B. Paolo VI Omelie 28105

Giovedì, 28 ottobre 1965: PROMULGAZIONE DI CINQUE DOCUMENTI CONCILIARI

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Venerabili Fratelli e Figli carissimi

Avete ora ascoltato le parole dell’Apostolo, che discorre dell’azione di Cristo Signore, il Quale dall’alto dei cieli continua nella Chiesa l’opera sua; opera non solo conservatrice di quella da Lui stesso compiuta durante la sua vita temporale sulla terra, ma edificatrice, progressiva cioè e accrescitiva, come già in un celebre episodio del Vangelo Egli stesso aveva annunciato, qualificandosi artefice degli sviluppi organici e coerenti dell’edificio da Lui fondato sulla Pietra da Lui stesso prescelta e resa idonea al sostegno di tanta mole: «Edificherò la mia Chiesa» (
Mt 16,18); dice infatti S. Paolo, nel brano della lettera agli Efesini testé offerto alla nostra meditazione: «Egli, Cristo, stabilì gli uni apostoli, gli altri profeti, gli altri evangelisti, gli altri pastori e maestri, per il perfezionamento dei santi, in vista dell’opera di ministero, che è l’edificazione del corpo di Cristo, fino a tanto che ci riuniamo tutti nell’unità della fede e nel riconoscimento del Figlio di Dio, giungendo alla maturità dell’uomo fatto, alla misura di età della pienezza di Cristo» (Ep 4,11-13). Questo fatto, divino nella sua causa, umano nella sua storica e sperimentale consistenza, è ancor oggi tangibile ai nostri sensi spirituali, solo ch’essi siano aperti a tanto prodigio. Noi possiamo far nostra la parola messianica, già espressa da Gesù: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura nelle vostre orecchie» (Lc 4,21).

Che cosa infatti avviene oggi in questa basilica? Voi lo sapete: avviene che in questo sacrosanto Concilio, guida e sintesi della santa Chiesa di Dio, dopo non poco studio e ripetuta preghiera, si promulgano tre Decreti di grande importanza, riguardanti la vita della Chiesa medesima; e cioè l’ufficio pastorale dei Vescovi, la vita religiosa, la formazione sacerdotale; a queste leggi solenni due non meno solenni dichiarazioni fanno seguito: circa l’educazione cristiana e circa le relazioni della Chiesa cattolica con coloro che professano altre religioni. Non occorre che Noi illustriamo il contenuto, a voi notissimo, di questi documenti, non la gravità, non l’estensione ch’essi avranno nel mondo e nel tempo, non la loro ripercussione, che speriamo oltremodo salutare, nelle anime e nel successivo svolgimento della vita ecclesiastica, perché ognuno di voi ha già valutato questi aspetti mirabili degli atti in questione. Diremo piuttosto a noi stessi che sarà sommamente proficuo per noi e per il nostro ministero se vorremo, anche dopo la loro promulgazione, nuovamente e tranquillamente considerare simili pronunciamenti, che la Chiesa, nell’esercizio più alto e più responsabile del suo ministero, certamente mossa dallo Spirito Santo, trae dal seno della sua interiore sapienza ed a se stessa propone come conquista del suo amoroso e laborioso pensiero, fissa a se stessa come nuovo impegno, che non già la aggrava, ma la sostiene e la sublima, e le conferisce quella pienezza, quella sicurezza, quella letizia, a cui altro nome non possiamo dare che quello di vita.

La Chiesa vive! Eccone la prova; eccone il respiro, la voce, il canto. La Chiesa vive!

Non siete, Venerabili Fratelli, per questo accorsi alla convocazione di questo Concilio ecumenico? Per sentir vivere la Chiesa, anzi per farla più intensamente vivere, per scoprire non già gli anni della sua vecchiaia, ma la giovanile energia della sua perenne vitalità, per ristabilire fra il tempo, che passa ed oggi, nelle mutazioni che esso provoca e presenta, si fa travolgente, e l’opera di Cristo, la Chiesa, un rapporto nuovo, che non storicizza, non relativizza alle metamorfosi della cultura profana la natura della Chiesa sempre eguale e fedele a se stessa, quale Cristo la volle e la autentica tradizione la perfezionò, ma la rende meglio idonea a svolgere nelle rinnovate condizioni dell’umana società la sua benefica missione? Per questo siete venuti; ed ecco che questi atti conclusivi del Concilio ce ne dànno esperienza: la Chiesa parla, la Chiesa prega, la Chiesa cresce, la Chiesa si costruisce.

Noi dobbiamo gustare questo stupendo fenomeno; noi dobbiamo avvertirne l’aspetto messianico: da Cristo viene la Chiesa, a Cristo va; e questi sono i suoi passi, gli atti cioè con cui essa si perfeziona, si conferma, si sviluppa, si rinnova, si santifica. E tutto questo sforzo perfettivo della Chiesa, a ben guardare, altro non è che un’espressione d’amore a Cristo Signore; a quel Cristo che suscita in essa l’esigenza di essere e di sentirsi fedele, di mantenersi autentica e coerente, viva e feconda; e che a Sé, Sposo divino, la chiama e la guida. E questo movimento ha la sua causa ministeriale precisamente nell’apostolicità della Chiesa, in quella funzione, di cui Cristo ha dotato il suo corpo mistico e sociale, e che mette in evidenza ed efficienza una gerarchia apostolica e pastorale, la quale deriva parola, grazia e potere dal Signore medesimo, li conserva, li perpetua, li trasmette, li esercita, li sviluppa, rendendo vivo e santo al di dentro, visibile, cioè sociale e storico al di fuori il Popolo di Dio.

Noi stiamo celebrando uno dei momenti più pieni e più significativi di tale apostolicità; noi dobbiamo sentircene investiti, non già per attribuire merito alle nostre persone, ma per far risalire a Cristo la gloria di atti, che, nel suo nome e in virtù dello Spirito Santo ch’Egli c’infonde, stiamo compiendo, e per far discendere, umili ministri mediatori quali noi siamo, alla grande famiglia di Dio, ch’è la santa Chiesa, gli incrementi costruttivi approntati per la sua edificazione tuttora in atto.

Ci piace perciò che questo avvenga nella festa dei Santi Apostoli Simone e Giuda, all’onore dei quali una parola del Signore è stata dedicata, con la lettura del Vangelo ora ascoltata, nella quale parola non della facilità e della felicità della missione apostolica è fatta promessa, sì bene della difficoltà ch’essa incontra e della sofferenza riservata, a chi la esercita, è data lezione.

Ci piace, altresì, che questo si verifichi nel giorno anniversario dell’elezione del Nostro venerato Predecessore Giovanni XXIII, alla cui ispirata idea si deve la convocazione del Concilio.

Ci piace pertanto l’essere con Noi, concelebranti intorno a questo apostolico altare, alcuni Vescovi, Fratelli carissimi, rappresentanti di terre, dove la libertà, a cui il Vangelo ha sovrano diritto, è limitata o negata, testimoni alcuni stessi di loro della sofferenza, di cui è fatto segno l’apostolo di Cristo. A questi Fratelli, alle Chiese, di cui Ci portano il ricordo della generosa passione, ai Paesi, ch’essi con la loro presenza ci fanno maggiormente amare, sia con questa nostra sacrificale preghiera l’espressione della nostra solidarietà, della nostra carità, del nostro voto di giorni migliori.

Così a quei Vescovi Fratelli, qui con noi presenti e provenienti da Nazioni, dove la pace è turbata con tante lacrime e sangue e rovine, e con tanta minaccia di nuovi dolori, un affettuoso saluto augurale affinché l’ordine con la giustizia, la concordia e la pace sia nelle loro contrade felicemente ristabilito.

E parimente a voi tutti, Fratelli in Cristo carissimi, apostoli e pastori nel suo nome, araldi del suo Vangelo e costruttori della sua Chiesa, sia con la comunione della presente celebrazione, alla quale partecipate, ovvero assistete, l’assicurazione della Nostra carità e l’invito a perseverare con Noi concordi ed unanimi, confortati dai nuovi decreti conciliari a edificare la santa Chiesa di Dio.

E voglia il Signore, che abbiamo misticamente e fra poco sacramentalmente con noi, confortare e santificare il nostro apostolico e pastorale ufficio; ne profitti e ne gioisca l’universale comunità del Clero, dei Religiosi, dei Fedeli, come per novella ostensione di carità; a ciò Cristo ha infatti ordinato il ministero gerarchico.

E vogliamo a questa manifestazione del volto reso più bello della Chiesa cattolica guardare i nostri cari Fratelli cristiani, tuttora separati dalla sua piena comunione; vogliamo parimente guardare i seguaci delle altre Religioni, fra tutti quelli a cui la parentela di Abramo ci unisce, gli Ebrei specialmente, non già oggetto di riprovazione o di diffidenza, ma di rispetto e di amore e di speranza.

La Chiesa infatti progredisce nella fermezza della verità e della fede, e nell’espansione della giustizia e della carità. Così vive la Chiesa.





Martedì, 2 novembre 1965: SANTA MESSA IN SUFFRAGIO DEI DEFUNTI

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Siamo qui riuniti - incomincia il Santo Padre - con il proposito di onorare religiosamente i nostri defunti: coloro cioè che ci hanno preceduti «cum signo fidei et dormiunt in somno pacis». Ognuno - come è ovvio - ricorda anzitutto i propri cari, specie coloro la cui dipartita è meno lontana, sì che la cicatrice del dolore non è ancora rimarginata. Poi il pensiero torna alle persone conosciute, a coloro che hanno avuto con noi vincoli di parentela, o rapporti di professione ed amicizia, che con noi hanno condiviso le vicende del pellegrinaggio terreno, partecipando alla nostra vita sociale.

UN RELIGIOSO SACRO DOVERE

L’animo, il ricordo si volge quindi a tutti gli scomparsi appartenenti alle singole parrocchie, ai paesi, ai centri urbani: specialmente alla città e diocesi di Roma, alla nostra terra, al popolo tra cui viviamo.

L’orizzonte si allarga ancora, e sentiamo doverosa la preghiera per gli altri defunti, a cominciare dalle vittime delle guerre del nostro tempo, sino ai molti caduti anche in questi giorni perché gli uomini non sono capaci di essere fratelli. Si arriva, infine, con tale sentimento di umana pietà, all’aiuto cristiano a quanti sono avvolti dall’oblio, a pro dei quali nessuno prega, e che proprio da noi aspettano l’aiuto per passare dalle sofferenze della espiazione alla luce del Signore.

Un sacro dovere, dunque, di religiosa, universale solidarietà. Si tratta, è vero, d’un obbligo triste e penoso: ed esso rimarrebbe nei termini d’un dolore sconsolato, se noi ci limitassimo solo all’aspetto umano di quanto sentiamo di fronte alla morte. Sappiamo tutti che tale condoglianza non è sufficiente e che il considerare solo in termini terreni ciò che avviene con la morte e dopo la morte, ci atterrisce. Le cognizioni umane, in proposito, non ci dicono nulla: e generano soltanto smarrimento, fantasie, sconforto. Perciò non bastano questi limitati sentimenti a commemorare degnamente e piamente i nostri defunti. Occorre ben altro: ed ecco la lampada della nostra santa Religione venirci incontro per illuminarci, guidarci ed indicare, in ogni momento, quel che si deve pensare e compiere dinanzi al trapasso dalla esistenza nel tempo all’eternità.

Non è che questa lampada dissipi, nel campo in esame, tutte le tenebre, San Paolo ci ricorda che noi, adesso vediamo come per riflesso, in aenigmate. Nondimeno quel che la Religione ci fa intravedere della vita d’oltre tomba è tale da darci grandi certezze, alimentate e sorrette dalle tre virtù teologali. La fede, la speranza, la carità vengono ad impartirci insegnamenti di luce sì da rendere possibile, anzi doverosa, una comunione con i nostri defunti.



VIVREMO NELLA IMMORTALITÀ

Ben oltre i semplici eppur apprezzabili dati della ragione, che arriva a dimostrare l’immortalità dell’anima senza però nulla dirci della vita futura, la fede ci dà il quadro completo della vita, anzitutto di quella presente, per quindi elevare il nostro spirito ed immergerlo nella somma verità: noi siamo immortali. Noi non moriremo più: siamo nati ieri e abbiamo davanti a noi l’eternità da vivere. La morte che può essere vicina e che, comunque, per la durata del tempo, non è lontana, tocca solo in una maniera episodica la nostra esistenza.

Siamo usciti dalle mani di Dio, che ci ha creati, per vivere sempre. Questa coscienza, di cui ora disponiamo, non si spegnerà mai. Ognuno può dire: il mio essere non sarà più assorbito da un sonno di morte, cioè di annullamento e di distruzione.


LA FEDE CERTEZZA DEI BENI SUPREMI

Vivrò! Questa nozione, che ci fa contemplare il vero programma e panorama della nostra esistenza, è, da un lato, consolantissima; dall’altro ci prospetta gravi pensieri di arduo dominio. Se siamo fatti per la eternità, che rapporto c’è fra la vita presente e quella futura? Mirabile è la risposta. Noi sappiamo che la morte va considerata come una lanterna posta ad illuminare il mutamento della nostra vita temporale, facendoci ben vedere un rapporto di responsabilità nei confronti del nostro destino eterno. Siamo noi a formare la nostra fisionomia per l’avvenire. Quel che facciamo ora ha una ripercussione nell’eternità. Di qui il peso e il valore della nostra vita presente. «Opera enim illorum sequuntur illos»: è stato letto poco fa nel brano dell’Apocalisse. Le nostre azioni ci seguono: diventano perciò di una importanza enorme. Bisogna pensarle e considerarle appieno; occorre essere perfetti, essere santi. Ogni azione, infatti, ha la sua portata al di là del tempo; incide non nel vuoto, ma nel nostro essere. Saremo, di fronte a Dio, quali ci stiamo plasmando con la nostra volontà, con le nostre virtù.

Consegue doverosa una domanda: come si perverrà a un grado di perfezione, alla piena corrispondenza al supremo destino stabilito da Dio? Rimanendo uniti, sempre, alle fonti della vita: a Cristo Signore benedetto, il Quale ha proclamato: «Ego sum resurrectio et vita»: Io sono la risurrezione e la vita. Così è: questa la norma indefettibile. Quale gioia il ricordare che, nell’imminenza della nostra nascita alla vita soprannaturale, quando abbiamo ricevuto il santo Battesimo, alla richiesta: che cosa cerchi dalla Chiesa? qualcuno ha dato, per noi, la risposta splendente: cerco la fede! E che cosa ti dà la fede? La vita eterna!


«CON LA SPERANZA SIAMO SALVI»

La fede ci inserisce nell’albero dell’eterna vita: Cristo. L’essere uniti con Cristo è necessità essenziale per noi. Se siamo innestati in Lui e cristiani vivi, il nostro destino è bene assicurato e i nostri giorni possono anche consumarsi rapidamente: non importa. Sappiamo d’essere incamminati non verso l’oscurità, l’annullamento, il castigo del nostro essere, ma verso l’oceano della vita: Cristo, la nostra redenzione e salvezza, il nostro premio.

Giunge ora la speranza a fornirci anch’essa i suoi beni. Il primo è il conforto: è il togliere le inquietudini che non hanno sollievo; è il sentire vicino a noi la voce grave e autorevole del Maestro ripeterci: «Noli fiere»: non piangere! Un pianto disperato non è cristiano, lacrime che scorrono senza consolazione non sono lacrime benedette. E Gesù spiega: Sì, tu puoi sentire il dolore, la morte, la separazione dai tuoi, l’intera amarezza retaggio della prima colpa; puoi sì piangere, ma non con la disperazione nel cuore e con gli occhi annebbiati e incapaci di scorgere la luce che ti aspetta.

Non vogliate piangere i scrive San Paolo ai Tessalonicesi - come coloro «qui spem non habent», giacché appunto il Cristianesimo, la nostra fede, la nostra unione con Cristo ci danno l’incrollabile sicurezza. «Spe salvi facti sumus»: già con la speranza siamo salvi. Potenzialmente, anzi, sin d’ora siamo al di là dell’abisso tenebroso, al di là della morte: e possiamo procedere con quella serenità, che rende accetta ed agevole la stessa vita presente.



LA CARITÀ PROSEGUE NEL CIELO

Abbiamo un pegno nella bontà di Dio, nella sua fedeltà, larghezza e misericordia. Egli ci aspetta, ci chiama; perciò sostiene il nostro pellegrinaggio terreno con la sicurezza dell’incontro finale con Lui. Ed ecco la carità. Fiorisce cioè questa eccelsa virtù che, come dice San Paolo, giammai verrà meno, e non si spegnerà. La fede, la speranza si risolveranno nella visione di Dio e nel suo godimento nella vita futura. La carità no: quel che oggi noi compiamo nella ricerca di Dio, nel volergli bene, nel seguirne i precetti e nell’essere uniti a Cristo: questo slancio, che si chiama amore soprannaturale, carità, durerà sempre. Sarà il nostro sentimento indistruttibile. Adesso palpita nel desiderio, domani rifulgerà nella pienezza del possesso: ma rimarrà sempre identico per origine e natura. Sarà sempre l’anelito di congiungerci al Signore: ad esso è assicurato un totale compimento.

Ora, sappiamo che questo vincolo esistente fra Dio e noi arriva a porsi in comunicazione anche con le anime dei nostri defunti. Il messaggio di amore che noi loro mandiamo perviene ad esse attraverso il misterioso canale costituito dalla Comunione dei Santi, il regno della carità. Riusciamo, quindi, a metterci in reale comunicazione con i trapassati e a ricevere da loro qualche messaggio, non fosse altro che il ricordo dei loro atti ed esempi edificanti; e sentirci, così, già in società restituita, anzi piena, con tutti i nostri defunti.

Quale la conclusione di quanto si è qui rammentato? Dobbiamo attuare in esercizio volenteroso i grandi suggerimenti di fede, di speranza e di carità: e guardare sì la vita con il richiamo luminoso che ci viene dai nostri defunti, ma soprattutto possedere questo supremo, vittorioso slancio di amore, che il Signore dà e fa circolare tanto in questa vita quanto in quella della beatitudine.



IL SUFFRAGIO: SUBLIME ATTO D’AMORE

A che cosa ci obbligano, allora, i rapporti, indicatici dal Signore, con coloro che ci hanno preceduti? Essi ci richiamano proprio a quel dovere che noi stiamo adesso piamente compiendo: suffragare i nostri Morti. La comunicabilità dei meriti è uno dei frutti della sopravvivente carità. Noi possiamo aiutare i cari defunti; possiamo beneficarli. Che cosa non faremmo, se ci fossero vicini? Ebbene: li abbiamo, in certo modo, accanto, e proprio nel circuito della carità. Cerchiamo, perciò, di essere solleciti e generosi con il suffragio. Tutti sanno come esso si esprima: con le opere buone, i sacrifizi, specialmente con le elemosine e con la preghiera.

È quanto facciamo in questo momento, cercando di dilatare il nostro cuore per includervi, insieme con i nostri cari, tutti gli altri a cui la carità ci indirizza: cioè il mondo intero e tutti i defunti che fanno parte della Chiesa in stato di purificazione. Cerchiamo di consolare questa immensa schiera di anime non solo con la nostra memoria, ma proprio con la carità della nostra preghiera, del nostro suffragio.

E quel Dio, che è così buono d’averci dato la vita, quel Dio che veglia sopra di noi e ci ha fatti cristiani, riversando sulle nostre anime tante grazie, mentre sta a vedere se di esse ci accorgiamo, se rispondiamo con amore all’amore, accoglierà certamente il nostro impegno di carità per i diletti Defunti. Ascolterà le nostre preci, affretterà per loro il giorno solare della vita eterna; e darà a noi più salda certezza; anche un anticipo del nostro destino supremo. Saremo salvi per la bontà del Signore. E così sia!





Domenica, 21 novembre 1965: PARROCCHIA DI SAN GIOVANNI BATTISTA A CASAL BRUCIATO

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Dopo d'avere ascoltato insieme la parola del Signore nella nuova chiesa, ascoltiamo ora la voce delle cose e delle persone, che qui incontriamo. Le persone: ecco il Nostro Cardinale Vicario Traglia — accompagnato dal Vicegerente Monsignor Cunial, dagli Ausiliari Monsignori Pecci e Canestri e dal Delegato Monsignor Camagni — che qui gode con Noi la visita a questo nuovissimo Centro Internazionale per la Gioventù Lavoratrice, e Ci presenta un’opera che onorerà Roma cattolica.

Ecco Monsignor José Maria Escriva de Balaguer, notissimo fondatore dell’Istituto secolare «Opus Dei», al quale è affidato questo Centro; ed ecco i Soci dell’«Opus Dei», che fanno gli onori di casa e già Ci mostrano i primi risultati della loro attività.

Ecco Monsignor Angelo Dell’Acqua, Sostituto della Nostra Segreteria di Stato, promotore di questa nuova e grande istituzione, dovuta alla generosità di quanti hanno voluto onorare Pio XII, e di Papa Giovanni XXIII, che a quest’opera ha destinato le somme raccolte in omaggio al suo Predecessore.

Ecco qui gli operatori della grande impresa: architetti, ingegneri, tecnici, maestranze, operai; e poi sacerdoti, maestri, dirigenti; e finalmente la gioventù ospite di questa Casa, alunni ed alunne delle Scuole professionali, che qui hanno cominciato a funzionare, e giovani, venuti un po’ da ogni parte, dall’Italia e da altri Paesi e primi testimoni del carattere nazionale e internazionale di questo Centro.

Ecco infine le Autorità ecclesiastiche e civili, che onorano con la loro presenza questa inaugurazione; ecco qui una rappresentanza dei Padri del Concilio ecumenico, dell’Episcopato Spagnolo in particolare; ecco finalmente la folla, la popolazione di questo quartiere, e la schiera dei conoscenti e degli amici. Cerchiamo indarno tra i presenti una persona che avremmo voluto qui incontrare: quella del compianto Barone Prof. Francesco Mario Oddasso, tanto benemerito, sia finanziariamente che moralmente verso la fondazione di . quest’opera; uomo pio, retto, benefico e tanto propenso verso l’elevazione cristiana del lavoratore, Noi lo pensiamo ora in ,Dio e lo vogliamo spiritualmente presente a questa inaugurazione.

A tutta questa corona di persone il Nostro cordiale saluto. Il Nostro saluto ha un accento di riverenza per tutte le persone autorevoli, qualificate e rappresentative qui presenti; ha un accento di riconoscenza per tutte le persone benemerite nella ideazione, nell’esecuzione, nel finanziamento di questo Centro; ed ha il Nostro saluto un accento di affezione per quelli che a questo Centro appartengono, ai carissimi giovani ai quali esso è destinato. E dica questo troppo breve saluto come la voce d’ogni persona, che per qualsiasi ragione qua confluisce, Ci risuona nel cuore; come Noi la ascoltiamo con interesse e con rispondenza; come la vorremmo prolungare a dialogo, perché questo, sì questo, è un punto d’incontro, a cui volentieri Ci concediamo, per il suo significato sociale e educativo, per il suo scopo pastorale e religioso, per le sue intenzioni commemorative e celebrative. La Nostra presenza dica appunto quanto questo luogo, quest’opera, queste persone richiamino la Nostra simpatia e la Nostra fiducia; diciamo di più: il Nostro ministero, sia pastorale che apostolico. E basti a tutto dire il fatto che Noi siamo felici oggi d’essere qui, con voi e per voi.

Questa testimonianza del cuore vi dice che non solo qui ascoltiamo la voce delle persone presenti, ma ascoltiamo altresì la voce delle cose; la voce che già quest’opera nascente pronuncia; vogliamo dire il significato intenzionale, che l’ha fatta sorgere e che, a Dio piacendo, la farà vivere e prosperare.

Ascoltiamo. A voi giovani specialmente Ci rivolgiamo in questo momento. Qual è l’idea, che ha fatto sorgere questa opera? Perché si sono costruiti questi edifici? Perché sono stati aperti per ricevervi e per educarvi ? Che cosa volevano fare Papa Pio XII e Papa Giovanni XXIII dando origine a questa fondazione?

La risposta è semplice. Ma fate attenzione e ricordatela. Questa opera vuole essere una prova dell’interesse, della stima, della fiducia, dell’affezione di quei Papi veneratissimi per la gioventù lavoratrice. Una prova tangibile, una prova evidente, una prova nuova, una prova comprensibile e gradita: la prova dei fatti. Certamente tutti voi saprete quanto i Papi, di questi ultimi tempi specialmente, hanno parlato circa la questione sociale, e perciò circa quanto tocca voi personalmente, giovani carissimi, che siete, in un certo senso, i protagonisti della questione sociale. Parlato: discorsi, documenti, encicliche; in tanti modi, in tanti toni, in tante occasioni. Sì; si potrebbe dire che i Papi sono stati non solo i maestri in questo tremendo e difficile problema riguardante l’ordine sociale, ma sono stati anche i vostri avvocati. Potremmo citare molte ed alte e forti parole pontificie in difesa della gioventù lavoratrice, in vantaggio dei figli del popolo, in soccorso dei fanciulli e dei giovani provenienti dalle classi sociali meno favorite ed esposti perciò a maggiori bisogni ed a maggiori pericoli. Giovani, dovete ricordare questo: i Papi —e con loro i Vescovi, i cattolici, la Chiesa — sono stati molte e molte volte i vostri difensori, i vostri interpreti, i vostri tutori ed amici.

Ma Noi conosciamo l’obbiezione che spesse volte è mossa a chi prospetta questo merito del ministero della Chiesa e dell’azione sociale dei cattolici, il merito cioè d’aver sempre preso la difesa dei deboli, dei bisognosi, dei giovani privi di risorse e di assistenza; e l’obbiezione è questa: sono parole, belle parole, ma solo parole. Ma non è così. E lo neghiamo senza ritorcere ora, come per molti casi si potrebbe, l’accusa di retorica a chi così giudica l’apologia dei Papi e della Chiesa per l’elevazione delle classi lavoratrici. Lo neghiamo, perché non è vera la ragione su cui l’accusa si fonda: che cosa può fare la religione, che si occupa di cose spirituali, per i problemi temporali, per le questioni economiche e sociali di questo mondo? Che ne sa la Chiesa di queste cose, che non sono di sua competenza? Fate attenzione: una religione, sì, tutta rivolta a Dio, al regno dei cieli, ma fatta per l’uomo, per il suo bene, può forse ignorare i problemi concreti della vita dell’uomo, anche se riguardano un ordine temporale, che non può essere praticamente ignorato per la costruzione dell’ordine spirituale? e se questa stessa religione si fonda essenzialmente sul grande precetto della carità, può essere incompetente, può essere inabile ad affrontare i problemi reali, in cui si dibatta quel prossimo che della carità è l’oggetto immediato?

L’interesse infatti della Chiesa per le classi lavoratrici non è mai stato soltanto religioso, verbale e dottrinale; né tanto meno è stato retorico e vano; è stato sempre ed anche pratico, positivo, reale. Potrà essere stato limitato, perché limitati sono i mezzi di cui la Chiesa dispone, ma non mai è mancato da parte della Chiesa con il dono della parola il dono del pane, vogliamo dire il dono dell’ausilio pratico e concreto a beneficio di coloro ai quali la parola era destinata. Anzi: se volessimo fare la storia dell’interessamento della Chiesa per il bene del popolo in necessità, vedremmo che maggiore è stata l’opera effettiva di soccorso, di assistenza, di educazione, compiuta dalla Chiesa, che non la parola detta a questi stessi fini. Prima d’essere teorica la sociologia cattolica è stata pratica. L’azione della Chiesa è stata più silenziosa e operativa, che magistrale e discorsiva: date uno sguardo a tutte le istituzioni sociali e caritative, che ora la comunità civile assume a proprio carico per dare all’azione sociale un contenuto positivo, e vedrete che esse sono nate primieramente dalla carità cattolica, che spesso con umili mezzi e poi talora con magnifiche istituzioni, ha dimostrato come la Chiesa sia stata all’avanguardia della cura amorosa, gratuita, sapiente, indefessa dei bisogni scoperti e trascurati dei più modesti strati sociali; l’opera salesiana, per citarne una, o quella dei Fratelli delle Scuole Cristiane, e l’assistenza ai malati da parte di tante famiglie religiose dicono qualche cosa!

Ma ritorniamo a ciò che stavamo dicendo: questa istituzione, che voi qui vedete quanto bella, grande e moderna, vuol essere una prova, una nuova prova dell’amore che la Chiesa, che i Papi ancor oggi nutrono per la gioventù lavoratrice. Essa non certo esaurisce il loro amore e il loro dovere; ma essa ne offre la testimonianza, ne è il segno, ne è l’impegno. E come tale, voi carissimi giovani, dovrete giudicarla. Quest’opera, come tutte le opere benefiche della Chiesa, non nasconde alcun proprio interesse temporale; è un’opera del cuore; è un’opera di Cristo; è un’opera del Vangelo, tutta rivolta cioè a beneficio di quelli che ne profittano. Non è un semplice albergo, non una semplice scuola, non è un campo sportivo qualsiasi: è un centro dove l’amicizia, la fiducia, la letizia, formano atmosfera; dove la vita ha una sua dignità, un suo senso, una sua speranza; è la vita cristiana, che qui si afferma e si svolge, e che qui vuol dimostrare che la Chiesa, madre e maestra, è presente, come dicevamo, in mezzo alla gioventù lavoratrice; vuol dimostrare che dove è più la fede — la religione, la preghiera, l’osservanza cristiana —, come qui lo sarà, più viva è la carità, più sensibile é più operante l’amore, più generosa e geniale l’arte di conoscere e di assistere i bisogni del prossimo; vuol dimostrare che l’azione sociale della Chiesa fa sue le istanze dei problemi moderni, di quelli specialmente che si riferiscono alla scuola e al lavoro; vuol dimostrare che la visione della Chiesa, anche quando è concentrata, per esigenze di concretezza, in un punto locale e in una determinata forma d’azione, non è ristretta, non è chiusa, ma aperta al ricordo e al soccorso dei bisogni internazionali; non cessa d’essere, almeno intenzionalmente, universale; ecumenica, come oggi si dice.

Noi ricordiamo una triste giornata lontana, dell’immediato dopo guerra. Per motivi di assistenza, derivanti dal Nostro servizio alle immediate dipendenze del Papa Pio XII, di venerata memoria, Noi venimmo un giorno, proprio in questo quartiere Tiburtino, per vedere che cosa si poteva fare per portare qualche soccorso a tanti bisogni, che qui sembravano particolarmente acerbi, ed erano caratterizzati dai penosi fenomeni della miseria, della disoccupazione, della massa dei ragazzi — gli sciuscià — randagi per le strade. Fu allora che Ci vedemmo circondati da un folto gruppo di giovanotti, che subito si strinsero d’intorno a Noi e a quelli che Ci accompagnavano; e quei giovanotti si misero a implorare: «Ci faccia lavorare! Ci dia un lavoro!». Era una pena: come provvedere, in quelle condizioni, a così elementare e legittima esigenza? Chiedemmo loro, tanto per cercare una soluzione positiva: «Che cosa sapete fare?». Risposero quei giovani: «Tutto! Cioè nulla!». Nulla: non avevano alcuna preparazione, nessuna capacità, nessuna «qualificazione», come ora si dice. E naturalmente non fu possibile soddisfare quella loro commovente e straziante domanda, se non con insufficienti rimedi e indicazioni. Noi portammo sempre nel cuore l’immagine di quella. scena, con l’umiliazione di non aver allora potuto offrire l’onesto, il nobile soccorso a Noi domandato, il lavoro; e con l’afflizione sempre cocente di aver incontrato giovani, pieni di forza e di buona volontà, mortificati dalla loro imperizia, che li escludeva dall’inserimento nel sistema produttivo e nell’ordine economico indispensabile per vivere.

Ebbene quell’amarezza trova oggi, trova qui, per Noi finalmente una consolazione. Quest’opera sembra una risposta, tardiva, ma sempre tempestiva e quanto mai provvida ed efficace, a quella domanda dei giovani avviliti e disoccupati, per farne giovani allegri, laboriosi e fiduciosi. Noi perciò la benediciamo di cuore.





Martedì, 7 dicembre 1965: ULTIMA SESSIONE PUBBLICA DEL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II

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ALLOCUZIONE DI SUA SANTITÀ PAOLO VI



Noi concludiamo quest’oggi il Concilio Ecumenico Vaticano Secondo. Lo concludiamo nella pienezza della sua efficienza: la vostra tanto numerosa presenza lo dimostra, la ordinata compagine di questa assemblea lo attesta, il regolare epilogo dei lavori conciliari lo conferma, l’armonia dei sentimenti e dei propositi lo proclama; e se non poche questioni, suscitate nel corso del Concilio stesso, rimangono in attesa di conveniente risposta, ciò indica che non nella stanchezza si chiudono i suoi lavori, ma nella vitalità che questo Sinodo universale ha risvegliata, e che nel periodo post-conciliare, con l’aiuto di Dio, rivolgerà a tali questioni le sue generose e ordinate energie. Questo Concilio consegna alla storia l’immagine della Chiesa cattolica raffigurata da quest’aula, piena di Pastori professanti la medesima fede, spiranti la medesima carità, associati nella medesima comunione di preghiera, di disciplina, di attività, e - ciò ch’è meraviglioso - tutti desiderosi d’una cosa sola, di offrire se stessi, come Cristo nostro Maestro e Signore, per la vita della Chiesa e per la salvezza del mondo. E non solo l’immagine della Chiesa manda ai posteri questo Concilio, ma il patrimonio altresì della sua dottrina e dei suoi comandamenti, il «deposito» ricevuto da Cristo e nei secoli meditato, vissuto ed espresso, ed ora in tante sue parti chiarito, stabilito e ordinato nella sua integrità; deposito vivo per la divina virtù di verità e di grazia, che lo costituisce, e perciò idoneo a vivificare chiunque piamente lo accolga e ne alimenti la propria umana esistenza.

Gloria a Dio

Che cosa dunque il Concilio sia stato, che cosa abbia operato sarebbe il tema naturale di questa Nostra finale meditazione. Ma troppo essa richiederebbe di attenzione e di tempo; né forse in questa ora nuovissima e stupenda Ci basterebbe l’animo di fare tranquillamente una tale sintesi. Noi vogliamo riservare questo momento prezioso ad un solo pensiero, che curva in umiltà i nostri spiriti e li solleva nello stesso tempo al vertice delle nostre aspirazioni. Il pensiero è questo: quale è il valore religioso del nostro Concilio? Religioso diciamo per il rapporto diretto col Dio vivente, quel rapporto ch’è ragion d’essere della Chiesa e di quanto ella crede, spera ed ama, di quanto ella è e fa.

Possiamo noi dire d’aver dato gloria a Dio, d’aver cercato la sua conoscenza ed il suo amore, d’aver progredito nello sforzo della sua contemplazione, nell’ansia della sua celebrazione, e nell’arte della sua proclamazione agli uomini che guardano a noi come a Pastori e Maestri delle vie di Dio?

Noi crediamo candidamente che sì. Anche perché da questa iniziale e fondamentale intenzione scaturì il proposito informatore del celebrando Concilio. Risuonano ancora in questa Basilica le parole pronunciate nella Allocuzione inaugurale del Concilio medesimo dal Nostro venerato predecessore Giovanni XXIII, che possiamo ben dire autore del grande Sinodo. Egli allora ebbe a dire: «Quod Concilii Oecumenici maxime interest hoc est, ut sacrum doctrinae christianae depositum efficaciore ratione custodiatur atque proponatur . . . Verum profecto est, Christum Dominum ham pronuntiasse sententiam: - quaerite primum regnum Dei et iustitiam eius - Quae vox primum declarat, quo potissimum vires et cogitationes nostras, dirigi oporteat» (Discorsi, 1962, p. 583).

Nel tempo

E all’intenzione il fatto è succeduto. Per valutarlo degnamente bisogna ricordare il tempo in cui esso si è compiuto; un tempo, che ognuno riconosce come rivolto alla conquista del regno della terra piuttosto che al regno dei cieli; un tempo, in cui la dimenticanza di Dio si fa abituale e sembra, a torto, suggerita dal progresso scientifico; un tempo, in cui l’atto fondamentale della personalità umana, resa più cosciente di sé e della sua libertà, tende a pronunciarsi per la propria autonomia assoluta, affrancandosi da ogni legge trascendente; un tempo, in cui il laicismo sembra la conseguenza legittima del pensiero moderno e la saggezza ultima dell’ordinamento temporale della società; un tempo, inoltre, nel quale le espressioni dello spirito raggiungono vertici d’irrazionalità e di desolazione; un tempo, infine, che registra anche nelle grandi religioni etniche del mondo turbamenti e decadenze non prima sperimentate. In questo tempo si è celebrato il nostro Concilio a onore di Dio, nel nome di Cristo, con l’impeto dello Spirito, «che penetra tutte le cose», «omnia scrutatur», e che tuttora anima la Chiesa «ut sciamus quae a Deo donata sunt nobis» (cfr.
1Co 2,10-12), dandole cioè la visione profonda e panoramica insieme della vita e del mondo. La concezione teocentrica e teologica dell’uomo e dell’universo, quasi sfidando l’accusa d’anacronismo e di estraneità, si è sollevata con questo Concilio in mezzo all’umanità, con delle pretese, che il giudizio del mondo qualificherà dapprima come folli, poi, Noi lo speriamo, vorrà riconoscere come veramente umane, come sagge, come salutari; e cioè che Dio È. Sì, È reale, È vivo, È personale, È provvido, È infinitamente buono; anzi, non solo buono in sé, ma buono immensamente altresì per noi, nostro creatore, nostra verità, nostra felicità, a tal punto che quello sforzo di fissare in Lui lo sguardo ed il cuore, che diciamo contemplazione, diventa l’atto più alto e più pieno dello spirito, l’atto che ancor oggi può e deve gerarchizzare l’immensa piramide dell’attività umana.

Meditazione della Chiesa su se stesa y sul mondo

Si dirà che il Concilio più che delle divine verità si è occupato principalmente della Chiesa, della sua natura, della sua composizione, della sua vocazione ecumenica, della sua attività apostolica e missionaria. Questa secolare società religiosa, che è la Chiesa, ha cercato di compiere un atto riflesso su se stessa, per conoscersi meglio, per meglio definirsi, e per disporre di conseguenza i suoi sentimenti ed i suoi precetti. È vero. Ma questa introspezione non è stata fine a se stessa, non è stata atto di pura sapienza umana, di sola cultura terrena; la Chiesa si è raccolta nella sua intima coscienza spirituale, non per compiacersi di erudite analisi di psicologia religiosa o di storia delle sue esperienze, ovvero per dedicarsi a riaffermare i suoi diritti e a descrivere le sue leggi, ma per ritrovare in se stessa vivente ed operante, nello Spirito Santo, la parola di Cristo, e per scrutare più a fondo il mistero, cioè il disegno e la presenza di Dio sopra e dentro di sé, e per ravvivare in sé quella fede, ch’è il segreto della sua sicurezza e della sapienza, e quell’amore che la obbliga a cantare senza posa le lodi di Dio: cantare amantis est, dice S. Agostino (Serm. 336; P.L. 38, 1472). I documenti conciliari principalmente quelli sulla divina Rivelazione, sulla Liturgia, sulla Chiesa, sui Sacerdoti, sui Religiosi, sui Laici, lasciano chiaramente trasparire questa diretta e primaria intenzione religiosa, e dimostrano quanto sia limpida e fresca e ricca la vena spirituale, che il vivo contatto col Dio vivo fa erompere nel seno della Chiesa, e da lei effondere sulle aride zolle della nostra terra.

La carità

Ma non possiamo trascurare un’osservazione capitale nell’esame del significato religioso di questo Concilio: esso è stato vivamente interessato dallo studio del mondo moderno. Non mai forse come in questa occasione la Chiesa ha sentito il bisogno di conoscere, di avvicinare, di comprendere, di penetrare, di servire, di evangelizzare la società circostante, e di coglierla, quasi di rincorrerla nel suo rapido e continuo mutamento. Questo atteggiamento, determinato dalle distanze e dalle fratture verificatesi negli ultimi secoli, nel secolo scorso ed in questo specialmente fra la Chiesa e la civiltà profana, e sempre suggerito dalla missione salvatrice essenziale della Chiesa, è stato fortemente e continuamente operante nel Concilio, fino al punto da suggerire ad alcuni il sospetto che un tollerante e soverchio relativismo al mondo esteriore, alla storia fuggente, alla moda culturale, ai bisogni contingenti, al pensiero altrui, abbia dominato persone ed atti del Sinodo ecumenico, a scapito della fedeltà dovuta alla tradizione e a danno dell’orientamento religioso del Concilio medesimo. Noi non crediamo che questo malanno si debba ad esso imputare nelle sue vere e profonde intenzioni e nelle sue autentiche manifestazioni.

Vogliamo piuttosto notare come la religione del nostro Concilio sia stata principalmente la carità; e nessuno potrà rimproverarlo d’irreligiosità o d’infedeltà al Vangelo per tale precipuo orientamento, quando ricordiamo che è Cristo stesso ad insegnarci essere la dilezione ai fratelli il carattere distintivo dei suoi discepoli (cfr. Jn 13,35), e quando lasciamo risuonare ai nostri animi le parole, apostoliche: «La religione pura e immacolata, agli occhi di Dio e del Padre, è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni e conservarsi puri da questo mondo» (Jc 1,27); e ancora: «chi non ama il proprio fratello, che egli vede, come può amare Dio, che egli non vede»? (1Jn 4,20).

La Chiesa del Concilio, sì, si è assai occupata, oltre che di se stessa e del rapporto che a Dio la unisce, dell’uomo, dell’uomo quale oggi in realtà si presenta: l’uomo vivo, l’uomo tutto occupato di sé, l’uomo che si fa soltanto centro d’ogni interesse, ma osa dirsi principio e ragione d’ogni realtà. Tutto l’uomo fenomenico, cioè rivestito degli abiti delle sue innumerevoli apparenze; si è quasi drizzato davanti al consesso dei Padri conciliari, essi pure uomini, tutti Pastori e fratelli, attenti perciò e amorosi: l’uomo tragico dei suoi propri drammi, l’uomo superuomo di ieri e di oggi e perciò sempre fragile e falso, egoista e feroce; poi l’uomo infelice di sé, che ride e che piange; l’uomo versatile pronto a recitare qualsiasi parte, e l’uomo rigido cultore della sola realtà scientifica, e l’uomo com’è, che pensa, che ama, che lavora, che sempre attende qualcosa il «filius accrescens» (Gn 49,22); e l’uomo sacro per l’innocenza della sua infanzia, per il mistero della sua povertà, per la pietà del suo dolore; l’uomo individualista e l’uomo sociale; l’uomo «laudator temporis acti» e l’uomo sognatore dell’avvenire; l’uomo peccatore e l’uomo santo; e così via. L’umanesimo laico profano alla fine è apparso nella terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? uno scontro, una lotta, un anatema? poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo.

Fiducia nell'uomo . . .

E che cosa ha considerato questo augusto Senato nella umanità, che esso, sotto la luce della divinità, si è messo a studiare, ha considerato ancora l’eterno bifronte suo viso: la miseria e la grandezza dell’uomo, il suo male profondo, innegabile, da se stesso inguaribile, ed il suo bene superstite, sempre segnato di arcana bellezza e di invitta sovranità. Ma bisogna riconoscere che questo Concilio, postosi a giudizio dell’uomo, si è soffermato ben più a questa faccia felice dell’uomo, che non a quella infelice. Il suo atteggiamento è stato molto e volutamente ottimista. Una corrente di affetto e di ammirazione si è riversata dal Concilio sul mondo umano moderno. Riprovati gli errori, sì; perché ciò esige la carità, non meno che la verità; ma per le persone solo richiamo, rispetto ed amore. Invece di deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi; invece di funesti presagi, messaggi di fiducia sono partiti dal Concilio verso il mondo contemporaneo: i suoi valori sono stati non solo rispettati, ma onorati, i suoi sforzi sostenuti, le sue aspirazioni purificate e benedette.

Vedete, ad esempio: gli innumerevoli linguaggi delle genti oggi esistenti sono stati ammessi a esprimere liturgicamente la parola degli uomini a Dio e la Parola di Dio agli uomini, all’uomo in quanto tale è stata riconosciuta la vocazione fondamentale ad una pienezza di diritti e ad una trascendenza di destini; le sue supreme aspirazioni all’esistenza, alla dignità della persona, alla onesta libertà, alla cultura, al rinnovamento dell’ordine sociale, alla giustizia, alla pace, sono state purificate e incoraggiate; e a tutti gli uomini è stato rivolto l’invito pastorale e missionario alla luce evangelica. Troppo brevemente noi ora parliamo delle moltissime e amplissime questioni, relative al benessere umano, delle quali il Concilio s’è occupato; né esso ha inteso risolvere tutti i problemi urgenti della vita moderna; alcuni di questi sono stati riservati all’ulteriore studio che la Chiesa intende farne, molti di essi sono stati presentati in termini molto ristretti e generali, suscettibili perciò di successivi approfondimenti e di diverse applicazioni.

. . . e dialogo

Ma una cosa giova ora notare: il magistero della Chiesa, pur non volendo pronunciarsi con sentenze dogmatiche straordinarie, ha profuso il suo autorevole insegnamento sopra una quantità di questioni, che oggi impegnano la coscienza e l’attività dell’uomo; è sceso, per così dire, a dialogo con lui; e, pur sempre conservando la autorità e la virtù sue proprie, ha assunto la voce facile ed amica della carità pastorale; ha desiderato farsi ascoltare e comprendere da tutti; non si è rivolto soltanto all’intelligenza speculativa, ma ha cercato di esprimersi anche con lo stile della conversazione oggi ordinaria, alla quale il ricorso alla esperienza vissuta e l’impiego del sentimento cordiale dànno più attraente vivacità e maggiore forza persuasiva: ha parlato all’uomo d’oggi, qual è.

E un’altra cosa dovremo rilevare: tutta questa ricchezza dottrinale è rivolta in un’unica direzione: servire l’uomo. L’uomo, diciamo, in ogni sua condizione, in ogni sua infermità, in ogni sua necessità. La Chiesa si è quasi dichiarata l’ancella dell’umanità, proprio nel momento in cui maggiore splendore e maggiore vigore hanno assunto, mediante la solennità conciliare, sia il suo magistero ecclesiastico, sia il suo pastorale governo: l’idea di ministero ha occupato un posto centrale.

Tutto questo e tutto quello che potremmo dire sul valore umano del Concilio ha forse deviato la mente della Chiesa in Concilio verso la direzione antropocentrica della cultura moderna? Deviato no, rivolto sì.

Ma chi bene osserva questo prevalente interesse del Concilio per i valori umani e temporali non può negare che tale interesse è dovuto al carattere pastorale, che il Concilio ha scelto quasi programma, e dovrà riconoscere che quello stesso interesse non è mai disgiunto dall’interesse religioso più autentico, sia per la carità, che unicamente lo ispira (e dove è la carità, ivi è Dio!), e sia per il collegamento, dal Concilio sempre affermato e promosso, dei valori umani e temporali, con quelli propriamente spirituali, religiosi ed eterni : sull’uomo e sulla terra si piega, ma al regno di Dio si solleva.

Amare l'uomo per amare Dio

La mentalità moderna, abituata a giudicare ogni cosa sotto l’aspetto del valore, cioè della sua utilità, vorrà ammettere che il valore del Concilio è grande almeno per questo: che tutto è stato rivolto all’umana utilità; non si dica dunque mai inutile una religione come la cattolica, la quale, nella sua forma più cosciente e più efficace, qual è quella conciliare, tutta si dichiara in favore ed in servizio dell’uomo. La religione cattolica e la vita umana riaffermano così la loro alleanza, la loro convergenza in una sola umana realtà: la religione cattolica è per l’umanità; in un certo senso, essa è la vita dell’umanità. È la vita, per l’interpretazione, finalmente esatta e sublime, che la nostra religione dà all’uomo (non è l’uomo, da solo, mistero a se stesso?); e la dà precisamente in virtù della sua scienza di Dio: per conoscere l’uomo, l’uomo vero, l’uomo integrale, bisogna conoscere Dio; ci basti ora, a prova di ciò, ricordare la fiammante parola di S. Caterina da Siena: «nella tua natura, Deità eterna, conoscerò la natura mia» (Or. 24). È la vita, perché della vita descrive la natura ed il destino, le dà il suo vero significato. È la vita, perché della vita costituisce la legge suprema, e alla vita infonde la misteriosa energia che la fa, possiamo dire, divina.

Che se, venerati Fratelli e Figli tutti qui presenti, noi ricordiamo come nel volto d’ogni uomo, specialmente se reso trasparente dalle sue lacrime e dai suoi dolori, possiamo e dobbiamo ravvisare il volto di Cristo (cfr. Mt 25,40), il Figlio dell’uomo e se nel volto di Cristo possiamo e dobbiamo poi ravvisare il volto del Padre celeste: «chi vede me, disse Gesù, vede anche il Padre» (Jn 14,9), il nostro umanesimo si fa cristianesimo, e il nostro cristianesimo si fa teocentrico; tanto che possiamo altresì enunciare: per conoscere Dio bisogna conoscere l’uomo. Sarebbe allora questo Concilio, che all’uomo principalmente ha dedicato la sua studiosa attenzione, destinato a riproporre al mondo moderno la scala delle liberatrici e consolatrici ascensioni? non sarebbe, in definitiva, un semplice, nuovo e solenne insegnamento ad amare l’uomo per amare Iddio? amare l’uomo, diciamo, non come strumento, ma come primo termine verso il supremo termine trascendente, principio e ragione d’ogni amore. E allora questo Concilio tutto si risolve nel suo conclusivo significato religioso, altro non essendo che un potente e amichevole invito all’umanità d’oggi a ritrovare, per via di fraterno amore, quel Dio «dal Quale allontanarsi è cadere, al Quale rivolgersi è risorgere, nel Quale rimanere è stare saldi, al Quale ritornare è rinascere, nel Quale abitare è vivere» (S. August., Solil. 1, 1, 3; P. L. 32, 870).

Così noi speriamo al termine di questo Concilio ecumenico vaticano secondo e all’inizio del rinnovamento umano e religioso, ch’esso s’è prefisso di studiare e di promuovere; così speriamo per noi, Fratelli e Padri del Concilio medesimo; così speriamo per l’umanità intera, che qui abbiamo imparato ad amare di più ed a meglio servire.

E mentre a tal fine ancora invochiamo l’intercessione dei Santi Giovanni Battista e Giuseppe, Patroni di Sinodo ecumenico, dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, fondamenta e colonne della Santa Chiesa e con loro di Sant’Ambrogio, Vescovo di cui oggi celebriamo la festa quasi, in lui collegando la Chiesa d’Oriente e d’Occidente, parimente e cordialmente imploriamo la protezione di Maria Santissima, Madre di Cristo e perciò da noi chiamata anche Madre della Chiesa, e con una voce sola, con un cuore solo rendiamo grazie e diamo gloria al Dio vivo e vero, al Dio unico e sommo, al Padre, al Figliuolo e allo Spirito Santo. Amen.





B. Paolo VI Omelie 28105