B. Paolo VI Omelie 29865

Sabato, 11 settembre 1965: INCONTRO SPIRITUALE CON LE RELIGIOSE DELLE DIOCESI DI FRASCATI E DI ALBANO

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Venerabili Fratelli, il Signor Cardinale Cicognani, del Titolo della Chiesa Suburbicaria di Frascati e i Vescovi rispettivamente di Frascati e suffraganeo di Albano in rappresentanza anche del Signor Cardinale Pizzarda: che la vostra premurosa presenza a questa sacra cerimonia sia ripagata dalla compiacenza di incontrare qui una così bella, così numerosa e così insolita assemblea di Religiose provenienti dalle case loro, situate nei territori delle vostre diocesi: sono esse il decoro, il vanto, la speranza di codeste comunità diocesane; rendendo onore alla Nostra umile persona voi onorate queste schiere elette delle vostre popolazioni e della Chiesa, e partecipate certamente, come alla spirituale letizia, così ai meriti di queste anime consacrate e all’efficacia delle loro preghiere. Vi ringraziamo perciò della vostra venuta, e insieme benediciamo il Signore. Ed insieme salutiamo e ringraziamo gli altri venerati Prelati e Sacerdoti, che hanno voluto partecipare a questa sacra cerimonia, a venerazione della Madonna santissima, della quale anticipiamo oggi la celebrazione del suo santo e benedetto nome, a nostro spirituale conforto ed a edificazione di tutte queste dilette figlie in Cristo.

A queste ora il Nostro paterno saluto! A voi, per prime, brave ed ottime Missionarie Francescane di Maria, che accogliete in questa vostra bella chiesa la numerosa e varia assemblea di tante care e buone Religiose. Sappiamo di voi, ospiti gentili, il vostro spirito, il vostro lavoro, la vostra diffusione, la vostra adesione alla Sede Apostolica; e prendiamo questa occasione per darvi aperta testimonianza della Nostra compiacenza e della Nostra gratitudine; fatene giungere l’eco alle vostre case, alle vostre consorelle, alle vostre fiorenti missioni. Dovremmo esprimere analoghi sentimenti per ciascuna delle Famiglie religiose qui rappresentate; a tutte il Nostro affettuoso ricordo, a tutte il Nostro ringraziamento, a tutte il Nostro incoraggiamento; a tutte poi la Nostra benedizione. Sì, vorremmo che l’eco di essa si diffondesse, non solo in questo territorio, tutto smaltato di case religiose, ma altresì dovunque i vostri Istituti hanno le loro residenze, le loro comunità, le loro opere.


Noi vogliamo bene alle Religiose della santa Chiesa; Noi abbiamo grande stima dello stato di santificazione e di apostolato da esse scelto; Noi guardiamo con fiducia alla loro fioritura in mezzo al Popolo di Dio; Noi riconosciamo volentieri l’importanza, la generosità, l’utilità, la bellezza, che le nostre Religiose rappresentano non solo per la Chiesa, ma altresì per la società, per il mondo, che spesso, mentre si contende i loro silenziosi e preziosi servizi, ne contesta la legittimità o l’opportunità della loro esistenza e delle loro prestazioni. Noi vorremmo anzi che le loro file si accrescessero ancora, e non mai difettassero di anime giovanili, ardenti e pure, capaci ancor oggi di cogliere, pur nel frastuono delle mille voci e dei mille rumori del mondo moderno, il richiamo segreto, forte e soave, che invita alla sequela di Cristo, al più alto amore cioè, al più puro, al più eroico, al più personale, al più felice; il richiamo della vocazione religiosa: Dio voglia!

Il saluto, che Noi oggi porgiamo a voi, care Religiose, sia di vita contemplativa - come si dice -, sia di vita attiva, vuol avere un significato ed uno scopo.

Un significato: quello appunto, che dicevamo, di riconoscere la posizione speciale, elettissima e non separata, non dimenticata, che la vita religiosa femminile occupa nella grande e complessa famiglia di Cristo, la santa Chiesa. È la vostra una posizione distinta, che esige un suo particolare stile di vita, una sua iniziazione, una sua custodia, una sua mentalità, una sua relativa autonomia; ma è posizione, che s’innesta nel disegno unitario della comunità ecclesiastica; è il vostro ceto un membro qualificato per superiori e spirituali funzioni nel Corpo mistico di Cristo, ma ad esso essenzialmente e organicamente congiunto. Questo rapporto fra la Chiesa, considerata nel suo complesso unitario, gerarchico e comunitario, e le istituzioni religiose, voi lo sapete, è messo in miglior luce ed in maggiore efficienza dallo spirito e dai decreti del Concilio ecumenico: avviene, certamente per impulso dello Spirito santo animatore della santa Chiesa, che la Chiesa stessa sente un crescente bisogno di sapersi ornata e sorretta dalle corporazioni religiose; e queste, a loro volta, sentono il bisogno d’essere più strettamente congiunte con la Gerarchia e con la comunità dei fedeli.

È questo fenomeno un segno consolante e promettente per la vita spirituale nel nostro tempo e per il rinvigorimento della Chiesa. E osservate: questa maggiore valutazione dello stato religioso e questa sua migliore articolazione con tutta la compagine ecclesiastica non avvengono soltanto per i servizi pratici ed apostolici, che anime consacrate, come voi siete, possono rendere e rendono effettivamente e generosamente alle opere pastorali, caritative o scolastiche; per un’utilità organizzativa e operativa (la quale è già titolo validissimo alla promozione di tale processo); ma avviene anche e specialmente per il merito della vostra consacrazione a Cristo Signore. Cioè: non soltanto per ciò che voi, Religiose, fate e siete capaci di fare per il bene della Chiesa, ma specialmente per ciò che siete, votate alla perfezione, capaci di fare risplendere nella vostra vita la completa autenticità del battesimo, portata alle più radicali rinunce, che il suo mistero di purificazione e di penitenza reclama, e portata insieme alle sommità della vita spirituale e dell’assorbente amore a Dio, a Cristo, alla Chiesa, ai fratelli bisognosi, quali lo stesso mistero battesimale offre a chi in pienezza lo vive.

La Chiesa ha bisogno della vostra santità, non meno che della vostra operosità.

Le conclusioni a voi, dilette Figlie in Cristo. E basti qui una per tutte: la vita religiosa, oggi più che mai, deve essere vissuta nella sua genuina integrità, nelle sue alte e tremende esigenze, nella profondità, sempre nutrita di puntuali e regolari preghiere, della sua vigilante interiorità, nell’osservanza austera, normale, connaturata, dei santi voti; dev’essere santa, in una parola; e santa secondo i maggiori bisogni della psicologia moderna, e secondo il combattimento morale, fatto più arduo e più strenuo, dal circostante lassismo moderno. O santa, o non è.

Ed ecco allora uno scopo particolare di questo incontro con voi: lo scopo di richiamare la vostra attenzione sulla letizia che deve rivestire e penetrare la vostra professione religiosa. Ci riferiamo ad una parola del Signore, che si applica anche a voi. Ricordate il vivace episodio del Vangelo, là dove una donna (non ne conosciamo il nome), una donna del popolo, entusiasta delle parole di Gesù, si mise a gridare: oh! beato il seno che ti ha portato, e le mammelle che hai succhiate! Ma il Signore disse: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc 11,28). Riferita alla Madonna questa risposta non disconosce certamente l’eccellenza singolarissima della sua divina maternità, ma vuol mettere in luce un merito personale ed eccelso di Maria, che non solo ha generato Cristo Signore, ma ha creduto a Lui, ha custodito la parola di Dio, ha aggiunto al privilegio della sua elezione il merito della sua corrispondente obbedienza. Già Elisabetta l’aveva salutata dicendo: «Te beata, che hai creduto!» (Lc 1,45). Sant’Agostino commenta: «Maria fu più beata accettando la fede di Cristo, che concependo la carne di Cristo» (beatior Maria percipiendo fidem Christi, quam concipiendo carnem Christi - De Virg. 3 - P.L. 40, 398).

Ora, Religiose carissime, voi avete ascoltato la voce di Dio e l’avete seguita. Non è questo il cardine, il segreto della vostra vita? Avete ascoltato; avete seguito. Che cosa dobbiamo dire se non la parola di Cristo: beate voi! La beatitudine della vocazione seguita deve essere vostra.

Questa non è un’osservazione ovvia e convenzionale; no, essa riguarda una nota caratteristica della vita religiosa, la quale, appunto perché satura di grazia e di amore, deve essere piena di santa letizia. Se S. Paolo dice e ripete a tutti i Cristiani: «Siate lieti, sempre, nel Signore; ve lo ripeto: siate sempre lieti!» (Ph 4,4), quanto più questa esortazione si addice a voi, Sorelle e Figlie carissime. L’umiltà, la povertà, il nascondimento, la mortificazione, lo spirito di sacrificio, e le tante prove e sofferenze, di cui è cosparso il sentiero di questa vita terrena, non vi devono rendere tristi, non vi possono togliere la intima gioia del cuore consacrato alla carità.

Ed è proprio questo che Noi vogliamo dirvi, raccomandarvi ed augurarvi a ricordo di questa sacra riunione: siate felici! Felici, perché avete scelto la parte migliore. Felici, perché chi mai e che cosa mai, come esclama San Paolo, vi potrà separare dalla carità di Cristo? (Rm 8,35). Felici, perché avete destinato la vostra vita all’unico e più alto amore. Felici, perché siete della Chiesa le figlie predilette, e della Chiesa partecipate il gaudio e il dolore, la fatica e la speranza. Felici, perché nulla di quanto fate, pregate, soffrite è perduto, nulla è sconosciuto a quel Padre, che vede nel segreto, e che nulla lascerà senza ricompensa. Felici, perché come la Madonna, avete ascoltato la parola di Dio e vi siete fidate, l’avete seguita. E lasciate che questo voto della santa vostra felicità Noi confermiamo con la Nostra Benedizione Apostolica.




Domenica, 12 settembre 1965: VISITA ALLE CATACOMBE ROMANE

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Venerati Fratelli e Figli carissimi!

Che cosa suggerisce al nostro pensiero la lettura del brano evangelico offerto alla nostra meditazione in questa domenica? che cosa ci suggerisce qui, nelle Catacombe romane, che sembrano raccogliere come nessun altro luogo sacro la parola evangelica e sembrano a noi ripeterla e spiegarla? Ascoltiamo la voce di Cristo, così candida, così forte; la purezza del messaggio evangelico, la sua umiltà, la sua potenza ci incantano, e ancora ci ripetono che noi, desiderosi d’essere discepoli attenti e seguaci fedeli del divino Maestro, non dobbiamo prendere cura assorbente e primaria delle necessità temporali, non dobbiamo legare il cuore ai beni economici e temporali così da posporre ad essi i beni dello spirito e da perdere per l’amore, che diviene sudditanza, delle cose di questo mondo l’amore di Dio, al quale dobbiamo primieramente servire. Questa rigorosa gerarchia di beni e, di relativi amori è uno dei paradossi fondamentali del Vangelo, che l’affermazione di Cristo circa l’assistenza della paterna Provvidenza di Dio risolve e la nostra fiducia insieme con la subalterna e moderna ricerca dei valori terreni utili alla vita presente dimostrano giusta e veritiera.

È una lezione di libertà dalla presa affannosa delle cure temporali che il Signore ci dà, una lezione di rinuncia, di semplicità di bisogni e di gusti, una lezione di povertà nel senso morale e religioso di questa grave e severa parola evangelica.

Questa lezione trova la sua scuola, trova la sua cattedra, trova la sua riprova, dicevamo, qui, nelle catacombe, che ce la spiegano nell’applicazione storica di cui le catacombe sono parlante documento.

Fidiamoci ora semplicemente di questa comune interpretazione morale delle catacombe, e lasciamo per ora ogni più erudito commento sulla storia e sulla realtà di questi primitivi cemeteri della nascente e provata comunità cristiana di Roma. Per noi sono il ricordo d’una lunga storia di nascondimento, di impopolarità, di persecuzione, di martirio, a cui la Chiesa nei primi secoli del cristianesimo fu sottoposta, a Roma e in tante parti del suo Impero; e nello stesso tempo sono il quadro e il ricordo d’un’intimità religiosa, personale e collettiva, estremamente bella e feconda, d’una tranquilla ed umiliata professione di fede, che sarà per sempre esemplare nei secoli successivi, e d’un’invincibile convinzione che Cristo è la verità, Cristo è la salvezza, Cristo è la speranza, Cristo è la vittoria; convinzione che non potrà tollerare d’essere scossa, d’essere piegata, d’essere negata per lusinghe, minacce, castighi che le fossero intimati o inflitti. Qui la libertà della fede, che è libertà dello spirito, ebbe le sue non timide, ma forzatamente nascoste affermazioni, qui il cristianesimo maturò la coscienza del suo irrinunciabile impegno, qui la sfida non clamorosa, non temeraria, non offensiva alle forze negatrici del mondo circo. stante, fossero pure legalizzate dalla ferrea parola del magistrato: «non licet esse christianos»: non è lecito che vi siano cristiani; qui il cristianesimo affondò le sue radici nella povertà, nell’ostracismo dei poteri costituiti, nella sofferenza d’ingiuste e sanguinose persecuzioni; qui la Chiesa fu spoglia d’ogni umano potere, fu povera, fu umile, fu pia, fu oppressa, fu eroica. Qui il primato dello spirito, di cui ci parla il Vangelo, ebbe la sua oscura, quasi misterioSa, ma invitta affermazione, la sua testimonianza incomparabile, il suo martirio.

Ecco perché, Fratelli e Figli carissimi, alla vigilia della ripresa terminale del Concilio ecumenico siamo venuti alle Catacombe; siamo venuti a bere alle sorgenti, siamo venuti per onorare queste umili tombe gloriose ed averne ammonimento e conforto, siamo venuti per sentire scorrere nella nostra presente esperienza il flusso d’una tradizione non immemore, non infedele, si bene sempre identica, sempre forte, sempre feconda; siamo venuti per rifornirci degli esempi antichi delle virtù cristiane e trarne argomento e vigore a qualche moderna imitazione; siamo venuti non per rifarci primitivi o per sentirci vecchi, ma per ritornare giovani ed autentici nella professione d’una fede, che gli anni non consumano, ma avvalorano.

Pregheremo dunque insieme affinché la Chiesa romana e con lei la Chiesa intera abbia il Vangelo come suo codice; affinché tutta la Chiesa conservi il gusto e la sapienza delle sue umili ed eroiche origini, ed affinché sia sempre degna di dare a Cristo fedele e forte testimonianza.

Poi, per troppo facile associazione di idee, qui penseremo a quelle porzioni della Santa Chiesa che ancor oggi vivono nelle Catacombe, e per esse in modo particolare Noi, insieme con voi, oggi pregheremo. Le analogie reali fra la Chiesa che oggi stenta, soffre, e a mala pena sopravvive nei Paesi a regime ateo e totalitario e quella delle antiche catacombe sono evidenti. Identico è il motivo della resistenza della Chiesa di allora e di oggi: difendere la Verità, e insieme rivendicare il sacro diritto di ogni uomo ad una sua propria responsabile libertà, soprattutto nel campo fondamentale della coscienza e della religione. Identico l’intento degli antichi e moderni persecutori, che, con la violenza fisica o con il peso d’un apparato legale, giudiziario o amministrativo, vogliono imporre la «loro verità» e soffocare ogni contraria manifestazione del pensiero e delle sue oneste manifestazioni.

Duole vedere come in tanti Paesi, che Noi pur molto stimiamo ed amiamo, dopo tanto parlare di libertà e di popolo, si cerchi di asfissiare la libera vita religiosa del popolo e delle singole persone; e si abbia verso la Chiesa il proposito deliberato, se anche taciuto, e la ingenerosa speranza di farla morire: si impediscono gradualmente le possibilità di rinnovare le file del clero, già tanto decimate; si intralcia il normale esercizio del governo pastorale, quando non sia possibile piegare clero, religiosi e fedeli a «collaborare» col regime; si monopolizzano tutti i mezzi a disposizione dell’organizzazione totalitaria: i mezzi di stampa e della vita culturale, scolastica, educativa e ricreativa per togliere la gioventù alla Chiesa e per imporle il verbo marxista.

È su questi punti principalmente, come tutti sanno, che la Santa Sede cerca pur sempre di condurre una difficoltosissima azione, non solo in difesa della propria esistenza e dei propri diritti, ma altresì della libertà e della dignità umana e degli interessi morali e spirituali delle popolazioni. La Santa Sede si astiene dall’alzare con più frequenza e veemenza la voce legittima della protesta e della deplorazione, non perché ignori o trascuri la realtà delle cose, ma per un pensiero riflesso di cristiana pazienza e per non provocare mali peggiori. Essa si dice sempre pronta ad oneste e dignitose trattative, a perdonare i torti subiti, a guardare più al presente ed al futuro, che non al recente e doloroso passato, sempre che tuttavia incontri segni. effettivi di buona volontà. Voi conoscete queste cose. Vi unirete perciò alla Nostra speranza e alla Nostra preghiera. Ciò sarà di conforto per quei Vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e fedeli che ancor oggi vivono nella sofferenza spirituale, spesso acerba e palesemente ingiusta; e sarà per loro sorgente di vigore e di speranza il sapere che fratelli romani e fratelli lontani si ricordano di loro e per loro pregano; e non rifiutano loro, altro non potendo offrire, il balsamo della fraterna spirituale solidarietà.

E tornerà utile per i Cattolici stessi, che per grazia di Dio vivono in libertà, ricordarsi dei Cattolici che vivono nelle moderne catacombe, e non dimenticare quanto triste umanamente parlando sia la loro sorte, riflettendo che, senza vigilanza e concordia, simile sorte potrebbe diventare comune.

Ma concludiamo questi gravi pensieri con quelli più fiduciosi e sereni che Ci vengono dalla Nostra visita alle Catacombe: esse ci insegnano a saper pazientare e soffrire con Cristo; esse ci ispirano pensieri di bontà e di pace per tutti; esse ci ammoniscono che la Verità, vissuta con fede e con dignità, finisce per farsi strada e per diventare benefica e salutare a quelli stessi che l’hanno impugnata; esse ci ricordano che esiste una protezione esercitata dai Santi dal cielo su noi ancora faticosamente peregrinanti sulla terra, così che S. Ambrogio, il grande Vescovo romano-milanese, riferendosi alle reliquie ritrovate dei Santi Martiri Gervasio e Protasio, lasciò detto: «Tales ambio defensores», io ambisco avere tali difensori!

Lo ripeteremo Noi stessi, invocando il patrocinio dei Martiri, a cui è dedicata questa Basilica cemeteriale, i SS. Nereo ed Achilleo, non che degli altri Martiri e Santi che nelle Catacombe dormono in Cristo. L’assistenza dal cielo specialmente invocheremo dei Santi Papi, sepolti nelle Catacombe; Noi andremo personalmente, dopo questa cerimonia, a venerare, nelle vicine Catacombe di S. Callisto, la cripta dei Papi: vogliano essi proteggere questa Chiesa romana, vogliano stendere la loro paterna tutela su tutta la Chiesa riunita in Concilio, e vogliano a Noi pure ottenere, nell’umile e costante sequela del Vangelo, la forza e la gioia della comunione dei Santi.




Domenica, 19 settembre 1965: XV DOMENICA DOPO LA PENTECOSTE

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(A commento del brano evangelico della Domenica decimaquinta dopo la Pentecoste il Santo Padre rievoca anzitutto il prodigio di Nostro Signore ivi narrato.)

Il racconto dell’Evangelista San Luca è semplice, limpido, commovente. Ci sentiamo tutti spettatori dell’avvenimento, nel quadro di un umile villaggio della Galilea. Dalla cerchia murata del piccolo centro esce un corteo di popolo, molto numeroso: è per un funerale che accompagna alla sepoltura un defunto colpito dalla morte in giovanissima età. Il feretro è portato da alcuni amici di casa e nella folla che lo segue domina la figura della madre, tipica - lo si può affermare - del dolore umano. Essa reca infatti diversi titoli-di sofferenza: è madre, è vedova; aveva quell’unico figlio, che ora non vive più. Tuttavia questa donna trova il coraggio, non facile, di accompagnare la salma nel tristissimo corteo della morte.

Ed ecco: il corteo della morte si incontra con un altro corteo: la piccola comitiva degli apostoli e dei discepoli al seguito del Divino Maestro. Avviene una cosa straordinaria, imprevista. Gesù interrompe il funerale, il corteo della morte, e compie il prodigio. Gesù si commuove. Basterebbe questa osservazione per introdurci in tutta la psicologia umana di Cristo, nella sua sensibilità, nella sua arte di conoscere gli uomini, di vederli e seguirli durante la loro esperienza vissuta. Specialmente nelle contingenze negative, quale la sofferenza, l’occhio di Cristo, Figlio di Dio, si volge all’umanità dolorante. Egli ben la conosce, e perciò il suo sguardo non si chiude sulle manifestazioni della pena e della tristezza; i suoi passi non si allontanano dall’epilogo dell’esistenza terrena, la sepoltura, appunto; e ora arresta - si potrebbe parlare d’uno scontro - il corteo della morte con il corteo della vita.

Gesù, ripetiamo, si commuove; manifesta pietà e compassione per il dolore; il dolore umano, che assume nel proprio Cuore. C’è una trasfusione della sofferenza degli uomini nell’anima misteriosa ed eccelsa di Cristo.

Altre volte il Salvatore, nel Vangelo, si commuove. Lo vediamo anche piangere: ad esempio nel racconto della resurrezione di Lazzaro e del previo colloquio di Gesù, arrivato in ritardo, con le sorelle del morto.

Il Divino Maestro si fa condurre presso il sepolcro; e mentre è accanto alla porta del funereo abitacolo, ove giace, ormai da quattro giorni, l’amico defunto, piange. Nota il Vangelo: «Lacrymatus est Iesus».

Un grande commentatore delle Scritture, Sant’Ambrogio, introduce in questa frase del Vangelo una particella che, in apparenza, sembra un nonnulla; ed offre una visione immensamente comprensiva dell’animo di Cristo e dello splendore della sua umanità, della sua conoscenza della nostra natura. «Lacrymatus est Iesus», dice il Vangelo: e Sant’Ambrogio, a commento, scrive semplicemente: «Lacrymatus est et Iesus!».

Anche Gesù piange. Quell’anche, inserito nella frase, vuole mostrarci Cristo Gesù associato alle nostre sorti, alle nostre pene, alle nostre vicende, a tutta la nostra vita. È un anello magnifico, e sta a dimostrare come è possibile trasferire nel Signore tutta l’ambascia, l’affanno che trabocca dalle nostre anime afflitte, colpite dalla sofferenza e dal mistero insondabile della morte. Orbene, anche Gesù condivide questo dolore, pur Egli soffre e piange.

Torniamo all’episodio del Vangelo odierno. Gesù dunque fa cenno al corteo di sostare. E qui ha due parole, che si direbbero dette apposta ai figli carissimi che compongono il presente uditorio. Per voi, dolenti custodi della perenne memoria dei caduti e dispersi della guerra, è la frase ristoratrice di Gesù: «Non piangere!». Per voi, maestri, che avete consacrato la vita all’educazione dei fanciulli, della gioventù, l’altra espressione insuperabile nella bellezza e potenza: «Ragazzo, dico a te: risorgi!»: «Adolescens, tibi dico, surge!». Due comandi di letizia e di vita. Basterebbe sostare nel riflettere e contemplare queste divine parole per essere beati; e ritornare alle nostre case con l’anima piena di forza, luce, gioia, conforto, sollievo: un risultato ben duraturo, dall’incontro domenicale, che la Chiesa ci offre, con Cristo.

Quale sollievo, visione nuova della vita, circolazione di affetti e di pensieri, quale esperienza della nostra realtà umana, dei nostri supremi destini risultano dalle parole del Signore!

Ma oltre a rievocare gli effetti della onnipotenza divina è utile soffermarsi su una delle molte circostanze: essa appare rilevante e diviene esemplare per noi. Osserviamo che Gesù ha avuto compassione del dolore umano, lo ha valutato, ha rivolto l’animo suo verso il dolore nostro. Tutto ciò riveste specialissima importanza, perché il mirabile dono da Gesù passa ai suoi discepoli e all’umanità che lo segue; si trasferisce nel Cristianesimo. Il cristiano ha il genio della compassione, il cristiano ha la capacità e l’attitudine a vedere, a scoprire, a cercare, a rincorrere l’uomo sofferente.

Ora questo sentimento evangelico - che si riallaccia pure a disposizioni umane - presenta, nella fenomenologia, nella storia dell’uomo giudizi e comportamenti assai diversi. Basterà ricordare che non sempre l’uomo è compassionevole; e che, anzi, l’attitudine più ordinaria verso chi soffre, è piuttosto nella difesa, e nel tenersi distanti. Si cerca di porre un diaframma, per limitare il dolore, lasciarlo a chi n’è colpito, non farlo diventare contagioso e, soprattutto, assillante è lo studio perché non diventi nostro. Si pagherà, forse, il tributo di qualche parola, di qualche gesto, con l’ossequio agli usi convenzionali di rispetto e di condoglianza, ma si cerca sempre di sottrarsi al dolore altrui. Di più: nella società moderna, sembra regola di buona condotta il non farsi mai vedere troppo commossi: piangere non è più di moda; e l’essere così comprensivi del dolore, come lo sono ancora taluni popoli specie tra gli orientali, non si addice all’uomo evoluto, il quale cerca di restringere al massimo la sua compassione.

E allora ecco che l’istinto di sottrarsi al contagio del dolore, si tramuta addirittura in disprezzo. Lo abbiamo visto in talune manifestazioni acute della storia contemporanea, quando gente, infatuata della propria potenza, ha osato dire: la pietà è debolezza; non è degna dell’uomo; bisogna svincolare l’uomo da questo influsso del dolore altrui, e mostrarsi insensibili, duri, giacché ogni esplicazione della psicologia dell’essere umano volgente alla benignità, non è più degna d’un popolo forte. Sappiamo quanto è avvenuto con questa educazione alla fierezza, al crudele e glaciale atteggiamento, all’aridità verso i dolori altrui.

E altri vi sono che hanno, invece, del dolore altrui una visione imprecisa, turbata; e in luogo di far risultare dalle varie prove una umanità buona, mansueta, soccorrevole, cercano di fomentare un comportamento acerbo, gonfio di collera e sdegno, pieno di istinti vendicativi. Dal dolore umano si leva, così il grido delle folle che imprecano alla società e diffondono intorno a sé un moto sovversivo, quasi di vendetta e di punizione. È il dolore che diventa cattivo.

Il vero e giusto sentimento è quello del Buon Samaritano, che ha compassione di chi soffre., Proprio tale misericorde umanità Gesù ha canonizzato, fatto sua, e ha portato ad altezze ed espressioni divenute fondamentali per la civiltà cristiana. Il cristiano è un uomo di cuore, sensibile, in ogni momento propenso a cogliere le necessità dei fratelli che gli stanno accanto, specie quando sono nella sofferenza, nel dolore, nel pianto. Il cristiano è un uomo compassionevole. «Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia... beati coloro che piangono perché saranno consolati». Il Signore stabilisce, instaura una solidarietà del dolore, destinata realmente al fiorire di una umanità buona, solidale, sorella nelle sue componenti, e idonea a corrispondere a quanto Gesù ha fatto miracolosamente. Egli ha compatito il dolore e, poiché è Dio, è stato capace anche di guarirlo, di annullarlo e di trasformarlo in gioia. Noi, suoi seguaci, potremo imitare la prima parte in qualche misura, vale a dire condividere il dolore dei nostri fratelli, pur non avendo sempre la capacità di guarirlo, e non possedendo il potere di annullarlo e di trasfigurarlo in gioia e in trionfo. Ma quel che ci è possibile basta perché la compassione derivata dal Vangelo risulti una tra le più belle e consolatrici sorgenti di squisita carità, e d’opere nobilissime.

Il Signore ha modellato il cuore umano, e lo ha fatto sensibile, rendendolo cristiano, proprio facendo coincidere questa solidarietà con ciò che definisce il carattere precipuo dell’uomo in quanto tale, del cristiano in quanto tale: il possesso della caritatevole bontà.

Qui la portentosa sorgente che il Signore ha fatto scaturire proprio dal capriccioso, indocile ed alcune volte ostile e perverso cuore dell’uomo. Ne ha tratto gli accenti migliori, le vocazioni più alte, gli ideali più eletti nel soccorrere, confortare gli altri, nel consacrarsi a tutti. Nelle decorse settimane moriva un uomo molto degno, che ha dedicato la sua vita ad assistere e guarire poveri africani nelle loro terre, dedicando, per quarant’anni, la sua scienza e pazienza proprio a tante miserie lontane ancora dalla civiltà e quasi sconosciute alle esperienze dei popoli progrediti. Ma quel che notiamo in questa figura diventata tanto rappresentativa non lo vediamo forse in tutti i Missionari: migliaia e migliaia di uomini, di donne, che si lanciano senza che alcuno li mandi o sufficientemente li assista, senza che nessuno li applauda o dia riconoscimenti, ma solo animati dalla passione della compassione, con l’ideale d’essere presenti a confortare dolori sconosciuti che altri ‘trascurano perché la civiltà non ha mezzi né cuore abbastanza per, venire in loro aiuto?

Tributiamo a così vasta effusione di Cristianesimo eroico, delicato, buono, il nostro riconoscimento e plauso; e diamo lode alla Chiesa, che sempre conduce, educa i suoi figli a questa virtù. Cerchiamo di far davvero della compassione che il Cristianesimo ci insegna una fonte di opere egregie che vanno dalla gentilezza della parola, della condoglianza, dell’amicizia, della trasfusione di affetti da cuore a cuore, all’amplissima possibilità di suscitare opere provvide per il conforto, il sollievo dei fratelli, la loro serenità, la loro guarigione, fin dove è possibile, e di partecipare al rimpianto, quando ci poniamo in ginocchio sulle tombe dei cari trapassati alla vita eterna.

In questa luce soprannaturale va riletto e meditato il racconto del Vangelo odierno. Esso diventa non ,soltanto fulgente per l’ eccellenza, l’ umanità e la ricchezza dei palpiti che descrive e ci offre, ma si rivela prezioso in maniera incomparabile, poiché ci educa ad essere veramente cristiani.




Pomezia, 26 settembre 1965: CAMPO INTERNAZIONALE DEGLI ZINGARI

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La pioggia, che, per tutta la notte dal sabato alla domenica 26 settembre e sin verso le ore 13 s’è rovesciata fitta e insistente nell’intero Lazio, rende impossibile lo svolgimento dell’intero programma stabilito per lo storico incontro tra il Papa e il novissimo pellegrinaggio.

Si tratta di nomadi, gitani, zingari di diverse stirpi, nazioni e provenienze, tutti affratellati dal vincolo della fede, desiderosi di porgere al Vicario di Gesù Cristo un atto di sentitissimo ossequio.

Eppure . . . «aquae multae non potuerunt exstinguere caritatem». Sull’inclemenza del tempo il fervore cristiano ha il sopravvento, per acclamare la venuta del Santo Padre; la S. Messa da Lui celebrata; la sua affettuosa Esortazione; i particolari di un colloquio iniziatosi con squisita intesa e perciò destinato a prolungarsi nel tempo.

Spostata alquanto la sede dell’incontro: ma sicuramente accresciuto l’entusiasmo dei protagonisti, - molti dei quali negli sgargianti costumi tradizionali - la sacra manifestazione si attua in ambiente di profonda religiosità e commozione, con l’altare disposto a ridosso della facciata del pre-seminario «Angelo Bartolomasi» a un duecento metri dall’accampamento nei pressi di Pomezia.

Il Santo Padre giunge alle ore 17 e passa tra due fitte ali di gitani e di altri fedeli provenienti da Roma e dalle città e paesi circonvicini.

Dopo il Vangelo, letto alla moltitudine in cinque idiomi diversi, l’omelia di Sua Santità.

Cari Zingari, cari Nomadi, cari Gitani, venuti da ogni parte d'Europa, a voi il Nostro saluto.

1. Il Nostro saluto a voi, pellegrini perpetui; a voi, esuli volontari; a voi, profughi sempre in cammino; a voi, viandanti senza riposo! A voi, senza casa propria, senza dimora fissa, senza patria amica, senza società pubblica! A voi, che mancate di lavoro qualificato, mancate di contatti sociali, mancate di mezzi sufficienti!

Saluto a voi, che avete scelto la vostra piccola tribù, la vostra carovana, come vostro mondo separato e segreto; a voi, che guardate il mondo con diffidenza, e con diffidenza siete da tutti guardati; a voi, che avete voluto essere forestieri sempre e dappertutto, isolati, estranei, sospinti fuori di ogni cerchio sociale; a voi, che da secoli siete in marcia, e ancora non avete fissato dove arrivare, dove rimanere!

2. Ecco: siete oggi arrivati qua; siete convenuti qua. Vi trovate fra voi, e quasi formate un popolo; vi incontrate con Noi, e vi accorgete che questo è un grande avvenimento, quasi una scoperta.

Comprendete, nomadi carissimi, il significato di questo incontro. Qui trovate un posto, una stazione, un bivacco, differente dagli accampamenti, dove di solito fanno tappa le vostre carovane: dovunque voi vi fermiate, voi siede considerati importuni e estranei; e restate timidi e timorosi; qui no; qui siete bene accolti, qui siete attesi, salutati, festeggiati. Vi capita mai questa fortuna? Qui fate un'esperienza nuova: trovate qualcuno che vi vuole bene, vi stima, vi apprezza, vi assiste. Siete mai stati salutati, durante le vostre interminabili escursioni, come fratelli? Come figli? Come cittadini eguali agli altri? Anzi come membri d'una società che non vi respinge, ma che vi accoglie, vi cura e vi onora? Che cosa significa questa novità? Dove siete arrivati?

Siete arrivati, innanzi tutto, in un mondo civile, che non vi disprezza, non vi perseguita, non vi esclude dal suo consorzio. Dovete riconoscere che la società circostante è molto cambiata da quella che qualche decennio fa vi proscrisse e vi fece tanto soffrire. Senza odio per chi verso di voi fu spietato e crudele, e fece vilmente morire tanti vostri simili. Noi diamo un pensiero di cordiale ricordo agli zingari vittime delle persecuzioni razziali, preghiamo per i vostri morti, e invochiamo da Dio per i vivi e per i defunti la pace, eterna per questi, terrena per tutti gli uomini di questo mondo. Sì, siate bravi e giusti; e riconoscete che la società oggi è migliore; e se voi preferite stare ai margini di essa, e tollerate perciò tanti fastidi, essa però offre a tutti la sua libertà, le sue leggi ed i suoi servizi.

3. Ma ciò che ora conta è una scoperta differente. Voi scoprite di non essere fuori, ma dentro un'altra società; una società visibile, ma spirituale; umana, ma religiosa; questa società, voi lo sapete, si chiama la Chiesa. Voi oggi, come forse non mai, scoprite la Chiesa. Voi nella Chiesa non siete ai margini, ma, sotto certi aspetti, voi siete al cento, voi siete nel cuore. Voi siete nel cuore della Chiesa, perché siete soli: nessuno è solo nella Chiesa; siete nel cuore della Chiesa, perché siete poveri e bisognosi di assistenza, di istruzione, di aiuto; la Chiesa ama i poveri, i sofferenti, i piccoli, i diseredati, gli abbandonati.

E' qui, nella Chiesa, che voi vi accorgete d'essere non solo soci, colleghi, amici, ma fratelli; e non solo fra voi e con noi, che oggi come fratelli vi accogliamo, ma, per un certo verso, quello cristiano, fratelli con tutti gli uomini; ed è qui, nella Chiesa, che vi sentite chiamare famiglia di Dio, che conferisce ai suoi membri una dignità senza confronti, e che tutti li abilita ad essere uomini nel senso più alto e più pieno; ed essere saggi, virtuosi, onesti e buoni; cristiani in una parola.

Noi siamo lieti del titolo di Capo della santa Chiesa, che senza Nostro merito Ci è conferito, per salutarvi tutti, cari Nomadi, cari Zingari, cari pellegrini sulle strade della terra, proprio come Nostri figli; per tutti accogliervi, per tutti benedirvi.

Vorremmo che il risultato di questo eccezionale incontro fosse quello di farvi pensare alla santa Chiesa, alla quale voi appartenete; di farvela meglio conoscere, meglio apprezzare, meglio amare; e vorremmo che il risultato fosse insieme quello di svegliare in voi la coscienza di ciò che voi siete; ciascuno di voi deve dire a se stesso: io sono cristiano, io sono cattolico. E se qualcuno di voi non può dire così, perché non ha tale fortuna, sappia che la Chiesa cattolica vuol bene anche a lui, lo rispetta, lo aspetta! E voglia lui pure guardare alla Chiesa con occhio sincero e con animo buono.

4. Questa risvegliata coscienza nei confronti della Chiesa deve essere il primo effetto di questa memorabile giornata. Ma non il solo. Vi sono tante altre cose che Noi desideriamo per voi e da voi. Come quando le vostre carovane, dopo lungo e faticoso cammino, arrivano in un bel posto verde e tranquillo, vicino ad un fiume limpido e fresco, e trovano ristoro, refrigerio e letizia, così vorremmo che questo convegno fosse benefico per voi di tanti conforti spirituali: quello della pace della coscienza, quello della promessa di mantenervi bravi ed onesti, quello della preghiera semplice e profonda, quello del perdono reciproco fra di voi, se mai i vostri animi fossero divisi e ostili; e così via. Noi pensiamo che dovrebbero migliorarsi i vostri rapporti con la società, che attraversate e toccate con le vostre carovane: come voi gradite trovare ristoro e ospitalità gentile, dove vi accampate, così voi dovrete procurare di lasciare ad ogni tappa un ricordo buono e simpatico: che la vostra strada sia disseminata da esempi di bontà, di onestà, di rispetto. Forse qualificandovi meglio in qualche lavoro artigianale potrete perfezionare il vostro stile di vita a vostro e altri vantaggio. Ma più che tutto vorremmo da voi una promessa: quella di accettare l'assistenza premurosa e disinteressata dei bravi Sacerdoti e delle brave persone, che qua vi hanno condotti e che ancora vogliono guidarvi sulle vie del bene e della fede, quasi scortando appunto come padri e fratelli, i vostri interminabili itinerari. Fidatevi! Non abbiamo nulla da chiedervi, se non che voi accettiate la materna amicizia della Chiesa. Potremo fare qualche cosa per voi, per i vostri figli, per i vostri malati, per le vostre famiglie, per le vostre anime, se accorderete alla Chiesa e a chi la rappresenta la vostra fiducia.

5. E a queste stesse persone vogliamo tributare la Nostra riconoscenza ed esprimere il Nostro incoraggiamento. Ai Vescovi, che hanno cuore per questi Nostri umili figli randagi, a Mons. Bernardin Collin, Vescovo di Digne, che per incarico della Nostra Congregazione Concistoriale presiede alle opere di assistenza pastorale ai Nomadi, al bravo Padre Fleury, S.J., promotore di così benefica attività, a D. Bruno Nicolini, a D. Mario Ambrogio Riboldi, e a tutti i Sacerdoti e Religiosi e Laici che si prodigano in favore degli Zingari, sia ora per loro l'aperta voce del Nostro encomio e della Nostra gratitudine. Sono queste degne persone, che dimostrano ed esercitano la carità della Chiesa e Nostra verso la gente nomade, e che per essere ministre ad esse delle Nostre benedizioni, le meritano per sé affettuose e speciali.

Ed ora, fratelli e figli, preghiamo insieme. Il Pellegrino divino, a cui non fu né lunga né grave l'infinita via che dal cielo lo condusse in terra per farsi nostro compagno nel viaggio della vita, sta per ritornare presente, qui, fra noi e per noi, nel Sacramento dell'altare. Raccogliamo i nostri animi, riscaldiamo le nostre preghiere: Cristo è vicino. Diciamogli con la misteriosa invocazione della Bibbia: «Vieni, Signore Gesù» (
Ap 22,20).

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Paterne espressioni per i gruppi della Francia

Chers tziganes, nomades et gitans de langue française, à vous Notre souhait particulier de bienvenue. Nous tenons à vous dire que vous êtes chez vous dans l’Église catholique, qui vous accueille, non seulement comme des compagnons, des collègues et des amis, mais comme des frères appartenant à la grande famille des enfants de Dieu.

Aussi est-ce comme nos propres fils que Nous vous saluons, que Nous vous accueillons, et que Nous vous bénissons, demandant au Seigneur que tette rencontre vous aide à mieux connaître et à mieux aimer l’Église du Christ Notre Seigneur. Et Nous bénissons d’une manière toute particulière Monseigneur Bernardin Collin, le bon Père Fleury, et tous ceux qui vous montrent le visage maternel et secourable de l’Église. Écoutez-les comme Nos envoyés, comme les ministres du Seigneur. Avec eux et pour vous, Nous le prions à toutes vos intentions.



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Elogio ai diletti gitani della Spagna

Un saludo también para vosotros, queridos gitanos venidos de Espana. Nuestra palabra tiene un acento de gratitud particular por el entrañable afecto con que habéis llegado aquí. Lo estamos leyendo en vuestros semblantes. Sabemos además cómo en medio de la dureza de vuestra peculiar vida surge, como flor en la escarpada, la expresión artística con que os convertís en mensajeros de alegría, y que cobra no raras veces matiz sagrado. Así nos lo dice el espectáculo, con que después de misa nos vais a representar la parábola de los invitados al banquete. ¡Gracias, gracias!

La asistencia religiosa y social que os presta la Iglesia en España, por medio de múltiples y laudables obras, se encuadra en organizaciones beneméritas, como la Caritas y la Comisión Episcopal de Emigración, y se enlaza en la historia con nombres tan gloriosos corno los de los sacerdotes Manjón y Poveda. Que el recuerdo de este día sea luz en vuestro camino.

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Cordiale saluto ai tzigani di lingua tedesca

Euch, liebe Zigeuner, die ihr aus allen Teilen Europas hierher zusammengekommen seid, gilt heute Unser väterlicher Gruss und Willkomm!

Ihr seid immer unterwegs, immer auf Wanderung, ohne bleibende Heimat. Hier in der Kirche aber habt ihr das Recht, euch heimisch zu fühlen, denn ihr seid Christen und seid Katholiken. Erfüllt als solche immer eure Pflichten: tuet das Gute, meidet das Böse! Von Herzen segnen Wir euch darum wie alle eure Lieben und erflehen euch wie euren eifrigen Seelsorgern Gottes bleibenden Schutz und seine überreiche Gnade.









B. Paolo VI Omelie 29865