B. Paolo VI Omelie 10569

Giovedì, 1° maggio 1969: SOLENNE CONCELEBRAZIONE DURANTE IL CONCISTORO NELLA BASILICA VATICANA

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Il solenne rito, che qui svolgiamo, circondati dalla corona dei nuovi Cardinali, da Noi creati nel recente Concistoro Segreto, e con Noi celebranti il Divino Sacrificio, Ci offre l’occasione di riflettere su ciò che stiamo compiendo. È un avvenimento memorabile per la vita della Chiesa; e Noi, appunto per questo, abbiamo voluto conferirgli più valida e mistica importanza, dando alla sua celebrazione un significato profondamente sacro, chiamando tutti voi, e quanti assistono per il tramite dei mezzi di comunicazione sociale, a questa Basilica, presso la tomba del primo Pontefice Romano, attorno all’altare dei Divini Misteri. È un’occasione che, nel suo intimo valore, tutti ci invita a fermarci un attimo, nell’intimo della nostra coscienza, per comprenderla appieno, e trarne l’impulso a continuare con rinnovato impegno, con gioia più intensa, con generosità più ardente, il servizio a cui tutti, seppure a diverso titolo, siamo chiamati nella Chiesa.


COMUNIONE DI ANIMI

Venerabili Fratelli e diletti figli! È questo un rito di comunione: e comunione di animi, che la vostra amplissima ed eletta presenza rende più significativa e sentita.

Ed è un rito di celebrazione: è la festa di S. Giuseppe, lo Sposo vergine di Maria sempre Vergine, il Patrono della Chiesa universale, che oggi veneriamo nell’aspetto umile, inappariscente, povero dell’operio di Galilea, sostegno valido e instancabile della sacra Famiglia, immagine luminosa e discreta della provvidenza del Padre Celeste.

Il pensiero, a questo richiamo così suggestivo e suadente, va spontaneamente alla storia evangelica, inquadrata nell’umile scena di Nazareth, ove il Figlio di Dio viveva sottomesso, crescendo in sapienza, età e grazia (
Lc 2,51); il pensiero va alla condizione sociale, in cui Cristo volle essere cittadino della terra e fratello nostro, in aperto contrasto con la mentalità corrente, con le nostre pretese insoddisfatte, con la umana volontà di potenza: tanto che, come ha sottolineato il testo evangelico di questa Messa, i concittadini «meravigliati si chiedevano: "Di dove gli vengono questa sapienza e i miracoli? Non è costui il figlio del falegname? Sua madre non si chiama Maria?... Da dove, dunque, gli viene tutto questo?". Ed erano scandalizzati di lui» (Mt 13,54-56).

Filius fabri: lo scandalo di allora, presagio e preludio dello scandalo della Croce (cfr. Ga 5,11), è divenuto per la Chiesa fonte inesausta di ammirazione e di estasi, di preghiera e di contemplazione, di esame di coscienza e anche, talora, di rimprovero. Ma la Chiesa, e con essa i suoi santi e le sue istituzioni, gli umili e i sofferenti, i fedeli eredi dei «Poveri di Jahvé» dell’Antico Testamento, è rimasta ed è fedele a questo Vangelo testuale; essa ne fa oggetto della sua continua meditazione; e dal Vangelo della povertà e dell’abbassamento di Cristo trae la sua tradizione, la sua liturgia, le sue opere caritative, che svolgono, approfondiscono, amplificano gli elementi semifinali dell’origine evangelica, senza alterarli, senza corromperli, senza mutarli, ma portandoli a pieno compimento, e onorandoli con suo amoroso rispetto, come l’albero è il pieno compimento del seme.


INCESSANTE RICORSO AL VANGELO

La povertà di Nazareth, nella sua nudità, nel suo spogliamento, nella fatica, ha continuato ad essere la scuola per i figli autentici della Chiesa, in tutti i secoli: ha ispirato la generosità dei suoi Pontefici e dei suoi Vescovi, dei suoi sacerdoti e dei suoi figli, ha fatto sorgere le sue grandi opere benefiche, tuttora caratteristiche e operanti, ha diffuso con questa coscienza la sua attività missionaria: evangelizare pauperibus misit me, anch’essa, come il suo Fondatore, da Lui inviata ad annunziare il lieto annuncio ai poveri (Lc 4,18 cfr. Is. Is 61,1).

Ecco pertanto scaturire da queste riflessioni un primo insegnamento: il continuo ricorso al Vangelo. È nostro dovere. È nostra forza. Oggi specialmente ci deve interessare il mistero della povertà di Cristo. Ne ha parlato il Concilio, quando ha detto che «è necessario che la Chiesa, sempre sotto l’influsso dello Spirito di Cristo, segua la stessa strada seguita da Cristo, la strada cioè della povertà, dell’obbedienza, del servizio e del sacrificio di sé» (Ad Gentes, AGD 5); e che lo spirito di povertà e d’amore sono «la gloria e il segno della Chiesa di Cristo» (Gaudium et spes, GS 88). Ne abbiamo parlato Noi, fin dalla Nostra prima Enciclica Ecclesiam suam, insistendo sul dovere che abbiamo di «proporre alla vita ecclesiastica quei criteri direttivi, che devono fondare la nostra fiducia più su l’aiuto di Dio e sui beni dello spirito, che non su i mezzi temporali» (A.A.S. 56, 1964, 634); e proponendo come ideale da perseguire, nell’Enciclica Populorum progressio, «l’orientarsi verso lo spirito di povertà» (n. 21, AAS, 59, 1967, 267).

Ne parlano altresì coloro che desiderano il rinnovamento della Chiesa. Noi dobbiamo profittare di queste disposizioni, che sono tanto favorevoli alla povertà della Chiesa e alla formazione del cristiano moderno allo spirito di povertà. In un momento in cui le ricchezze economiche del mondo crescono immensamente, noi, Chiesa, ritorniamo più fedelmente discepoli della povertà di Cristo! Non per contestare al mondo il suo progresso, ma per una duplice finalità: anzitutto per ricordare a noi stessi che solo nelle forze spirituali, nella grazia, nella imitazione di Cristo, dobbiamo porre la nostra fiducia, secondo il monito del Vangelo: «Guardatevi da ogni avidità, perché non dipende la vita di alcuno dall’abbondanza, dai beni che possiede» (Lc 12,15); in secondo luogo per adoperarci al buon uso della ricchezza, che dev’essere impiegata per il pane dei poveri, per la migliore distribuzione dei beni temporali, per il servizio dell’uomo: il che VUOI dire, in una parola, secondo la felice espressione del Nostro Predecessore Giovanni XXIII, «permanente disposizione ad effondere gli uni negli altri il meglio di se stessi» (Pacem in terris; A.A.S. 55, 1963, 266).

Ma il pensiero si allarga, si fa più complesso: la povertà, nella storia del mondo, è stata strettamente legata alla condizione del lavoro, specie del più umile, spregiato, esposto all’arbitrio e all’abuso. È una legge misteriosa, conseguenza del peccato primo, per il quale è entrata nel mondo la pena fisica, la fatica manuale, il sudore della fronte, la miseria spirituale e materiale. Ora, benché Figlio di Dio, Cristo non volle sottrarsi a tale legge: anche in questo egli è stato veramente il «Figlio dell’uomo». Alla scuola di San Giuseppe, Cristo fu lavoratore: penò, sudò, faticò durante i trent’anni della sua vita nascosta. Ma con quell’accettazione del lavoro da Lui fatta, l’antica condizione di umiliazione e di fatica si è trasfigurata: e il lavoro, pur conservando l’elemento bivalente di sana attività e di penosa fatica, può perciò essere riportato - se vissuto alla luce della nuova economia della grazia - alla sua antica funzione di collaborazione prestata a Dio (cfr. Gen. 1, 28), facendoci partecipare altresì ai sentimenti di Cristo, e seguire i suoi esempi.


LA CHIESA ONORA IL LAVORO

Nella luce e con l’insegnamento di Cristo lavoratore, la Chiesa considera pertanto il lavoro nella sua vera, nobile, elevante utilità: sia come attività e sviluppo e pedagogia dell’uomo, sia come conquista e dominio della terra, secondo il primigenio piano di Dio. Per questo la Chiesa onora il lavoro, ogni lavoro, nel quale vede riflettersi la gloria del primo uomo, creato a immagine di Dio, e, soprattutto, l’umiltà mite e nascosta del Cristo. La Chiesa onora il lavoro sia esso manuale, o artigianale, o artistico, o tecnico, o scientifico, lo incoraggia e lo benedice, perché vede in esso lo strumento della mutua collaborazione umana, l’espressione visibile dei vincoli di fraternità e di aiuto, che uniscono il genere umano, come in un immenso abbraccio. La Chiesa vede nel lavoro una grande scuola di carità, oltre che il tessuto connettivo dell’umano progresso: e per questo lo incoraggia e lo benedice, ripetendo con Paolo apostolo la seria, virile, severa esortazione: «Chi non vuoi lavorare, non mangi neppure» (2 Thess. 2Th 3,10).

Tutti gli uomini devono perciò essere impegnati nel lavoro: si dividono le funzioni, si distinguono le competenze, si ripartiscono le conquiste. Purtroppo, il germe di divisione, portato nel mondo dal peccato, continua a operare in modo nefasto e, specialmente in questo campo, spesso con patente nequizia. Da queste naturali divisioni che, come abbiam detto, dovrebbero essere fonte di equilibrio, di completamento e di cooperazione vicendevoli, sorgono purtroppo invece dolorose sperequazioni: ecco che le varie classi, che pur un tempo furono concordi, nel segno della vissuta civiltà cristiana, si sono contrapposte l’una con l’altra; ecco che la classe lavoratrice risultò meno fortunata, anzi, in certe situazioni, oppressa e umiliata. Di qui le lotte, che hanno lasciato un segno di profondo turbamento nel nostro tempo, da esse caratterizzato, e che, tuttora, pur con gli innegabili miglioramenti, dividono spesso gli animi, con reale detrimento del bene comune.

In tale stato di cose la Chiesa ha preso la sua nota posizione: le Encicliche sociali dei Pontefici dell’era moderna, dalla Revum novarum in poi, sono là a testimoniare la difesa che essa ha fatto, e fa, dei lavoratori, per una migliore giustizia sociale. Ma tale difesa del lavoro, in nome della dignità della persona umana, ha tuttora bisogno dell’opera nostra. I motivi son noti: esistono oggi troppi popoli non ancora convenientemente sviluppati; le classi lavoratrici sono tuttora escluse, in larga misura, dal benessere e dalla sicurezza sociale; risorgono, con preoccupante allarme, già risolte disuguaglianze economiche; l’uomo è usato talora come strumento, secondo i calcoli spietati delle leggi economiche. È dunque necessaria, da parte nostra, un’azione che sia instancabile, che 279

sia senza timori e senza remore, che sia compiuta anch’essa in Nomine Domini, nel nome del Signore, perché è Lui che lo vuole. Come abbiamo sottolineato nella Nostra Enciclica Populorum progressio, lo sviluppo è il nuovo nome della pace.

Da tale consapevolezza, davanti alla quale nessuno deve ritenersi esente da un serio esame di coscienza, nascono i propositi, che la grazia divina, scaturiente dal Sacrificio Eucaristico, deve suscitare nei nostri cuori come da un terreno ben preparato.

Dobbiamo amare la povertà, perché l’ha amata Cristo, il quale «ricco qual era, per noi si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà» (2Co 8,9). Dobbiamo metterla in pratica, rendendoci poveri e vuoti davanti a Dio, perché egli «colma di bene gli affamati e rimanda a mani vuote i ricchi» (cfr. Lc 1,53), distaccandoci dai beni terreni, e dando il superfluo a chi è nel bisogno (cfr. Lc 11,41). Dobbiamo amare i Poveri, in certo modo sacramento di Cristo, perché in essi - negli affamati, negli assetati, negli esuli, negli ignudi, negli ammalati, nei prigionieri - Egli ha voluto misticamente identificarsi (cfr. Matth. Mt 25,31-46); dobbiamo aiutarli, soffrire con loro, e anche seguirli, perché la povertà è la strada più sicura per il pieno possesso del Regno di Dio.


IL DOVERE DI FAVORIRE I POPOLI BISOGNOSI

Accanto a questi propositi personali, ecco quelli che devono sorgere dalla coscienza delle nazioni, nel senso di responsabilità che tutte le coinvolge per il bene e per la pace del mondo: è il dovere indilazionabile di favorire i popoli bisognosi di maggiore sviluppo. E questo non con la violenza, ma con la mitezza del Vangelo; ma con la forza morale della giustizia; ma con la carica dirompente dell’amore.

Sia questo modernissimo programma l’impegno della Chiesa del tempo presente; sia l’impegno nostro di noi persone, di noi istituzioni, di noi popoli, affinché il Vangelo sia veramente annunziato a tutte le anime, e non trovi ostacoli nella ostinazione o nell’insensibilità di nessuno, specie di quanti portano il nome cristiano.

O San Giuseppe, Patrono della Chiesa; tu che, accanto al Verbo incarnato, lavorasti ogni giorno per guadagnare il pane, traendo da Lui la forza di vivere e di faticare; tu che hai provato l’ansia del domani, l’amarezza della povertà, la precarietà del lavoro: tu che irradii oggi, nel giorno della tua festa liturgica, l’esempio della tua figura, umile davanti agli uomini ma grandissima davanti a Dio: guarda alla immensa famiglia, che ti è affidata. Benedici la Chiesa, sospingendola sempre di più sulla via della fedeltà evangelica; proteggi i Lavoratori nella loro dura esistenza quotidiana, difendendoli dallo scoraggiamento, dalla rivolta negatrice, come dalle tentazioni dell’edonismo; prega per i Poveri, che continuano in terra la povertà di Cristo, suscitando per essi le continue provvidenze dei loro fratelli più dotati; e custodisci la Pace nel mondo, quella pace che sola può garantire lo sviluppo dei popoli, e in pieno compimento delle umane speranze: per il bene della umanità, per la missione della Chiesa, per la gloria della Trinità Santissima. Amen.





Domenica, 25 maggio 1969: CELEBRAZIONE DELLA PENTECOSTE

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Figli carisimi! voi oggi fra tutti, Sacerdoti novelli, fratelli concelebranti con Noi la santa Messa!

Figli carissimi! Alunni dei Nostri Collegi, dei Nostri Seminari e dei Nostri Istituti di preparazione e di formazione sacerdotale, in questa Roma, l’Urbe posta al centro dell’unità e della carità della Chiesa di Dio!

A voi tutti, provenienti da così diversi Paesi, che, qui riuniti acquistate titolo per rappresentare i vostri Popoli rispettivi, e dimostrate la loro vocazione alla comune salvezza, e quasi rievocando la scena di Gerusalemme assumete figura della cattolicità e dell’unità del nuovo Popolo di Dio.

A voi oggi la Nostra parola, come quella di Pietro nell’ora e nel giorno che noi in questo momento commemoriamo, anzi celebriamo, cioè riviviamo: l’ora e il giorno di Pentecoste. Oh! non è certamente questa umile parola come quella d’allora, nel vento e nel fuoco, simboli sensibili del mistero compiuto; e nemmeno con l’accento ispirato e potente (cfr.
1Co 2,4) dell’Apostolo, che primo e per la prima volta dischiuse allora le labbra incolte alla Parola profetica, ma nella semplicità affettuosa d’un discorso domestico, eco tuttavia paterna ed amica della medesima voce!


DUPLICE COMUNIONE

Figli, Fratelli, Fedeli ed Amici tutti! Esultiamo! Oggi è la festa nostra, la festa della Chiesa, la festa della continuazione dell’opera di Cristo, la festa della diffusione dell’economia messianica nel tempo e nel mondo, la festa del Corpo mistico di Cristo, a cui noi tutti abbiamo la somma fortuna di appartenere, la festa che celebra la duplice, ineffabile comunione; comunione con Cristo e comunione fra noi, la festa dello Spirito Santo. Si, esultiamo. Lasciamo questa volta che i nostri cuori siano invasi dall’entusiasmo e dall’ebbrezza della pace e del gaudio, che sono propri della nostra sorte di credenti e di viventi in virtù dell’animazione dello Spirito Santo! Dio volesse che noi ne avessimo oggi (e domani, ricordando questo giorno benedetto) qualche intima esperienza, qualche pienezza spirituale, qualche vibrazione di quella testimonianza interiore, che ci assicura della nostra figliolanza adottiva di Dio (cfr. Rm 8,16) e che così dentro ci parla da renderci abili a dare poi noi stessi testimonianza a Cristo (cfr. Jn 15,26-27).

Festa dello Spirito Santo, festa della Chiesa. Nel turbine gaudioso di pensieri, che la Pentecoste suscita in chi la ripensa e la rivive, fermiamo un istante le nostre menti su questi due aspetti del mistero beato. Il mistero è uno solo, come ora dicevamo; il mistero della permanenza di Gesù Cristo sulla terra, nell’umanità, nella storia, nella nostra realtà temporale, dopo ch’Egli è scomparso dalla scena di questo mondo, quando Egli, «dopo la sua passione, si fece vedere redivivo con prove manifeste della sua risurrezione» (Ac 1,3), e quindi «fu assunto» al cielo, «dopo aver dato per mezzo dello Spirito Santo i suoi ordini agli apostoli che egli aveva eletti», e aver loro annunciato: «Voi riceverete forza di Spirito Santo, quando verrà su di voi; e mi sarete testimoni in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e la Samaria, e fino alle estremità della terra» (Ac 1,2-8). Gesù assente, come aveva promesso, sarà presente mediante «un altro Paraclito (cioè un altro difensore), perché rimanga per sempre con voi, lo Spirito cioè della verità, che il mondo non può ricevere, perché non lo vede, né lo conosce, ma voi lo conoscerete, perché dimorerà in voi, e sarà in voi. Io non vi lascerò orfani . . .» (Jn 14,16-18).


VIVE IN ME CRISTO

Come dunque Gesù sarà, Lui in cielo, ancora presente con noi, in noi, qui in terra? Come compirà la sua missione redentrice? Come «edificherà», secondo la sua profetica promessa, «la sua Chiesa»? (cfr. Matth. Mt 16,18). Mediante l’effusione del suo Spirito. «Benché Gesù Cristo, dopo la risurrezione si è fatto invisibile ai nostri occhi, nondimeno sentiamo ch’Egli vive con noi; poiché sentiamo il suo respiro. Chiamo respiro di Gesù Cristo l’effusione dello Spirito Santo» (FORNARI, Vita di Gesù Cristo, III, 3).

Dove si estende questa vivificante effusione? Voi lo sapete: in due campi distinti, ma animati dal medesimo Spirito, operante in ciascuno di essi, in modi diversi, ma con uno scopo, la vita di Cristo, così che ad entrambi possa essere consentito appropriarsi della parola. di San Paolo: «Vivo non più io, ma vive in me Cristo» (Ga 2,10), (cfr. S. TROMP, De Spiritu Sancto anima Corporis mystici, I e II, 1948-1952).

Il primo campo è quello delle singole anime. Il primo campo è l’interiorità della nostra vita: il nostro essere spirituale. La nostra persona, che è il nostro io: in questa cella profonda e a noi stessi misteriosa della nostra esistenza, entra il soffio dello Spirito Santo; si diffonde nell’anima con quel primo e sommo carisma, che chiamiamo grazia, ch’è come,una vita nuova, e subito la abilita ad atti che superano la sua efficienza ‘naturale, cioè le conferisce virtù soprannaturali; si espande nella rete della psicologia umana con impulsi d’azione facile e forte, che chiamiamo doni, e la riempie di effetti spirituali stupendi, che chiamiamo frutti dello Spirito, primi fra questi il gaudio e la pace, di cui l’anima, abitata dalla grazia, ha ordinariamente una caratteristica esperienza (cfr. Ga 5,22 S. Th. I-II 10,3 ad 4). Cioè il nostro essere umano, corpo compreso, diventa dimora (cfr. Jn 14,23), tempio di Dio (cfr. 1Co 3,16-17 1Co 6,19 2Co 6,16). Quale discorso meriterebbe questo tema sul «discernimento dello Spirito P; quale studio su questa esperienza dello Spirito Santo nell’anima cristiana (cfr. MOURAUX, L’expérience chrétienne); ma già ne avete notizia dalla vostra scuola teologica, e forse ne avete qualche prova dalla vostra stessa vita religiosa e morale. Sarà terreno da esplorare e da coltivare lungo gli anni del vostro ministero, per vostra edificazione e per l’altrui; perché in questo capitolo della dottrina cattolica v’è il segreto, v’è la fonte del mistero vivente della presenza e dell’azione di Cristo in noi, appunto «per Spiritum Sanctum qui datus est nobis» (cfr. CONGAR, Myst. de l’Eglise, p, 134). Non diciamo di più. Ma questo, Fratelli e Figli carissimi, soprattutto vi raccomandiamo: che diate somma importanza alla realtà di questo mistero dello Spirito Santo, in noi dimorante, ispirante, vivificante, santificante: la nostra ultima salvezza dipende dal possesso personale di questo mistero, come il valore mistico effettivo e anche l’esercizio benefico e fecondo del nostro ministero (salva la sua intrinseca e autonoma efficacia sacramentale) deriva in non piccola misura da questa interiore sorgente: essere in stato di grazia. E come questo si raggiunga, come si conservi e si alimenti sempre pensate! Pensate al culto della coscienza pura (cfr. 2Tm 1,19 1P 3,16), al silenzio interiore che sa ascoltare «quid Spiritus dicat . . .» (cfr. Ap 2,7), alla vita interiore, allo sforzo contemplativo in una parola, proprio di chi, come oggi tanto si parla, vorrebbe essere guidato dallo Spirito e godere d’un’animazione carismatica.



IL SACERDOZIO MINISTERIALE

E qui il discorso porta ad accennare al secondo campo in cui si effonde la virtù della Pentecoste: negli Apostoli e nella comunità dei seguaci del Signore Gesù, cioè nel corpo visibile della Chiesa, che lo Spirito Santo converte in Corpo mistico di Cristo. Vengono alla mente le parole di Sant’Agostino: «De Spiritu Christi non vivit, nisi corpus Christi . . . Vis et tu vivere de Spiritu Christi? In corpore esto Christi . . . amemus unitatem, timeamus separationem. Nihil enim sic debet formidare christianus, quam separari a corpore Christi. Si enim separatur a corpore Christi, non est membrum eius; si non est membrum eius, non vegetatur Spiritu eius» (Tr. in Io. 26 e 27; P.L. 35, 1612-1613; 1618). Effusione che ha un suo perimetro ordinario e, per quanto riguarda noi credenti, circoscritto: l’istituzione ecclesiale. Certamente «Spiritus ubi vult spirat» (Jn 3,8); ma, nell’economia stabilita da Cristo, lo Spirito percorre il canale del ministero apostolico. «Dio ha creato la gerarchia - il sacerdozio ministeriale (cfr. Lumen gentium, LG 10) -, e così ha provveduto più che sufficientemente ai bisogni della Chiesa fino alla fine del mondo» (MOEHLER, Theol. Quartalsch. 1823; cit. da CONGAR, Myst. de l’Egl., 176).

Ed è a questo ministero apostolico che deve oggi rivolgersi la nostra considerazione, per ammirare il mistero della Pentecoste, per ammirarlo, in profonda umiltà e in magnificante beatitudine, in noi stessi, investiti, come siamo, di quella particolare virtù dello Spirito Santo, la quale ci dà la potestà di trasmetterlo ai fedeli nell’annuncio autorizzato e autorevole della Parola di Dio nella guida del Popolo cristiano e nella distribuzione dei sacramenti (cfr. 1Co 4,1), fonti appunto della grazia, cioè dell’azione santificante del Paraclito. Servizio più devoto non potrebbe essere, ma insieme potestà più alta non c’è.

Così è la Chiesa: gerarchica e comunitaria, apostolica e santa, una e cattolica.

È la festa della Chiesa; è la nostra; è la festa dello Spirito Santo; la festa di Dio-Amore. Invochiamolo. Benediciamolo. Viviamolo. Effondiamolo. Così sia.





Giovedì, 5 giugno 1969: SACRO RITO NEL GIORNO DEL «CORPUS DOMINI»

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Venerati Fratelli, Figli carissimi,

Il rito, che ci trova riuniti, in quest’ora del suggestivo vespero romano, è, come vedete, una celebrazione di culto solenne, esterno, pubblico, in onore dell’Eucaristia. È un dovere e un gaudio del Popolo cristiano; è una allegrezza di anime che guardano nella fede al Cristo; è un atto comunitario di amore a Lui, re e centro di tutti i cuori, Pastore che ci nutre con la sua Carne e il suo Sangue. La solennità del Corpus Domini è stata voluta dalla Chiesa proprio perché i suoi figli potessero esprimere la loro lode a Cristo con sonorità di voce, con pienezza di amore, con sobria giocondità di giubilo - sit laus plena, sit sonora, sit iucunda, sit decora: perché potessero manifestare anche esteriormente quella riconoscenza che nel Giovedì Santo, giorno commemorativo dell’istituzione dell’Eucaristia, si volgeva in mestizia, in contemplazione amorosa, in silenziosa partecipazione alla imminente Passione del Redentore, immergendosi allora nel raccoglimento, nella preghiera, nell’adorazione. Oggi, quella trattenuta piena di affetto prorompe in esultanza, si libera nel canto, si innalza dalle pubbliche vie, in tutte le città e contrade del mondo cattolico, per celebrare la carità di Cristo, che si è offerto sulla Croce per noi, e per noi ha dato se stesso, fino a lasciarci il suo Corpo e il suo Sangue, la rinnovazione del suo sacrificio, la sua presenza misteriosa e reale, il Pane della vita eterna, il memoriale della sua Passione, il pegno della risurrezione finale.


MISTERO DI FEDE

Siamo dunque chiamati a gioire esternamente; e lasciate che il Papa si compiaccia con voi, figli di Roma, con voi, abitanti di questa popolosa zona dell’Urbe, con voi, Autorità e rappresentanti delle Autorità, del Clero e delle Famiglie religiose, con voi, membri delle organizzazioni parrocchiali e interparrocchiali, delle associazioni di Azione Cattolica, di apostolato dei laici, dai piccoli della Prima Comunione ai giovani generosi, agli adulti di ogni età: con la vostra presenza voi Ci dite come questo gaudioso dovere del popolo cristiano verso l’Eucaristia sia così profondamente entrato nei vostri cuori, che è stato per voi spontaneo e logico venire qua a prestare il vostro pubblico tributo di amore a Cristo.

Questa cerimonia solenne obbliga altresì a una riflessione, a un ripensamento, a una presa di coscienza su questo Mistero di fede e di carità, Mysterium fidei, ripete il sacerdote nel momento più sacro della Messa: Mysterium fidei gli fa eco il popolo, acclamando. L’Eucaristia è di fatto mistero centrale: e dobbiamo perciò confermare e chiarire in noi stessi, in questa pur grandiosa, impressionante occasione, qualche buona, qualche grande, qualche tonificante idea sul Santissimo Sacramento.

Non certo che sia possibile, in brevi istanti, esaurirne il contenuto, del resto insondabile, alla cui penetrazione sempre più profonda ha contribuito, nei secoli, la sapienza dei Padri, il genio dei Teologi, la esperienza vissuta dei Santi. Ma vorremmo stasera attirare la vostra attenzione sul nome che la pietà cristiana dà all’Eucaristia. Come la chiamiamo di solito? La «Comunione». Sta bene, è vero. Ma Comunione con chi? E qui l’orizzonte si amplia, si dilata, si espande in un raggio senza confine. È una duplice comunione: con Cristo e tra di noi, che in Lui siamo e diventiamo fratelli.


«SIGNUM UNITATIS»

L’Eucaristia è anzitutto Comunione con Cristo, Dio da Dio, Luce da Luce, Amore da Amore, vivo, vero, sostanzialmente e sacramentalmente presente, Agnello immolato per la nostra salvezza, manna ristoratrice per la vita eterna, Amico, Fratello, Sposo, misteriosamente nascosto e abbassato sotto la semplicità delle apparenze, eppur glorioso nella sua vita di risorto, che vivifica comunicandoci i frutti del Mistero pasquale. Oh, non avremo mai meditato abbastanza sulla ricchezza, che ci apre questa intima comunione di fede, di amore, di volontà, di pensieri, di sentimenti, con Cristo Eucaristico. La mente si perde, perché ha difficoltà a capire, i sensi dubitano, perché si trovano dinanzi a realtà comuni e note: pane e vino, i due elementi più semplici del nostro cibo quotidiano. Eppure, proprio il «segno» con cui questa divina presenza ci si offre, ci indica come dobbiamo pensarla: il pane e il vino, queste specie tanto comuni, hanno valore di simbolo, di segno: Segno di che? Oh quant’è grande la potenza di Cristo, che anche qui, secondo il suo stile - che è lo stile di Betlem, di Nazareth, del Calvario - nasconde le più grandi realtà sotto le apparenze più umili, e, appunto per questo, a tutti accessibili: questo Sacramento è segno che Cristo vuol essere nostro cibo, nostro alimento, principio interiore di vita per ciascuno di noi, e a noi applica i frutti della sua incarnazione, con la quale - come bene ha detto il Concilio - «il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo» (Gaudium et spes,
GS 22). L’incarnazione si estende nel tempo, affinché ogni cristiano divenga davvero, come il tralcio alimentato dal ceppo della unica vite (Jn 15,1), il prolungamento di Cristo, e possa dire con l’Apostolo Paolo: «Non più io vivo, ma Cristo vive in me. La vita, che vivo nella carne, la vivo nella fede al Figlio di Dio, che ha amato me, e ha dato se stesso per me» (Ga 2,20). Egli si moltiplica per essere a disposizione di tutti, per essere di tutti: ignorato, forse; trascurato, forse; offeso, forse; ma vicino, ma presente, ma operante per chi crede, per chi spera, per chi ama!

Se l’Eucaristia è un grande mistero, che la mente non comprende, possiamo almeno capire l’amore, che vi risplende con una fiamma segreta, consumante. Possiamo riflettere all’intimità che Gesù vuol avere con ognuno di noi; è la sua promessa, sono le sue parole, quelle che la Liturgia ci ha ripetuto oggi: «Chi mangia la mia Carne e beve il mio Sangue, rimane in me e io in lui . . . Chi mangia me, anch’egli vivrà per me: vivet propter me» (Jn 6,56-57). Egli è il Pane di vita eterna, per noi pellegrini in questo mondo, che per suo mezzo siamo già trasportati e immessi dal flusso rapido del tempo alla sponda dell’eternità.

Comunione con Cristo, dunque, l’Eucaristia, come sacramento e come sacrificio: ma anche comunione tra di noi fratelli, con la comunità, con la Chiesa: ed è ancora la Rivelazione a dircelo, con le parole di Paolo: «Dal momento che vi è un solo pane, noi, che siamo molti, formiamo un solo corpo; poiché noi tutti partecipiamo di questo unico pane» (1Co 10,3). Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha messo profondamente in luce questa realtà, quando ha chiamato l’Eucaristia «convito di comunione fraterna» (Gaudium et spes, GS 38); quando ha detto che i cristiani, «cibandosi del corpo di Cristo nella santa Comunione, mostrano concretamente l’unità del Popolo di Dio, che da questo augustissimo sacramento è adeguatamente espressa e mirabilmente effettuata» (Lumen Gentium, LG 11).

E davvero, l’Eucaristia intende fondere in unità i credenti, i credenti che siamo noi, uniti a tutti i fratelli del mondo. È un’altra carità, questa: pur partendo da Cristo, essa dev’essere esercitata da noi. E la celebrazione dell’Eucaristia è sempre principio di unione, di carità, non solo nel sentimento, ma anche nella pratica: «Amatevi, come io vi ho amato» (Jn 15,12). È il «comandamento nuovo», quello che deve distinguere i figli della Chiesa: ed esso trova la ragione, lo slancio, la molla segreta nella Comunione, nella Messa, che è la celebrazione della comunità cristiana, l’alimento della carità. «In ogni comunità che partecipa all’altare - è ancora il Concilio a ripetercelo - . . . è offerto il simbolo di quella carità e unità del Corpo mistico, senza la quale non può esservi salvezza (S. THOM., Summ. Theol. III 73,3). In queste comunità, sebbene spesso piccole e povere, o disperse, è presente Cristo, per virtù del quale si raccoglie la Chiesa» (Lumen Gentium, LG 26).


PRODIGARCI PER GLI ALTRI

Perciò l’amore che parte dall’Eucaristia è un amore irradiante: ha un riflesso nella fusione dei cuori, nell’affetto, nell’unione, nel perdono; ci fa capire che bisogna spendersi per i bisogni altrui, per i piccoli, per i poveri, per i malati, per i prigionieri, per gli esuli, per i sofferenti. Questa carità guarda anche ai fratelli lontani, ai quali l’unità non ancora perfetta con la Chiesa cattolica non permette di assidersi alla stessa tavola con noi, e ci fa pregare che se ne affretti il momento. Questa «comunione» ha anche un riflesso sociale, perché spinge alla mutua solidarietà, alle opere di carità, alla comprensione reciproca, all’apostolato: sia nella Chiesa, «il cui bene comune spirituale è sostanzialmente contenuto nel sacramento dell’Eucaristia» (S. THOM., Summ. Theol. III 65,3 ad 1), sia tra di noi, che, comunicando insieme al Pane di vita, diventiamo «il Corpo di Cristo: non molti, ma un solo corpo», e così restiamo uniti vicendevolmente e con Cristo nel Sacramento (cfr. S. IOANN. CHRYSOSTOMUS, In 1 Cor., Hom. 24, 17; PG 61, 200) e operiamo il nostro bene, che è «l’affetto, l’amore fraterno, l’essere congiunti e legati insieme, in una vita che trascorre nella pace e nella mansuetudine» (ID., In ep ad Rom., 26, 17; PG 60, 638).

Fratelli e figli dilettissimi! L’insegnamento che ci viene dal Sacramento eucaristico ravvivi dunque nella Chiesa romana, capo e centro di tutte le Chiese, come in tutte le comunità del mondo, a cui oggi ci sentiamo più uniti nei vincoli della fede e dell’amore, queste convinzioni profonde: faccia ardere il nostro amore a Cristo, rinnovando davanti a Lui l’impegno di una testimonianza costante, generosa, che non scenda mai a compromessi con lo spirito del mondo corrotto e corruttore; e ci spinga ad amarci «come Lui ci ha amati», vivendo nella autentica carità del Vangelo, sentendo le necessità degli altri, per piangere con chi piange e gioire con chi gioisce, nel segno della partecipazione al suo Pane di vita.

Volete voi rispondere a questa richiesta che il Papa vi fa, stasera, in nome di Cristo? Noi ne siamo sicuri, per il progresso umano e sociale di questa nostra città, per il bene della società intera, per la difesa della famiglia, per la fedeltà alla Chiesa. E nel nome di Cristo vi benediciamo, abbracciando col segno della Croce le vostre famiglie, i vostri bambini, i vostri ammalati, le vostre case, il vostro lavoro; per fare di tutti voi, qui presenti, e di tutta la Chiesa, un’unica offerta di soave profumo a Dio, che Egli gradisca e ricambi con la pienezza dei suoi doni. Amen, Amen.





B. Paolo VI Omelie 10569