B. Paolo VI Omelie 24104

Sabato, 24 ottobre 1964: CONSACRAZIONE DELLA CHIESA DELL'ARCHICENOBIO DI MONTECASSINO

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Festività dell’Arcangelo San Raffaele



Signori Cardinali!

Venerati Confratelli Arcivescovi e Vescovi!

Reverendo Abate di questo celeberrimo monastero!

Illustri Signori insigniti di autorità civile e militare!

e voi Sacerdoti e Monaci e Religiosi qui presenti!

voi Studenti ospiti di questa casa!

voi Fedeli e Pellegrini tutti venuti a questo incontro!

Quale saluto vi rivolgeremo Noi, se non quello consueto della pietà cristiana, quello che qui sembra avere la sua espressione più vera e più familiare: «Pax hic domui, et omnibus habitantibus in ea!»: pace a questa casa e a tutti quelli che vi hanno dimora?

Qui la pace troviamo, come invidiato tesoro nella sua più sicura custodia; qua la pace rechiamo, come ottimo dono del Nostro ministero apostolico, che fatto dispensatore dei misteri divini offre con amorosa prodigalità quell’effusione di Vita, ch’è la grazia prima sorgente di pace e di gaudio. Qui la pace celebriamo, come luce risorta, dopo che il turbine della guerra ne aveva spenta la fiamma pia e benefica.

Pace a voi, Figli di San Benedetto, che di nome così alto e soave fate emblema dei vostri monasteri, scrivete sulle pareti delle vostre celle e lungo gli ambulacri dei vostri chiostri, ma ancor meglio imprimete come legge soave e forte nei vostri animi e lasciate trasparire quasi sublime stile spirituale nell’elegante gravità dei vostri gesti e delle vostre persone!

Pace a voi, Alunni di questa scuola del divino servizio e della sincera sapienza, che qui respirate la pace, come atmosfera tonificante ogni buon pensiero, ogni buon volere, e fate un’esperienza, che riassume ogni pedagogia, essere la pace di Cristo principio e termine d’ogni umana pienezza, riflesso qual è del pensiero di Dio sulle nostre cose.

Pace a voi, Signori della città terrena, che avete l’intelligenza e il coraggio (tali virtù infatti sono necessarie per salire quassù!) di cercare in questo domicilio, come in una fresca e segreta sorgente, quella forza spirituale che quanto più sembra estranea alle vostre faccende temporali tanto più proprio per loro si palesa necessaria, ed è la virtù morale, è la speranza che le trascende e le riscatta dalla loro tragica vanità, è la bontà, in cui vorrebbe ogni sforzo umano risolversi e di cui il salmodiante colloquio con Dio possiede la sintesi estrema.

E pace a voi, Fratelli della santa Chiesa, che venendo oggi con Noi su questa sacra montagna, sentite gli animi invasi dal corteo dei ricordi antichi, delle tradizioni secolari, dei vessilli della cultura e dell’arte, delle figure dei Pastori, degli Abati, dei Monarchi e dei Santi!, sentite, come torrente placato in fiume maestoso, dalla voce incantatrice e misteriosa, la storia che passa, la civiltà che si genera e si descrive, la cristianità che si affatica e si afferma; sentite qui vivo il respiro della Chiesa cattolica. Forse la memoria mormora anche dentro le vostre menti le parole che Bossuet rivolgeva ad un grande benedettino, il Mabillon: «Je trouve dans l’histoire de votre Saint ordre ce qu’il y a de plus beau dans celle de l’Eglise» (OEuvres, X1, 107).

Ma fra le tante impressioni, che questa casa della pace suscita ora nei nostri spiriti, una pare dominare sulle altre; ed è la virtù generatrice della pace. Spesso avviene che, siccome all’idea di pace si connette quella della tranquillità, della cessazione dei contrasti e della loro risoluzione nell’ordine e nell’armonia, siamo facilmente indotti a pensare la pace come l’inerzia, il riposo, il sonno, la morte. E vi è tutta una psicologia, con la relativa documentazione letteraria, che accusa la vita pacifica d’immobilità e di pigrizia, di inettitudine e d’egoismo, e che vanta al contrario la lotta, l’agitazione, il disordine e perfino il peccato come sorgente di attività, di energia, e di progresso.

Qui invece la pace ci appare altrettanto vera che viva; qui ci appare attiva e feconda. Qui si rivela nella sua capacità, estremamente interessante, di ricostruzione, di rinascita, di rigenerazione.

Parlano queste mura. È la pace che le ha fatte risorgere. Come ancora ci sembra incredibile che la guerra abbia avuto contro questa Abbazia, incomparabile monumento di religione, di cultura, di arte, di civiltà, uno dei gesti più fieri e più ciechi del suo furore, così non ci pare vero di vedere oggi risorto il maestoso edificio, quasi esso volesse illuderci che nulla è accaduto, che la sua distruzione fu un sogno e che possiamo dimenticare la tragedia che ne aveva fatto un ammasso di rovine. Fratelli, lasciateCi piangere di commozione e di gratitudine. Per dovere del Nostro ufficio presso Papa Pio XII, di venerata memoria, Noi siamo bene informati testimoni di quanto la Sede Apostolica fece per risparmiare a questa fortezza non delle armi, ma dello spirito, il grave oltraggio della sua distruzione. Quella voce supplichevole e sovrana, inerme vindice della fede e della civiltà, non fu ascoltata. Montecassino fu bombardato e demolito. Uno degli episodi più tristi della guerra fu così consumato. Non vogliamo ora farci giudici di coloro che ne furono causa. Ma non possiamo ancora non deplorare che uomini civili abbiano avuto l’ardire di fare della tomba di San Benedetto bersaglio di spietata violenza. E non ‘possiamo contenere la nostra letizia vedendo oggi che le rovine sono scomparse, che le sacre pareti di questa Basilica sono risorte, che la mole austera dell’antico monastero ha ripreso figura nel nuovo. Benediciamo il Signore!

È la pace che ha compiuto il prodigio. Sono gli uomini della pace che ne sono stati magnifici e solleciti operatori. Noi dobbiamo loro attribuire, in premio dell’opera loro, la beatitudine che li insignisce figli di Dio. «Beati i pacifici, dice Cristo Signore, perché saranno chiamati figli di Dio» (
Mt 5,9).

Beati gli operatori della pace. Vogliamo esprimere il Nostro elogio a quanti hanno merito in questa gigantesca opera di ricostruzione. Il Nostro pensiero va all’Abate di questo Monastero; va ai suoi collaboratori; va ai benefattori; va ai tecnici, va alle maestranze ed ai lavoratori. Un particolare riconoscimento è dovuto alle Autorità italiane, le quali hanno prodigato cure e mezzi quanto occorrevano, affinché qui l’azione della pace trionfasse sulla azione della guerra. Montecassino è diventato così il trofeo di tutta l’immane fatica compiuta dal popolo italiano per la ricostruzione di questo diletto Paese, terribilmente straziato da un capo all’altro del suo territorio, e subito, per divina assistenza e per virtù dei suoi figli, subito risorto più bello e più giovane.

Così celebriamo la pace. Vogliamo qui, quasi simbolicamente, segnare l’epilogo della guerra; Dio voglia: di tutte le guerre! Qui vogliamo convertire «le spade in vomeri e le lance in falci» (Is 2,4); le immense energie, cioè, impiegate dalle armi a uccidere e a distruggere, devolvere a vivificare ed a costruire; e per giungere a tanto, qui vogliamo rigenerare nel perdono la fratellanza degli uomini, qui abdicare la mentalità che nell’odio, nell’orgoglio e nell’invidia prepara la guerra, e sostituirla col proposito e con la speranza della concordia e della collaborazione; qui disposare alla pace cristiana la libertà e l’amore. La lampada della fraternità abbia sempre a Montecassino il suo lume pio ed ardente.

Ma soltanto per virtù della sua ricostruzione materiale Montecassino polarizza questi voti, nei quali Ci sembra racchiuso il senso della nostra storia contemporanea e futura? No, certo. È la sua missione spirituale, che trova nell’edificio materiale la sua sede ed il suo simbolo, che a ciò lo qualifica. È la sua capacità di attrazione e di irradiazione spirituale, che popola la sua solitudine delle energie, di cui ha bisogno la pace del mondo.

E qui, Fratelli e Figli, il Nostro discorso dovrebbe farsi apologia dell’ideale benedettino. Ma vogliamo ben supporre che quanti Ci circondano già siano informati della sapienza che anima la vita benedettina, e che coloro che la professano ne conoscano a fondo le intime ricchezze e ne alimentino in se stessi le severe e gentili virtù. Ne abbiamo Noi stessi fatto oggetto di lunghe riflessioni; ma parrebbe a Noi superfluo e quasi presuntuoso farne ora parola. Altri ne discorra e sveli qualche incantevole segreto di un simile genere di vita, qui tuttora superstite e fiorente.

A Noi è dato portare ora altra testimonianza, che non quella sull’indole della vita monastica; e la esprimiamo in un semplice enunciato: la Chiesa ha bisogno ancor oggi di codesta forma di vita religiosa; il mondo ancor oggi ne ha bisogno. Ci dispensiamo di recarne le prove, che del resto ciascuno vede scaturire da sé dalla sola Nostra affermazione: sì, la Chiesa ed il mondo, per differenti ma convergenti ragioni, hanno bisogno che San Benedetto esca dalla comunità ecclesiale e sociale, e si circondi del suo recinto di solitudine e di silenzio, e di lì ci faccia ascoltare l’incantevole accento della sua pacata ed assorta preghiera, di lì quasi ci lusinghi e ci chiami alle sue soglie claustrali, per offrirci il quadro d’un’officina del «divino servizio», d’una piccola società ideale, dove finalmente regna l’amore, l’obbedienza, l’innocenza, la libertà dalle cose e l’arte di bene usarle, la prevalenza dello spirito, la pace in una parola, il Vangelo. San Benedetto ritorni per aiutarci a ricuperare la vita personale; quella vita personale, di cui oggi abbiamo brama ed affanno, e che lo sviluppo della vita moderna, a cui si deve il desiderio esasperato dell’essere noi stessi, soffoca mentre lo risveglia, delude mentre lo fa cosciente.

Ed è questa sete di vera vita personale, che conserva all’ideale monastico la sua attualità. Così lo comprendesse la nostra società, questo stesso nostro Paese, in altri tempi, tanto propizio alla formula benedettina della perfezione umana e religiosa, ed ora forse meno degli altri fecondo di vocazioni monastiche. Correva l’uomo una volta, nei secoli lontani, al silenzio del chiostro, come vi corse Benedetto da Norcia, per ritrovare se stesso (in superni Spectatoris oculis habitavit secum, ci ricorda S. Gregorio Magno, biografo di S. Benedetto): ma allora questa fuga era motivata dalla decadenza della società, dalla depressione morale e culturale d’un mondo, che non offriva più allo spirito possibilità di coscienza, di sviluppo, di conversione; occorreva un rifugio per ritrovare sicurezza, calma. studio, preghiera, lavoro, amicizia, fiducia.

Oggi non la carenza della convivenza sociale spinge al medesimo rifugio, ma l’esuberanza. L’eccitazione, il frastuono, la febbrilità, l’esteriorità, la moltitudine minacciano l’interiorità dell’uomo; gli manca il silenzio con la sua genuina parola interiore, gli manca l’ordine, gli manca la preghiera, gli manca la pace, gli manca se stesso. Per riavere dominio e godimento spirituale di sé ha bisogno di riaffacciarsi al chiostro benedettino.

E ricuperato l’uomo a se stesso nella disciplina monastica è ricuperato alla Chiesa. Il monaco ha un posto d’elezione nel Corpo mistico di Cristo, una funzione quanto mai provvida ed urgente. Ve lo diciamo, esperti e desiderosi come siamo di avere sempre nella nobile e santa Famiglia benedettina la custodia fedele e gelosa dei tesori della tradizione cattolica, l’officina degli studi ecclesiastici più pazienti e severi, la palestra delle virtù religiose, e soprattutto la scuola e l’esempio della preghiera liturgica, che amiamo sapere da voi, Benedettini di tutto il mondo, tenuta sempre in altissimo onore, e che speriamo sempre lo sarà, come a voi si conviene, nelle sue forme più pure,. nel suo canto sacro e genuino, e per il vostro divino officio nella sua lingua tradizionale, il nobile latino, e specialmente nel suo spirito lirico e mistico. La recentissima Costituzione conciliare de sacra Liturgia attende da voi una adesione perfetta ed un’apologia apostolica. Avete davanti a voi un compito grande e magnifico; la Chiesa di nuovo vi innalza sul candelabro, perché sappiate illuminare tutta la «casa di Dio» alla luce della nuova pedagogia religiosa che tale Costituzione intende instaurare nel popolo cristiano; fedeli alle venerate ed autentiche tradizioni, e sensibili ai bisogni religiosi del nostro tempo, vi renderete ancora una volta benemeriti d’aver immesso nella spiritualità della Chiesa la vivificante corrente del vostro grande maestro.

Noi non diremo nulla adesso della funzione che il monaco, l’uomo ricuperato a se stesso, può avere, non solo rispetto alla Chiesa - come dicevamo -, ma al mondo; al mondo stesso che egli ha lasciato, ed a cui rimane vincolato per le nuove relazioni, che la sua lontananza stessa viene a produrre con lui: di contrasto, di stupore, di esempio, di possibile confidenza e segreta conversazione, di fraterna complementarietà. Diciamo soltanto che questa complementarietà esiste, e assume un’importanza tanto maggiore quanto più grande è il bisogno che il mondo ha dei valori custoditi nel monastero, e vede non a lui rapiti, ma a lui conservati, a lui presentati, a lui offerti.

Voi Benedettini lo sapete dalla vostra storia specialmente; e il mondo lo sa, quando voglia ricordarsi di ciò che a voi deve, di ciò che da voi tuttora può avere. Il fatto è così grande ed importante che tocca l’esistenza e la consistenza di questa nostra vecchia e sempre vitale società ma oggi tanto bisognosa di attingere linfa nuova alle radici, donde trasse il suo vigore ed il suo splendore, le radici cristiane, che S. Benedetto per tanta parte le diede e del suo spirito alimentò. Ed è un fatto così bello che merita ricordo, culto e fiducia. Non già perché si debba pensare ad un nuovo Medioevo caratterizzato dall’attività dominante dell’Abbazia benedettina; ora tutt’altro volto dànno alla nostra società i suoi centri culturali, industriali, sociali e sportivi; ma per due capi che fanno tuttora desiderare la austera e soave presenza di S. Benedetto fra noi: per la fede, ch’egli e l’ordine suo predicarono nella famiglia dei popoli, in quella specialmente che si chiama Europa; la fede cristiana, la religione della nostra civiltà, quella della santa Chiesa, madre e maestra delle genti; e per l’unità, a cui il grande Monaco solitario e sociale ci educò fratelli, e per cui l’Europa fu la cristianità. Fede ed unità: che cosa di meglio potremmo desiderare ed invocare per il mondo intero, e in modo particolare per la cospicua ed eletta porzione, che, ripetiamo, si chiama Europa? Che cosa di più moderno e di più urgente? e che cosa di più difficile e contrastato? che cosa di più necessario e di più utile per la pace?

Ed è perché agli uomini di oggi, a quelli che possono operare e a quelli che solo possono desiderare sia ormai intangibile e sacro l’ideale dell’unità spirituale dell’Europa, e non manchi loro l’aiuto dall’alto per realizzarlo in pratici e provvidi ordinamenti che abbiamo voluto proclamare San Benedetto Patrono e protettore dell’Europa.




Domenica, 25 ottobre 1964: BEATIFICAZIONE DEL SACERDOTE LUIGI GUANELLA

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Vogliamo salutare quanti con Noi esultano della Beatificazione di Don Luigi Guanella: il Vescovo di Como per primo, che vede la sua grande ed anche a Noi carissima diocesi risplendere di così bella e sua propria luce di santità; e sono col degno e fortunato Pastore i rappresentanti del comune di Campodolcino, nel cui territorio, a Franciscio, il Beato ebbe i natali: bella borgata alpestre, da Noi più volte percorsa, quando visitammo la Casa Alpina dell’Alpe Motta, e fu una volta per benedirvi la grande statua alla Madonna d’Europa eretta alle falde delle nevi alpine, e poi di nuovo scendendo a rendere omaggio, oltre Pianazzo, alla Madonna di Gallivaggio. Così certamente meritano il Nostro saluto i Fedeli, qui presenti, di Prosto, di Savogno, di Traona, di Gravedona, di Olmo, di Pianello, dove Don Guanella esercitò il suo ministero pastorale e iniziò l’opera sua. Lo meritano i Salesiani di Don Bosco, il quale fu grande maestro ed amico al nuovo Beato e, con il suo insegnamento ed il suo esempio, lo aiutò a determinare la sua vocazione di Fondatore. Così alle Autorità ed ai Fedeli di Como, di Sondrio e di tutta la Val Tellina l’espressione della Nostra compiacenza e dei Nostri voti.

Ma in questo momento il Nostro pensiero va in modo speciale alle Famiglie Religiose fondate da Don Guanella: i Servi della Carità, e le Figlie di Santa Maria della Provvidenza, che vediamo qui festanti in grande numero, e che sono gli uni e le altre ben noti anche a Roma, dove essi prodigano mirabili fatiche in due Parrocchie e in diverse case di assistenza. Va gioioso e paterno il Nostro pensiero alle case di formazione dei Servi della Carità, alle loro Scuole e alle loro opere per la Gioventù (ricordiamo fra tutte il complesso di istituzioni intorno alla nuova e bella chiesa di S. Gaetano, da Noi consacrata, a Milano); va agli Istituti per gli anormali, per i poveri, per gli anziani, alle Colonie marine e montane e alle lontane Missioni, ai Santuari assistiti dai Figli di Don Guanella. E così abbiamo in questa ora benedetta presenti allo spirito le innumerevoli istituzioni di pietà, di educazione, di assistenza, in Italia e all’Estero, dove le ottime e pie Figlie di Santa Maria della Provvidenza, silenziosamente, assiduamente dànno della carità di Cristo splendida testimonianza.

Quali eserciti di seguaci e di preferiti del Vangelo! quale popolazione di bambini, di lavoratori, di fedeli, di sofferenti, di malati, di infelici, di vecchi, vediamo intorno a Don Guanella, ed ora tutti con lo sguardo rivolto verso di Noi: quale popolo della carità! quale città di Cristo! quale giardino di fervore, di dolore e di amore! Vi salutiamo, carissimi tutti; vorremmo a ciascuno parlare; vorremmo a ciascuno comunicare la Nostra gioia, e da tutti accogliere la vostra per questo giorno felice; tutti, nel Signore, vi benediciamo. Voi siete la famiglia di Don Guanella; voi siete la sua gloria; voi siete la sua grandezza!

A questo punto la Nostra considerazione del magnifico quadro delle opere di Don Guanella sembra davanti a noi trasformarsi in visione, e presentarci proprio lui, il nuovo Beato Don Luigi Guanella, che, ammirando lui stesso il cerchio vivente e splendente dei suoi Figli e dei suoi beneficati, placidamente, ma autorevolmente, ancora ci ammonisce, come faceva quand’era ancora in questa vita terrena: «È Dio che fa!». È la divina Provvidenza. Tutto è di Dio: l’idea, la vocazione, la capacità di agire, il successo, il merito, la gloria sono di Dio, non dell’uomo. Questa visione del bene operoso e vittorioso è un riflesso efficace della Bontà divina, che ha trovato le vie per manifestarsi e per operare fra noi. «È Dio che fa!».

Questo immaginario, ma non illusorio colloquio, pare a Noi soddisfare in buona parte il segreto desiderio ch’è, al termine di questa solenne cerimonia, in ciascuno di noi: il desiderio di capire. Dopo aver conosciuto, ammirato, esaltato la vita d’un servo di Dio, dichiarato autentico seguace di Cristo, sorge nell’animo la legittima, anzi la doverosa curiosità di capire come e perché il nuovo fenomeno di santità si è prodotto in questa nostra scena umana. Vorremmo carpire il segreto e cogliere il principio interiore di tale santità; vorremmo ridurre ad un punto prospettico unitario la vicenda avventurosa, complicata e febbrile della vita prodigiosa del nuovo Beato, che diviene per noi degno di imitazione e di culto. È questa una tendenza consueta alla mentalità moderna, quando essa si pone allo studio d’una qualche singolare personalità. E non sarebbe facile riuscire a classificare sotto un aspetto solo la figura di Don Guanella, se egli stesso non ci aiutasse e quasi ci imponesse a vedere in lui null’altro che un effetto della Bontà divina, un frutto, un segno della divina Provvidenza.

Non è che questo suo atto di umiltà e di religiosità ci dica tutto di lui; tanti altri aspetti della sua figura ci offrirebbero quel punto prospettico focale che ci consentirebbe di definire in sintesi la sua anima e la sua opera; ma per ora, a congedo ed a ricordo della Beatificazione di Don Guanella, possiamo obbedire alla sua voce rediviva: «È Dio che fa!». E se diamo ascolto davvero a questa voce, che vorrebbe svalutare in umiltà la grandezza ed il merito dell’opera da lui generata, assistiamo non già ad una svalutazione, ma ad una glorificazione, perché possiamo concludere: dunque l’opera di Don Guanella è opera di Dio! E se è opera di Dio, essa è meravigliosa, essa è benefica, essa è santa. Cresce in noi la gioia; ma nasce insieme un problema, un grande e delicato problema, il cui ricordo ci seguirà in avvenire, pensando appunto al Beato, che abbiamo messo su gli altari: il problema dell’azione divina, il problema della Provvidenza, in combinazione con l’azione umana.

Esiste una Provvidenza? E come interviene nelle nostre cose? Dobbiamo lasciare ad esse libero corso senza pensare di darvi un senso per poi attendere alla fine se risulta qualche disegno, a noi ignoto in questa vita e svelato solo nella vita futura? E quale atteggiamento occorre perciò tenere davanti a questa imponderabile azione divina nel campo della nostra vita: di rassegnazione passiva e fatalista, che non si cura né di quello che Dio fa, né di quello che noi dobbiamo fare in ordine a Lui? Ovvero dobbiamo assumere un atteggiamento di continuo riferimento delle nostre azioni alla volontà di Dio, in modo che esse risultino, sotto aspetti diversi ma convergenti, tutte di Dio e tutte nostre? Indubbiamente è questo secondo atteggiamento che dobbiamo adottare; è l’atteggiamento che mira a fare di noi, come dice S. Paolo, dei «collaboratori di Dio» (
1Co 3,9). Collaborare con Dio dovrebbe essere il programma della nostra vita. Ed è il programma dei Santi.

Ce lo dimostra, tra gli altri, il nostro Don Guanella, lasciando così scoprire nella sua anima e nella sua opera le linee direttrici che le definiscono. Vedremo la linea propriamente religiosa come linea maestra: tutto si fa per interpretare, per eseguire, per onorare la volontà di Dio.

Una grande pietà, una assidua preghiera, uno sforzo di continua comunione con Dio sostiene tutta l’attività dell’uomo di Dio: si direbbe che non pensa che a questo. E allora una grande umiltà penetra ogni proposito e ogni fatica di lui: potrebbe essere grande tentazione in chi compie grandi imprese di credersi bravo; di dirsi autosufficiente, di attribuire a sé il merito delle proprie opere; il senso religioso invece che le informa impedisce tale pericolosa insipienza, e infonde nel servo fedele due altri movimenti spirituali, che sembrano l’uno all’altro contrari, e sono invece corrispondenti e concorrenti: uno è il movimento di tensione, l’altro di distensione. Di tensione volontaria il primo: se. siamo al servizio di Dio nessuno sforzo ci deve costare; ed è questo che noi maggiormente riusciamo ad ammirare nell’operaio del regno di Dio: la tenacia, l’energia, il coraggio, lo spirito di eroismo e di sacrificio. Di distensione confidente l’altro: se siamo al servizio di Dio nessuna cosa ci deve fare paura, la fiducia è la vera nostra forza, la sicurezza - fino al rischio, talvolta! - che l’assistenza del Signore, la Provvidenza, come diciamo, non mancherà: questa fiducia forte, positiva, amorosa è meno visibile all’osservatore profano; . ma nell’animo del santo è l’elemento principale della sua fortezza e della sua grandezza.

Ed è poi più facile capire come uno spirito, così strutturato interiormente, balzi con audacia formidabile al compimento delle opere di misericordia più nuove e più ardue; ricordiamo l’insegnamento dell’apostolo S. Giacomo: «La religione pura e senza macchia è questa: visitare gli orfani e le vedove nella loro tribolazione» (Jc 1,27).

Dalla psicologia religiosa, a cui abbiamo accennato, scaturisce l’attività prodigiosa del servo di Dio; dalla carità che a Dio lo unisce deriva la carità che lo rende prodigioso benefattore dei fratelli bisognosi. L’aspetto sociale del Beato meriterebbe qui il suo vero panegirico; ma questo lo fanno i suoi figli ed i suoi ammiratori; lo fanno, con l’eloquenza dei fatti e delle cifre, le sue opere. A Noi ora basta raccogliere il primo filo di tutta codesta meravigliosa storia della carità operante in misericordia; e trovarlo, quel filo, annodato al suo punto di partenza, come alla sorgente dell’energie soprannaturale che tutto lo percorre: «È Dio che fa!». Non è bello? non è stupendo?

Lodiamo dunque Iddio nel suo servo il Beato Luigi Guanella; e preghiamolo che per l’intercessione di questo campione della fede e della carità ci dia grazia di imitarlo e tutti così ci benedica.





Domenica, 1° novembre 1964: PREGHIERA AL CIMITERO ROMANO DI PRIMA PORTA

Solennità di Tutti i Santi


Dopo aver salutato il Signor Cardinale Pro Vicario, l’on. Sindaco di Roma, i Prelati e i Sacerdoti e quanti altri Lo ascoltano, l’Augusto Pontefice dichiara che, dato un cordiale pensiero ai vivi, la mente ed il cuore si dirigono ai cari defunti. E subito un moto di riconoscenza va a tutti coloro che hanno cura della nuova necropoli di Prima Porta, a cominciare dal Parroco della Borgata, Mons. Massi, e, con lui, ai sacerdoti che lo coadiuvano e a quanti fanno parte della sua famiglia spirituale, con il voto che la fisionomia di questa parte dell’Urbe si conservi sempre più cristiana e civile.


FIDUCIA PER UNA OPEROSA VITA CRISTIANA

Sempre a proposito della Borgata, il Sommo Pontefice accenna alle necessità più urgenti, a cominciare dalla chiesa parrocchiale. Ecco che Ci viene posta davanti - così il Santo Padre - una grande scritta che invoca il nuovo tempio. Voi sapete quante siano le difficoltà e come sia arduo costruire oggi una Parrocchia moderna; ma siamo consapevoli dei vostri bisogni, del vostro diritto, e sappiamo che convergono verso questo desiderio anche gli intenti delle autorità che speriamo vorranno renderci facile il compito di questa grande impresa. Dio voglia, figli carissimi, che non abbia a tardare molto l’esaudimento di questo vostro voto. Del resto, già nella stessa accoglienza alle nostre parole si rivela il vostro sentito impegno di aiutare voi stessi l’iniziativa, non fosse altro che con le vostre preghiere, con la vostra adesione, con la vostra pazienza; e, inoltre, dal giorno medesimo in cui la nuova chiesa sorgerà, che essa serva a raccogliere le anime buone di cristiani, e sempre fedeli sostenitori, frequentatori della Casa del Signore. Se al Pastore toccherà costruire la chiesa nel suo edificio materiale, ai parrocchiani incombe l’obbligo, con lui, di costruire la chiesa nel suo edificio spirituale: di essere, cioè, pietre vive di questa nuova comunità cristiana, alla quale sin da ora auguriamo ogni bene dal Cielo e diamo la nostra più ampia e cordiale benedizione.

Salutiamo, ora, i defunti di questo cimitero, nuovo per Roma, ma non nuovo per la vicenda che è chiamato a registrare: la storia caduca della umanità, e quindi di tutti gli agglomerati di popolazione, urbani o rurali che siano.

Oggi noi pensiamo a tutti i nostri cari che ci attendono presso il Signore. Chi è che non ha qualche defunto amato a cui rivolgere piamente il ricordo? Chi non deve essere riconoscente a quelli che lo hanno preceduto «cum signo fidei»? Tutti noi abbiamo ricevuto la vita: abbiamo degli antenati, dei nonni, dei genitori, abbiamo le generazioni che hanno percorso e ci hanno additato le vie della fede e della pace. Dobbiamo il dono preziosissimo della vita a questi nostri predecessori; e siamo perciò debitori a loro di grande, speciale riconoscenza e di fedele pietà, convinti, come del resto siamo, di non dimenticare mai quelli che hanno per noi lavorato, hanno sofferto e ci hanno consegnato il tesoro sacro e divino dell’esistenza. Questo dovere è altissimo e benché, secondo i dettami del nostro tempo, non siamo abituati a volgere gli occhi indietro, preferendo dirigere lo sguardo alle aspirazioni e agli interessi del presente e dell’avvenire, tuttavia, appunto come uomini e come cristiani, dobbiamo a coloro, che hanno vissuto prima di noi e che per noi hanno costruito tutto ciò che abbiamo, questo tributo di gratitudine, di preghiera, di onore.


TRIBUTO DI PERENNE RICONOSCENZA ED AMORE

Al beneficio della vita individuale si aggiunge anche quello della vita sociale e civile: non pochi sono morti per la difesa di questi tesori: un perenne richiamo ci viene da quanti si sono offerti per la pace e la libertà di tutti noi, per il bene comune, per la nostra Patria, per il nostro Paese. Perciò, non solo a questo cimitero diamo suffragio di preghiera, ma estendiamo il nostro pensiero e la nostra pietà a tutti i cimiteri che raccolgono le ossa silenziose e disfatte di coloro che hanno dato per noi la vita, ed invochiamo per tutte le care anime la pace eterna.

Pace, dunque, a questi morti, onore a questi defunti, fiori a queste tombe, fedeltà agli ideali per cui i nostri morti hanno dato la loro vita! Naturalmente l’omaggio riverente si indirizza ai defunti di ciascuna famiglia. Pregheremo - dice Sua Santità - per quelli che vi sono cari, per coloro di cui ancora piangete la perdita, ed insieme li penseremo, così come sentiamo un moto di speciale pietà per i defunti che non hanno lasciato chi li ricordi; e per le vittime ignote, travolte nelle disgrazie sul lavoro, sulle strade, nell’esercizio della loro professione o della loro opera per il bene comune. Spesso restano anonimi. Ebbene, noi oggi li ricordiamo, e proprio in virtù del vincolo di solidarietà e riconoscenza verso quanti sono legati a noi nella società civile vivente e che ci ricordano la società defunta, dalla quale riceviamo un dono di preziosa eredità.


IL RICHIAMO FRATERNO DEI CARI DEFUNTI

Né devesi dimenticare, oltreché le persone, l’insegnamento da esse datoci. Parlano queste tombe; a ben riflettere, esse sono altrettante cattedre di vita. Ci dicono veramente cos’è la nostra esistenza, ci fanno meditare. È vero che, talvolta, dinanzi al mistero della morte e della separazione, possono insorgere sentimenti non tutti buoni e salutari. Possono affacciarsi idee di scoraggiamento se non addirittura di disperazione, mentre, d’altra parte, può insinuarsi il poco nobile e anticristiano proposito di godere l’attimo fuggente della vita, di voler cogliere i frutti del benessere, giacché poi arriva la morte. Ma non è questa la lezione vera che viene dalle tombe sulle quali è il segno della Redenzione. Noi sappiamo che questi morti sono spenti nel corpo: sciolti nella terra donde hanno tratto la parte materiale di sé. Nondimeno sono vivi, hanno la loro nuova esistenza. Come è grande, insondabile e pur meraviglioso il mistero della immortalità delle anime, e come è necessario tenerlo sempre dinanzi, perché davvero è una realtà che viene a modificare tutta la nostra filosofia, la nostra concezione della vita, i nostri calcoli, il nostro pratico comportamento! Se noi pensiamo che, nati un giorno, vivremo sempre, che davanti a noi c’è l’eternità, noteremo quanto istruttiva sia la lezione che ci viene dai nostri defunti. Ognuno di noi può dire: io sono vivente. Dove? come? Non sappiamo, perché è segreto di Dio. Ma, nel contempo, la luce della fede viene ad essere per noi provvidenziale con un fulgore davvero travolgente ed elevante: la vita che è data ad ogni esistenza umana non finisce con la morte corporea. Prosegue nell’eternità; e dura talmente collegata con la vita presente che proprio questa determina lo stato di quella futura. Se essa, in questi anni fuggevoli, in queste giornate così brevi e complicate come sono le nostre, è stata condotta in una data maniera, il nostro avvenire avrà beatitudine completa. Se così non dovesse essere, ecco allora i nostri morti a dirci, persuaderci che l’unica cosa da fare è l’essere giusti, è il compiere qualcosa di buono durante il pellegrinaggio nel tempo che scorre; è il seminare il bene, qualche merito permanente; in una parola, è il vivere non soltanto per il mondo e per il giorno che passa, ma il ben prepararsi alla giornata senza fine a cui siamo destinati. Dobbiamo - conclude il Santo Padre - custodire ed alimentare nel cuore questi pensieri e dare oggi alla nostra preghiera questa sapienza. Preghiamo per i morti, affinché, oltre ad implorare per essi il premio eterno, i vivi siano degni figli di Dio, obbedienti alle sue leggi, ottimi cristiani.

Con questa realtà dinanzi allo spirito, dopo aver benedette le tombe dei cari defunti, daremo a voi tutti la Nostra Benedizione Apostolica.



Domenica, 8 novembre 1964: PARABOLA DEL FRUMENTO E DELLA ZIZZANIA

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