B. Paolo VI Omelie 12264

Mercoledì delle Ceneri, 12 febbraio 1964: PRIMO GIORNO DI QUARESIMA A SANTA SABINA

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Nel rivolgersi ai Presuli e Prelati, ai sacerdoti e religiosi, e a tutti i fedeli intervenuti alla pia funzione, il Santo Padre dichiara essere opportuno raccogliere un po’ i pensieri ed esprimere alcuni dei sentimenti, che attraversano lo spirito nel sacro luogo e nel propizio momento.

Anzitutto il primo sentimento che si affaccia alla coscienza è quello di una serena letizia, che certo non discorda dall’austerità del rito e dalla severità del periodo penitenziale testé inaugurato. Tale nota gioiosa - i sacerdoti lo ricorderanno - trovasi indicata nella prima lezione del Mattutino del giorno delle Ceneri. S. Agostino la rileva così: «Manifestum est, bis praeceptis omnem nostram intentionem in interiora gaudia dirigi . . .». Anche in mezzo ai richiami più severi della penitenza, del pentimento, sarà sempre limpido e luminoso un accento di spirituale letizia.

Per il Papa, inoltre, essa è data anche dal ritrovarsi nella splendida chiesa, ove, anni ed anni or sono, ha passato momenti molto raccolti e silenziosi, e, gli sembra, anche molto uniti al Signore. Conferisce quindi particolare gaudio l’onda di tanti ricordi che l’Aventino sacro porta con sé: anche il solo elencarli non è facile. Basterà dire che intensa è la rievocazione di momenti soavissimi, segnati tutti da una intimità spirituale che caratterizza la storia del tempio di Santa Sabina.

E la soddisfazione del cuore si accresce, vedendo la folta comunità di Religiosi Domenicani con le memorie dei loro grandi Santi, dal Fondatore Domenico, al Sommo Pontefice S. Pio V: sì che spontaneo fiorisce l’augurio per il Maestro generale dell’Ordine e per quanti altri condividono con lui la gloria, la fatica del governo di una così insigne famiglia spirituale. E ancora: l’Aventino, con la zona circostante, è popolato di comunità religiose, oasi di preghiera ed apostolato: a tutte va il saluto e la benedizione del Papa, lieto di vederne le rappresentanze in questo sacro convegno che vuol essere quasi l’accensione di universale fervore. Naturalmente, poi, il pensiero va alle parrocchie, ai fedeli, alla ingente folla di persone accorse in «capite quadragesimae» col fermo proposito nel cuore di bene trascorrere la Santa Quaresima. È noto con quale studio, con quale insistenza i Sommi Pontefici, e quanti altri hanno cercato di interpretare il loro magistero e ministero, hanno incoraggiato non soltanto il ripristino e la rievocazione archeologica pura e semplice dei riti e delle memorie lontane, ma la primavera, la reviviscenza della vita spirituale romana attinta a queste radici e a queste fonti.

Il rilevare, perciò, che esse danno risultati rigogliosi è, per Sua Santità, argomento di intensa contentezza e di viva speranza. Tutti i presenti - è consolante il supporlo - hanno nel cuore il proposito di vivere in profondità ed effettiva partecipazione i riti della grande, pedagogica liturgia della Chiesa. Il Santo Padre incoraggia e benedice tali intenti, sino a voler ripetere, «ad aures», a ciascuna di queste anime fervorose il suo compiacimento, anche per il sicuro aiuto che potrà derivarne per gli altri fedeli.

A conseguire così nobile fine, il Vicario di Gesù Cristo desidera insistere sui due aspetti principali dell’incontro, già visibilmente indicati dallo stesso rito stazionale: la preghiera e la penitenza.

In ciò consiste la Quaresima. Nei due elementi fondamentali si esprime, come in sintesi, tutto il programma della vita cristiana. Dapprima la preghiera, che ci ricorda il bisogno di Dio, i suoi voleri, la sua longanimità ed assistenza; la necessità che noi abbiamo di essere uniti a Lui, vita nostra.

Quindi la penitenza, ch’è l’offerta delle nostre povere cose, dei nostri errori, delle nostre mortificazioni per essere degni del colloquio con Dio. Sant’Agostino sintetizza in una sola parola tutti gli splendori e i benefici di questo binomio: la misericordia. Può affermarsi che v’è racchiuso l’intero cristianesimo. Dio, il quale agisce su ognuno di noi, e fa piovere sul genere umano, sulla nostra storia, su ogni nostro disegno la sua bontà e il suo desiderio di venire a contatto con noi, vuole formare delle nostre anime altrettanti specchi riflettenti la sua luce e la sua bontà. È doveroso, quindi, concentrare su questi due argomenti l’attenzione e il programma delle nostre migliori capacità.

Alla preghiera, sia quella personale, sia quella comunitaria e cioè liturgica, ci invita, in modo speciale, il recente Documento che la Chiesa, adunata in Concilio, ha dato a sé e ai secoli venturi; la Costituzione per la sacra Liturgia. Essa, pur volendo essere, per taluni aspetti, una semplificazione, una più facile esecuzione del programma orante della Chiesa, è alto richiamo a perfezione, a pienezza di preghiera. È un arricchimento, e ci vuole tutti come alunni e discepoli, tesi alla rispondenza di questo invito della Chiesa maestra. Dobbiamo cioè imparare a trarre profitto in questi giorni santi, per pregare di più e meglio: pregare con il più acceso ardore del nostro spirito; pregare con sincerità e nel concerto delle anime che condividono con noi la grazia della vocazione cristiana; pregare, in una parola, con la comunità dei fedeli, con tutta la Chiesa, e far coro con tutta la umanità credente e fiduciosa in Cristo.

Occorre poi animare la preghiera liturgica in questo periodo con attento raccoglimento e seria applicazione personale del nostro spirito, sì da venire condotti, naturalmente, al secondo punto della partecipazione quaresimale: la penitenza. Oggi questa parola sembra quasi un termine fuori moda, una reminiscenza medievale che non trova attuazione nel tempo nostro, proteso invece ad eliminare ogni disagio ed inconveniente, e a rendere la vita come ovattata da comodità, da pienezza degli agi che le conquiste della tecnica pongono a nostra disposizione.

Nondimeno se la penitenza si sposta oggi dalla parte, diciamo, materiale a quella spirituale, dal corpo all’anima, dall’esterno all’interno, non è meno necessaria e meno attuabile. Anzitutto cercheremo di osservare la penitenza possibile - quella, intanto, che la Chiesa prescrive - con aderenza testuale e puntuale, desiderosi di dimostrare che sotto questa obbedienza c’è uno spirito e c’è una pedagogia che fa bene a ciascuno di noi. Soprattutto, però, ci studieremo di assorbire e di praticare lo spirito della penitenza, anche a cominciare da quella norma della sapienza non diciamo pagana, ma romana ed umana dell’«abstine et sustine», che può egregiamente applicarsi alla vita cristiana. Se vogliamo portare nell’intimo del nostro essere la penitenza, vediamo un vasto campo di sacrifici meritori, di rinunzie, fioretti, esercizi di dominio di sé proprio nell’abstine, cioè nel rinunciare alle molte curiosità superflue, che la vanità del mondo pone davanti a noi con una procacità quasi aggressiva. E, inoltre, quante pigrizie interiori possiamo superare, noi che siamo tutti i giorni invitati dalla scuola moderna a ritenere che il dubbio dello spirito, cioè il non aderire alla verità ma il restar sempre in sospeso, sia segno di libertà; ed è, invece, accidia spirituale che ci attarda nella penombra e nel crepuscolo delle cose incerte, mentre siamo chiamati alla luce, alla decisione, alla scelta della verità, e, per la verità e con la verità a dare, se occorre, noi stessi, le nostre cose, la nostra vita!

Abstine. Cerchiamo, appunto, di allontanare da noi queste tentazioni che indeboliscono la vita spirituale; e corroboriamo le energie del sustine e cioè del fare il bene, dell’allenarsi ad aumentare la nostra capacità produttiva di atti giusti, di azioni meritorie, che servano alla nostra migliore educazione cristiana e siano mezzo di carità esteriore. Troveremo siffatto richiamo tutti i giorni nella liturgia della Quaresima. Aumentare le opere buone: non è tanto il praticare atti particolari di culto o di astinenza, che ci migliora e ci fa santi, quanto la pratica della regina delle virtù: la carità. Fare il bene per il prossimo accresce il potenziale della nostra carità in questo periodo benedetto.

A che mira la eccelsa preparazione? Ma all’incontro col Salvatore, alla nostra perenne conversazione con Lui; a comprendere, il più possibile, i suoi misteri; ad applicare il Vangelo alle nostre anime; ad accogliere degnamente nel cuore gli splendori della Pasqua, della nostra resurrezione e rinascita in Cristo.

Nell’Inno delle Laudi del tempo quaresimale, la Chiesa ci propone la letificante prece: «Dies venit, dies tua - in qua reflorent omnia: - laetemur et nos, in viam - tua reducti dextera» .

A questa primavera delle anime, a questa fioritura d’ogni virtù cristiana ci invita ed esorta la Chiesa madre. Ecco che, con generosità, riprendiamo il necessario cammino e ascendiamo, alla scuola del Redentore, sino alla sommità del monte, donde si irradia il sublime Mistero pasquale della salvezza. Affidandoci alla mano di Dio, con la preghiera e la penitenza.




Domenica, 16 febbraio 1964: CELEBRAZIONE DELLA PASQUA «TRANSITUS DOMINI» NELLA PARROCCHIA DI SAN PIO X

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Dato un paterno saluto al Signor Cardinale, ai Vescovi e Prelati, ai Sacerdoti ed al popolo, il Sommo Pontefice si dice lietissimo di poter conoscere la nuova magnifica chiesa, dedicata a S. Pio X; e di essere stato accolto con tanta effusione di filiale letizia, divenendo così, come era suo desiderio, partecipe, con i fedeli, della comune preghiera ed implorazione al Signore, e della generale speranza che Iddio ci abbia a benedire ed assistere.

Come primo pensiero da lasciare, quasi a ricordo dell’incontro, Sua Santità vorrebbe porre in evidenza - è cosa nota, ma sarà molto utile averla sempre presente - i criteri che hanno indotto il Papa a presiedere queste cerimonie e, a Dio piacendo, quelle che seguiranno nelle prossime domeniche.


IL MINISTERO PASTORALE DISPOSTO DALLA PROVVIDENZA

Il primo criterio è pastorale. Che cosa vuol dire pastorale? Lo sappiamo: il termine significa il rapporto intercedente fra chi è incaricato da Dio di distribuire la sua parola, i carismi, i misteri, i Sacramenti, la Grazia, e chi, dal Battesimo, è chiamato a ricevere così alti doni e a farli fruttificare. Occorre, cioè, mettere in evidenza la realtà di un sistema per diffondere la Grazia di Dio, chiamato appunto il Sacerdozio; il che è quanto dire la Chiesa nell’esercizio del suo ministero. Realtà ben conosciuta, ma non mai abbastanza rilevata nella sua mirabile provvidenzialità, nel suo mistero di amore, se consideriamo da Chi parte questo disegno. Dal Signore: il quale vuole servirsi degli uomini per salvare gli uomini. È il Signore che associa a Sé dei Ministri perché diventino idonei ad esercitare verso i fratelli la carità da Lui effusa per ogni anima.

Questo sistema, - lo si potrebbe definire quasi congegno, meccanismo umano -, con cui si partecipa la carità di Dio mediante la carità dei fratelli, costituisce un dono che merita immensamente la nostra riflessione e richiede, soprattutto oggi, nel nostro tempo, che ne abbiamo coscienza e rispetto, sino a polarizzare intorno a così sublime disegno i nostri pensieri, le nostre opere; e vedere quale è il risultato di un’aderenza al ministero in tal modo disposto dalla Provvidenza.

Siamo di fronte alla Chiesa: la società degli eletti; l’umanità che avanza nelle vie della salvezza. È l’impeto della carità divina, che si propaga attraverso lo sforzo dell’apostolato umano per rendere gli uomini figli di Dio e fratelli tra di loro: in una parola, quanto v’è di più bello, grande, significativo nella storia e nella vita.


I PARROCI DEL VESCOVO DI ROMA

Adunque: proposito del Sommo Pontefice è richiamare l’attenta devozione di tutti sopra questo piano voluto dalla misericordia di Dio per salvare gli uomini. Ora, il lato che può essere notevole, singolare, è il seguente. Di solito il Papa non compiva atti e riti come quello odierno. Varie le ragioni: ad esempio, in tempi più vicini a noi, il Papa non poteva uscire dal Vaticano; e, prima ancora, egli era oberato anche dalle cure del potere temporale. Va, inoltre, ricordato che i bisogni dei tempi cambiano e che ogni periodo della storia ha le sue particolari effusioni del ministero pontificio, oltreché di quello sacerdotale.

A Sua Santità è sembrato, adesso, utile per la carissima Roma, farle vedere quanto il Papa le appartiene e come l’ama, manifestando tale affetto, proprio con questi incontri diretti e colloqui, che, pur se brevi, sono atti a far riflettere sul punto essenziale: quello interiore, della preghiera intima, del conferimento, in ogni anima, della grazia dei Sacramenti. Il Santo Padre intende dimostrare come ciascuno: grandi, piccoli; uomini, donne; buoni, non buoni; lontani, vicini; ciascuno ha diritto di parlare con il Papa; così come Egli ha il dovere di prender cura di ognuno. È un rapporto che supera ogni dimensione di possibilità; ma esiste. E appunto in queste manifestazioni collettive richiama la generale attenzione, dapprima interiore, per poi rivelarsi anche all’esterno.


Due gli aspetti precipui di tanta verità.

Recandosi in una parrocchia nuova, - bella, grande, vitale come questa - il Successore di Pietro desidera, innanzitutto, onorare, confortare, benedire il ministero che qui si esercita; vale a dire l’attività del Parroco, degli altri Sacerdoti e di tutti quei Ministri di Dio che qui vengono per dare loro cooperazione nell’ufficio di assistenza spirituale.


RESPONSABILITÀ DI TUTTE LE ANIME

Intende, poi, onorare il Sacerdozio, teso, dato e consumato al servizio dei fratelli. Vorrebbe che fosse bene avvertita la differenza fra un sacerdote impegnato nel ministero pastorale e chi non lo è. Essa è ovvia. Sul Parroco incombe una responsabilità altissima. Grava sopra di lui ogni bisogno della società che lo circonda, della sua parrocchia. Deve rispondere, dinanzi a Dio, di tutte le anime, una ad una, che gli sono affidate. Per di più, chiunque può comprendere che tale responsabilità diviene una angustia, un tormento, un martirio per chi la sente e la vive. Perciò il Papa che, attraverso l’opera del venerato Cardinale Vicario, ha il mandato di affidare ad un sacerdote responsabilità di tale peso ed importanza, si sente solidale con i parroci tutti; ed oggi vuol ricordarlo al pastore della parrocchia di S. Pio X.

Gli dichiara che non lo lascia solo, che, perciò, vuole confortare e sorreggere; condividere con lui la croce di tanto peso ed importanza. Vorrebbe anzi salutare uno ad uno tutti i sacerdoti: conosce il loro stato di servizio; era a Pietralata il Parroco prima di venire alla Balduina; conosce Don Nicola e Don Giorgio, i Vice parroci e così gli altri. Pertanto anche ragioni cordiali e personali di stima rafforzano il gradito dovere di benedirli, consolarli; e dire ai parrocchiani quanto questi sacerdoti Gli sono cari e quanto perciò, anche per questo titolo, cari devono essere ai fedeli.


DOVERI DELLE COMUNITÀ DI FEDELI

L’altro pensiero è il seguente: il Santo Padre vuole pure onorare la comunità. Anche qui c’è un divario, e notevole. Fra la chiesa piena di gente, che compone una parrocchia e la chiesa piena di gente che non vi appartiene, c’è differenza. In mezzo alla folla di gente che si chiama fedele, e che costituisce la comunità parrocchiale esiste un vincolo particolare, una solidarietà propria, che la rende unita, ne forma una famiglia, molto diversa da una moltitudine priva degli specifici legami. Il Papa è venuto a ricordare che tutti sono figli, fratelli; che devono volersi bene, e avvivare una specie di società di mutuo soccorso spirituale; che devono essere tutti una sola vita, ed avere essi stessi la coscienza che appunto così si realizza la Chiesa. Per mezzo delle loro parrocchie essi formano un gruppo attivo, una cellula vivente dell’immensa famiglia che è la Chiesa Cattolica. È quindi nella carità, nella professione della medesima fede, nella preghiera, nell’impegno del vicendevole buon esempio, nell’associarsi nelle varie forme che tengono insieme i diversi nuclei parrocchiali, essi vengono costruendo - Cristo è con loro - la Ecclesiam meam.

Oggi Pietro viene a infervorare questo spirito unitario e a dire ai parrocchiani della «S. Pio X»: siate contenti e fieri di appartenere a tale comunità. Ognuno di voi le dia forza e consistenza; e badate che se poc’anzi si parlava della responsabilità del Parroco su cui tutto incombe, si può dire qualche cosa di simile di ogni membro della parrocchia, su cui, in certo senso, tutto ricade per la solidarietà di fini, doveri, mezzi, che deve compaginare e reggere insieme la comunità parrocchiale.

In altri termini, ciascun fedele senta imperioso e possente l’obbligo di amare, servire, sostenere, completare, santificare la propria Parrocchia.

Il secondo aspetto che caratterizza questi riti, stabiliti per le parrocchie romane, è il richiamo al criterio quaresimale. Tutti vogliamo dare a questo sacro periodo di tempo il significato della tradizione, e, per quanto possibile, la sua pienezza spirituale, il suo vigore morale, il suo significato collettivo e anche, si direbbe, mistico, secondo gli intenti della Chiesa quando lo istituì e lo arricchì di tante preghiere, e moniti, di tanti insegnamenti.

Tutti noi intendiamo celebrare bene la Santa Quaresima. I motivi sono numerosi. Basterebbe soffermarsi alla liturgia di questa prima Domenica, che si apre come fiume maestoso e quale sinfonia perfetta ad offrire benefici di ristoratrice irrigazione e soavità di concenti. Tra i molti temi da meditare uno si può scegliere quale nota dominante.


TEMPO PROPIZIO PER LA CONVERSIONE

«Tempus acceptabile». Questo è il tempo propizio. Il Santo Padre propone agli ascoltatori la semplice, ma grandissima e bellissima parola che si legge nell’Epistola odierna. Se profondamente compresa, essa diviene oltremodo operante per il profitto dello spirito. Ricordiamo tutti che questa stagione, questa primavera, non solo della natura, ma di preghiera e riflessione sacra, è tempo propizio. È un tempo che noi dobbiamo bene utilizzare.

A questo punto sarebbe assai opportuno soffermarsi sulla filosofia del tempo. La Chiesa ce lo ricorda tante volte e oggi in modo singolare. Ci vuol rammentare che noi cristiani dobbiamo considerare questo nostro pellegrinaggio nel mondo non come una serie di momenti staccati, che non abbiano l’uno con l’altro riferimenti e solidarietà. Siamo, invece tenuti a riguardarli come una sola cosa, quasi un nastro che ha coerenza dentro di sé. Ivi, infatti, è un continuato disegno. I momenti che si succedono sono collegati da un vincolo interiore, o di passaggio di grazia o del susseguirsi di responsabilità, sì che un momento influisce sull’altro. Oggi siamo alla scelta per il domani, al mattino lo siamo per la sera, e così via. Si troverà nella preghiera la base e il collegamento che unisce a catena gli anelli delle diverse ore. Questa che stiamo trascorrendo, della Quaresima, è, sotto un certo aspetto, decisiva per il resto della nostra vita, poiché caratterizzata da un’altra disciplina, - ed essa, a sua volta, meriterebbe ampio studio - che si chiama la conversione. Noi dobbiamo, in questa ora propizia della nostra vita, convertirci.

Che cosa vuol dire convertirsi? Significa dirigere la propria esistenza a Dio; cercare di compiere ciò che fanno i piloti delle navi, che, a un certo punto, controllano se la loro rotta realmente è rivolta al porto, o se, al contrario, le onde della burrasca incombente non hanno fatto deviare il percorso. Dobbiamo rettificare il nostro cammino chiedendoci: Si avanza veramente secondo la volontà di Dio? Non ho forse bisogno di convertirmi, cioè di dirigermi sul disegno che il Signore prefigge al mio passaggio sulla terra? Interpreto bene le disposizioni di Dio? Sono davvero un seguace dei suoi comandamenti? Non perdo forse tempo prezioso?


IL PASSAGGIO DEL SIGNORE

Ed ecco: proprio il recuperare il tempo, redimere tempus, noi vogliamo attuare seguendo la indicazione magistrale della Santa Chiesa. Anche perché la grande Madre ci avverte che, mentre il nastro della nostra vita si svolge con successione di giorni, di atti, di stati d’animo, responsabilità, meriti ecc., e acquista il suo valore, noi scopriamo - la Quaresima ce lo ripresenta siccome un mistero incombente sopra di noi - che un altro nastro ci segue. Qual è?

È quello della grazia di Dio; è quello che accompagna invisibile, ma da vicino, la nostra vita. La Pasqua che cosa vuol dire? Transitus Domini. È il Signore che passa. E qui torna alla memoria la parola stupenda e quasi paurosa di S. Agostino allorché esclama: «Timeo transeuntem Deum». Io temo Iddio che passa. Lo temo, giacché la sua presenza, che aleggia su di me, mi dà una coscienza nuova di risposta e dialogo. E poi temo che Egli passi senza che io me ne accorga; passi mentre io sfuggo il colloquio che Egli vuole intessere con me.

«Timeo transeuntem Deum». Noi dobbiamo avvertire che in questa Quaresima il Signore passa sopra di noi precisamente attraverso la generosità della Chiesa nel dispensarci la parola di Dio. La Chiesa sr pone a nostra disposizione per i Sacramenti, ci invita in mille maniere a non lasciar trascorrere la Pasqua senza avvicinarsi alle fonti della vita; misura le diverse ore, osservando che questa è oltremodo favorevole. Se tale ora dilegua, saremo forse sicuri che altra simile tornerà? La vita diventa drammatica sotto questo punto di vista; ed è bene che lo sia.


OGNI COSA SI ASSOMMA IN BENE PER CHI AMA DIO

Il santo timore di Dio entra nelle nostre anime; e con il timore di Dio anche la dolcezza e la gioia del venire a colloquio con il Signore in dati appuntamenti, in determinate circostanze che Egli concede a ciascuna per ineffabili contatti di Grazia.

Seguendo ancora il brano dell’odierna Epistola, ci si può convincere che anche le ore penose e difficili della nostra vita possono tramutarsi, per questa elevata economia di salvezza, in ore opportune, serene, feconde. Chi è infermo può dirsi felice, sotto un certo aspetto; poiché se guarda al merito che può acquistare, deve dire: anche la sventura può essere benefica, propizia. Lo stesso può dirsi a proposito di tutte le sofferenze, privazioni, rinunzie, avversità.

Uno scrittore moderno, assai noto, conclude un suo libro affermando: tutto è grazia.

Ma di chi è questa frase? Non del ricordato scrittore, perché anch’egli l’ha attinta - e lo dice - da altra sorgente. È di Santa Teresa del Bambino Gesù. L’ha posta in una pagina dei suoi diari: «Tout est grâce» . Tutto può risolversi in grazia. Del resto anche la Santa carmelitana non faceva che riecheggiare una splendida parola di S. Paolo: «Diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum». Tutta la nostra vita può risolversi in bene, se amiamo il Signore. Ed è ciò che il Pastore Supremo augura a quanti Lo ascoltano dando, quale pegno di paterno affetto, la Benedizione Apostolica.



Domenica, 23 febbraio 1964: SANTA MESSA NELLA PARROCCHIA DI NOSTRA SIGNORA DI LOURDES

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Il Santo Padre, nel dare un primo saluto ai cari figlioli, pensa che alcuni di essi potrebbero domandarsi il perché della sua visita. Una prima buona ragione sarebbe quella di vedere una chiesa nuova, ampia e molto bene ubicata - e già per questo il Papa si compiace con il Vicariato di Roma, con l’Opera della Preservazione della fede e per la provvista di nuove chiese, e con quanti hanno dato offerte, opere e ingegno per una costruzione così provvida ed opportuna -; ma vi sono anche altri motivi.

PATERNO SALUTO ALL'INTERA POPOLAZIONE

Egli è venuto per pregare con i diletti figli, per santificare con loro il tempo di Quaresima, per convincere tutti che dobbiamo, in questa stagione preparatoria alla Pasqua, dare alla nostra anima più intenso fervore, quasi delle ali per elevarsi e assurgere degnamente alla celebrazione dei misteri della nostra Redenzione.

Inoltre Sua Santità è venuto anche per conoscere il loro parroco e per salutarlo, benedirlo, incoraggiarlo, ringraziarlo; e per dire a tutti di volergli bene, di aiutarlo, di essere con lui, di sostenerlo, di fare una cosa sola col proprio pastore che è parroco in Roma, quindi nella Diocesi del Papa, e perciò devesi a lui solidarietà e pubblico attestato di stima e di compiacimento.

Insieme con il parroco è dato il saluto a chi ne condivide le fatiche pastorali: i coadiutori, gli altri sacerdoti che vengono ad aiutarlo nel ministero in un quartiere così nuovo e così vasto, e dove certo il lavoro non manca. Tutti coloro che vi esercitano il sacro ministero sappiano che il Papa li ringrazia di questa fatica pastorale, li benedice ed è loro cordialmente e paternamente vicino.

Ed ecco il saluto ai parrocchiani e specialmente alle associazioni cattoliche con le molte bandiere, simbolo di organizzazione, di alte idealità, propositi ed impegno. A quanti, di ogni età, si dedicano all’apostolato, il Papa vuol ripetere il suo grato encomio e benedizione speciale, fiducioso che questi gruppi associati intorno al pastore possano dare una più accentuata fisionomia spirituale alla popolazione, all’intera parrocchia.

Un saluto alle Suore, presenti, molto numerose, e poi ai due Istituti moderni, rinnovati, ma antichi, della Roma cattolica; ai diletti figli dell’Istituto dei ciechi di Sant’Alessio un ricordo particolare e una grande benedizione; e così pure ai giovani del S. Michele, glorioso centro di beneficenza iscritto nella storia della carità di Roma e la cui sede il Papa sa essere rinnovata, e in espressioni moderne molto belle e promettenti. Pure alle altre comunità, e famiglie spirituali e religiose, a tutta la popolazione un saluto del Vescovo di Roma, felice di vedere una cospicua parte del mistico gregge della santa Città.

Ma la ragione più profonda, che ha determinato la presenza del Papa, è quella di rivolgere agli ascoltatori una esortazione e un invito. Il Santo Padre è venuto, potrebbe dire in linguaggio metaforico, a svegliarli. Come la mamma desta il suo bambino, e gli dice: sorgi, affrettati; così il Papa dice loro: svegliatevi, venite, perché c’è bisogno di operare, di agire. La chiamata sarà salutare per qualcuno, il quale deve scuotersi dal sonno, anzi dal letargo, frutto di pigrizia e trascuratezza. È ora di risvegliare la coscienza cristiana.


RISPONDERE ALLA VOCAZIONE CRISTIANA

Vero è che i diletti figli potrebbero rispondere: già la nostra presenza qui è segno che siamo desti, cristiani praticanti, buoni parrocchiani. Ebbene il Papa è venuto proprio per incoraggiare, nel loro intimo, tale proposito e rispondenza alla vocazione cristiana. Essi sanno che tutto il Vangelo, l’intera economia divina che viene in nostro soccorso, in nostra salvezza, si delinea nelle parole della Sacra Scrittura come una vocazione, un appello, una chiamata, un risveglio: «Videte . . . vocationem vestram, fratres», dirà S. Paolo; e lo ripete in tante sue Lettere. Sì, ogni cristiano deve comprendere che dal cielo discende un appello, un grido, per ripeterci che dobbiamo scuoterci, che il nostro destino non è soltanto sulla terra. Il Signore ama ricordare che ci chiama ad un altro senso della vita, ad un altro destino, ad un’altra maniera di considerare i nostri giorni; in una parola ad essere veramente cristiani, ad avere la nozione esatta delle proprie responsabilità.

Bisogna guardare in faccia la realtà. Roma, cento anni or sono, aveva duecentomila abitanti: ora ne ha assai più di due milioni, e venuti da tutte le parti. Non si può pretendere che siano completamente nutriti della tradizione, della storia, del singolare retaggio di Roma. L’ambiente ha grande influsso nel determinare i nostri pensieri e le nostre azioni. Il Santo Padre ha potuto rendersene conto a Milano, ove lo stesso fenomeno si verifica del pari in proporzioni imponenti. Quanta gente ottima giunge nelle grandi città, specialmente dalle terre meridionali! Quanti bravi lavoratori, ligi alle tradizioni religiose dei loro paesi, devoti, buoni, fedeli!

Nondimeno l’urbanesimo esercita su di loro un’azione deleteria; diluisce il loro fervore, al punto che essi divengono quasi indifferenti, non frequentano la Chiesa, non ascoltano più la Messa, ed è tanto - alle volte - se fanno battezzare i loro bambini.



LE MOLTEPLICI INSIDIE ALLA FEDE

Sovente, anzi, non solo abbandonano le loro abitudini religiose, ma, peggio ancora, si professano areligiosi o anche antireligiosi; non hanno più ritegno nemmeno a vituperare quel patrimonio spirituale che prima formava la loro dignità e la ricchezza della loro anima. Purtroppo è così: basta cambiare ambiente e si diventa diversi. Anche quando si ritiene di essere liberi, indipendenti, moltissimo si assorbe dal nuovo tenore di vita che non ha né le abitudini, né le forme, né le istituzioni ispirate alla tradizione e alle esigenze educative del popolo. Peggio ancora: il patrimonio religioso, spirituale è il primo a soffrirne, poiché molti lo dimenticano, lo lasciano come depositarsi in fondo all’anima, e alla trasformazione urbanistica un’altra ne succede che potrebbe dirsi sociale. Prima si era rurali, adesso si è operai; prima si era autonomi, adesso si diventa impiegati, prima gente tranquilla, ora gente affannata.

È tutto un mutamento, una trasformazione; ma in siffatto evolvere, di per sé buona cosa, che resta della coscienza cristiana, del rapporto con Dio?

Non di rado questo rapporto è come travolto, reso labile, dubbioso, stanco, incerto, saltuario; sopravviene quel tale letargo da cui bisogna essere scossi, perché si giunga ad un risveglio, ad una coscienza rinnovata.

Altre volte un fatto nuovo viene a soffocare le antiche convinzioni religiose: una vernice culturale derivante da letture di giornali, da quanto si vede o si ascolta alla radio, alla televisione, al cinematografo. Sono ondate, vere tempeste che soverchiano gli antichi convincimenti; e allora avvengono nelle coscienze degli uomini moderni, dei giovani in modo particolare, mutamenti profondi, che talvolta si dimostrano irrimediabili. Quanti infatti pensano oggi: io sono sufficiente a me stesso, non ho bisogno di nessuno; a che servono la Chiesa, la preghiera, la fede, la religione? Io ho solo bisogno del mio mestiere, della professione, dello stipendio, dell’automobile, del mio giornale, del mio divertimento.


IDDIO UNICO MAESTRO DELLA UMANITÀ

Ora, se questa mentalità si diffonde, specie tra le nuove generazioni, è sacro obbligo per chi, dal Signore, ha avuto il mandato di vegliare sul bene delle anime, dedicarsi con amore a convincere i distratti perché riflettano, ricordino la propria origine e l’ultimo fine; e tengano presente che proprio il Signore ha insegnato ciò che è bene e quel che è male; e vuole che ogni facoltà del nostro spirito sia orientata e modellata sulle sue parole, i dieci Comandamenti, il Vangelo.

Iddio solo è il Maestro della umanità; Egli ha fissato il codice della vita. Il Vangelo è la fonte prima della nostra luce: tutto il resto potrà essere utile, ma per l’anima può essere anche peso, ostacolo, inganno. Inoltre quella cultura che esteriorizza l’uomo, costringendolo alla tecnica, all’intensa vita esclusivamente economica, intenta, si direbbe, a rubare l’anima, provoca e produce un vuoto che appunto porta alla insensibilità, e allo stato della deplorata incoscienza e incertezza.

Eppure la salvezza non è lontana, non è irraggiungibile. Il Signore Gesù chiama tutti e singoli gli uomini, e per ognuno ha la sua parola di vita, il suo Vangelo. In nome di Cristo il Papa intende oggi rivolgersi a uno ad uno di quanti Lo ascoltano, preparando le anime al necessario incontro con Cristo. È un incontro quant’altri mai amichevole e nello stesso tempo di grande importanza e gravità. Deve avvenire: se dovesse mancare, tutti sarebbero di ciò responsabili.

Bisogna rispondere con generosa fortezza e decisione al dono della fede cristiana. Non c’è chi non sia persuaso che a Roma il Cristianesimo non può essere vissuto in qualche maniera; o lo si vive in pienezza o lo si tradisce. Dobbiamo dunque accoglierlo interamente, con una fedeltà che, se occorre, sia pronta al sacrificio. Questa è la vocazione di Roma e questa deve essere la caratteristica dei cittadini romani.

Roma cristiana non può appagarsi di mediocri, di mente torpida e non coraggiosa, che vive di compromessi o di ripieghi utilitari. Richiede gente salda, retta, cosciente, ben decisa a rispondere ad un impegno così alto, esplicito, obbligante.


OGNI ANIMA SIA ATTENTA ALL’ANNUNCIO DI CRISTO

Il Santo Padre è l’interprete, l’araldo del divino invito e monito. Egli non esprime pensieri suoi personali, né agisce come a conclusione di propri studi o indagini. È l’eco genuina della voce di Dio; e con la stessa autorità del Signore, proclama: Rispondete, credete al Vangelo: la buona novella, l’annuncio di vita che promana da Dio.

Nondimeno va ricordato che tale annuncio, il quale può anche assumere la forza di un turbine sopra di noi, ci lascia liberi. Ciascuna anima può scegliere; può dire sì o no; rispondere: voglio o non voglio; desidero essere cristiano o no.

Adunque non vi è posto per instabilità o tiepidezza: non ci si può fermare a metà né abbandonarsi ad opportunistici o vili compromessi. Bisogna decidere; libertà si, ma responsabilità.

Né deve ritenersi che un così rilevante appello sia diretto soltanto ad anime che hanno la speciale vocazione del Sacerdozio o della vita religiosa. La chiamata alla vita cristiana è universale, ed in proposito il Papa vorrebbe avere maggior tempo per dire qualche parola, dolce e grave, agli anziani prima di tutto, i quali, per aver conosciuto uomini ed eventi, hanno maggiore esperienza.

Vorrebbe ricordare loro che, ben al di sopra di tanti volubili e falsi insegnamenti, di tanti idoli e delle affannose astuzie di presunta saggezza, solo Cristo vive, sola permane la sua verità. Ciò vogliano tener presente soprattutto gli uomini di studio, i maestri, le maestre, coloro che hanno le delicate funzioni di insegnare, dirigere, consigliare.

Così vorrebbe il Papa parlare ai Genitori, alle singole Famiglie.

Passa il Cristo tra noi; sale ad ogni casa per lasciarvi una parola di benedizione e per dire a tutte le famiglie che devono essere specchio della Chiesa, dell’amore che intercede fra Dio e l’umanità; sì da divenire come piccoli templi; debbono sapere a quali vertici di bellezza, di dignità, di amore, di felicità le chiama il Signore, e ricordare d’essere chiamate a collaborare al disegno di Dio, trasformandosi in veri cenacoli di carità e di grazia.


APPELLO AI GIOVANI E AI LAVORATORI

Il discorso diviene, quindi, ancor più paterno, se possibile, per i giovani, di cui il Santo Padre vede un buon gruppo dinanzi a sé. L’ora presente appartiene ai giovani: giammai forse, come in questo periodo della storia e della vita sociale, la gioventù ha avuto più decisiva missione da compiere. Se i giovani sono buoni, ardimentosi, la società sarà degna, sacra e santa; ed anche prospera e felice.

I giovani sono chiamati dalla Chiesa, che vuol infondere larga fiducia: essa ha un compito da proporre alla loro operosità, e, nello stesso tempo, può valorizzare le loro doti, nobilitando ciò che pensano e attuano. Si fidino del parroco, che è il loro maestro, si lascino entusiasmare dalle verità che propone: sentiranno crescere la forza interiore, e la gioia di essere giovani e di essere cristiani.

Analogo pensiero per i fanciulli, i prediletti del Redentore. Nel saluto, nella benedizione, nell’abbraccio del Padre c’è la gratitudine a Dio per l’inestimabile dono dell’innocenza e l’augurio fervente che, proprio all’ombra della parrocchia, le piccole schiere avvertano l’onore e il gaudio di conservare la purezza e la fede per l’intera durata della loro esistenza.

C’è poi il vasto mondo del lavoro. Tutti siamo lavoratori, ma il Sommo Pontefice vorrebbe salutare specialmente i lavoratori del braccio, quelli che svolgono un’attività più faticosa, quelli che, inseriti nella società, si trovano in uno stato disagevole nei confronti degli altri, quasi i meno considerati, i meno sicuri, i meno retribuiti. Sappiano i cari lavoratori che la Chiesa li ama, che il cristianesimo li eleva, li difende, vuol accendere e trarre dalle loro anime una sensibilità spirituale che altri cercano invece di soffocare e vilipendere. Facendo proprie le sofferenze e le attese di ognuno, la Chiesa ripete e dimostra di essere con loro.

Ai lavoratori il Vicario del Signore Gesù apre le braccia ed il cuore per accoglierli e riecheggiare l’invito stesso del Divino Maestro: venite a me, tutti voi che siete affaticati e tribolati; io ho il segreto del ristoro, ho una parola di conforto. La medesima parola di Dio spiega che cosa è la vita, con il dolore che purifica e l’amore che eleva; che cosa è la fatica umana. Cristo - soggiunge il Papa - ha il segreto di salvezza e di pace: dono del Signore, che ha affidato alle mani del suo Vicario in terra il Vangelo. Gesù ha una risposta per ogni aspirazione; e non è fallibile. Venite tutti, Egli dice ed io vi consolerò.




B. Paolo VI Omelie 12264