B. Paolo VI Omelie 26464

Domenica, 26 aprile 1964: IV DOMENICA DOPO LA PASQUA

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Il Santo Padre si riserva di salutare, i Gruppi di fedeli e di pellegrini al termine della Messa, per poter, se non in dialogo almeno in diretta conversazione, dare loro il saluto che desidera. Ora, durante la celebrazione dei misteri divini, soltanto il pensiero del Signore, e di ciò che è sacro deve occuparci: il Vangelo della IV domenica dopo la Pasqua ci dà motivo di riflessione e di meditazione, e il Papa sceglierà una sola parola di Gesù dal Vangelo del giorno tanto denso e tanto profondo: un termine che diverrà poi comune al nostro catechismo: Paraclito. Ed è un nome, questo, che il Signore sembra dire come facendo una confidenza, quasi svelando un segreto; viene sulle labbra del Signore durante i discorsi del commiato, dell’ultima Cena, in cui Gesù con parola soave, profonda, cerca di preparare gli Apostoli ai grandissimi avvenimenti che incombono sulla storia evangelica e del mondo.

Tra poco comincerà la Passione e Gesù sente, si direbbe, il dovere di congedarsi dai suoi e nel congedo viene svelato il rapporto che intercederà poi tra Lui e i suoi, annunzia che si sottrarrà alla loro visione sensibile e si preoccupa di loro, di quelli che hanno ascoltato e creduto alla sua parola, di come resisterà in essi, Egli assente, la grande certezza del regno di Dio che Egli aveva iniziato e fondato.

Ed il Signore, annunzia un nuovo rapporto tra Lui e l’uomo, rapporto che diverrà interiore colloquio di Dio con le anime. Vedendo i discepoli tristi, smarriti, annunzia che Egli manderà loro lo Spirito Santo: il Paraclito, parola che ha molti significati: avvocato, assistente, aiuto, difensore, consolatore, che sta vicino e che viene per dare un sussidio, infondere una energia, apportare qualche cosa di nuovo: ciò appunto che il Catechismo chiama la grazia, presenza di Dio, operante dentro di noi per rendere santa e buona l’anima nostra. Per quelli che sanno ascoltare e seguire, e che ricercano l’ineffabile, stupendo colloquio interiore, diventa voce attiva di Dio nel profondo delle anime. La vita spirituale del cristiano non è soltanto una esplicazione delle sue energie naturali, ma si sviluppa, si potrebbe dire, in una simbiosi, una vita associata, una inabitazione dello Spirito Santo dentro di noi.

Questo sarà il rapporto che il Signore vuole stabilire fra quelli che lo seguono e vivono di Lui, rapporto non sensibile, ma reale, nuovo, sopra le nostre facoltà naturali: a questa comunione con Dio siamo invitati dalla Messa del giorno e dalla rivelazione del Vangelo che è offerto alla nostra meditazione.

Se riflettiamo come questa meditazione si innesta nel processo liturgico dell’anno, che stiamo celebrando, viene anche a noi il pensiero che sopraggiungerà la Festa dell’Ascensione e Cristo scomparirà dalla scena e dalla presenza, almeno storica, della nostra devozione. E allora la Chiesa ci dice: coltivate la devozione allo Spirito Santo e sarete in comunione con Cristo e capirete che il Signore diventa da Maestro esteriore, come dice Sant’Agostino, il Maestro interiore, l’ispiratore, attraverso il linguaggio del Paraclito, dei buoni pensieri, delle nostre buone volontà, Colui che ci rende capaci di virtù che da noi stessi non sapremmo esercitare; la sorgente - e quanti hanno ricevuto la Cresima lo ricorderanno - dei sette doni, di queste energie di sapienza, di intelligenza, di consiglio, di fortezza, di scienza, di pietà, di timor di Dio, che rendono l’anima fiammante di vita spirituale, riflesso della vita divina sopra di lei, per essere fatta specchio a questi raggi che scendono dal cielo e che Cristo riverbera sopra le anime che sono recettive di questa luce.

Il Papa ricorda ai fedeli un episodio narrato negli Atti degli Apostoli; S. Paolo, in Efeso, a un gruppo di quei primi cristiani chiede se hanno ricevuto lo Spirito e poiché quei fedeli ancora non ne avevano inteso parlare, egli conferisce loro il battesimo istituito da Gesù ed impone loro le mani, e così sono anch’essi ripieni di Spirito Santo. Ed essi cominciano a profetare, ad esaltare il Signore, ad avere questa pienezza interiore della grazia che li riempie della presenza di Dio.

A tanti cristiani, forse a noi stessi è rivolto questo interrogativo che sa di rimprovero, perché la nostra vita spirituale non è un soliloquio, una chiusura dell’anima su se stessa, ma un dialogo, una ineffabile conversazione, una presenza di Dio da non ricercare più nel cielo né fuori, né solo nelle chiese, ma in se stessa: quanta gioia, quanta energia, quanta speranza dà l’abbandonarsi a questo abbraccio interiore che Dio dà alle anime devote e veramente fedeli!

Ed il Santo Padre esorta tutti a fare almeno questo, a ricordarsi dello Spirito Santo; e dovrebbe essere la prima, la suprema nostra devozione, ad invocarlo, specialmente in questo periodo che ci prepara alla Festa della Pentecoste, e a cercare di essere anche noi capaci di captare questa voce interiore e silenziosa, questa presenza di Dio, e a pregustare in questo colloquio che si chiama la vita spirituale cristiana, qualche cosa del colloquio eterno a cui siamo invitati per il Paradiso.

E così sia.



Venerdì, 1° maggio 1964: FESTIVITÀ DI S. GIUSEPPE ARTIGIANO

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Tra i vari gruppi presenti Noi dobbiamo in modo particolare distinguere e salutare quegli degli Aclisti di Roma e di Milano, che furono i primi a chiedere a Noi di fissare questo incontro, al quale vediamo con piacere unirsi altri pellegrinaggi di lavoratori: quelli di Mondovì, guidati dal loro Vescovo, quelli di Melzo, quelli di Castiglione delle Stiviere, quelli della Società Elettrotecnica Palazzoli, di Brescia, e con tanti altri gli Artigiani Cristiani di Milano. Dobbiamo perciò notare che questa celebrazione si caratterizza dalla presenza varia, numerosa, e assai significativa di Lavoratori Cristiani, e di Artigiani Cristiani, ottimi e carissimi tutti. Non poteva meglio celebrarsi per Noi la festa del Lavoro cristiano.

Noi siamo felici di saperli presenti questi uomini del lavoro, di averli vicini a Noi in questo giorno che il calendario moderno dedica al lavoro e che quello ecclesiastico fa proprio per tributare al lavoro l’onore che egli è dovuto e per santificarlo con l’esempio e con la protezione del caro e santo lavoratore Giuseppe di Nazareth. Questo incontro, carissimi figli, Ci ricorda quelli che lo hanno preceduto, e proprio in questa giornata che mette in movimento non meno le coscienze che le masse del mondo operaio; ed oggi ancora vi diciamo la Nostra affezione, la Nostra stima, la Nostra fiducia, il Nostro desiderio di aiutarvi in ogni vostra buona aspirazione. Cari Lavoratori cristiani, sia chiaro per voi e sia chiaro per quanti voi qui rappresentate che il Papa vi vuol bene, che la Chiesa vi apprezza e vi assiste. Vorremmo che anche quest’ora di comune conversazione e di comune preghiera vi persuadesse, ancor più che già non siate persuasi, che la Chiesa vi comprende. Anche questa elevazione del primo maggio a festa religiosa che cosa vi dice, alla fine? Che la Chiesa ha per voi una comprensione particolare. Niente sarebbe più contrario alla verità che il dubitare della comprensione della Chiesa verso il mondo del lavoro. E se il dubbio venisse (e viene ancora in tanti vostri colleghi, lontani dalla Chiesa e prevenuti malamente nei suoi riguardi) che la Chiesa non vi conosca, che la Chiesa badi ad altre cose che non la vostra vita, che la Chiesa preferisca altre amicizie che non la vostra, ebbene la festa, che stiamo celebrando, qui, in onore di San Giuseppe Lavoratore, e sulla tomba di San Pietro pescatore - un lavoratore anche lui, -basta per dimostrare quanto invece la Chiesa vi sia vicina, e non solo con i suoi solenni insegnamenti, ma altresì con l’accoglienza affettuosa e rispettosa della vostra visita, del vostro colloquio, della vostra esperienza.

Ed è questo incontro, come già altri, che Ci dà immensa consolazione; e, ancor più della gioia che la vostra presenza Ci reca, esso Ci allieta, vorremmo dire, perché esso Ci offre occasione di dire a voi e di dare a voi qualche cosa di Nostro. Che cosa possiamo dirvi e che cosa possiamo darvi? Ce lo domandiamo spesso, davanti al Signore, tanto è il Nostro desiderio di dar prova della sincerità e dell’efficacia dei Nostri sentimenti. Ci domandiamo spesso, infatti, nelle riflessioni sui Nostri doveri pastorali, che cosa vogliono, che cosa aspettano i nostri lavoratori da Noi, dalla Chiesa? Voi, che siete venuti oggi a trovarci, e a dimostrarci così la vostra fedeltà e la vostra devozione, che cosa volete da Noi?

Vediamo. Voi volete indubbiamente una parola religiosa. Forse una nuova parola religiosa; quasi una rivelazione. Voi siete cristiani, voi conservate la vostra fede, voi frequentate ancora le vostre chiese. Beati voi. Siate perseveranti. Siate forti. Ma a Noi pare di intravedere nei vostri spiriti una certa difficoltà verso la religione, una certa pesantezza. Non è più così semplice come una volta l’andare in chiesa. Noi non facciamo ora l’analisi di cotesto stato d’animo, cioè della fatica interiore che oggi sente l’uomo del lavoro a credere, a pregare, a professare la sua fede, a praticare la sua religione. Sarebbe troppo lungo. Dovremmo elencare le obbiezioni, massicce e volgari alcune, sottili e seducenti altre, che turbano spesso lo spirito dell’operaio, e del giovane in modo speciale, in ordine alla concezione cristiana della vita, e nei riguardi della Chiesa in modo particolare. Notiamo solo due conclusioni, e sono piuttosto due impressioni, alle quali giunge oggi facilmente in questo campo il lavoratore moderno; una è l’impressione di cecità, di oscurità, di miopia almeno in tutto quello che riguarda la religione; donde la tentazione, che spesso diventa in pratica la regola, di non interessarsi della religione stessa; l’altra impressione è di sconforto, di pessimismo, di disperazione, che resta in fondo al cuore, un po’ su tutto, sugli uomini, sulla vita, sul mondo. La prima impressione viene a galla, e si manifesta, dicevamo, nel disinteresse per le cose di Dio e dell’anima; l’altra impressione invece, pesante come piombo, rimane quasi sempre silenziosa e segreta, e si deposita in fondo alla coscienza, triste ed amara.

Ed ecco allora che voi, per i quali i valori spirituali sono ancora apprezzati e conservati, venite da Noi, venite dal Papa, dalla Chiesa - Madre e Maestra - per chiederle (è oggi la vostra stessa presenza in questa basilica una domanda), per chiederle una parola nuova, una parola viva, una parola, sì, rivelatrice. È possibile ancor oggi dire al mondo del lavoro, che vuol dire al mondo scientifico, industriale, tecnico, sociale, una parola di fede cristiana, che vada dritta al suo cuore? È ancora, se c’è questa parola, utile, vera, rigeneratrice?

Figli carissimi! Sì. Questa parola c’è, ed è viva, è vera, è per voi! E la Chiesa la conserva, la Chiesa ancora ve la offre! E ripeto: è nuova, perché è vera e perché è viva, anche se è sempre sostanzialmente la stessa; è eterna. Quale parola, mi chiedete, è questa? E vi rispondo: è il Vangelo. Sì, il Vangelo, luce del mondo, scienza di Dio e dell’uomo, codice della vita. Quel Vangelo che si apre alla prima pagina con il muto linguaggio di S. Giuseppe, custode, quasi portinaio del regno di Dio, recato al mondo da Cristo Signore; è lui che vi dice: si entra di qui, l’ingresso è la vita umile, forte, sacra del lavoro. Cioè, nella comprensione cristiana del lavoro abbiamo la porta, avete la chiave per entrare, voi lavoratori, nel mondo dello spirito, della fede, della luce religiosa che dà alla vita il suo senso, la sua dignità, il suo destino. Per altri il lavoro è l’introduzione nel regno della materia; per voi cristiani è un’iniziazione alla vita superiore dell’anima.

Carissimi!, voi sapete già queste cose; e venite da Noi per sentirle ripetere, e per essere assicurati che, seguendo la concezione cristiana della vita, non sbagliate. No, non sbagliate, anche quando, ed è subito, la concezione cristiana, l’ideologia come voi dite, diventa programma concreto della vita, diventa costume, diventa impegno. Cioè volete da Noi, dopo la parola religiosa, anche un impulso morale. Volete una infusione di energia per essere coerenti con la vostra ideologia, per essere gente di carattere, gente capace di dare testimonianza, non foss’altro col vostro modo di vivere e di parlare, alla vostra fede. Ebbene, figli carissimi, anche questo la Chiesa vi può dare, non per legarvi con tante proibizioni, ma per suscitare in voi stessi quelle forze spirituali, che si chiamano virtù, e che fanno l’uomo, l’uomo vero, l’uomo forte, l’uomo libero. La Chiesa vi può dare questa formazione umana autentica e completa, se state alla sua scuola: parola e grazia essa vi darà; e tanta sarà la bellezza di codesta esperienza, che non ne sarete facilmente sazi; ne vorrete ancora, ne vorrete di più, con grande consolazione anche se con soverchiante fatica di chi sa dispensare la parola e la grazia, i vostri bravi Sacerdoti!

E questo è tutto? La Chiesa non vi può dare altro?

Oh!, voi sapete che la Chiesa può darvi ancora qualche cosa; ed è ciò che tormenta di più i vostri animi, ansiosi anche in questo momento d’avere pure di qui una risposta a quei vostri problemi pratici, che sempre tanto vi angustiano e che investono la vostra vita, non solo nelle sue esigenze economiche, ma altresì nella sua concreta realtà personale, familiare e professionale, e proprio in ordine a ciò che socialmente vi definisce, cioè il lavoro. Ebbene la Chiesa, anche questo voi ben conoscete, si crede in dovere ed in diritto di offrire a voi, Lavoratori cristiani, ed anche a tutte le immense e varie schiere dei vostri colleghi, la sua parola che possiamo definire di «conforto sociale». Ella sa che ne avete tuttora bisogno, che ne avete tuttora diritto. Ella sa come in questo momento nuove difficoltà sono sorte nel campo economico e sociale, e che tutti ne soffrono, e non pochi delle vostre categorie ne soffrono nel pane, nella elementare sufficienza per la vita, nella indispensabile sicurezza delle loro condizioni materiali e morali. Ella sa come sia ancora tanto difficile per voi la tranquillità dello spirito: da un lato la controversia per la tutela dei vostri interessi economici, inasprita dalle fluttuazioni della presente congiuntura; dall’altro la diversità ideologica, che vi separa dai vostri stessi colleghi di lavoro. Ella sa come la trasformazione della società deve risolversi anche in vostro vantaggio, e non deve ledere, sì bene garantire e promuovere la libertà e la giustizia per tutti. Ella sa come tutto il presente progresso ha bisogno di principi morali, che lo conservino umano, e di forze spirituali che lo rivolgano al fine superiore della nostra vita, che è il suo destino immortale, da Cristo svelato e reso da noi raggiungibile, come cioè la religione abbia oggi più che mai la sua funzione illuminante ed elevante da svolgere a guida ed a sostegno dei grandi fenomeni umani, a cui è strettamente interessata la vostra vita.

Perciò la Chiesa non vi nega il suo « conforto sociale », ma ve lo elargisce con un’assiduità e con un’abbondanza di insegnamenti, di affermazioni, di esortazioni, che dev’essere motivo per voi di onore e di fiducia. E ve lo rinnova ancor oggi questo conforto, assicurandovi la sua assistenza ed invitandovi a qualificarvi sempre meglio per quelli che siete, Lavoratori cristiani; a trovare cioè nella vostra adesione a Cristo la originalità, la ragion d’essere, la forza, lo stile, la sicurezza, la fierezza delle vostre attività sociali. Così v’insegni il Maestro a cercare nella sua dottrina i principi della vostra concezione della vita, v’insegni la dignità e l’onestà della vostra fatica, vi insegni ad immunizzarvi dai tanti errori e dalle tante tentazioni che insidiano la vostra condizione di Lavoratori, v’insegni come si possa essere forti senza odiare, amando anzi e servendo il proprio interesse in congiunzione col bene comune, v’insegni ad essere amici e apostoli in mezzo ai vostri compagni, v’insegni a consolare e a nobilitare il vostro lavoro con la fede e con la preghiera.

A voi, a tutti i vostri colleghi, alle vostre associazioni libere e cristiane, alle vostre famiglie, ai vostri campi di lavoro, confermi questi voti la Nostra Benedizione apostolica.



Domenica, 3 maggio 1964: FESTA DELLA PREGHIERA

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Il Santo Padre ricorda ai presenti che il Vangelo del giorno riporta le ultime parole rivolte da Gesù agli Apostoli al termine della sua vita temporale. Sono le parole di commiato estremo del Signore durante l’ultima Cena, prima della grande preghiera sacerdotale. Gesù, prevedendo la Passione, vuol staccarsi con infinita delicatezza dai discepoli: e le sue parole sono di una chiarezza che non ammette dubbi; come colui che è sul punto di morire, dice le cose supreme e fa le raccomandazioni più importanti.

In questa contingenza così dolorosa, delicata e sacra, Gesù parla dei rapporti che aveva stabilito con le persone cui era stato vicino durante la sua vita. Dopo aver annunciato la venuta dello Spirito Santo e la continuità della missione degli Apostoli raccomanda la preghiera. Si potrebbe quindi definire questa domenica la festa della preghiera. Il Signore ci lascia questa sua ultima raccomandazione: pregate, state uniti a me e al Padre, mediante questo sforzo dell’anima che si chiama la preghiera. Con me non ci sarà che il distacco dei sensi, ma le vostre anime saranno in contatto con Dio.

Gesù conforta questa sua suprema raccomandazione con un rilievo che sa di rimprovero: ancora c’è molto da fare nel campo della preghiera e ciò è notificato anche a noi per nostra riflessione e per il nostro perfezionamento. Egli infatti dice: finora non avete pregato. Eppure gli Apostoli avevano chiesto a Gesù di insegnar loro a pregare, ed avevano condiviso con Lui tanti momenti di preghiera; conoscevano le orazioni dei Salmi e quelle che avevano recitate durante la Cena pasquale. Perché allora Gesù dice così? Lo spiega soggiungendo: pregate nel Nome mio; nel Nome di Cristo che - come dice San Paolo - è anello di congiunzione fra l’umanità e Dio; mediatore, tramite fra la Chiesa e Dio.

Ricordare queste parole alla gente del giorno d’oggi, come alla gioventù che è presente, e a tanta gente del mondo degli studi e degli affari non è facile. È difficile parlare di preghiera all’uomo moderno, proprio perché moderno, perché sempre più a contatto perfezionato e interessante, col mondo, con la terra, con le sue energie, con questo magnifico quadro della natura che ci circonda, con questo universo, che avviciniamo con i nostri sensi, e con l’intelligenza, che trasformiamo e rendiamo utile; che conquistiamo, e che ci inebria.

E questo rapporto tra noi e il mondo sembra placare e soddisfare i desideri dell’uomo, così che l’uomo dice a se stesso: questa è la soluzione: io devo cercare di conquistare la terra, il mondo che mi circonda; ed ecco le meravigliose realtà che saldano questo rapporto e sono le macchine, gli strumenti, le invenzioni della scienza. Ed ecco che l’uomo non ha più allora il desiderio e neppur l’attitudine di cercare qualcosa che non si misura con i nostri mezzi di osservazione. Non sentiamo più il bisogno né abbiamo l’attitudine al colloquio con Dio.

E quando il tema della preghiera torna nella sua essenzialità dinanzi a noi e diciamo delle preghiere, e andiamo la domenica in chiesa, ci crediamo paghi di aver soddisfatto in tal modo a questo fondamentale dovere della vita cristiana.

Qualche preghiera, un pellegrinaggio, l’accendere una candela sono forse la formula esatta degli atti di religione? Sono atti esteriori e talvolta diventano perfino superstiziosi; allora, dinanzi all’esteriorità, l’anima intelligente, che vuol riaffermare il regno dello spirito, si raccoglie in se stessa ed entra in un ambito interiore di ripensamento, in cui cerca di esprimere da sé la vera vita spirituale, ed è una spiritualità che si potrebbe dire psicologica, umana, sentimentale, cioè quella che riguarda solo il punto di partenza, cioè l’io; che si pone in condizione di sforzo per trascendere ciò che la supera.

Ed ecco la preghiera secondo quanto ci dice il Vangelo: colloquio, conversazione, contatto con Dio. Incontro quasi terrificante fra l’io, povera cosa di questo mondo, e l’Infinito, il Creatore. Ma di fronte allo sgomento che può prenderci, Gesù ci invita a parlare con colloquio vero e vivo. Ed ecco che ci ricordiamo l’atteggiamento del povero pubblicano del Vangelo che non ardisce entrare nel tempio e riconosce la propria pochezza e debolezza e indegnità. Vero atteggiamento religioso questo del senso della propria indegnità e dell’incapacità di prendere contatto con il Creatore. La preghiera suppone quindi la realtà di Dio e la realtà dell’io, e deriva dal contatto fra le due realtà.

La parola di Gesù: pregate nel Nome mio, risolve ogni difficoltà. E allora la preghiera diventa dolce, diventa facile, bella, consueta, nostra. E questa preghiera si chiama liturgia e il Santo Padre ricorda quanto se ne è parlato durante il Concilio. La liturgia è mistero di presenza di Dio dinanzi a noi e formula di soluzione del rapporto fra l’anima e Dio. Da ciò la felicità di parlare con Dio sapendo di esser ascoltati: non c’è al di là il vuoto o la sordità, ma la bontà e l’amore; c’è il Padre, felice Lui stesso di amarci e di venire incontro a noi.

Se comprendessimo che cosa è la preghiera non ci peserebbe questa mezz’ora settimanale, ma saremmo desiderosi e felici di questo incontro con Dio, di quest’appuntamento che ogni settimana Egli ci dà, per la celebrazione dei suoi misteri, per dilatare la nostra anima nella infinita confidenza della sua bontà, e per accogliere nella nostra pochezza la ricchezza immensa del suo amore, della sua sapienza, delle sue promesse.

Il Santo Padre esorta a ricordare che la preghiera non distrugge i nostri rapporti col mondo ma li sublima e li trasforma, li vivifica, li santifica e li indirizza ai destini veri della nostra vita. Così da questo contatto attingiamo energia per poter «inter mundanas varietates» dirigerci verso le felicità supreme che il Cielo ci prepara. Accogliamo dunque l’invito della Chiesa che ci ammonisce a pregare insieme onde trasformare nell’unione con Cristo la nostra vita nella Sua. E Gesù, facendosi presente dinanzi a noi, sull’altare, ci dia la sua grazia e la gioia di partecipare alla vita infinita di Dio.


Giovedì, 7 maggio 1964, Ascensione : «MESSA DEGLI ARTISTI» NELLA CAPPELLA SISTINA

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Cari Signori e Figli ancora più cari!

Ci premerebbe, prima di questo breve colloquio, di sgombrare il vostro animo da certa apprensione, da qualche turbamento, che può facilmente sorprendere chi si trova, in una occasione come questa, nella Cappella Sistina. Non c’è forse luogo che faccia più pensare e più trepidare, che incuta più timidezza e nello stesso tempo ecciti maggiormente i sentimenti dell’anima. Ebbene, proprio voi, artisti, dovete essere i primi a togliere dall’anima la istintiva titubanza, che nasce nell’entrare in questo cenacolo di storia, di arte, di religione, di destini umani, di ricordi, di presagi. Perché? Ma perché è proprio, se mai altro c’è, un cenacolo per gli artisti, degli artisti. E quindi dovreste in questo momento lasciare che il grande respiro delle emozioni, dei ricordi, dell’esultazione, - che un tempio come questo può provocare nell’anima - invada liberamente i vostri spiriti.

Vi può essere un altro turbamento, quasi un’altra paralizzante timidezza; ed è quella che può portare non tanto la Nostra umile persona, quanto la Nostra presenza ufficiale, il Nostro ministero pontificio: è qui il Papa!, voi certo pensate. Sono mai venuti gli artisti dal Papa? È la prima volta che ciò si verifica, forse. O cioè, sono venuti per secoli, sono sempre stati in relazione col Capo della Chiesa Cattolica, ma per contatti diversi. Si direbbe perfino che si è perduto il filo di questa relazione, di questo rapporto. E adesso siete qui, tutti insieme, in un momento religioso, tutto per voi, non come gente che sta dietro le quinte, ma che viene veramente alla ribalta di una conversazione spirituale, di una celebrazione sacra. Ed è naturale, se si è sensibili e comprensivi, che ci sia una certa venerazione, un certo rispetto, un certo desiderio di capire e di tacere. Ebbene, anche questa sensibilità, se dovesse in questo momento legare le vostre espressioni interiori di liberi sentimenti, Noi vorremmo sciogliere, perché, se il Papa deve accogliere tutti - perché di tutti è Padre e per tutti ha un ministero, e per tutti ha una parola -, per voi specialmente tiene in serbo questa parola; ed è desideroso, ed è felice di poterla quest’oggi esprimere, perché il Papa è vostro amico.

E non lo è solo perché una tradizione di sontuosità, di mecenatismo, di grandezza, di fastosità circonda il suo ministero, la sua autorità, il suo rapporto con gli uomini, e perché ha bisogno di questo quadro decorativo e espressivo per dire a chi non lo sapesse chi lui è, e come Cristo lo abbia voluto in mezzo agli uomini. Ma lo è per ragioni più intrinseche, che sono poi quelle che ci tengono oggi occupati e che interessano il nostro spirito, e, cioè: sono ragioni del Nostro ministero che Ci fanno venire in cerca di voi. Dobbiamo dire la grande parola che del resto voi già conoscete? Noi abbiamo bisogno di voi. Il Nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione. Perché, come sapete, il Nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione, che travasa il mondo invisibile in formule accessibili, intelligibili, voi siete maestri. È il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è proprio quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità. E non solo una accessibilità quale può essere quella del maestro di logica, o di matematica, che rende, sì, comprensibili i tesori del mondo inaccessibile alle facoltà conoscitive dei sensi e alla nostra immediata percezione delle cose. Voi avete anche questa prerogativa, nell’atto stesso che rendete accessibile e comprensibile il mondo dello spirito: di conservare a tale mondo la sua ineffabilità, il senso della sua trascendenza, il suo alone di mistero, questa necessità di raggiungerlo nella facilità e nello sforzo allo stesso tempo.

Questo - coloro che se ne intendono lo chiamano «Einfuhlung», la sensibilità, cioè, la capacità di avvertire, per via di sentimento, ciò che per via di pensiero non si riuscirebbe a capire e ad esprimere - voi questo fate! Ora in questa vostra maniera, in questa vostra capacità di tradurre nel circolo delle nostre cognizioni - et quidem di quelle facili e felici, ossia di quelle sensibili, cioè di quelle che con la sola visione intuitiva si colgono e si carpiscono -ripetiamo, voi siete maestri. E se Noi mancassimo del vostro ausilio, il ministero diventerebbe balbettante ed incerto e avrebbe bisogno di fare uno sforzo, diremmo, di diventare esso stesso artistico, anzi di diventare profetico. Per assurgere alla forza della espressione lirica della bellezza intuitiva, avrebbe bisogno di far coincidere il sacerdozio con l’arte.

Ora, se questo è, il discorso si dovrebbe fare grave e solenne. Il luogo, forse anche il momento, si presterebbero; non tanto il tempo che Ci è concesso, e non tanto il programma che abbiamo prefisso a questo primo incontro amichevole. Chi sa che non venga un momento in cui possiamo dire di più. Ma il tema è questo: bisogna ristabilire l’amicizia tra la Chiesa e gli artisti. Non è che l’amicizia sia stata mai rotta, in verità; e lo prova questa stessa manifestazione, che è già una prova di tale amicizia in atto. E poi ci sono tante altre manifestazioni che si possono addurre a prova di una continuità, di una fedeltà di rapporti, che testimoniano che non è mai stata rotta l’amicizia tra la Chiesa e gli artisti. Anche perché, come dicevamo, la Chiesa ne ha bisogno e poi potremmo anche dire di più, leggendovi nel cuore. Voi stessi lo andate cercando questo mondo dell’ineffabile e trovate che la sua patria, il suo recapito, il suo rifornimento migliore è ancora la Religione.

Quindi siamo sempre stati amici. Ma, come avviene tra pa-renti, come avviene fra amici, ci si è un po’ guastati. Non abbiamo rotto, ma abbiamo turbato la nostra amicizia. Ci permettete una parola franca? Voi Ci avete un po’ abbandonato, siete andati lontani, a bere ad altre fontane, alla ricerca sia pure legittima di esprimere altre cose; ma non più le nostre.

Avremmo altre osservazioni da fare, ma non vogliamo questa mattina turbarvi ed essere scortesi. Voi sapete che portiamo una certa ferita nel cuore, quando vi vediamo intenti a certe espressioni artistiche che offendono noi, tutori dell’umanità intera, della definizione completa dell’uomo, della sua sanità, della sua stabilità. Voi staccate l’arte dalla vita, e allora... Ma c’è anche di più. Qualche volta dimenticate il canone fondamentale della vostra consacrazione all’espressione; non si sa cosa dite, non lo sapete tante volte anche voi: ne segue un linguaggio di Babele, di confusione. E allora dove è l’arte? L’arte dovrebbe essere intuizione, dovrebbe essere facilità, dovrebbe essere felicità. Voi non sempre ce le date questa facilità, questa felicità e allora restiamo sorpresi ed intimiditi e distaccati.

Ma per essere sincero e ardito - accenniamo appena, come vedete - riconosciamo che anche Noi vi abbiamo fatto un po’ tribolare. Vi abbiamo fatto tribolare, perché vi abbiamo imposto come canone primo la imitazione, a voi che siete creatori, sempre vivaci, zampillanti di mille idee e di mille novità. Noi - vi si diceva - abbiamo questo stile, bisogna adeguarvisi; noi abbiamo questa tradizione, e bisogna esservi fedeli; noi abbiamo questi maestri, e bisogna seguirli; noi abbiamo questi canoni, e non v’è via di uscita. Vi abbiamo talvolta messo una cappa di piombo addosso, possiamo dirlo; perdonateci ! E poi vi abbiamo abbandonato anche noi. Non vi abbiamo spiegato le nostre cose, non vi abbiamo introdotti nella cella segreta, dove i misteri di Dio fanno balzare il cuore dell’uomo di gioia, di speranza, di letizia, di ebbrezza. Non vi abbiamo avuti allievi, amici, conversatori; perciò voi non ci avete conosciuto.

E allora il linguaggio vostro per il nostro mondo è stato docile, sì, ma quasi legato, stentato, incapace di trovare la sua libera voce. E noi abbiamo sentito allora l’insoddisfazione di questa espressione artistica. E - faremo il confiteor completo, stamattina, almeno qui -vi abbiamo peggio trattati, siamo ricorsi ai surrogati, all’«oleografia», all’opera d’arte di pochi pregi e di poca spesa, anche perché, a nostra discolpa, non avevamo mezzi di compiere cose grandi, cose belle, cose nuove, cose degne di essere ammirate; e siamo andati anche noi per vicoli traversi, dove l’arte e la bellezza e - ciò che è peggio per noi - il culto di Dio sono stati male serviti.

Rifacciamo la pace? quest’oggi? qui? Vogliamo ritornare amici? Il Papa ridiventa ancora l’amico degli artisti? Volete dei suggerimenti, dei mezzi pratici ? Ma questi non entrano adesso nel calcolo. Restino ora i sentimenti. Noi dobbiamo ritornare alleati. Noi dobbiamo domandare a voi tutte le possibilità che il Signore vi ha donato, e, quindi, nell’ambito della funzionalità e della finalità, che affratellano l’arte al culto di Dio, noi dobbiamo lasciare alle vostre voci il canto libero e potente, di cui siete capaci. E voi dovete essere così bravi da interpretare ciò che dovrete esprimere, da venire ad attingere da noi il motivo, il tema, e qualche volta più del tema, quel fluido segreto che si chiama l’ispirazione, che si chiama la grazia, che si chiama il carisma dell’arte. E, a Dio piacendo, ve lo daremo. Ma dicevamo che questo momento non è fatto per i lunghi discorsi e per fare le proclamazioni definitive.

Però noi abbiamo già, da parte nostra, Noi Papa, noi Chiesa, firmato un grande atto della nuova alleanza con l’artista. La Costituzione della Sacra Liturgia, che il Concilio Ecumenico Vaticano Secondo ha emesso e promulgato per prima, ha una pagina - che spero voi conosciate - che è appunto il patto di riconciliazione e di rinascita dell’arte religiosa, in seno alla Chiesa cattolica. Ripeto, il Nostro patto è firmato. Aspetta da voi la controfirma.

Per ora dunque Ci limitiamo a dei rilievi molto semplici, ma che però non vi faranno dispiacere.

Il primo è questo: che Ci felicitiamo di questa Messa dell’artista e Monsignor Francia ne sia ringraziato; lui e tutti coloro che lo hanno seguito e che ne hanno raccolto la formula. Noi abbiamo visto nascere questa iniziativa, l’abbiamo vista accolta per primo dal Nostro venerato Predecessore Papa Pio XII, Che ha cominciato ad aprirle le vie e a darle cittadinanza nella vita ecclesiastica, nella preghiera della Chiesa; e perciò Ci congratuliamo di quanto è stato fatto su questo filone, che non è l’unico, ma che è buono e che è bene seguire: lo benediciamo e lo incoraggiamo. Vorremmo che voi portaste fuori, a quanti avete colleghi, imitatori, seguaci, la Nostra Benedizione per questo esperimento di vita religiosa artistica che ha ancora fatto vedere che fra sacerdote e artista c’è una simpatia profonda e una capacità d’intesa meravigliosa.

La seconda cosa è questa, notissima, ma deve, Ci pare, in questo momento essere ricordata; ed è che, se il momento artistico che si produce in un atto religioso sacro - come è una Messa - deve essere pieno, deve essere autentico, deve essere generoso, deve davvero riempire e far palpitare le anime che vi partecipano e le altre che vi fanno corona, ha altresì bisogno di due cose: di una catechesi e di un laboratorio.

Non Ci diffonderemo ora a discorrere se l’arte venga spontanea e improvvisa, come una folgorazione celeste, o se invece - e voi ce lo dite - abbia bisogno di un tirocinio tremendo, duro, ascetico, lento, graduale. Ebbene, se vogliamo dare, ripetiamo, autenticità e pienezza al momento artistico religioso, alla Messa, è necessaria la sua preparazione, la sua catechesi; bisogna in altri termini farla prendere o accompagnare dalla istruzione religiosa. Non è lecito inventare una religione, bisogna sapere che cosa è avvenuto tra Dio e l’uomo, come Dio ha sancito certi rapporti religiosi che bisogna conoscere per non diventare ridicoli o balbuzienti o aberranti. Bisogna essere istruiti. E Noi pensiamo che nell’ambito della Messa dell’artista, quelli che vogliono manifestarsi artisti veramente, non avranno difficoltà ad assumere questa sistematica, paziente, ma tanto benefica e nutriente informazione. E poi c’è bisogno del laboratorio, cioè della tecnica per fare le cose bene. E qui lasciamo la parola a voi che direte che cosa è necessario, perché l’espressione artistica da dare a questi momenti religiosi abbia tutta la sua ricchezza di espressività di modi e di strumenti, e se occorre anche di novità.

E da ultimo aggiungeremo che non basta né la catechesi, né il laboratorio. Occorre l’indispensabile caratteristica del momento religioso, e cioè la sincerità. Non si tratta più solo d’arte, ma di spiritualità. Bisogna entrare nella cella interiore di se stessi e dare al momento religioso, artisticamente vissuto, ciò che qui si esprime: una personalità, una voce cavata proprio dal profondo dell’animo, una forma che si distingue da ogni travestimento di palcoscenico, di rappresentazione puramente esteriore; è l’Io che si trova nella sua sintesi più piena e più faticosa, se volete, ma anche la più gioiosa. Bisogna che qui la religione sia veramente spirituale; e allora avverrà per voi quello che la festa di oggi, la Ascensione, Ci fa pensare. Quando si entra in se stessi per trovare tutte queste energie e dar la scalata al cielo, in quel cielo dove Cristo si è rifugiato, noi ci sentiamo in un primo momento, immensamente, direi, infinitamente lontani.

La trascendenza che fa tanto paura all’uomo moderno è veramente cosa che lo sorpassa infinitamente, e chi non sente questa distanza non sente la religione vera. Chi non avverte questa superiorità di Dio, questa sua ineffabilità, questo suo mistero, non sente l’autenticità del fatto religioso. Ma chi lo sente sperimenta, quasi immediatamente, che quel Dio lontano è già lì: «Non lo cercheresti, se già non lo avessi trovato». Parole di Pascal, vero; ed è quello che si verifica continuamente nell’autentica vita spirituale del cristiano. Se ricerchiamo Cristo veramente dove è, in cielo, lo vediamo riflesso, lo troviamo palpitante nella nostra anima: il Dio trascendente è diventato, in certo modo, immanente, è diventato l’amico interiore, il maestro spirituale. E la comunione con Lui, che sembrava impossibile, come se dovesse varcare abissi infiniti, è già consumata; il Signore viene in comunione con noi nelle maniere, che voi ben sapete, che sono quelle della parola, che sono quelle della grazia, che sono quelle del sacramento, che sono quelle dei tesori che la Chiesa dispensa alle anime fedeli. E basti per ora così.

Artisti carissimi, diciamo allora una parola sola: arrivederci!



B. Paolo VI Omelie 26464