B. Paolo VI Omelie 23024

Seconda domenica di Quaresima, 23 febbraio 1964: MESSA PER I DIPENDENTI DELL'AZIENDA STATALE DEI TELEFONI

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Siamo molto lieti di accogliere gli appartenenti alla Azienda di Stato per i Servizi Telefonici, qua guidati dal loro Sindacato Italiano dei Lavoratori Telefonici di Stato, e diamo il Nostro rispettoso saluto al Signor Direttore Generale, che sappiamo gentilmente partecipe a questo incontro, come pure agli altri Dirigenti e Tecnici della grande Azienda, ai promotori di questa Udienza ed in particolare al Signor Segretario Generale del vostro Sindacato Italiano dei Lavoratori Telefonici di Stato, a voi tutti, figli carissimi, addetti a codesti importantissimi e modernissimi servizi, a voi qui presenti, che Ci è caro abbracciare col Nostro sguardo, ammirato per la vostra assistenza a questa sacra cerimonia, per il vostro numero tanto consolante e tanto significativo, e per i sentimenti buoni, filiali, religiosi, che con codesta visita Ci manifestate e trasfondete nel Nostro cuore, affinché ne facciamo a vostro nome offerta al Signore, come professione di fede e di vigore morale, e li esprimiamo noi stessi in preghiera per voi, per le vostre persone singole, per le vostre famiglie, per i vostri colleghi, per tutta la vostra comunità di lavoro, per tutta la società alla quale voi prestate opera assai utile e assai delicata.

Sì, lasciate che tutti vi salutiamo. Lasciate che, ancora prima di aprirvi il Nostro animo con le parole religiose, proprie di questa domenica. Noi vi assicuriamo, tutti ed ognuno, della Nostra paterna affezione, della Nostra stima, del Nostro desiderio del vostro bene. Lasciate che Noi stessi Ci inseriamo nel circuito delle vostre ordinarie occupazioni, e, invece di trasmettervi una comunicazione che, come sempre a voi capita, dev’essere passata ad altri, lasciate che indirizziamo a voi, proprio a voi, operatori e operatrici dei servizi telefonici, il Nostro messaggio; voi, questa volta, siete gli interlocutori terminali, voi siete coloro a cui la comunicazione è rivolta, e vuole arrivare a fermarsi: ai vostri spiriti, alle vostre persone!

Vorremmo cioè onorare il vostro lavoro non già nel suo aspetto tecnico, che è pure meraviglioso, ma riduce quasi a prestazione strumentale, meccanica, il vostro servizio, ma nel suo aspetto personale e vivo, che vi impegna come esseri spirituali, intelligenti, liberi e responsabili, e domanda a voi una prestazione, che l’impianto tecnico non può sostituire e non può dare: l’opera umana. Vi salutiamo, vi onoriamo, vi benediciamo non come esseri anonimi, come numeri insignificanti d’un grande complesso, ma come anime singole e viventi, ciascuna con la sua inconfondibile personalità, con la sua civile prestanza, con la sua storia interiore, con il suo superiore destino, con la sua cristiana dignità.

Vorremmo anzi che ciascuno di voi comprendesse come questa elevazione di ogni individuo umano alla dignità sacra ed inviolabile di persona rivestita della vocazione e dello splendore della figliolanza divina e della fratellanza cristiana costituisce proprio la missione della nostra religione, che conserva e difende in ogni essere umano la sua statura di nobiltà e di grandezza, anzi la solleva al grado superiore della vita soprannaturale.

Meravigliosa cosa, figli e figlie carissimi, che solo la religione cristiana sa operare, e che non solo si compie lasciando ai fenomeni sociali del mondo moderno, i quali producono complessi organizzativi, dove l’ individuo è come assorbito e quasi annientato, che si svolgano secondo le leggi razionali del progresso, ma li penetra, tali fenomeni, li richiama ai principi inalienabili del rispetto alla personalità umana, li nobilita, li umanizza, e perfino li santifica.

Ricordiamo questa funzione della vita religiosa, diffusa nella vita economica, professionale e sociale, affinché ne sappiate valutare l’importanza, la necessità anzi: e non abbiate a cadere nella illusione, pur troppo diffusa nell’opinione pubblica contemporanea, che il progresso tecnico e meccanico basti alla nostra vita e sostituisca tutto quanto un tempo si attribuiva alla Provvidenza e alla vita spirituale, alla fede religiosa. Sarebbe invece atto di buona intelligenza quello che confermasse in voi la persuasione che quanto più siamo tecnicamente progrediti tanto più abbiamo dovere e bisogno d’essere religiosamente fedeli; quanto più la civiltà strumentale e di massa soffoca, nell’atto stesso che la serve, la vita dell’uomo, tanto più dobbiamo alimentare il respiro dell’anima, che solo la preghiera e la fede possono, in sommo grado e in modo non fallace, vivificare.

Vi diremo anzi che questo è uno dei compiti maggiori e, per tanti problemi, risolutivo della vita odierna: come la religione possa e debba diffondersi in un mondo tutto proteso e impegnato nelle sue febbrili e interessantissime attività temporali, come possa essere considerata utile, anzi indispensabile, come possa essere compresa e praticata, non tanto come un giogo pesante e molesto, ma come un diritto alla verità, alla bontà, alla felicità.

Naturalmente questo processo di comprensione e di rivalutazione della religione, come elemento magnifico e necessario di vita, non è sempre facile; impegna la Chiesa a rivedere i suoi metodi pratici nella presentazione del messaggio di Cristo; ed impegna i fedeli, anzi impegna ogni persona intelligente e responsabile, ad assecondare questo sforzo di «aggiornamento», come ora si suol dire. Ma Noi stessi comprendiamo quante e quali difficoltà esso possa presentare a chi, specialmente, non ha né modo né tempo di fare sull’argomento studi speciali. Ma vorremmo confortare la vostra buona volontà a non disperare, a non cedere alla tentazione della superficialità, a non privare voi stessi della gioia di scoprire come quel cristianesimo che sembrava, a chi è preso dall’esperienza del vivere moderno, cosa vecchia e superflua, estranea e difficile, arbitraria ed esigente, è invece vivissimo e bellissimo, fatto apposta, si direbbe, per il nostro secolo e per i problemi reali del nostro spirito.

È possibile?

Ecco: a questo punto Noi vi leggeremo semplicemente il testo evangelico della santa Messa che stiamo celebrando. È una delle pagine più misteriose, più meravigliose e più istruttive del Vangelo. Non vorremmo mai più staccarci dalla sua lettura, dalla visione, dalla rivelazione, che essa ci presenta.

Dice così:

«. . . Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello, e li condusse in disparte sopra un alto monte e si trasfigurò innanzi a loro: il suo viso risplendeva come il sole e le sue vesti erano candide come la neve. E apparvero a loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. E Pietro, prendendo la parola, disse a Gesù: Signore, è bene per noi stare qui. Se Tu vuoi, io farò qui tre capanne, una per Te, una per Mosè ed una per Elia. Parlava ancora quando una nube luminosa li avvolse; ed ecco una voce partire dalla nube e dire: Questi è il mio Figlio diletto, in cui Io mi sono compiaciuto; ascoltatelo. E sentendo ciò i discepoli caddero prostrati per terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò e toccandoli disse: alzatevi e non temete. E levando gli occhi non videro nessun altro, se non il solo Gesù. Il quale, nello scendere dal monte, diede loro, questo ordine: Non parlate ad alcuno di questa visione, finché il Figlio dell’uomo sia risuscitato dai morti» (
Mt 17,1-9).

Qui dovremmo fermarci. Quante cose dovremmo meditare, quale impressione dovremmo stampare nelle nostre menti circa questa scena sublime! San Pietro, scrivendo da Roma la sua seconda lettera, ricorderà il fatto prodigioso, con una testimonianza che ce ne conferma la miracolosa realtà e ce ne mostra la efficacia probativa del messaggio evangelico.

A noi basterà ricordare come il volto umano di Cristo nasconda e riveli ad un tempo il suo volto divino; come Gesù, e con lui il cristianesimo che ne deriva, si presenti a noi con sembianze, che spesso, a prima vista, non mostrano nulla di straordinario, nulla di originale, nulla di profondo. Anzi, alcune volte, la faccia di Cristo è quella d’un sofferente, d’un condannato, d’un morto; ascolteremo presto, nelle rievocazioni della Liturgia quaresimale, le parole strazianti di Isaia, che si riferiscono al Cristo crocifisso: «. . . egli non ha bellezza alcuna, né splendore: noi lo abbiamo visto, e non aveva alcuna apparenza che attirasse i nostri sguardi. Era abbietto, l’ultimo degli uomini, l’uomo dei dolori, che conosce la sofferenza . . .» (Is 53,2-3).

La faccia di Cristo e quella della sua religione ci appare talvolta misera e miserabile, lo specchio dell’infermità e della deformità umana. Ci sembra macchiata, profanata, inetta a irradiare ciò che piace tanto al gusto della gente di oggi: la bellezza sensibile, l’espressione formale, l’apparenza gioiosa. Ci sembra, da un lato, priva di luce sua, non più bella e splendente delle luci artificiali della bravura umana che incantano e abbagliano gli occhi della nostra più giovane generazione; dall’altro, ci sembra privata della luce sua da chi dovrebbe farla risplendere e tenerla alta e consolatrice sulla scena umana. Cioè Cristo e la sua Chiesa sembrano non aver alcuna attrattiva per noi, alcun segreto con cui affascinarci e salvarci.

Ebbene, bisogna ripensare al prodigio della Trasfigurazione; bisogna accogliere il monito che riempie il cielo di Cristo e ci invita ad ascoltarlo. Fu un’ora unica e prodigiosa quella che i discepoli fedeli trascorsero quella notte sul Tabor; ma sarà un’ora continuata e consueta per noi, se sapremo tenere l’occhio fisso sul viso di Cristo e su quello, che storicamente lo riproduce, della sua Chiesa: una trasparenza singolare ci lascerà dapprima intravedere, poi scorgere, poi ammirare la faccia nascosta, la faccia vera, la faccia interiore del Signore e del suo mistico Corpo; e la nostra meraviglia, la nostra letizia non avranno più né misura né smentita.

Bisogna riscoprire il volto trasfigurato di Gesù, per sentire ch’Egli è ancora, e proprio per noi, la nostra luce. Quella che illumina ogni anima che lo cerca e che lo accoglie, che rischiara ogni scena umana, ogni fatica, e le dà colore e risalto, merito e destino, speranza e felicità.

Figli carissimi, lasciate dunque che oggi il lume soave e folgorante di Cristo di qui vi rischiari e vi illumini, e con la Nostra benedizione accompagni il vostro terreno cammino alla visione dell’ eterna luce.



Domenica, 1° marzo 1964: SANTA MESSA NELLA PARROCCHIA DI SANTA MARIA CONSOLATRICE

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Dopo un amabile saluto al Signor Cardinale Pro Vicario, a Monsignor Vice Gerente, che ha testé officiato la sacra funzione, ai due Vescovi Ausiliari, Mons. Pecci e Mons. Giovanni Canestri, ben conosciuto a Casal Bertone, per esserne stato il parroco; ricordati, inoltre, gli altri ecclesiastici, il Santo Padre si dirige ai carissimi fedeli, e, come prima impressione, ritiene di poter leggere sui loro volti una domanda: il Papa è venuto nella nostra parrocchia; che cosa penserà di noi, della nostra chiesa?


ENCOMIO A UNA POPOLAZIONE FEDELE

Pur avendo notizia, come è ovvio, dell’intera zona, è questa la prima volta che il Santo Padre può sostare nel quartiere, e con vivo compiacimento tiene ad esprimere la sua profonda soddisfazione per la grandiosità che si possa qui parlare di uno speciale ritorno della grande parola programmatica di Cristo, registrata in uno dei momenti più significativi del Vangelo, allorché, rivolgendosi a Pietro, il Maestro Divino esclamò: «. . . Su questa pietra costruirò la mia Chiesa». Di fronte alla imponenza del nuovo tempio col suo stile moderno e pur consono ai precetti antichi dell’architettura romana, si risale alle origini, anzi agli anni anteriori alla costruzione. Venne effettuata all’indomani d’un periodo di grandi tristezze e dolorosi eventi. Il territorio di Casal Bertone era incluso in quello della finitima parrocchia di S. Lorenzo al Verano: e come non ricordare la tragica giornata del 19 luglio 1943, quando il Papa di oggi potè accompagnare il predecessore Pio XII di v. m., immediatamente accorso dopo un esteso bombardamento sui centri ferroviari di Roma, e sulle zone circostanti? È sempre viva la memoria di quelle ore terribili, per la sofferenza di molte famiglie, la distruzione di tante case e il grave danno ad insigne monumento; ma è del pari indimenticabile il conforto recato da Pio XII, il quale indicò ai colpiti la via della incrollabile fiducia, e proprio accanto a un cumulo di rovine fumanti, levando le braccia al cielo, invitò tutti a recitare con lui il Pater noster.

In quella medesima zona, dunque, devastata dagli orrori della guerra, è sorto un nuovo quartiere, quasi una città a sé stante, con quanto essa richiede per la sua vita, sia materiale che civica.


PIETRE VIVE DELLA CHIESA DI DIO

Perciò l’Augusto Pontefice vuole indirizzare un suo saluto all’intera popolazione, e ai caratteristici gruppi di residenti. Sono, in primo luogo, numerosi ferrovieri: a questi diletti figliuoli il più sentito augurio del Padre, Esso si estende, pure, alle altre categorie di lavoratori, a cominciare dai tranvieri, i postelegrafonici, gli impiegati sia nei servizi municipalizzati della Città sia in quelli dello Stato, con l’invocare dal Signore ogni prosperità per le varie famiglie, delle quali i numerosi bimbi esultanti nella piazza attestano le migliori speranze.

Insieme col saluto, uno speciale elogio del Padre per i diletti abitanti di Casal Bertone. Risulta chiaro che essi non si soffermano dinanzi alla città materiale, all’edificio ecclesiastico; ma attendono, con slancio, a costruire la Chiesa spirituale, consci della parte che a tutti noi spetta in questa immensa società visibile, ma soprattutto invisibile e misteriosa, eppur tanto reale e presente nel mondo. L’ambivalenza del termine, per l’edificio sacro e per la comunità dei credenti, è da questi pienamente compresa. I cari fedeli sanno di comporre la Chiesa, di formarne le pietre vive, di partecipare al mistico Corpo di Cristo. Perciò il Santo Padre è lieto di incontrarsi con loro, di salutarli con il più vivo affetto e di esprimere compiacimento a colui che sta al centro di tanta vitalità: il parroco. Egli prosegue i meriti dei predecessori, entrambi promossi alla dignità vescovile: Mons. Carlo Maccari e Mons. Giovanni Canestri, che tanto hanno lavorato per una evidente e salda compagine spirituale.

Questa felice premessa è confermata dal numero e dalla consistenza delle associazioni cattoliche, le cui molte bandiere attestano la nobile gara di uomini, donne, giovani, fanciulli, delle ACLI e di altri sodalizi. A tutti una speciale benedizione del Papa, proprio perché dimostrano di capire la eccelsa entità religiosa e sociale che è la Chiesa.

La Chiesa - tutti lo sappiamo - è un fatto religioso, di rapporto cioè fra l’anima e Dio; e tale rapporto non può attuarsi all’infuori di un vincolo sociale. Il Signore non ci salva da soli: bensì in comunità, in società, attraverso il ministero di un fratello, che si chiama il sacerdote.


IL SACERDOTE FRATELLO MAGGIORE E MINISTRO DI GRAZIA

La religione nostra è religione articolata socialmente. Con vero compiacimento il Santo Padre osserva che la comunità parrocchiale, a cui ora rivolge la sua parola, è formata in maniera rispondente a precisa organizzazione, con la fedeltà costituzionale al volere di Cristo. È, infatti, guidata dal parroco; sono con lui diversi sacerdoti che lo coadiuvano, ed altri ancora che qui vengono ad esercitare il sacro ministero. Ebbene, questo gruppo di persone responsabili, investite dei poteri, delle chiavi del Signore, dispensatori della grazia di Dio, riceve ora dal Papa, per primo, il ringraziamento e la lode; poiché questi sacerdoti Gli sono fratelli e collaboratori.

Grande, perciò, è la gratitudine del Pastore Supremo, sincero il suo affetto, totale la comprensione, con cui Egli saluta i sacerdoti che qui compiono l’ufficio che sarebbe del Vescovo, dimostrandosi, in ogni momento e per tutti, padri, maestri, ministri della grazia e degli altri doni divini. Di conseguenza, il Santo Padre ripete la esortazione già detta in precedenti incontri: ci tenete che la vostra parrocchia sia viva, esemplare, feconda, santa? Vogliate bene ai vostri sacerdoti; cercate di comprenderli, di alleviare le loro fatiche: accogliete con entusiasmo i loro ordini e desideri; sia perenne il colloquio tra il parroco e i fedeli. Proprio la fiducia, la familiarità, la solidarietà che intercedono tra il pastore e il gregge racchiudono il segreto di ben rispondere al pensiero e all’azione di Cristo in mezzo a noi.

Gerarchica, adunque, la Chiesa. Ma ognuno rifletta: i sacerdoti sono i padroni oppure i servi dei fedeli? Sono nelle parrocchie - è triste riferirsi a una cattiva espressione, purtroppo assai spesso ascoltata - per sfruttare o per servire? La risposta è di limpida evidenza. Sono mandati da Dio proprio per servire, per il bene dei singoli e della comunità. Hanno lasciato tutto, allo scopo di dedicarsi alla grande vocazione. Nessuno poteva avanzare titolo o merito per esigere che un prete rinunciasse a ogni cosa nella vita per recarsi, ove l’obbedienza destina, a servire le anime. Ebbene, questo miracolo si compie. Perché? Per estendere la Ecclesia, la società dei santi; per raccogliere, custodire, accrescere gruppi e gruppi di persone atte a ricevere la grazia di Dio. In quale forma? Quella della più sentita fraternità. La Chiesa ha due dimensioni: una gerarchica, che potrebbe dirsi verticale, di paternità; l’altra di fraternità, di comunità voluta dal Signore. E tale la vera parrocchia, dove tutti sono figli, fratelli: tutti si conoscono e si vogliono bene; lavorano quasi in cooperativa di mutuo soccorso spirituale, impegnati a edificare e costruire, nella santità e nella fedeltà a Cristo Signore, la sua Chiesa viva. Si vogliono bene; sanno che questo è il precetto fondamentale.


LA CARITÀ PRIMA E INSOSTITUIBILE LEGGE

Come si chiama questa forza coesiva, atta a tenere insieme il corpo parrocchiale, il corpo ecclesiastico, l’umanità desiderosa d’essere unita in Cristo? Lo sanno tutti: si chiama la carità. Portentoso dono, ineffabile virtù! Promana da Dio; perché è l’amore suo comunicato agli uomini, e si diffonde da individuo a individuo. Scende dal Cielo, quale fiume regale e benefico, la bontà di Dio che ama gli uomini e li invita, come per impulso interiore, a volersi bene anche tra loro. È la grande legge costitutiva della Chiesa. Se, teoricamente, la carità è facile ad enunciarsi, bella a declamarsi, comune a professarsi, nella pratica, invece, è molto esigente e difficile. Eppure non solo è possibile e sempre attuabile, ma è proprio il grande distintivo, idoneo ad indicare il grado della vita ecclesiastica. Sono uniti i fedeli nell’amore, nella carità di Cristo? Di certo questa è una parrocchia vitale; qui c’è la vera Chiesa; giacché è rigoglioso, allora, il fenomeno divino-umano che perpetua la presenza di Cristo fra noi. Sono i fedeli insieme, unicamente perché iscritti nel libro dell’anagrafe o sul registro dei battesimi? sono aggregati solo perché si trovano, la domenica, ad ascoltare la Messa, senza conoscersi, facendo magari di gomito gli uni contro gli altri? Se così è, la Chiesa non risulta, in quel caso, compaginata; il cemento, che di tutti deve formare la reale, organica unità, non è ancora operante.


LAVORARE PER UNA SOCIETÀ DI SANTI

Bisogna vivere la carità, agire nella carità. Questo il ricordo che il Santo Padre vuole lasciare della sua visita. Vedendo già bene iniziata e promettente la spirituale fioritura, Egli esorta: vogliatevi bene, vogliatevi bene; cercate di amarvi. Oh come sarebbe davvero stupendo se queste nostre parrocchie romane dimostrassero bene quel che deve essere la società ecclesiastica! E cioè: gente, dapprima sconosciuta, gruppi diversi per costume, educazione, origine, età, professione ecc., che, trovandosi in chiesa, si rivelano e si sentono altrettanti nuclei di fratelli. Diventano amici, si dànno la mano l’uno con l’altro, si perdonano le offese, non parlano male del prossimo, e cercano, invece, ove c’è un ammalato, di assisterlo, ove un disoccupato, di soccorrerlo, dove un bambino, di educarlo, ovunque, in una parola, c’è un’azione buona da compiere a vantaggio del prossimo, aver subito cuore e impegno per dire: ecco che Cristo ci chiama. I bisogni dei nostri fratelli sono altrettanti appelli rivolti a noi per sperimentare se veramente ci vogliamo bene, se veramente siamo cristiani.

Ricordate - conclude l’Augusto Pontefice - la parola solenne di Cristo. Vi riconosceranno veramente per miei discepoli, autentici seguaci e fedeli, se vi amerete gli uni gli altri; se ci sarà questo calore di affetti, di sentimenti; se vibrerà la simpatia voluta più che vissuta, creata da noi, più che spontanea, con quella larghezza di cuore, e quella capacità di generare il Cristo in mezzo a noi, derivanti, appunto, dal sentirci uniti in Lui e per Lui.

Vogliatevi bene, diletti figliuoli della parrocchia di Santa Maria Consolatrice di Casal Bertone. Portate l’invito, l’augurio del Padre alle vostre famiglie. Si propaghi nel quartiere un’onda di amore cristiano, e perfezioni la vostra comunità, qui già bene stabilita e vigorosa. Ogni circostanza, ogni evento concorrano a questo insuperabile bene, e quindi a consolazione e gioia anche della vita presente; pegno sicuro che non mancherà la vita futura per ciascuno di voi.



Domenica, 8 marzo 1964: SANTA MESSA NELLA PARROCCHIA DELLA GRAN MADRE DI DIO

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Anzitutto un cordiale saluto al Signor Cardinale Pro Vicario, a Monsignore Vice Gerente, ai Vescovi Ausiliari, al Parroco ed ai Sacerdoti che lo coadiuvano nel ministero pastorale.

Il Sommo Pontefice è lieto di questi incontri; ed uno dei motivi di tale gioia consiste nel poter Egli avvicinare coloro che, in vario grado, sono i «cooperatores ministerii Nostri». Essi sono, infatti, particolarmente cari per la comune dignità di Sacerdoti di Cristo; per la dedizione con cui assolvono il loro spirituale mandato; e, infine, a causa della efficacia con cui sanno interpretare le necessità e le aspirazioni della vita cristiana di Roma.


UNA COMUNITÀ GIOVANE E GLORIOSA

Il saluto del Padre si estende, poi, alle comunità religiose, alle suore, a tutte le istituzioni, ai vari rami dell’Azione Cattolica.

Il compiacimento è spontaneo e sentito. C’è, qui, un insieme egregio di opere che ben si accorda alla grandiosità del quartiere, nel cui ambito non sono poche le importanti istituzioni. Ad esse, come pure a tutti i cospicui centri residenziali e di uffici, il pensiero benedicente del Vescovo di Roma.

Si aggiunga - e il Santo Padre lo nota con vivo compiacimento - che i fedeli di questa parrocchia hanno assicurato e stanno svolgendo speciali opere meritorie in occasione della Quaresima. Pertanto più che una esortazione meriterebbero una lode, che il Papa a tutti intende largire. Egli sa, però, che, in questo mondo, pur attingendo mète encomiabili, ci si trova sempre dinanzi a qualche cosa di buono e di meglio da fare; necessario deve essere, infatti, il progresso, come ricorrente la fioritura.

In secondo luogo la visita pontificia non mostrerebbe l’intero suo significato se non avesse anche quello di stimolare ad ascese ancor più meritorie.


«CHE COSA È UNA PARROCCHIA?»

Incominciamo con una domanda, che il Santo Padre potrebbe proporre alle varie categorie dei suoi ascoltatori: ai fanciulli, agli anziani, ed anche a coloro, non presenti, i quali hanno della parrocchia un’idea assai imprecisa, e la considerano, al massimo, come il punto di convegno per una saltuaria preghiera collettiva al Signore. La domanda è questa: che cosa è una parrocchia? Diverse potrebbero essere le risposte e par di sentirle. La parrocchia è una chiesa; è una chiesa speciale con i registri, l’archivio, l’anagrafe, l’amministrazione concernente i fedeli; è un’entità giuridica.

Intanto si deve subito rilevare che non basta la definizione di semplice chiesa. Altri templi vi sono, talvolta grandiosi, da cui non si irradiano cure pastorali determinate.

Ciò premesso, una risposta diventa agevole, se i fedeli pongono mente alla presenza del Papa. Si sono mossi tutti, e con entusiasmo, per questa visita desiderata, inaspettata. Egli è felicissimo che lo si saluti in codesta maniera, ben comprendendo la singolarità della circostanza. Viene tra i suoi figli il Vescovo di Roma, il Vicario di Cristo. E il popolo fa bene ad accoglierlo con letizia, non certo per la sua persona, ma per l’ufficio, il mandato che il Signore gli ha conferito; per l’altezza del suo sacro ministero. È naturale acclamarlo, aprire gli occhi, conservare nel cuore il ricordo di questi momenti. Perché? Perché è un notevole atto di presenza. Viene il Papa; è presente il Papa: Colui, cioè, che, Successore di Pietro, prolunga nel tempo la missione del divino Maestro e la dirige nel mondo.


MIRABILE E VERA PRESENZA

Tuttavia se unicamente il Papa possiede questa prerogativa di rappresentare il Signore in mezzo alla storia e sulla faccia della terra, se non c’è che Lui ad avere questa pienezza di autorità, bisogna ricordare che non la sola autorità ci pone vicini a Dio. Qui, nel tabernacolo, c’è una presenza, e quale mirabile e vera presenza! Nostro Signore Gesù Cristo; vivo, vero, reale, ma silenzioso e nascosto, si direbbe inerte. Dinanzi all’ineffabile Mistero Eucaristico il primo moto spontaneo, irresistibile è quello di aprire le anime, tendere i cuori, prostrarsi in atto di fede per mettersi in comunicazione con questa divina presenza.

E non è tutto. Con il SS.mo Sacramento c’è anche il parroco; e chi è il parroco? Il rappresentante della Chiesa. Adunque la parrocchia è la presenza della Chiesa viva ed operante in mezzo al popolo fedele. È - per definirla in maniera più completa - la presenza di Cristo nella pienezza della sua funzione salvatrice. Senza dubbio, anche nelle altre chiese c’è il Signore; ma non compie quello che esercita qui, dove i fanciulli sono rigenerati alla grazia; dove c’è il battesimo. Nelle altre chiese non si è tenuti ad annunciare la parola di Dio con regolarità, mediante catechesi organizzate e volute come istruzione programmata e responsabile. Qui è dispensata, in modo particolare, la parola di Dio. Dunque questa è la casa del Vangelo, la casa della verità, la scuola di Nostro Signore; qui la sua cattedra, qui Egli insegna con metodo, e dà ogni aiuto perché si corrisponda al nostro fondamentale dovere. Il parroco, come primo obbligo, ha quello di diffondere la parola del Signore, di ricordare ai seguaci di Cristo: guardate che stiamo qui per una precisa finalità. Io vi predico il Signore, la sua parola, il suo Vangelo. Io vi chiamo alla fede donde poi nasce tutto il sistema religioso su cui è basata la nostra spiritualità, la Chiesa, la società che noi veniamo componendo. La parola di Dio passa attraverso le labbra umane, sono le labbra del vostro parroco.


NECESSARIA RISPOSTA DEI FEDELI A PRECISI DOVERI

Torna perciò la domanda con la risposta piena e convincente.

La parrocchia è la presenza di Cristo operante attraverso il ministero dei suoi sacerdoti. Un ministero responsabile: ecco la nota distintiva tra la chiesa parrocchiale e le altre chiese ove si può fare del bene, ma senza vincolo. Il parroco, invece, è tenuto a precisi doveri: né può rifiutarsi poiché s’è dato, è a disposizione di tutti. È uno che ha detto al Signore: Io andrò a rappresentarti, e cioè a ripetere quello che tu hai compiuto ed insegnato, a dedicarmi agli altri. Il parroco, venendo qui, ha assunto la responsabilità delle anime che compongono questo quartiere; del suo amore e dell’ansia del suo animo zelante egli fa un elemento catalizzatore e unificatore. Il parroco è incaricato di rendere famiglia l’intero popolo che abita in questa zona.

Si tratta, in sostanza, di una manifestazione sublime della carità. Se si cerca l’espressione della carità di Cristo nel mondo, basta guardare il sacerdote dedito alla vita pastorale. Gesù ha proclamato: non c’è amore più grande che dare la vita per gli altri. Ebbene ogni parroco è un immolato pronto a offrire la propria vita per il prossimo. Tale sublime slancio non indica solo un dono unilaterale, ma stabilisce un autentico rapporto. Per quale ragione? Perché c’è responsabilità da parte del parroco, e necessità da parte dei fedeli. Nella parrocchia si amministrano i sacramenti indispensabili alla nostra salvezza, ad assicurare un valore essenzialmente cristiano per ogni momento dell’esistenza e per l’ora del trapasso alla eternità.

Nessun fedele può esonerarsi e dire: io non c’entro. Dal semplice appartenere a una chiesa parrocchiale, essi ricevono da questa sorgente le grazie per la vita. Non si tratta di un diversivo, di un gioco accademico; non è cosa marginale o facoltativa. È il pane, è l’alimento soprannaturale che qui è dato e garantito. Perciò la parrocchia è la casa dei credenti, è la casa dell’anima, è la casa della speranza, della avidità di incontrarsi e unirsi con Nostro Signore Gesù Cristo.


IL SACERDOZIO MOLTIPLICA I DONI DI DIO

Cade qui a proposito un riferimento al Vangelo della quarta domenica di Quaresima, sulla moltiplicazione dei pani. Come si produsse questo miracolo? in quale fase? Avveniva nel passaggio dalle mani di Cristo alle mani degli Apostoli: il pane, in quell’istante, si moltiplicava: una ricchezza l’accrescimento di quel cibo, che il Signore voleva far giungere a tutti. Ciò dimostra che il sacerdozio è proprio il veicolo, lo strumento della moltiplicazione del pane del Signore. Gesù ha istituito il sacerdozio per socializzarsi, per immedesimarsi con ognuno, per essere l’unico pane posto a disposizione di tutti.

Questo l’elemento essenziale da richiamare nella descrizione ed apologia della parrocchia. La parrocchia è per tutti. Il prodigio della moltiplicazione dei pani conferma, inoltre, che il Signore è il vero alimento. Non si esaurisce, non è per i piccoli cenacoli, non si limita ad anime privilegiate, non è diretto solamente a coloro che lo cercano con passione e straordinario ardore: è destinato all’intero genere umano.

E allora, se si vuol sapere qual è il luogo che il Signore ha stabilito per l’incontro, l’appuntamento in cui Egli aspetta e chiama, è facile rispondere: la mia parrocchia. Ivi è il luogo fisso della grazia e della presenza divina. Ciò può essere ripetuto dal ragazzo, dal giovane, dalla famiglia, dal vecchio, dal sofferente. Ogni stato di vita e di professione può così trovare la verità, la pace nel dialogo con Cristo. Qui infatti si prolunga il duplice mistero del Salvatore che si incarna, diviene vita in ciascuno di noi e moltiplica il suo mistero di redenzione e salvezza.

Certo il Signore è generoso e si possono trovare i suoi gesti di misericordia in cento altre parti; ma se il fedele intende essere logico, se aspira alla visione precipua della salute spirituale, deve mettere a fuoco nella sua anima questo punto solare.


NESSUNO RIMANGA ASSENTE

La parrocchia è fatta per tutti. Ricordatelo: - invita con paterna insistenza Sua Santità - è per voi, per ciascuno di voi; nessuno è dimenticato, tutti invece, sono chiamati per nome, nessuno può rimanere assente. Lo direte anche agli altri, a quelli che, non sono qui: la parrocchia è il centro della vita ecclesiastica. E da ultimo, se è vero che la parrocchia è per tutti, non manchi il convincimento che essa è anche fatta da tutti, non solo dal parroco, dai sacerdoti che lo aiutano. Ciascuno è membro, ciascuno è parte, ciascuno è pietra viva di questo tempio.

Nessuno può essere passivo, egoista; nessuno può restare assente o isolato. Qui occorre vivere in comunità e in carità: bisogna cioè portare non una presenza, sovente stentata, talvolta irregolare, tal altra melanconica, diffidente, bensì una presenza convinta, operante, non fosse altro che per unirsi alla comunità quando la stessa orazione è il migliore invito a pregare insieme. Vedete il Concilio Ecumenico: cosa sta facendo? Sta cercando appunto la maniera di dissigillare le tante labbra mute del popolo, che non può più rimanere silenzioso e indifferente, ma deve aprire la sua anima, effondere i suoi sentimenti, i suoi dolori, le sue speranze, e far proprie le parole divine che vengono a beatificare e santificare il suo spirito. In ciò s’avvera il concorso che ognuno può dare alla parrocchia nell’intento di capire e pregare bene; d’essere un Cuor solo ed un’anima sola. Se la visita del Papa fra voi non facesse altro che agitare alcuni di questi pensieri e porre taluni interrogativi e stimoli alla vostra anima, in favore della vostra comunità parrocchiale, che è la Chiesa viva, la Chiesa per voi, la Chiesa salvante, sperante, orante, tale presenza non sarebbe inutile e la Benedizione Apostolica confermerebbe nelle vostre anime le migliori grazie di Dio.






B. Paolo VI Omelie 23024