Apostolischen Segen.




Domenica, 6 giugno 1965: SOLENNITÀ DI PENTECOSTE

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Venerabili Fratelli e Figli carissimi!

Due fatti, due pensieri impegnano in questo momento la nostra breve, ma intensa meditazione.

Primo fatto, primo pensiero si è la celebrazione che noi stiamo compiendo della festa dello Spirito Santo, la Pentecoste: «Omnium festivitatum maximam», come fino dal IV secolo la definisce Eusebio di Cesarea (Vita Constan., IV, 64; P.G. 20, 1219). È la festa che sta alla sorgente delle altre feste. Non sarebbe infatti possibile celebrarne alcuna, - se festa significa memoria giuliva di persone o di avvenimenti, che una tradizione perenne rammenta ed onora -, qualora mancasse all’origine della tradizione il principio vitale che la genera e la rende coerente e fiorente.

Non possiamo, in questo momento, concederci altro che uno sguardo rapidissimo del grande avvenimento pentecostale e di ciò che lo segue. Il nostro ricordo rievoca le parole con cui Cristo rivelò e promise lo Spirito Santo; ripensa al mistero della sua «missione», che parte dal seno della Trinità Santissima, e che in misura e forma novissime lo fa precipitare sulla piccola schiera degli Apostoli e dei discepoli, riuniti con Maria nel cenacolo; il nostro ricordo contempla i fenomeni strani, che rendono sensibile l’avvenimento, il soffio tempestoso e le lingue di fuoco, e poi l’erompere della parola; e subito la nostra mente vede, come in sogno, sgorgare da quella prima, ormai nata e fremente, comunità cristiana il ruscello della sua vita, della sua storia; lo vede gonfiarsi e diffondersi per tutta la terra abitata, la «oikoumène»; e, sempre turgido di quella prima limpida linfa animatrice, scorrere attraverso i popoli, attraverso i secoli; e con somma meraviglia, con somma gioia, lo vede arrivare fino a noi, fino qua. Nulla la storia, a bene guardare, ci presenta di più significativo e di più misterioso, nulla di più umano e di più trascendente; nulla di più agitato e di più sereno; nulla di più legato al passato e nulla di più teso all’avvenire. Che cosa è, che cosa è questa luce, diffusa e sé movente per tutta la terra? È Cristo, che continua Se stesso nell’umanità da Lui vivificata di Spirito Santo; è la sua Chiesa, che passa nel tempo e si estende nel mondo; incontra uomini mortali ed infonde in essa una scintilla di gloriosa immortalità; li incontra agitati, infelici e corrosi dal peccato, e li rigenera in letizia e in santità; li incontra viandanti folli e sperduti nel deserto e nel crepuscolo della vita presente, e li raduna, li allinea, li rimette sopra un cammino, che sa la sua meta e non conosce stanchezza.

Il quadro è affascinante, e vorrebbe interminabile contemplazione. Ne osserviamo l’ultimo lembo, quello che ci riguarda, e tendiamo l’orecchio dell’anima alle parole, ben note ed arcane, che hanno recato a noi, a ciascuno di noi, lo Spirito Santo: «Exi ab eo, immunde spiritus, et da locum Spiritui Sancto Paraclito»: il nostro essere, con questo primo esorcisma, compiuto su di noi dal ministro della Chiesa, diventava capace di ospitare lo Spirito Santo, d’essere suo tabernacolo. San Paolo ce lo ricorderà: «Nescitis quia templum Dei estis, et Spiritus Dei habitat in vobis?» (
1Co 3,16). Fu così che ricevemmo il Battesimo, e fummo consacrati figli di Dio, membra di Cristo, sacri al culto del Nuovo Testamento. Ritornò lo Spirito, col sacramento della Confermazione, «ut perfectio fiat, - come dice S. Ambrogio, - quando ad invocationem sacerdotis Spiritus Sanctus infunditur» (De Sacram. III, 2, 8; CSEL, 73, 42): una nuova rassomiglianza a Cristo, mediante la Cresima, era impressa nella nostra anima. E venne per quanti di noi siamo stati ordinati Sacerdoti per il ministero del Popolo di Dio, e verrà, Chierici e Leviti carissimi, per quanti di voi la grazia del Signore chiamerà, nella perseveranza al suo invito, all’altare di Dio, il momento più alto e più trasfigurante della nostra vita, quello caratterizzato dalle parole potenti: «. . . Innova in visceribus eorum Spiritum sanctitatis», seguite dalle altre, eco fedele della voce evangelica: «Accipite Spiritum Sanctum . . .» (cfr. Pontif., e Jn 20,23). Sempre lo Spirito Santo! Ne abbiamo coscienza?

La solennità che stiamo celebrando deve in noi, in noi eletti al sacro ministero, ravvivare il ricordo, accendere la coscienza di questa investitura particolarissima conferitaci dallo Spirito Santo: la sua festa dev’essere celebrata nel santuario interiore delle nostre anime; e se la religione cristiana ha il segreto di avvicinare Dio all’uomo, la nostra vocazione deve farci comprendere e gustare più che ad ogni altro cristiano il mistero di vicinanza, d’inabitazione, di amicizia, di spirituale intimità, d’interi,ore ispirazione, di dolcezza e di forza, di pace e di gioia, che lo Spirito Santo concede alle anime mediante la grazia. E se la grazia si definisce l’iniziativa soprannaturale di Dio elevante e santificante l’essere umano, null’altro capace di portare all’ineffabile incontro che l’umiltà del suo nulla, la sua fede, la sua voluta disponibilità, quanto più il mistero di unilaterale gratuità della grazia, di operante presenza dello Spirito Santo si realizza nell’eletto al sacro ministero per essere egli trasformato in strumento dispensatore dei doni divini! Il Sacerdote non solo riceve la grazia, ma la diffonde; non solo è dalla grazia santificato, ma altresì dalla grazia reso degno strumento di santificazione.

Il secondo fatto, il secondo pensiero, si collega pertanto col primo; ed è quello della Santa Messa che Noi stiamo concelebrando con i Rettori dei Seminari e dei Collegi ecclesiastici di Roma, presenti, anzi partecipanti tutti gli Alunni di tali istituti, siano questi Alunni già insigniti del sacerdozio, o siano nella trepida e ardente. attesa di esserne insigniti. Se mai festa del Sacerdozio rallegra la Chiesa romana e la Chiesa universale, questa è la più bella, è la più piena. Se davvero è lo Spirito Santo che anima la Chiesa e nella Chiesa Egli suscita i suoi ministri, i suoi apostoli, che hanno missione e potere di chiamare lo Spirito Santo, affinché vivifichi e santifichi la Chiesa medesima, questo prodigio qui ha la sua espressione più ricca e più commovente. Non ci sfugga la pienezza di questo momento. Qui prende significato immenso il fatto di vivere a Roma, di compiere a Roma gli studi ecclesiastici, di prendere a Roma coscienza dl e proprio Sacerdozio ricevuto, o da ricevere; perché qui la comunione anzi l’unità del Sacerdozio nostro partecipe di quello unico di Cristo è più vasta e più profonda; qui il senso delle potestà conferite da Cristo ai continuatori della sua opera di salvezza è più palese e più tremendo; qui il rapporto fra Spirito e Gerarchia appare in tutto il suo meraviglioso equilibrio: ideale, per la fedeltà che qui dimostra al pensiero istitutivo di Cristo; potenziale, per lo sforzo che qui più che altrove si compie, affinché tale equilibrio, tale complementarità, tale fusione fra l’anima e il corpo della Chiesa storicaménte si realizzi.

Noi vorremmo che questo momento spirituale avesse per ciascuno di voi, diletti Figli, un’efficacia determinante nella vostra formazione ecclesiastica, e avesse potere di infondere nelle vostre anime un fervore inestinguibile, alieno dall’inquietudine che pervade tante anime belle e generose di Sacerdoti e di Alunni ecclesiastici ai nostri giorni; un fervore, derivante dalla certezza che la vostra educazione è autentica e sapiente; un fervore, capace non già di attenuare la coesione interiore ed esteriore con i vostri Vescovi e con questa Cattedra apostolica, ma di rinvigorire piuttosto tale coesione e di farne sorgente di energie spirituali e pastorali; un fervore, che vi faccia altrettanto refrattari alle suggestioni profane e viziose del mondo, quanto sensibili delle sue morali necessità e amorosi per la sua salvezza. Noi vorremmo che la visione ora a voi offerta da questa singolare assemblea, orante e giubilante nella celebrazione del mistero di Pentecoste, rimanesse nelle vostre anime come una luce ispiratrice e orientatrice; e vi ricordasse, come idonee a perpetuare il beneficio di questo superlativo incontro liturgico, le parole, che tutto dicono, di S. Agostino: «Habemus ergo Spiritam Sanctum, si amamus Ecclesiam; amamus autem, si in eius compage et charitate consistimus» (In Io. tract. 32, 8; P.L. 35, 1646).

Così sia.





B. Paolo VI Omelie 18465