B. Paolo VI Omelie 14365

II Domenica di Quaresima, 14 marzo 1965: SANTA MESSA NELLA CHIESA ROMANA DI SAN GIUSEPPE AL TRIONFALE

14365

La sosta d’obbligo durante la Santa Messa per ascoltare la spiegazione della parola di Dio ci invita a meditare il brano del Vangelo di San Matteo, ora letto: quello sulla Trasfigurazione del Signore. . .

Figli del nostro tempo, con i suoi ausilii di progresso visivo e tecnico, possiamo quasi ricostruire, davanti a noi, l’impressionante scena. Il Vangelo è sobrio; ma, soffermandoci sulle circostanze, notiamo subito che si tratta di un avvenimento pieno di interesse e di stupore.

San Marco, il quale, come- San Matteo, ci narra la Trasfigurazione, precisa che essa avvenne a soli sei giorni dopo la professione di fede compiuta da Pietro, quando, nella regione di Cesarea di Filippo, alla richiesta del Divino Maestro di manifestare che pensassero di Lui gli Apostoli, rispose, come folgorato da improvvisa illuminazione: Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivo!

Ed ora Gesù chiama in disparte i tre Discepoli preferiti: Pietro, Giacomo e Giovanni, e con loro sale su di un alto monte. Qualche esegeta pensa che si tratti del monte Hermon, ma la tradizione più diffusa indica il monte Tabor, ove esiste una grande basilica, e dove il Santo Padre si è recato con viva emozione, a lungo contemplando il sacro Luogo e il paesaggio, in una stupenda sera invernale dello scorso anno.

Andarono, dunque, per rimanere soli e pregare. Giunti sulla vetta, gli Apostoli, stanchi, si distesero sull’erba. Probabilmente - benché qualcuno lo contesti - era sopravvenuta la notte, e i discepoli presero sonno. Gesù pregava - ciò Egli soleva fare durante le ore di riposo e a lungo - sempre dimostrando di quale personale vita interiore vibrasse il suo Divin Cuore.

Ad un certo momento i tre si svegliano; levano gli occhi e vedono Gesù straordinariamente luminoso come se un fuoco di portento si fosse acceso nella sua Persona; e qui l’Evangelista ha due pennellate mirabili. Il volto di Gesù - scrive - diventa splendente come sole, dai fulgori diretti; e le vesti appaiono candide siccome neve; e San Marco tiene a spiegare: nessuno sulla terra saprà mai renderle così bianche.

Lo sguardo dei veggenti si fissa attonito, estatico. Gesù così trasfigurato domina sul monte; ed ecco che ai suoi lati si delineano due figure che intraprendono con il Maestro una misteriosa conversazione. Si tratta - i discepoli non esitano a riconoscerli per segni esterni o parole ascoltate - di Mosè e di Elia.

Per gli ebrei dire Mosè era come accennare a tutta la propria storia, al popolo eletto, alla Legge; scorgere Elia era come ripercorrere tristissimi anni, durante i quali il grande Profeta aveva cercato di rianimare il senso religioso e la tradizione in chi si era lasciato influire dalle dottrine pagane e aveva perduto la nota dominante del proprio costume.

Mosè ed Elia: l’Antico Testamento che converge intorno a Gesù, il Salvatore del mondo!

Pietro - come in altre circostanze il più entusiasta ed esuberante (San Marco lo sottolinea) - prorompe in un grido: Come è bello rimanere qui, per sempre! E, tutto preso dalla ebbrezza abbagliante, aggiunge: Se vuoi, o Signore, facciamo qua tre capanne: una per Te, una per Mosè, l’altra per Elia: per rimanervi in permanente beatitudine.

Ed ecco che l’intero panorama è avvolto da una nube, pur essa candida. Non è nebbia opaca, ma nimbo di gloria che accresce e pone in risalto la visione. Si avverte una presenza ancora più impressionante: infatti una voce profonda, in cui palpita tutto il Cielo, esclama: Questi è il Figlio mio diletto: ascoltatelo.

I Discepoli, a sentire che l’intero creato esalta quella voce tonante e dolce insieme, si prostrano per terra ed ascendono la faccia senza osare più nemmeno soffermare gli occhi sulla visione. Ad un tratto si sentono toccare: è Gesù, solo, tornato al suo consueto aspetto di sempre. Forse stava albeggiando. La voce del Maestro ordina: Scendiamo, ormai: e nulla direte di quanto avete visto, fino al giorno in cui il Figlio dell’Uomo - l’espressione usata da Gesù per indicare Se stesso - non sarà risuscitato dai morti.

Parole allora incomprensibili per i tre Discepoli: i quali, però, giammai avrebbero dimenticato quel prodigio. San Pietro, molto più tardi, forse trent’anni dopo, lo rievoca quale uno «degli spettacoli della grandezza di Lui», in quella sua seconda Lettera, che sembra proprio scritta da Roma. Ed aggiunge: «Egli (Gesù) infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre, essendo discesa a Lui dalla maestosa gloria quella voce: Questi è il mio Figliuolo diletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo. E questa voce procedente dal Cielo noi la udimmo, mentre eravamo con Lui sul monte santo».

La testimonianza per Gesù in questo racconto rimane quasi un testamento e un saluto dell’Apostolo dalla comunità romana.

Ci domandiamo: perché la Chiesa ripropone, oggi, in questa seconda Domenica di Quaresima, un quadro così sfavillante della gloria del Signore? Occorre spiegare in che modo quell’evento si innesta nella storia evangelica.

Gesù intende dare un saggio di ciò che Egli è; vuole impressionare i suoi Discepoli perché poco prima ha parlato della sua Passione e ne riparlerà anche in seguito. Sono gli ultimi giorni della sua missione in Galilea. Gesù sta per trasferirsi nella Giudea, ove accadrà il grande dramma della fine del Vangelo, della vita temporale del Signore. Gesù sarà crocifisso. E perché i Discepoli, questi tre specialmente, non siano scandalizzati, stupiti, anzi esterrefatti dalla fine tristissima del Maestro, ma conservino la fede, Gesù decide di imprimere nelle loro anime la meraviglia testé rievocata.

Ora la Chiesa la ripresenta anche a noi, nel corso della Quaresima, come per dire: Vedrete il Redentore crocifisso, avrete indicibile sgomento per il suo Sangue sparso, per la sua sofferenza, nel contemplarlo come schiacciato dai suoi nemici; e affinché non vi scandalizziate, e non abbiate a tradirlo o lasciarlo, in quell’ora grande ed amara, considerate, ora, chi Egli è e quanto può.

In altri termini: questa scena del Vangelo pone dinanzi a noi, .- che la rievochiamo dopo tanti anni, qui, oggi, celebrando la Santa Messa -, una questione di grandissima attualità, si direbbe fatta sulla misura delle nostre condizioni spirituali. La domanda è la medesima rivolta da Gesù, sei giorni prima dell’evento sul Tabor, agli Apostoli: Chi dite che sia il Figlio dell’Uomo?

La stessa richiesta io ripeto a voi. Ecco che il Vangelo diventa incalzante e urgente sulle nostre anime... Voi, Romani di oggi, e figli di questa parrocchia, chi dite che sia Gesù? Chi è Gesù in se stesso? La mente corre al Catechismo. Sì, ricordo che Gesù è il Figlio di Dio fatto Uomo. Ma sappiamo noi bene che cosa ciò vuol significare?

E inoltre: se Gesù è Dio fatto Uomo, la meraviglia delle meraviglie, chi Egli è per me ? che rapporto c’è tra me e Lui? devo occuparmi di Lui? Lo incontro nel cammino della mia vita? è legato al mio destino?

Non basta.

Se io domandassi appunto agli uomini del tempo nostro: chi. ritenete che sia Cristo Gesù? come lo pensate? ditemi: chi è il Signore? chi è questo Gesù che noi andiamo predicando da tanti secoli e che riteniamo sia ancor più necessario della nostra stessa vita l’annunciarlo alle anime? Chi è Gesù?

Alla domanda alcuni, molti, non rispondono, non sanno che dire. Esiste come una nube - e questa sì è opaca e pesante - di ignoranza che preme su tanti intelletti. Si ha una cognizione vaga del Cristo, non lo si conosce bene; si cerca, anzi, di respingerlo. Al punto che all’offerta del Signore di voler essere, per tutti, guida e maestro, si risponde di non averne bisogno, e si preferisce tenerlo lontano.

Quante volte gli uomini respingono Gesù e non lo vogliono sui loro passi, perché o non lo conoscono o, al massimo, lo temono più che identificarlo ed amarlo. Non vogliono che il Signore regni su di loro; cercano in ogni modo di allontanarlo. C’è persino chi urla contro Cristo: Via! - è il grido blasfemo -, alla Croce! Lo vogliono come annullare e togliere dalla faccia della civiltà moderna; non c’è posto per Iddio, né per la religione: si affannano a cancellare il suo nome e la sua presenza. Tale il contenuto di tutto questo laicismo sfrenato che, talvolta, incalza sino alle porte delle nostre chiese e che in tanti Paesi, ancor oggi, infierisce. Non si vuole più nemmeno l’immagine di Cristo.

Ma il tristo fenomeno è degli altri. Noi che siamo qui ed abbiamo questo grandissimo e dolcissimo Nome da ripetere a noi stessi; noi che siamo fedeli, noi che crediamo in Cristo: noi sappiamo bene chi è? Sapremo dirgli una parola diretta ed esatta; chiamarlo veramente per nome; chiamarlo Maestro, Pastore; invocarlo quale luce dell’anima e ripetergli: Tu sei il Salvatore? Sentire, cioè che Egli è necessario, e noi non possiamo fare a meno di Lui; è la nostra fortuna, la nostra gioia e felicità, promessa e speranza; la nostra via, verità e vita? Riusciremo a dirlo, e bene, e completamente?

Ecco il senso del Vangelo di oggi. Bisogna che gli occhi della nostra anima siano rischiarati, abbagliati da tanta luce e che la nostra anima prorompa nella esclamazione di Pietro: Come è bello stare davanti a Te, o Signore, e conoscerti!

Gesù ha due aspetti: quello ordinario, che il Vangelo presenta e la gente del tempo vedeva: un uomo vero. Ma, pur a guardarlo in questo aspetto umano, c’è qualche cosa, in Lui, di singolare, unico, caratteristico, dolce, misterioso, al punto che - come riferisce il Vangelo - coloro che hanno visto Gesù hanno dovuto confessare: nessuno è come Lui; nessuno si è espresso mai alla sua maniera. E cioè, anche naturalmente parlando - ed è la testimonianza data da coloro stessi che hanno studiato Gesù cercando di negare ciò che Egli è: il Figlio di Dio fatto Uomo - tutti devono ammettere: è unico, non c’è alcuno, nella storia di questa nostra umanità, che possa veramente paragonarsi a Lui per candore, purità, sapienza, carità, grandezza d’animo, eroismo; per capacità di arrivare ai cuori, per potenza sulle cose.

Ora quanto io vedo con gli occhi, mi dà la definizione completa del Signore? I tre Apostoli sono rimasti a fissare la visione: ed hanno notato la trasparenza: nella persona di Gesù c’è un’altra vita, c’è - ricordiamolo col Catechismo - un’altra natura: oltre quella umana, la natura divina.

Gesù è un tabernacolo in moto: è l’Uomo che porta dentro di Sé l’ampiezza del Cielo; è il Figlio di Dio fatto Uomo; è il miracolo che passa sui sentieri della nostra terra. Gesù è davvero l’Unico, il Buono, il Santo. Se lo avessimo ad incontrare anche nei; se fossimo così privilegiati come Pietro, Giacomo e Giovanni!

Orbene, questa fortuna figliuoli miei, l’avremo. Non sarà sensibile come nella Trasfigurazione luminosa, che ha colpito la vista e la mente degli Apostoli; ma la sua realtà sarà largita anche a noi, oggi. Occorre saper trasfigurare, mercé lo sguardo della fede, i segni con cui il Signore si presenta a noi; non per alimentare la nostra fantasia profilandoci un mito, un fantasma, l’immaginazione. No: ma per contemplare la realtà, il mistero, ciò che veramente è.

Io sono venuto qui proprio oggi, beato di poter parlare di Gesù, del quale indegnissimamente sono, su questa terra, il Vicario. Io vi dico, con la parola di Pietro, che Gesù è il Figlio di Dio fatto Uomo. Pensate a questo: lasciate che tali parole si scolpiscano nelle vostre anime. Credete alla realtà ch’esse intendono trasfondere in voi. E sappiate che non si tratta d’un suono che passa e si spegne; non di cosa esteriore, che poco interessa. Senta ognuno e ripeta: è la mia vita, è il mio destino, è la mia definizione, giacché anch’io sono cristiano, anch’io sono figlio di Dio. La Rivelazione di Gesù svela a me stesso ciò che io sono. È qui l’inizio della beatitudine, il destino soprannaturale, già ora inaugurato e attivo nel nostro essere.

Figliuoli miei - il discorso si farebbe diffuso e sempre più attraente -, accrescete nei vostri cuori la fede in Gesù Cristo; sappiate chi veramente Egli è; e pensate che il suo volto splendente e il sole per le vostre anime. Dovete sempre sentirvi illuminati da Lui, luce del mondo, nostra salvezza.

E adesso diciamo insieme, come la Chiesa ci invita a fare, proseguendo il sacro Rito: Signore, io credo.




Venerdì, 19 marzo 1965: FESTIVITÀ DI SAN GIUSEPPE

19365


Dopo il Vangelo, il Santo Padre desidera dire una parola in onore di San Giuseppe, Sposo purissimo di Maria Vergine, e Patrono della Chiesa Universale.

Non intende tessere il panegirico, come si suole in onore dei santi, e ricordare le cose grandi che si possono ammirare in questi uomini superiori, tante volte favoriti dalla natura e sempre favoriti dalla Grazia; ma piuttosto guardare a una fondamentale caratteristica, alla piccolezza, alla paradossale, minima statura che di San Giuseppe offre la narrazione evangelica.

Che cosa di più umile, di più semplice, di più silenzioso, di più nascosto ci poteva offrire il Vangelo da mettere accanto a Maria e a Gesù? La figura di Giuseppe è proprio delineata nei tratti della modestia la più popolare, la più comune, la più - si direbbe, usando il metro dei valori umani - insignificante, giacché non troviamo in lui alcun aspetto che ci possa dare ragione della sua reale grandezza e della straordinaria missione che la Provvidenza gli ha affidato, e che forma, a buon diritto, il tema di tante considerazioni, anzi di tanti panegirici in onore di San Giuseppe.

Guardandolo nello specchio del racconto evangelico, Giuseppe ci si presenta con i tratti più salienti di estrema umiltà: un modesto e povero, oscuro, piccolo, primitivo operaio che nulla ha di singolare, che non lascia, nel Vangelo stesso, verun accento della sua voce. Nessuna parola di lui ci è ricordata: vi si parla unicamente del suo contegno, della sua condotta, di quanto ha fatto: e tutto in silenzioso nascondimento e in obbedienza perfetta.

Era il Padre putativo di Cristo; lo Sposo della Vergine Immacolata; colui che ha dato stato civile in terra a Nostro Signore; che gli ha tributato l’assistenza più devota e necessaria, quella di cui hanno bisogno i pargoli, i fanciulli, gli adolescenti; quella di cui necessitano anche coloro che lavorano ed incominciano a sperimentare le angustie della vita e quel ch’è inerente alla grave fatica e al quotidiano sudore della fronte.

Giuseppe è stato, in ogni momento ed in maniera esemplare, insuperabile custode, assistente, maestro. È stato quindi, in tale sua completa, sommessa dedizione, di una grandezza sovrumana che incanta. Fermiamo, perciò, il nostro sguardo, nella odierna ricorrenza, su questa sua umiltà. Come ci pare fraterna, e, si direbbe, vicina a tante nostre stature fragili, mediocri, trascurabili, peccatrici! Come si fa presto a entrare in confidenza con un Santo che non sa dare soggezione, che non vanta nessuna distanza da noi; anzi, con una degnazione che ci confonde, quasi quasi si mette ai nostri piedi per dire: vedi il livello che è stato a me assegnato! Ebbene, proprio a tale livello, a questa inesprimibile sottomissione, il Signore del Cielo e della terra si è curvato, ed ha voluto rendere onore; facendone oggetto della sua scelta, e preferendola a tutti gli altri valori umani.

Gesù ha eletto Giuseppe. Ci chiediamo perché Cristo, che aveva libertà di scelta, e, più ancora, aveva possibilità di crearsi un piedistallo di grandezza, nobiltà, potenza, splendore per dominare il mondo e così predicare, e salvare l’umanità, ha invece voluto, come esempio e come tipo a Lui gradito, un santo così piccolo e così umile?

A noi sembra che ciò sia per due ragioni. La prima, che è documentabile con molte citazioni della Sacra Scrittura, potrebbe riferirsi, per così dire, a una certa gelosia di Dio. Il Signore è venuto decidendo la cooperazione umana. È venuto a salvarci mediante un sistema composto di due attività: la sua e la nostra. Ha quindi stabilito che la sua infinita potenza, la sua trascendente grandezza, la sua misericordia incommensurabile, venendo in contatto con l’attività umana, non fossero diminuite, o quasi confuse, o anche paragonate alla nostra capacità di bene, alla nostra potenzialità di salute. Ha voluto essere solo, pur accogliendo la nostra collaborazione; ha voluto far emergere tanto di più la sua maestà, la sua provvidenza, da farci ben comprendere che Egli solo è la causa della nostra salvezza. Perciò ha prescelto quale collaboratore lo strumento più umile e più semplice che dimostrava, in un certo senso, questa sua esclusiva onnipotenza di redenzione.

La seconda ragione sembra debba riconnettersi proprio ad un atto di affabile condiscendenza e gentilezza verso di noi; ad una cortesia verso la maggior parte, possiamo pur dire la totalità, del genere umano. Poiché Iddio scende dal Cielo e si fa uomo, noi, ancor prima di sentire l’attrattiva verso di Lui, se abbiamo fede, quasi avvertiamo un sentimento di fuga, un bisogno di ritirarci: «Exi a me, quia homo peccator sum»: Allontanati da me, o Signore, perché io sono uomo peccatore. Chi è consapevole della divina presenza, avverte l’impulso ad allontanarsi da Dio prima ancora che l’attrattiva di avvicinarsi a Lui. Come mai? Perché la trascendenza di Dio, resa vicina ed accessibile a noi, resta sempre infinita superiorità e annienta, si può dire, la nostra miseria e la nostra sproporzione. Il Signore, invece, per venire a colloquio con noi, ed essere davvero nostro fratello; per non intimorirci ma chiamarci; per darci confidenza ed aprire con noi il dialogo di tutte le più intime, profonde, salutari confidenze, si è fatto immensamente piccolo. «Humilis Deus», continua a ripetere S. Agostino. Il grande Dottore, tutte le volte che illustra il mistero dell’Incarnazione, non lascia di considerare tale aspetto dominante: un Dio che si abbassa, e lo fa per avvicinarsi e togliere quel senso di lontananza, di estraneità che sarebbe troppo naturale in noi, i quali riconosciamo chi Egli è, pur se desideroso di divenire nostro collega, socio, collocutore.

Il Signore è disceso all’ultimo gradino della scala sociale. Come divengono gioiosi gli umili, i poveri, i peccatori, i diseredati; quelli che hanno la piena coscienza della miseria umana - e dovremmo essere tutti -; come esultano d’essere introdotti a Cristo da un Custode, da un Patrocinatore qual è San Giuseppe!

Egli, proprio con la sua umiltà - che sembra un invito a noi rivolto nelle espressioni: venite, perché tutti vi chiamo; venite, ché il Signore vi aspetta -, documenta, nell’intera sua vita, il grido, che dovremmo sempre sentire come uno dei più forti ed espressivi del Santo Vangelo, e che riassume la tenerezza amorosa di Cristo per noi: «Venite a me voi tutti che siete affaticati e addolorati, e io vi consolerò».




III Domenica di Quaresima, 21 marzo 1965: SANTA MESSA NELLA CHIESA ROMANA DI SAN LUCA EVANGELISTA

21365

Il brano evangelico proposto per la terza Domenica di Quaresima è di San Luca: motivo speciale per rendere nuovo omaggio al Santo, nella chiesa a lui intitolata.

Non è una pagina facile: ed è bene rilevarne l’ambientazione. Questa è duplice.

Quando avviene l’episodio della guarigione dell’indemoniato muto e della sua improvvisa loquela? Al termine di un lungo periodo della predicazione di Gesù nella Galilea. Colà Egli aveva ottenuto vasti consensi e suscitato grandi entusiasmi nelle moltitudini. Ciò fu il motivo per cui i capi del popolo e i dottori della legge residenti nella Giudea vollero inquisire sull’opera di un Maestro, che predicava il Regno di Dio senza il loro consenso, senza essere stato alla loro scuola.

In tal modo ebbe principio la opposizione a Gesù. Per ben comprendere come mai il Figlio di Dio venne condannato alla morte di croce, bisogna risalire a questa fase del suo ministero, all’urto che Egli dovette subire con i rappresentanti della dottrina e della vita del popolo ebraico. La polemica si fece sempre più aspra: e a Gerusalemme seguirono il processo, la condanna, il patibolo, appunto perché quei capi non vollero accettare l’insegnamento di Gesù.

Altra previa considerazione. Lo stesso tratto del Santo Vangelo è bene ambientato durante la Quaresima. Fin dagli inizi del Cristianesimo, in questo periodo si preparavano i catecumeni al Battesimo; e si istruivano anche sulle avversità causate dal demonio; sugli esorcismi; su quanto la Chiesa compie per liberarci da ogni male e tentazione; sugli effetti rigeneratori che il primo dei Sacramenti produce, conferendo la vita della Grazia.

Ciò premesso, noi potremmo chiederci in qual modo riferir e a noi, oggi, questa pagina del Vangelo. Vari ne sono gli aspetti, ma uno precipuamente richiamerà la nostra attenzione: la resistenza fatta a Gesù.

Il Signore, nella vita terrena, ha avuto - per usare un termine umano corrente - fortuna? La risposta è negativa. Egli ha visto, sì, momenti di grande plauso, e, alla fine, trionferà; ma la sua storia umana è finita male. È apparso come uno sconfitto; la sua condanna alla morte di croce non poteva essere, al riguardo, più eloquente. Ora questa sua non riuscita è incominciata dal momento in cui ebbe inizio la resistenza, dapprima sorda, indi palese, fatta a Lui. La sua parola, che pur aveva affascinato le folle - basti ricordare le Beatitudini - venne, alla fine, male accolta e male interpretata; come pure lo furono molti suoi atti.

E arriviamo al racconto evangelico. Narra San Luca che Gesù guarisce un poveretto, il quale era posseduto dal demonio; e la gente si divide nel giudizio. Qualcuno c’è ancora ad affermare il manifestarsi di evento portentoso; altri, al contrario, commenta sinistramente, e si affretta a interpretare male il prodigio. C’è, dunque, resistenza e ostilità.

Ora siffatto atteggiamento può essere riferito a noi, e proprio adesso, durante questa Quaresima.

La Pasqua è un giorno di scelta, di decisione. Siamo per Cristo, oppure no? Rimaniamo cristiani, o avviene in noi il contrario? La risposta a tale interrogativo è data ogni anno dal popolo cristiano, in occasione della Pasqua; e perciò ora la Chiesa chiede a tutti noi: siete pronti a confermare la vostra adesione e fedeltà?

Si pensi ora al valore di questa domanda fatta personalmente dal Papa a quanti lo ascoltano, non già per un’importanza esterna e spettacolare, bensì per l’autorità che Egli possiede. Egli ne è tanto compenetrato che vorrebbe rivolgersi singolarmente a ciascuno e parlare con voce sommessa al cuore, per dire: tu, accetti il Signore? credi in Lui? gli vuoi bene? pensi alle sue parole? sono esse vere per te; o passano, invece, come farfalle senza mèta; sono effettivamente il colloquio tuo con Dio; riguardano la tua esistenza; incalzano sopra di te, e riescono ad ottenere che tu abbia a modellare la vita ai disegni di Dio; e perciò Lo ascolti secondo le norme del Vangelo ?

Il punto è, quindi, nel vedere qual è la nostra risposta al Signore.

E dapprima gli ostacoli da eliminare. Il Vangelo ci mostra, in questa pagina, due maniere di comportarsi; e sono, l’una più dell’altra, riprovevoli, negative. Ecco: Gesù compie un miracolo e subito c’è chi lo accusa di andare contro la legge, arrivando persino ad interpretare male. Cercano di dare una spiegazione cattiva, di snervare, per così dire, la forza dell’evento soprannaturale. Sentenziano con perfidia: se così ha fatto, vuol dire che ha operato nel nome del diavolo! Interpretano, pertanto, a loro piacimento, e in un senso contrario alla verità limpida, semplice e logica. Cercano di ritorcere contro Gesù ciò che, invece, dovrebbe risultare a suo onore, gloria ed apologia.

L’opposizione si ripete nei secoli.

È la prima forma di negazione: è il sistematico e preconcetto rifiuto a credere. Non si esita a parlare di mito, di fiabe, di cose irreali. Ora questa opposizione - il Papa vuol parlarne perché ne è satura l’aria, piena la stampa e la si sente circolare nel nostro mondo contemporaneo e forma la mentalità di non pochi - parte da un mendace presupposto. V’è chi ritiene atto di intelligenza opporsi all’insegnamento del Signore, alla dottrina della Chiesa. Per essere spregiudicati, più forti degli altri, bisogna saper dire di no: io non credo. La religione è fatta per gli spiriti deboli, non per il pensiero moderno, non per i critici, gli istruiti, i refrattari alle suggestioni. Essi insistono nel loro ripudio. E si servono del lume divino, che è la ragione, non per cercare la verità, non per accogliere con simpatia, con gioia e con incanto estatico il fulgore di Dio che entra nelle nostre anime con le parole del Vangelo; ma chiudono le finestre, e usano, al contrario, proprio la ragione per negare la verità del Credo, e quindi resistere al Signore, interpretando male quanto Egli ha fatto e detto.

Questa attitudine negativa, questa cattiveria dello spirito, è quel che l’odierno brano evangelico pone in evidenza, ammonendo i buoni: guardatevi da un atteggiamento tanto pernicioso e letale. Il Signore potrà prendere in parola, un giorno, il ribelle, ritorcendo contro di lui la negazione: Non hai voluto conoscermi; nemmeno io ti conosco. Questa sentenza può essere la condanna eterna.

Esiste poi un altro atteggiamento, del pari indicato nel testo di San Luca. Riguarda coloro che non negano del tutto, ma dicono: Signore fammi vedere un miracolo: allora crederò. Voglio vedere un segno, e proprio come intendo io; toccare con mano, scorgere con i miei occhi. Ebbene il Signore questo prodigio, questo servizio su misura a capricci e curiosità, non lo compie. L’intero Vangelo, che è pieno di meraviglie, prove, luci, conferme, non aderisce al desiderio di quelli che aspettano i segni. Il Signore non indulge alla indiscrezione delle nostre domande.

Dimostrazioni di Sé e della sua verità, Egli ne ha date innumerevoli: la storia bimillenaria della nostra fede ne è piena; la dottrina è incomparabile; tanti miracoli Egli ha compiuto. Tuttavia,, ricordiamolo, il Signore non forza le anime; le lascia libere; vuole che noi rispondiamo col nostro cuore, spontaneamente. Iddio ci largisce molti doni, indica il cammino; ma stabilisce che noi abbiamo a cooperare. Giacché se fosse lampante ogni suo precetto, e cioè se noi avessimo la prova razionale, diretta, evidente, delle verità di fede, non avremmo più alcun merito. Dio ci conduce sino alla porta perché, noi volendo, possiamo liberamente varcare la soglia benedetta.

Un grande pensatore ha tratteggiato molto bene questa sublime realtà dicendo: Nel Vangelo, nell’economia del Regno divino ci sono tante tenebre perché chi non vuol guardare non veda; e c’è immensa luce perché chi vuole possa vedere. Cioè, il Signore lascia a noi la scelta, il decidere, il merito di dire: io credo, e intendo essere fedele.

Ecco, dunque il senso del Vangelo odierno. Bisogna cercare di mettere le nostre anime in fase, nell’atteggiamento migliore per accogliere il sole della nostra salvezza.

Vogliamo noi acquisire la parola di Dio siccome viva e vera, facendola nostra, e quale annuncio della nostra beatitudine? Occorre porre l’anima nostra a fuoco - si pensi alla ripresa perfetta di una fotografia -, ossia, in quella esatta posizione, che la renda atta, idonea, capace di ricevere i raggi del Signore.

Adunque, la nostra salvezza incomincia da Dio, ma Egli vuole che noi cooperiamo e facciamo qualche cosa. Come? Con l’essere uomini, pensando bene, rimanendo vigili e solerti, coerenti alle norme e alle ispirazioni celesti; non per criticarle o spegnerle, ma lasciandoci dal superno influsso guidare e sorreggere.

Infine: il Vangelo di oggi termina con un epilogo di ineffabile bellezza. Al termine della controversia impegnata, ormai, fra i nemici del Signore e lo stesso Divino Maestro, che dimostra la illogicità del loro contegno, una semplice ed umile donna esclama: Benedetta, benedetta la tua Mamma! Perché dice così? Essa ha compreso che Cristo è un essere unico; essa ha intuito l’intera ricchezza esistente nella persona di questo Maestro e Profeta. E fa risalire alla Madre del Salvatore, a Maria, la gloria di aver avuto un Figlio che si chiama Gesù.

È la voce del cuore puro, dell’anima candida, della pietà sagace: è la voce del popolo cristiano, la nostra, che deve dire: Oh, benedetta la Madonna, che ci ha dato Gesù, il nostro Redentore!

Guardate, se potete, figliuoli miei, di capire e ricordare qualche cosa della presente lezione. Essa è importante, continua, premente sulle vostre anime; e deciderà del vostro futuro se accoglierete la parola del Signore con il fervore e la rispondenza quotidiana.

In tal modo tutti saremo salvi. Se invece si chiuderanno gli occhi, le orecchie e il cuore al divino messaggio che ci rende liberi dal male, saremo arbitri e artefici di rovina.

Non deve essere così. Gesù sia veramente - sempre noi invocando l’aiuto della Madre sua - il nostro Amico, la nostra Guida, il nostro Maestro, la nostra Salvezza!




IV Domenica (Laetare) di Quaresima, 28 marzo 1965: SANTA MESSA NELLA CHIESA ROMANA DI SANT’EMERENZIANA

28365

Il nostro primo pensiero, la nostra meditazione devono concentrarsi sul brano del Vangelo testé letto, per farne alimento, principio direttivo e vita delle anime nostre.

La pagina di questa Domenica è quella sullo stupendo miracolo della moltiplicazione dei pani. Esso è grande innanzitutto perché è fra i più documentati nel Vangelo. Tutti e quattro gli Evangelisti ne fanno il racconto. San Giovanni - suo è il testo odierno - vi aggiunge alcuni particolari che dimostrano la sua presenza al prodigio. Nomina infatti Filippo e Andrea; dice che il pane era di orzo, accenna ad alcune caratteristiche del luogo; dà varie altre notizie, che certo nessuno avrebbe inventato se non fossero state reali e registrate nella memoria di un testimone oculare.

Grande miracolo perché compiuto davanti a ben cinquemila persone ed a loro beneficio; quindi spettacolare, fatto davvero per essere un segno non soltanto per alcuni osservatori, ma per una folla, per un popolo. Miracolo, dunque, dal significato sociale, collettivo; esteso a tutta la gente che sarebbe accorsa ad ascoltare allora, e in seguito, l’insegnamento di Gesù.

La moltiplicazione dei pani. Il primo aspetto di questo avvenimento sarebbe la maraviglia, che quasi ci fa immaginare la sorprendente improvvisa creazione di tanti e tanti pani che Gesù, con l’aiuto degli Apostoli, è in grado di distribuire a quanti sono in attesa. Nondimeno un altro aspetto deve richiamare subito la nostra attenzione, anche per il conseguente profitto che ne trarranno le nostre anime.

Siamo dinanzi alla fame. Gesù ha intorno a Sè un popolo affamato. Ora, - ecco una nota oltremodo interessante -, Gesù stesso ha provocato questa fame, giacché procedendo, con i vari episodi della sua predicazione, oltre il Lago di Tiberiade in luogo deserto, ha distolto quanti lo seguivano dalla possibilità di raggiungere agevolmente i centri abitati, le rispettive dimore, ove rifocillarsi. E Gesù lo dice apertamente rivolgendosi all’Apostolo Filippo: Come faremo a dare da mangiare a tutti costoro? Il rilievo del Signore, già di per sé, pone in risalto una necessità vasta ed urgente. Ma, come nota l’Evangelista, Egli ben sapeva ciò che stava per compiere, anche perché, nel caso estremo di inedia, la moltitudine sarebbe stata indotta facilmente a cambiare la propria mentalità nei riguardi di un Profeta così venerato ed attraente.

Quindi Gesù compie il miracolo, che, per tanti motivi, si rivela fondamentale.

Che cosa c’è infatti di più conosciuto e di più sperimentato, da tutti, della fame? Essa richiede il cibo; è la denuncia della insufficienza del nostro organismo, incapace di ‘reggere con le sole sue forze. Esso ha, infatti, indispensabile bisogno di una regolare fornitura dell’alimento, altrimenti verrebbe meno.

Né solo di cibo noi abbiamo necessità, ma di vari altri elementi, a cominciare dall’aria che respiriamo, senza contare tutto quello che viene richiesto dal nostro essere spirituale, dall’anima, dall’intelletto, dal cuore. Siamo come degli occhi che esigono la luce esterna per essere funzionanti. In una parola non siamo degli indipendenti, e tanto meno degli autosufficienti.

È dunque chiaro che non bastiamo a noi stessi; e nulla v’è di più reale e sperimentato di tale imponente fenomeno. Si sente invece dire, da molte persone del mondo moderno, esattamente il contrario. V’è, oggi, chi esalta, in una maniera sconsiderata, la sufficienza dell’uomo a se stesso, definendo umiliazione ogni soccorso che gli venga dall’esterno. Eppure la realtà delle cose conferma ad ogni istante che la vita umana non continuerebbe ad essere tale senza un completo alimento.

Siamo dunque degli esseri affamati, sempre in attesa di trovare qualche cosa di proporzionato alle nostre capacità, che ci renda meno faticosa l’esistenza; anche perché il cibo non ha solo la facoltà di nutrire, ma pur quella di far crescere, di compensare gli squilibri fisiologici ecc. Non possiamo, dunque, rinunciare alla organizzazione definita mondo economico, e alle regolari provvidenze di cui viviamo e che ci porgono aiuto ad ogni momento.

Questa la realtà. Quale ne è il senso? Che significato Gesù Cristo vuol attribuire, nel Vangelo, alla naturale esigenza della vita umana? Perché il Signore ha condotto lontano quella folla, ed ha quindi compiuto il miracolo? Per riconoscere la primaria nostra richiesta: quella del pane.

Ora qui si profila qualche difficoltà per il duplice significato di questo tratto evangelico. Deve il Signore direttamente e sempre provvedere al nostro pane materiale? Il cristianesimo è forse sorto per soddisfare alle necessità economiche della nostra vita? Possiede cioè un valore temporale? Sappiamo benissimo che, di per sé, ciò non è. Gesù dà a tutti noi, prima di qualsiasi cosa, un altro Pane.

A ben comprendere il brano che stiamo meditando, dovremmo ripensare a quanto avvenne il giorno successivo a quello del miracolo, con il memorabile discorso tenuto dal Divino Maestro a Cafarnao, a commento del prodigio della moltiplicazione dei pani, e rivolto alla gente, che, accalcandosi intorno a Gesù, continuava a ripetere:’ dacci ancora di quel pane così buono.

E Gesù a dichiarare: no; voi cercate il pane della terra, io voglio darvi il Pane del cielo. Il Signore, cioè, voleva stimolare le anime, a cui si dirigeva, ad avvertire altre indigenze, oltre quelle materiali, corporee e temporali. Lo dirà in tante altre pagine del suo Vangelo. Non di solo pane vive l’ uomo - abbiamo letto nel Vangelo della prima Domenica di Quaresima - ma di ogni parola che scende dal Cielo. Alla Samaritana che non ammette in Gesù la capacità di dissetare - Come lo puoi tu che non hai di che attingere l’ acqua dal pozzo? - il Signore dirà: C’ è una sete d’ altro genere. Ed ora .qui afferma: C’ è un’ altra fame. Esistono ulteriori alimenti che l’uomo reclama, che voi dimenticate, e che io solo posso offrire. «Ego sum panis vitae; qui venit ad me, non esuriet; et qui credit in me, non sitiet unquam». Il prodigio che il Signore ha compiuto dando il pane materiale voleva essere prova e simbolo di un atto dell’onnipotenza del Signore: quello di saziare la fame dello spirito; di dare alla nostra vita quel completamento che Egli soltanto possiede e largisce.

Io sono il Pane! Gesti dice di farsi nostro cibo e alimento. Non è una cosa paradossale? No, affatto: noi dobbiamo nutrirci di Lui per osservare i suoi precetti ed essere ossequenti al disegno di potenza, bontà, misericordia, da Lui svelatoci in questa pagina del Vangelo.

Cristo è il Pane della vita. Cristo è colui che viene a saziare le nostre vere necessità. Ne consegue che noi dovremmo fare, in un certo senso, l’inventario di tali necessità. Che cosa ci è indispensabile? Senza dubbio il pane materiale: e il miracolo di Gesù dimostra che coloro i quali avranno fede nella sua parola e le daranno il primato nell’ordine delle cose, non mancheranno nemmeno del pane economico e del pane quotidiano.

Ma la gradualità dei bisogni, quella che corrisponde alla gerarchia dei valori, dice: cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato. Ora, proprio nel Vangelo, il Signore ha dimostrato la sua onnipotenza per soddisfare anche alle istanze economiche e temporali del nostro corso terreno. Tuttavia Egli ciò ha disposto per dare poi la lezione che intendeva condurre i suoi uditori a definire Gesù stesso come alimento insostituibile per l’umanità. Tutto quanto noi desideriamo di più alto, di definitivo, di supremo e - possiamo dirlo con una parola sola - di vittorioso sulla morte, sulla nostra caducità, debolezza, insufficienza, Gesù lo individua e pone come il reale complemento, come la piena soddisfazione della nostra esistenza.

La Chiesa ha scelto apposta questo brano per condurci a pensare a Gesù davvero come al Pane del Cielo, e dato a noi. Ci si può privare del pane in questa vita? Non si può. Ed allora Gesù si definisce e si fa Pane affinché noi comprendiamo che senza di Lui non possiamo vivere. È indispensabile, giacché corrisponde al pane che sazia la nostra fame e dà sostentamento.

Gesù viene incontro alla nostra attesa spirituale di essere alimentati misteriosamente dalla sua presenza, dalla sua Persona, dalla sua parola e da questa sua capacità di comunicare e di moltiplicarsi per venire a contatto con tutte le anime. Voi comprendete come la Chiesa abbia messo allora in questa Domenica giuliva - la quarta di Quaresima, che è come una specie di sosta nel periodo penitenziale che conduce alla Pasqua - per dirci: pensate al Cibo dell’anima vostra; preparatevi alla Pasqua; cercate di desiderare Cristo, di aver fame di Lui, di conseguire l’unione con Lui, e di capire che senza di Lui non possiamo vivere; di comprendere invece che con Lui siamo in grado di avere la vita che non muore, la vita che non fallisce, la vita senza la quale noi non potremmo essere né realmente vivi né completamente beati.

«Io sono il Pane del Cielo». «Io sono il Pane della vita». Sono venuto a dare l’alimento per la vita del mondo. Questa è la lezione che il Signore ci imparte nel suo Vangelo. Ce la ripete la Chiesa in questa quarta Domenica di Quaresima, volendo che ciascuno di noi rientri in se stesso e si chieda: ma io ho desiderio di Cristo? so io nutrirmi di Lui? cogliere, dalle sue parole, dalla sua grazia, dal suo insistere alla porta della mia anima, il senso della prossimità che Egli stabilisce col mio spirito? avvalermi della immensa oblazione di bontà, di carità e di potenza con cui Egli vuole che io viva di Lui?

Dobbiamo concludere ripetendo quanto San Paolo diceva di sé: «Mihi vivere Christus est»: Io vivo di Cristo. Dobbiamo arrivare a tale radiosa mèta per essere veramente cristiani e, aggiungiamo, per essere veramente buoni e felici.





B. Paolo VI Omelie 14365