B. Paolo VI Omelie 2


TRADIZIONALE CERIMONIA DI OFFERTA DEI CERI

Festività della Presentazione di Nostro Signore Gesù Cristo al Tempio

Martedì, 2 febbraio 1965

Venerati Fratelli e Figli carissimi!

La cerimonia dell’offerta dei Ceri solleva nel Nostro spirito pensieri e sentimenti, che ameremmo esprimere con migliore agio di quello che Ci concediamo con questa breve interruzione, doverosa, Ci sembra, innanzi tutto per dire grazie a ciascuno di voi, agli Enti ecclesiastici, alle Famiglie religiose, alle Istituzioni cattoliche, portando simbolicamente davanti a Noi l’urbe cattolica in un gesto quanto mai pio e filiale, di oblazione, di devozione, di religione e di tradizione, e col suo alto e triplice significato: di onorare Cristo, «lumen ad revelationem gentium», luce per illuminare i popoli (Lc 2,32); di venerare Maria, la Madre del Verbo fatto uomo, con atto di culto che ci collega con le più antiche e venerande liturgie sia orientali, che latine; e di manifestare al Papa l’adesione fedele e cordiale di Roma, come a suo padre e a suo vescovo. Grazie, Fratelli e Figli diletti! Ridondino spiritualmente sopra di voi e su quanti in voi sono personificati i doni e i sentimenti onde voi recate a Noi nobile segno e dolce conforto.

Quanto bello sarebbe indugiare in questa avvertenza di così abbondanti e così commoventi valori religiosi, storici, ed ecclesiali! Quanto. fecondo di alte riflessioni sarebbe con voi considerare il volto della pietà romana, ignoto ai più e velato oggi dall’aspetto della città moderna, caro e rispettabilissimo anch’esso, ma purtroppo quasi dimentico delle linee sacre della sua antica, affascinante fisionomia religiosa, e non sempre fiero quanto dovrebbe delle straordinarie ricchezze d’arte, d’archeologia, di pietà, che ingemmano, come nessun’altra città al mondo, la sua «forma» regale. Voi Ci offrite, quasi in visione trasparente sui secoli e sui luoghi della nostra Roma cristiana, la sequenza sacra e gentile della spiritualità incomparabile, che emana dalla sua storia, maestra ai popoli, ai santi, dell’ineffabile sua arte del credere e del pregare; e Ci procurate la dolcissima consolazione di dimostrarci con i fatti parlanti, con i cuori fedeli, che quella storia non è un segno di tempi sepolti, non è una poesia leggendaria sciolta nella prosa della presente realtà materialista, ma è un canto che continua, una voce ancor viva che intona una strofe nuova, forse ora come non mai piena e sonante, di coscienza, di cultura, di tormentato e appassionato amore.

Di questo Noi vogliamo oggi felicitarci con voi: della persistenza, anzi della reviviscenza della pietà romana, che vediamo con immenso piacere altrettanto erede gelosa e felice dei tesori liturgici della sua tradizione, così autorevole e pontificale, e così popolare e spontanea, quanto la vediamo in voi sollecitata a ravvivare di espressioni autentiche e nuove, quali la recente Costituzione sulla sacra liturgia prescrive, il suo respiro religioso.

E sopra un punto vogliamo si accentuino le Nostre congratulazioni e le Nostre raccomandazioni, quello precisamente che stiamo in questo momento illustrando con questa cerimonia, vogliamo dire il culto a Maria Santissima. Siamo ben lieti della ricchezza, della bellezza, della pienezza, che Roma nostra riserva da sempre, ed oggi non meno, alla Madonna, nei monumenti, nella liturgia, nella pietà dei cuori fedeli. Siamo convinti che a questa fedeltà nella venerazione a Maria è collegata una fontana di benedizioni, come l’adesione alla fede, alla vera fede di Nostro Signor Gesù Cristo, l’affezione al suo Vangelo, lo sforzo di rigenerazione cristiana del costume e del sentimento, la fierezza e la gioia d’appartenere alla Chiesa cattolica, l’intima fiducia d’una protezione materna capace d’infondere negli animi le più forti energie morali, come le più soavi consolazioni spirituali. Beati noi, Fratelli e Figli, che alla scuola della santa Chiesa, siamo educati a questa venerazione alla Madre di Cristo, e che sentiamo, quasi per via d’inconfutabile esperienza, come questo culto, che vogliamo intimo, personale, umano e veramente pio, non ci distacca per nulla dal riconoscimento dell’unica, trascendente, divina sorgente di verità, di vita e di grazia, ch’è Cristo Gesù, sì bene a Lui ci conduce, a Lui ci lega, a Lui ci compagina, come al solo santo, al solo Signore, al solo altissimo nostro maestro e nostro Redentore. Noi sentiamo, sì, che la dottrina ed il culto di Maria ci introducono nel disegno della salvezza, instaurato da Cristo, nel senso, com’è stato ben detto, che nel dogma mariano si «riassume simbolicamente la dottrina cattolica della cooperazione umana alla redenzione, offrendo così quasi la sintesi del dogma stesso della Chiesa» (De Lubac, Méd. sur l’Eglise, p. 242).

Non dobbiamo noi rallegrarci che a questa autenticità di dottrina e di culto ci abbia testé indirizzati l’autorevole, la bella, la densa, la giusta parola del Concilio Ecumenico, con l’inserzione sapiente del capitolo «De Beata Maria Virgine» nella monumentale costituzione «De Ecclesia»? e non daremo noi al titolo di «Madre della Chiesa», che abbiamo riconosciuto come debito a Maria Santissima, in questo preciso momento della maturazione della dottrina sulla Chiesa, il senso di Madre dei cristiani, di Madre spirituale nostra, perché Madre naturale di Cristo, nostro Capo e nostro Redentore? Come parimente è stato ben detto, sotto un aspetto la Vergine è parte, è figlia della Chiesa, sorella nostra, perché come noi, sebbene in modo privilegiato ed eminente, è anch’Ella redenta da Cristo; ma sotto un altro aspetto, perché genitrice del Figlio di Dio fatto uomo, è la «Theotokos», la Madre di Dio, la Regina della Chiesa, la Madre secondo la fede e la carità del Corpo mistico. «Se la devozione s’è soprattutto rivolta all’aspetto individuale della maternità spirituale (di Maria), non è forse augurabile che si completi questa prospettiva e che si attiri l’attenzione dei fedeli sopra il suo aspetto comunitario?» (Galot, Nouv. Revue Théol. dicembre 1964, pp. 1180-1181).

Questi vincoli, e ben altri ancora (come quello caro a S. Ambrogio: Ecclesia typus - In LC 2,7) di Maria con la Chiesa, faranno certamente oggetto, insieme con altri temi di dottrina sulla Madonna, di meditazione, di divulgazione e di celebrazione nel Congresso internazionale mariano, ormai vicino, annunciato per la fine di marzo a Santo Domingo; e Noi facciamo fin d’ora voto che insieme al Nostro Cardinale Legato, Vescovi, Sacerdoti, Fedeli in gran numero e con grande fervore accorrano numerosi da ogni parte del mondo, dall’America specialmente, per rendere onore a Maria Santissima, e per imprimere al culto e alla pietà con cui La vogliamo onorare quell’indirizzo cristocentrico ed ecclesiologico, che il Concilio ha inteso dare alla nostra dottrina e alla nostra devozione verso la Madonna.

Questo indirizzo, che mette nel suo più alto e più vero splendore la «benedetta fra tutte le donne», Noi confidiamo che imprimerà al Congresso il suo carattere Post-conciliare, rinnovatore, moderatore, promotore del culto cattolico mariano, gli darà il merito di ricercare le sorgenti vere e feconde del culto stesso nelle pagine della Sacra Scrittura, negli insegnamenti dei Padri, nelle espressioni liturgiche, nelle speculazioni dei Maestri, nella dottrina tradizionale della Chiesa sia orientale che latina, in modo che lo studio e la pietà dei cattolici verso la Madre di Cristo agli altri meriti aggiungano quelli di riunire intorno a Maria «Mater unitatis» non solo tutti i cattolici che già, in tante diverse maniere, le sono filialmente vicini, ma, Dio voglia, altresì tutti i cristiani, anche quelli ancora da noi separati, ai quali una grande gioia, se già non la godono, è preparata per il giorno della loro integrazione nell’unica Chiesa fondata e voluta da Cristo, quella di riscoprire Maria, umile ed altissima nel posto essenziale assegnatole da Dio nel disegno della nostra salvezza.

Pensiamo perciò che il Congresso Post-conciliare, e con esso il culto mariano nel mondo, si volgerà ad un approfondimento della comprensione e dell’amore dei misteri di Maria, piuttosto che allo sforzo dialettico di estensioni teologiche tuttora discutibili e atte a dividere gli animi invece che ad unirli; susciterà una riflessione sempre più attenta ed ammirata sul contenuto di verità, che è alla radice della pietà mariana, temperando, ove occorra, sentimentalismi non equilibrati o non illuminati, che intorno ad essa scaturissero; incoraggerà cioè una devozione seria e viva verso la Madonna, la devozione che circola nel grande ed unitario piano liturgico della Chiesa, richiamando i fedeli ad una professione di vero amore e ad una pratica di vera imitazione rispetto alla Vergine; amore e imitazione che dimostrino sempre. di più l’immenso valore spirituale e morale del culto mariano.

Sono voti questi che possiamo a noi stessi applicare per onorare degnamente la Madonna in questa sua festività e per avere la fortuna di godere della sua materna protezione e delle sue grazie celesti. Ad assicurare le quali valga ora, diletti Figli, la Nostra Apostolica Benedizione.

Ed ora, pensiamo, vi sarà gradito apprendere quale destinazione daremo, secondo l’uso grazioso e significativo introdotto da qualche anno, a questi ceri benedetti stamane nella festa della Purificazione di Maria Santissima. È un gesto di profondo simbolismo, ben intonato del resto alla ricchezza misteriosa della splendida Liturgia odierna; e, come per gli altri anni, vogliamo che essa sia come un cordiale suggerimento, valevole per il momento presente della vita della Chiesa nel mondo, e indicativo dei sentimenti e degli intenti, che Ci occupano l’animo dopo le indimenticabili esperienze dello scorso anno.

Destineremo pertanto i Ceri, che Ci avete donati, oltre che - secondo la consuetudine - ai nuovi Rappresentanti Diplomatici dei vari Paesi, recentemente accreditati presso la Santa Sede, anche ai ventisette neo-Cardinali, che abbiamo testé chiamati a far parte del Senato della Chiesa; alle Università Cattoliche, che tengono alto nel mondo il prestigio della cultura avvalorata dalla fede; alle chiese e agli istituti di Bombay, unitamente all’illustre Presidente della nobile Nazione Indiana, a rinnovato pegno della Nostra gratitudine per l’accoglienza fatta al Nostro pellegrinaggio dello scorso dicembre; ai Confratelli nell’Episcopato, che hanno concelebrato con Noi il Divin Sacrificio, alla chiusura della terza Sessione del Concilio Ecumenico Vaticano II; alle chiese della regione del Vajont, che risorgono dalle rovine; agli Istituti Missionari maschili e femminili, che hanno tanto sofferto durante i recenti dolorosi eventi in varie parti del mondo; alle Prefetture della Nostra diocesi di Roma, a testimonianza di animo grato.

Possano questi Ceri portare in ogni luogo un annuncio di letizia e di pace evangelica, insieme alla effusione del Nostro affetto paterno, e alla Nostra Benedizione.




Domenica, 14 febbraio 1965: SANTA MESSA NELLA DOMENICA DI SETTUAGESIMA

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Riserviamo a questo momento della nostra preghiera e meditazione il pensiero sopra il brano del Santo Vangelo che la Chiesa ci presenta in questa particolare Domenica che, come saprete, nel linguaggio liturgico si definisce di Settuagesima. Essa ci informa e dimostra che siamo a una precisa distanza da una mèta che andrà avvicinandosi con la Sessagesima, con la Quinquagesima e quindi con il periodo della Quaresima, che sarà preparazione e prologo a quello della Pasqua di Risurrezione.

A ben riflettere, in questa Domenica cambia interamente il tono della preghiera e della meditazione. Il tempo dell’Avvento e del Natale ci ha portato alla ricerca di Dio, alla conoscenza del Figlio suo unigenito, Gesù Cristo, alla sua Rivelazione con la festa dell’Epifania e con le altre in seguito celebrate.

Ora cambia l’obbiettivo: siamo piuttosto alla indagine, all’esame dell’uomo. In altri termini, nel periodo, che oggi si inizia, la nostra preghiera avrà per tema fondamentale la sorte dell’uomo, la sua salvezza, il mistero della sua redenzione, incominciando proprio da queste domeniche che fanno da prefazione alla Quaresima, per richiamarci ai grandi temi: vero tessuto di sublime pagina religiosa.

Il primo di essi a presentarsi in questa Domenica è proprio la condizione dell’uomo. Chi recita il Breviario - ove da oggi le lezioni del primo notturno sono della Genesi -, chi medita sull’Epistola odierna, vede molto bene in che modo si presenta l’uomo, dopo. la colpa originale. Non è certo una condizione di felicità, non di perfezione; e nemmeno siamo in uno stato terminale completo, cioè di riposo. Si tratta, invece, di uno stato iniziale, che esige sviluppo, opere, educazione, fatica; insomma, questa la realtà, è uno stato infelice. Perché? Perché siamo peccatori; perché abbiamo ereditato una esistenza afflitta dal peccato d’origine; e, inoltre, l’abbiamo aggravata con le nostre colpe; abbiamo cioè reciso il filo della vita, quello che ci congiunge a Dio. Perciò andremmo incontro a sicura completa rovina se il nostro pellegrinaggio terreno si svolgesse senza l’intervento salvatore di Cristo. Privi di questo infinito dono di Dio, saremmo coloro che la Sacra Scrittura chiama «filii irae», i figli della maledizione.

In conseguenza del peccato, il genere umano sarebbe perduto. Ed ecco allora la mirabile impresa del ricupero, della salvezza; la conoscenza di chi ci aiuterà, di quanto occorre fare da parte nostra. Questo, dunque, l’argomento che interesserà le nostre anime, quelle fedeli specialmente, per arrivare al momento beato della Pasqua in cui incontriamo la grande speranza, la grande gioia della nostra redenzione attuata da Cristo e che deve compiersi in ciascuno di noi.

Il Vangelo di quest’oggi ci propone una di quelle grandi parabole che sembrano racconti tenui, divertenti, e sono, al contrario, pagine cosmologiche, pagine immense di antropologia, di teologia; piene, ricolme anzi, di sapienza, verità ed insegnamenti. L’arte del Divino Maestro è appunto quella di rendere più accessibili a noi i misteri divini, mediante tali coloriti racconti e presentazioni paraboliche.

Il tratto odierno dell’Evangelista San Matteo - tutti lo hanno ascoltato e compreso anche se nel trasparente latino ora letto - narra di quel padre di famiglia, proprietario di un campo, che si reca di buon mattino nella piazza per avviare lavoratori alla sua terra. Ne trova subito alcuni; fissa con loro la mercede e li manda al suo podere. Più tardi, e a varie riprese, all’ora di terza e quindi di sesta e di nona, cioè sino al pomeriggio inoltrato, torna ancora alla piazza ed ingaggia nuovi braccianti. Infine esce ancora sul calar del giorno, all’undecima ora, ed assume pure alcuni che non erano riusciti a trovare occupazione sino a quel momento. Si conclude così la prima parte della parabola.

Una seconda ne segue: quella che concerne la retribuzione. Il padrone distribuisce a tutti la stessa mercede. Di qui il malumore dei primi. Che cosa accade? Perché l’imprenditore non dà il compenso in proporzione alla fatica sostenuta? Il padrone risponde: Io do secondo giustizia; assolutamente come avevamo pattuito: se ora rimunero quelli che hanno meno lavorato nella stessa misura usata per gli altri, è perché io preferisco essere buono e generoso. Non posso dunque disporre come più mi piace?

In altri termini, viene qui presentata la duplice azione di Dio nei confronti dell’uomo: la prima è di giustizia, la seconda di misericordia. Si tratta di argomenti di immensa portata, che meriterebbero ampie spiegazioni : ed è ovvio sottolinearne qualcuna.

Sappiamo di parlare, oggi, a una grande moltitudine di operai, di lavoratori: la parabola è come intessuta sul «voca operarios», gli operai al lavoro. Per essere esatti, non è che la parabola voglia, in un certo senso, tracciare il quadro della questione sociale e discorrere del lavoro industriale o manuale come noi l’intendiamo ai giorni nostri. Il concetto della parabola è più vasto, e intende precisare quale posto compete alla operosità, al lavoro dell’uomo. Ed ecco subito la prima norma precettiva, badate che il lavoro è necessario. È un obbligo di principio che concerne l’intera esistenza. Bisogna che la vita umana sia attiva per essere perfetta, per salvarsi. Da ciò deriva una considerazione primaria, che capovolge tante nostre idee: non è lo stato sociale quello che giova alla nostra salvezza, anzi, talvolta, le diverse condizioni possono aggravare la responsabilità. Il fatto di essere ricco, sano, sapiente, di aver fortuna non costituisce motivo determinante per essere salvato. Si salva chi opera. Ci si salva non con l’essere, ma con l’agire; non per ciò che abbiamo ottenuto, ma per ciò che facciamo. Sono le nostre azioni a salvarci. Pertanto, il problema morale che riguarda l’azione diventa fondamentale per tutto l’itinerario sino al traguardo della felicità. Bisogna operare: tale l’insegnamento primo della parabola.

Altri ne seguono: e uno subito circa l’incontro con l’indirizzo sociale moderno, contemporaneo, che fa dell’operosità e del lavoro le manifestazioni tipiche più alte della vita. Noi che ne pensiamo? Risposta semplice e immediata: Siamo d’accordo; condividiamo questo giudizio. Pensiamo cioè che il lavoro, il dinamismo dell’uomo è voluto da Dio, ed è indispensabile per dare alla vita il livello di perfezione, di sviluppo, a cui il Creatore l’ha destinata, come ad altissima mèta. Si tratta, invero, dei rapporti fra l’essere umano e il mondo naturale: con l’obbiettivo di conquista e di trasformazione. Il lavoro, dapprima si appropria delle energie, quindi degli altri elementi, in vista di trarne vantaggi. Pur se le cose sono ostili, inutili, passive e forse anche dannose, egli le tramuta in utili realtà, in buoni coefficienti per la compagine della vita: ne fa ricchezze, ne trae dei beni, fungibili dalle nostre necessità.

Noi siamo dunque pienamente d’accordo nell’esaltare tale aspetto della vita. È d’uopo lavorare; e occorre vedere in ciò il disegno di Dio. Perciò intendiamo essere solerti nell’impegnare il nostro tempo non all’ozio, né a sfruttare quei doni che già abbiamo, ma a bene impiegarli e ad acquisirne degli altri ad usare le forze da noi possedute per il colloquio operante con la natura che ci circonda.

Faremo semmai qualche riserva, qualche osservazione non piccola, in merito alla concezione nostra di siffatti valori e a quella asserita dal mondo d’oggi. E cioè: gli altri non vedono nel lavoro che il valore economico, ovvero il rapporto con le cose che diventano utili. Noi valutiamo ben diverse e superiori considerazioni. Quelli si arrestano piuttosto al lato umano, che perciò viene esaltato; non riflettendo che proprio la caratteristica economica e soltanto operativa si rivela origine di molte lotte, dei disagi di psicologie inquiete che caratterizzano la nostra età. Noi invece guarderemo il lavoro come ci insegna il Signore, anzitutto collocandolo nel disegno divino. Il lavoro è diventato, dopo la nostra mancanza, anche un castigo? Si: «In sudore vultus tui vesceris pane». Dovrai faticare e guadagnarti il pane col sudore della fronte. L’attività umana, che sarebbe stata un esercizio piacevole, s’è cangiata, nell’economia dell’uomo, caduto, come una croce da portare. Ma - sia ben chiaro - non croce di disperazione, e nemmeno di odio, bensì una croce che redime. C’è nel lavoro incalcolabile riserva di beni, di speranza e di virtù che lo rendono, perché viene dalle mani di Dio e a Dio conduce, benedetto.

Da ultimo, ancora una riflessione. Operai e lavoratori che ascoltate, e noi tutti che, operai in questa vita, tutti dobbiamo lavorare, giacché, se fossimo oziosi, saremmo dei peccatori, della gente restia alla grande chiamata di Dio, ricordiamo il precipuo impegno: dobbiamo amare il lavoro. Queste attività che, sovente, fanno tanto tribolare, e molte volte inveire, persino odiare; che suscitano molti sentimenti amari, ribelli e inquieti, devono, nella concezione cristiana, essere guardati con occhio fermo e sereno; devono portare a scorgere, nel programma della esistenza terrena, il disegno stesso di Dio. Perciò occorre accettare, con forza e con rassegnazione, le difficoltà e le pene che la fatica reca con sé al punto da vedere in essa, pur se è sofferenza, la disposizione di Dio che ci fa amare le cose, opera sua; che ci fa amare anche i beni prodotti dalla sagacia umana: il pane, le maniera di vivere, i migliori e provvidi risultati, da diffondere e rendere profittevoli non solo per noi, ma per il prossimo.

È, questo, il mezzo stupendo, che dall’alimento terreno ci innalza a quello celeste: il pane che noi conquistiamo, i beni economici che ci procuriamo diventano quasi un regalo anticipato di un dono ben più insigne che il Signore ha preparato per noi: la sua mercede perpetua, il pane della vita senza fine.

Quindi, piuttosto che applicarci al lavoro con l’animo pieno di rancori, di lamenti, di critiche, eseguiamolo col desiderio vivo di compiere bene il nostro dovere, di rendere giusta, meritoria e onesta la nostra fatica, feconda, pure, delle retribuzioni dovute; e nella speranza che la nostra giornata terrena prepari il premio della giornata eterna. E così sia.




Giovedì, 25 febbraio 1965: CONCISTORO PER L'ANNUNZIO DI 27 NUOVI CARDINALI

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CONFERIMENTO DELLE INSEGNE CARDINALIZIE AI NUOVI PORPORATI DURANTE UNA SOLENNE CONCELEBRAZIONE LITURGICA


Allocuturi sacram christifidelium contionem, de qua in principe hoc Petriano templo Noster vehementer laetatur aspectus, praetereaque, per electrica subtilissima instrumenta, ingentem hominum multitudinem, toto fere terrarum orbe dispersam, par esse censemus primum ad eos mentem convertere, quorum praecipue causa haec religiosa caerimonia hodie peragitur: eos dicimus viros, quos tres ante dies in Purpuratorum Patrum numerum cooptavimus, non potius ut bene de re catholica meriti debito afficerentur honore, quam ut supra candelabrum collocati, lucerent omnibus qui in domo essent, hoc est in Ecclesia Christi (cfr. Matth.
Mt 5,15); non potius ut artiore quodam obsequii vinculo Nobiscum essent coniuncti, quam ut Nobis universum Dei populum regentibus, pascentibus maiore quam ceteri omnes consensu voluntatum et operum conspiratione adessent.

Salvete igitur vos omnes, qui in Summi Pontificis Senatum recens allecti estis.

Atque primum salvete vos, Orientales Patriarchae, qui, in amplissimo hoc ordine, vestra servata praestantia, Ecclesiarum antiqua et sacra memoria insignium decus et traditas glorias repraesentatis.

Vos salvete, lectissimi atque magnanimi Praesules, quos christiani nominis fortiter facta confessio, bonorum omnium admiratione et laude dignos ubique praestitit.

Salvete vos, clarissimi Pastores, qui ex sanctarum et illustrium Ecclesiarum alacri sedulaque tamquam cultione, largam meritorum messem collegistis.

Vos salvete, excellentissimi viri, qui praecipua quadam sollertia Christi Evangelium hominum animis tradentes vel etiam inculcantes, eos ad rectioris sanctiorisque vitae studium incendistis.

Salvete vos, denique, viri ornatissimi, qui, in Romana Curia, et catholicas veritates tuentes, et ecclesiasticas disciplinae normas servantes, et Summorum Pontificum imperata facientes, toti Ecclesiae matri nostrae multum utilitatis attulistis.

Neque Nostris dumtaxat verbis salutem vobis dicimus; sed verbis etiam Patrum Cardinalium, qui vos libentissimo animo acceperunt Collegas; immo etiam verbis Romanae et universalis Ecclesiae, quae vos, summa hac dignitate ornatos, et Nobiscum artius coniunctos, tamquam legatos suos observant.

Sed cum a vobis mens Nostra sponte decurrat ad nationes cuiusque vestras, ad fideles vobis concreditos, ad hominum communitates quibuscum quoquo modo consociamini, hos etiam peramanter salvere iubemus, quos velimus ut delatum vobis honorem et exhibitam benevolentiam in se ipsos manare existiment.

Ed ora, veneratissimi Fratelli e Figli carissimi, lasciate che nella lingua italiana a Noi più facile, e perciò con discorso più familiare e spontaneo, vi invitiamo a entrare con Noi, per brevi istanti, nella riflessione del vero significato di questa solenne cerimonia: qual è il suo vero senso interiore, quello che soggiace ai simboli, oggi adoperati per esprimerlo, quello che ben più del loro effetto esteriore, interessa i nostri spiriti e riguarda la vita reale e profonda della santa Chiesa?

Siamo così abituati a pensare per via di immagini e ad esprimerci per via di segni, di simboli, di gesti rituali, che può avvenire un arresto del nostro sguardo e della nostra attenzione a questo linguaggio sensibile, come se ciò bastasse a comprenderne il valore spirituale.

Noi abbiamo imposto abiti sacri e sontuosi sulle persone dei nuovi Cardinali, li abbiamo rivestiti di porpora, come per antico uso si conviene a principi e a magistrati, a cui competono le più alte funzioni di governo e di rappresentanza nella pubblica società. Metteremo nuovo anello al loro dito, porremo sulle loro teste simbolici copricapo, berretta e cappello, apriremo le loro labbra a sapiente parola, scambieremo con loro l’abbraccio fraterno. Oggetti questi e gesti significativi, come ognuno può comprendere; ma di che cosa significativi? ancora ci chiediamo. Qual è il senso, quale il valore di questa singolare cerimonia? Che cosa abbiamo dato effettivamente a questi nuovi Cardinali ?

La prima e più ovvia risposta è negativa, e sembra svalutare non solo il fasto esteriore del pubblico Concistoro, ma altresì il suo contenuto religioso: non abbiamo conferito un sacramento, non abbiamo nemmeno impartito un insegnamento. Ma non abbiamo compiuto un atto vano, e vuoto di sacro e di formidabile significato. Noi abbiamo espresso un’intenzione, Noi abbiamo conferito una potestà, Noi abbiamo costituito una funzione. Cioè Noi abbiamo chiamato questi eminenti personaggi della Chiesa cattolica, questi Patriarchi delle vetuste e sante fondazioni apostoliche, questi Pastori e maestri e ministri dispensatori dei misteri di Dio al Popolo cristiano, a far parte di quel sacro Collegio che con la sua autorità, la sua sapienza, la sua dedizione Ci assiste, fraternamente e filialmente, col consiglio e con l’opera, nella direzione della Chiesa universale, secondo il mandato a Noi commesso da nostro Signore Gesù Cristo, secondo il suo Spirito e il suo Vangelo, secondo le norme dei sacri canoni a Noi tramandate dai Padri e dalla storia della Chiesa, e secondo ancora i sempre nuovi bisogni dei tempi.

È un atto questo che si riferisce a quella missione, a quella investitura, che chiamiamo potestà di giurisdizione, che insieme alla potestà di santificare e di istruire abbiamo ricevuto, nella pienezza e nell’universalità propria dell’Apostolo Pietro, dall’unico Capo della Chiesa, invisibile ora a noi pellegrinanti nel tempo, ma sempre vivo, e sola fonte di grazia, di verità e di autorità nel suo Corpo mistico visibile, che è questa sua santa ed apostolica Chiesa Cattolica. Non procediamo oltre, Fratelli e Figli che Ci ascoltate, senza aver bene considerato che quanto qui vediamo, che quanto qui facciamo, tutto deriva da Cristo, tutto si compie nel nome di Cristo, tutto si celebra in onore di Cristo, «a cui sia onore e gloria nei secoli dei secoli» (Rm 16,27).

È un atto che associa voi, Padri Cardinali, alla Nostra autorità, al Nostro dovere di guidare la Chiesa intera. L’autorità è il primo ed autentico carattere del gesto da Noi compiuto: se mai il senso dell’autorità esalta ed umilia la coscienza che un uomo ha di se stesso, questo è il momento di sperimentarlo accanto a Noi, Signori Cardinali; il senso di vertigine, pieno di ebbrezza e di confusione, per l’altezza, a cui questo episodio dei divini disegni ci solleva, per la piccolezza, che esso stesso ci avverte essere sempre nostra. È il caso di ripetere, quasi gemendo, al Signore: «Elevans allisisti me» (Ps 101,11). Tu mi hai innalzato e Tu mi hai abbattuto; e quasi godendo, con Maria Santissima, è anche il caso di cantare il «Magnificat».

Nessuna meraviglia che un altro aspetto caratterizzi l’atto compiuto: con l’autorità la dignità, la preminenza cioè che dev’essere riconosciuta ai Padri Cardinali in relazione ed in proporzione all’autorità cui sono associati; ed è questo l’aspetto che il costume suole rendere più evidente, e che mutando il costume, cioè i bisogni e i gusti dei tempi, può essere in certe misure e in certe forme, discutibile e modificabile; è uno (ma non dei più gravi) pensieri a cui attendono i competenti, nel presente clima di aggiornamento conciliare. Ma in ogni caso il binomio autorità-dignità non deve e non può essere scisso, sì bene dev’essere così osservato e celebrato da fare della dignità la conseguenza, l’esigenza dell’autorità, e dell’autorità il sostegno, il contenuto della dignità.

Ma un altro aspetto ancora attrae la nostra attenzione, anch’esso derivato dal primo, quello, dicevamo, dell’autorità; ed è aspetto solenne e tremendo: è quello della responsabilità. Non esiste nella Chiesa autorità che non sia servizio; e non esiste servizio che non sia responsabile. Ben lo sappiamo: siamo responsabili davanti a Dio ed a Cristo, donde viene il mandato e la potestà del nostro servizio; e indirettamente lo siamo davanti alla Chiesa, alla quale è rivolto il nostro servizio. Quale somma di doveri consegua a questa situazione, comune ad ogni grado della gerarchia ecclesiastica, ma tanto più impegnativa quanto più alto è il grado occupato in tale gerarchia, a tutti è ben noto: e fedeltà, e spirito di sacrificio, e disinteresse, e zelo, e umiltà, e soprattutto carità; ecco la corona di virtù che deve qualificare l’uomo posto al governo della santa Chiesa; con questa successiva avvertenza, anche questa conosciuta da voi tutti, che mentre nell’esercito della potestà di ordine il ministro ha funzione semplicemente strumentale, nell’esercizio invece della potestà di giurisdizione egli funge da causa seconda, cioè con l’impiego delle sue proprie capacità; il che esige il dono totale delle forze umane di cui il ministro dispone e lo studio indefesso per acquisire quella specifica abilità di trattare con gli uomini, ch’è appunto l’arte di governarli; difficile arte ma soavissima e degnissima di veri seguaci di Cristo, se essa non consiste nel dominare il popolo di Dio, ma nell’esercizio forte e buono dell’amore pastorale.

Ebbene: questo è il significato della cerimonia che stiamo compiendo. Vorremmo dire: questo è il dono che Noi facciamo a voi, nuovi membri del Nostro Sacro Collegio cardinalizio. Accettate questo dono, Noi vi preghiamo. Accettatelo per il valore religioso, ch’esso contiene. Voi vedete che a questo fine Noi abbiamo voluto dare al Concistoro un risalto sacro, trasformando la cerimonia abituale in questa commovente concelebrazione, donde esso può attingere il suo vero senso profondo e la sua ricchezza di grazia.

Accettate questo dono per ciò ch’esso ha di conforme al grande disegno di Cristo, che istituendo nella Chiesa l’autorità pastorale e le sue gerarchie realizza i modi vari e misteriosi della sua assistenza e della sua presenza nel corso del tempo fra gli uomini, e organizza fra di loro la carità, in modo che siano i fratelli, resi padri e ministri, a salvare i fratelli.

Accettate questo dono anche per ciò ch’esso può comportare di impopolare e di grave; non siano sgradite le parole che vi rivolgiamo compiendo il rito: «Te intrepidum exhibere debeas»: l’ufficio del governare gli altri oggi non è senza grande e spirituale fatica; ma essa è doverosa e provvida, come non mai, anche nell’interno della santa Chiesa, e deve esercitarsi con vigilanza e saggezza tanto più amorose e sollecite, quanto maggiore è il bisogno di confortare l’obbedienza dei fedeli alla fiducia e all’osservanza della norma ecclesiastica. E nel mondo d’oggi, poi, non è senza rischio; voi lo sapete.

Quanto a Noi sarà di grande conforto l’avere voi, Padri, Fratelli e Figli veneratissimi, quali collaboratori, consiglieri ed amici: il peso delle somme chiavi è ben grave; voi Ci aiuterete a portarlo. e primo aiuto sarà l’unione, che a Noi e fra voi deve congiungervi. È questo un antico precetto: «Non sint in vobis schismata» (1Co 1,10); ma ad ogni ora deve essere da Noi non solo ricordato, ma riespresso e riconfermato. Ne avrà esempio e sostegno la Chiesa intera, che oggi qui rispecchia la sua unità e la sua cattolicità; e ne avrà edificazione la grande schiera dell’Episcopato, che Noi sentiamo in questo momento tanto vicino e tanto solidale in comunione di sentimenti, di propositi e di speranze.

Saluto paterno ai diversi popoli

Un mot, maintenant, aux délégations des pays de langue française, venues à Rome pour rendre hommage à leurs nouveaux Cardinaux.

Nous n’avons pas à vous redire, chers Fils, Notre bienveillance envers vos patries: elle est inscrite, pour ainsi dire, dans le choix même que Nous y avons fait de nouveaux membres du Sacré Collège. Choix qui honore chacune de vos nations, et crée en même temps pour elles, en quelque sorte, un gage supplémentaire d’amitié et de fidélité vis-à-vis du Saint-Siège. C’est un lien de plus qui s’établit entre elles et Nous, lien qu’il Nous est doux de nouer de Nos mains, car Nous y voyons l’auspice d’un grand bien spirituel et moral pour chacun de vos Pays, et l’assurance d’un accroissement de cordialité dans les relations que plusieurs d’entre eux entretiennent avec Nous. Ainsi l’Eglise honore vos Patries: mais celles-ci, à leur tour, honorent l’Eglise en lui donnant quelques-uns de leurs fils les plus éminents, que le Pape est heureux de pouvoir compter désormais parmi ses conseillers les plus intimes et les plus directs dans sa lourde tache de Pasteur suprême du troupeau du Christ.

Soyez-en vous aussi, chers Fils, heureux et fiers, et que s’élève vers Dieu, unie à la Notre, la prière de votre humble et fervente reconnaissance.

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Our sincere paternal greeting to you, Beloved Sons of the English-speaking world. You represent in the Sacred College the developing countries, where you and your colleagues in the Hierarchy, untiring workers in relatively new vineyards, are building up the Church and organizing its life and works. You represent the Second Spring foretold by Cardinal Newman in Great Britain, where Episcopate, clergy and faithful are renewing their zeal and apostolic fervor, exemplified in the historic See of Westminster. Your presence recalls the first foundation of Catholicism in the United States of America, in the Senior See of Baltimore. And the Metropolitan Archbishop of Armagh evokes by his attendance here the unflagging faith and worldwide apostolate of the Irish, whose priests were the leaders in bringing the Gospel blessings to your countries. May your inclusion in this Consistory signify, not only the diversity of the Sacred College, but above all the unity in love and respect which binds you to all its members, to the Vicar of Christ, and to the universal Church throughout the World!

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Wir möchten nun ein Wort an die deutsche Abordnung richten, die nach hier gekommen ist, um durch ihre Gegenwart den neuen deutschen Kardinal zu ehren.



Durch diese Wahl möchten Wir erneut die Hochachtung zum Ausdruck bringen, die Wir Ihrer deutschen Heimat und Ihrem deutschen Volk entgegenbringen. Hohe Achtung vor den Jahrhunderte alten Schätzen deutscher Kultur und Geistesgeschichte. Hochachtung aber auch vor der Leistung des deutschen Volkes in unseren Tagen: Geistiger und materieller Wiederaufstieg aus tiefster eigner Not und damit zugleich tätiges Verständnis für die Völker, die heute noch fremder, das heisst auch Ihrer Hilfe bedürfen.

Die Kirche möchte durch die Erhebung eines neuen deutchen Kardinal Ihr Vaterland ehren. Ihr Vaterland aber ehrt zugleich die Kirche, indem sie einen ihrer vornehmsten Söhne Uns zum Ratgeber schenkt.

Sie aber, geliebte Söhne und Töchter, dürfen über dieses Ereignis glücklich und stolz sein und Wir bitten Sie, Ihre Dankgebete mit den Unsern zu vereinen.

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Também não queremos deixar de dirigir uma palavra à delegacção do Brasil, a qual veio até à Cidade Eterna para homenagear, com sua presença, o seu novo Cardeal. A vós, amados filhos, vos damos as boas vindas e vos dizemos que Nos sentimos feliz em contar entre os Nossos Conselheiros mais um eminente filho da vossa grande Nação.

Esta escolha confirma o amor que sempre dedicamos à Terra de Santa Cruz, pela qual, a todo o momento, pedimos a Deus a cubra d e bênçãos, sob os auspícios da sua Padroeira, Virgem da Aparecida, e assim Cristo Senhor reine verdadeiramente no coração de todos e de cada um de seus filhos.





B. Paolo VI Omelie 2