B. Paolo VI Omelie 10669

Martedì, 10 giugno 1969: SANTA MESSA AL PARCO DE LA GRANGE A GINEVRA

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Venerabili Fratelli,

Figli dilettissimi.

Quale consolazione, quale gioia per Noi potere incontrarvi, al termine di questa storica giornata, e unire le Nostre preghiere alla vostra, o fedeli membri della Chiesa Cattolica, o leali cittadini del vostro libero e nobile Paese, la Svizzera! Quale riposo, quale conforto, quale grazia per il Pastore pellegrino che Noi siamo! Quale pienezza sovrabbondante di sentimenti umani e spirituali riempie il Nostro cuore, al ricordo di altre visite - private e quasi furtive - che in anni ormai lontani Noi facemmo a questa terra amabile ed ospitale! Quante immagini di persone care e venerate, quanti luoghi meravigliosi ed accoglienti Ci ritornano alla memoria!

Ed ecco che la Svizzera Ci offre, ancora una volta, un istante di distensione e di riflessione. A voi tutti vada il Nostro ringraziamento e il Nostro saluto. A tutti e a ciascuno. Oltre i due Cardinali di questa Nazione, che abbiamo chiamati ad una più stretta collaborazione con Noi, vogliamo nominare esplicitamente il vostro Vescovo, Monsignor Francesco Charrière, Pastore di questa diocesi tripartita. A lui, come agli altri Vescovi svizzeri qui presenti, Noi vogliamo lasciare, come incoraggiamento e pegno di fecondo ministero in mezzo al loro popolo, la Nostra Benedizione Apostolica.

Ma celebrando ora i santi misteri, che operano fra noi la presenza reale e sacramentale del Corpo e del Sangue di Cristo e perpetuano il sacrificio della sua passione redentrice, Noi dobbiamo fare Nostra, secondo la vostra intenzione, una delle sue parole; come apostoli e testimoni del suo Vangelo, Noi dobbiamo farCi per un istante eco della sua voce. O Fratelli e Figli carissimi, non è la Nostra voce, ma è la sua, quella del Signore Gesù, che voi intendete, ascoltando questa parola eterna pronunziata da lui e che Noi ora vi indirizziamo.

«Beati i pacifici - coloro che procurano la pace (éirenopoioi) - poiché saranno chiamati figli di Dio».

Ci sembra che questo messaggio convenga al Nostro ministero, convenga alla vostra missione di cattolici e figli della Nazione elvetica, e convenga all’ora presente e futura della storia del mondo moderno.

Noi Ci siamo assai spesso adoperati - e ancor oggi lo facciamo - di affermare il rapporto essenziale che esiste tra la giustizia e la pace: questa deriva da quella. Ma qui possiamo stabilire un rapporto ancor più profondo e più operante, quello che esiste tra l’amore e la pace.

Due forze opposte, si può dire, muovono il mondo: l’amore e l’odio. Sono come il flusso e il riflusso che non cessano di agitare l’oceano dell’umanità. E il conflitto sembra allargarsi col tempo, opponendo non più città a città, o nazione a nazione, ma continente a continente.

A riguardo di Dio, la rivelazione evangelica del Dio d’amore ha trasformato la situazione spirituale dell’umanità. Bisogna ormai o dire di sì a un Dio, che è Amore e che ci domanda l’amore, nostro supremo amore : allora essa - l’umanità - è sollevata da una forza e da una speranza ancora sconosciute dalla storia del mondo. Ovvero bisogna rifiutare il Dio d’Amore, ed essa sarà sconvolta fin dalle sue fondamenta: verranno la tentazione dell’odio assoluto, della violenza assoluta, la follia delle guerre mondiali.

Giacche l’amore costruisce, ma l’odio distrugge. In certi momenti, per il fatto che libera forze fino allora convergenti - è ciò che si verifica nella disintegrazione dell’atomo - l’odio può apparire il più forte. Ma è un’illusione. L’odio e la violenza distruggono e si distruggono. Essi tendono al nulla. È l’amore che è forte e che è il più forte. I Santi hanno ciò compreso al seguito di Gesù. I Santi, in ciascun punto del tempo e dello spazio dove essi vivono, ci portano come un raggio particolare, staccato dalla infinita santità di Gesù. La vita di ciascuno di essi è per l’epoca in cui vivono come una realizzazione esistenziale e immediata di una delle beatitudini del Sermone della Montagna. La storia del vostro grande Santo nazionale è tipica a questo riguardo. San Nicola da Flüe ha vissuto per la sua epoca la beatitudine che Noi veniamo ricordando, la beatitudine di coloro dei quali il Signore ha detto: Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio.

La pace, secondo la celebre formula di Sant’Agostino, è definita «la tranquillità dell’ordine» (De Civ. Dei, 19, 11, 1).

Essa non è debolezza, ma una forza, una potenza; è un ordine dell’amore: «ordo amoris» , un’armonia suprema, una costante vittoria dell’amore sulle passioni e i desideri contrastanti che albergano nel cuore dell’uomo. La giustizia può preparare e condizionare la pace, ma da sola non può crearla; solo la forza unitiva, la vis unitiva dell’amore può creare la pace (S. Tommaso,
II-II 29,3, ad 3).

Il Dio d’Amore è un Dio di Pace, il «Deus pacis et dilectionis» , di cui parla S. Paolo ai Corinti (2Co 13,11).

I Santi, immergendosi nell’amore di Dio, si immergono nella pace di Dio, e, ritornando a noi, è la pace di Dio che essi ci portano. Essi sono dei pacificatori, dei realizzatori della pace divina in mezzo agli uomini; ancora una volta ascoltiamo il richiamo evangelico: Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio.

Nicola da Flüe, sotto il cui sguardo siamo qui riuniti, è stato un uomo di Dio, un pacificatore. Il messaggio segreto che, nella notte dal 21 al 22 dicembre 1481, Heini am Ranft andò a cercare nella piccola silenziosa celletta di Ranft, fu sufficiente per dissipare gli odi e spegnere la guerra civile (cfr. CH. JOURNET, Saint Nicolas de Flüe, Seuil, 1947, pp. 74-76).

Il vostro Santo credeva nella vittoria dello spirito della pace: «La pace - diceva egli - è sempre in Dio, perché Dio ? la Pace. E la pace non può essere distrutta, ma la discordia .si distrugge da se stessa». Come è lontano da coloro che dichiarano la guerra più feconda della pace, e che proclamano che l’odio è più nobile dell’amore (ibid.)!

Le ultime parole della Lettera di Nicola ai suoi concittadini sono commoventi: «Io non ho alcun. dubbio - egli dice - che voi siete dei buoni cristiani. Vi scrivo per avvertirvi affinché, se il cattivo spirito vi tentasse, voi ancor meglio gli resistiate, da cavalieri. Ecco tutto. Dio sia con voi» (ibid., p. 86).

Vedete come alle parole di Cristo fanno seguito quelle del vostro Santo, nel quale si riflette in maniera impressionante la figura ascetica e profetica del Signore Gesù, e nel quale, come è stato detto, «gli Svizzeri vedono il meglio di loro stessi» (ibid., p. 75).

Come sono pieni di luce e di mistero, questi riflessi! Come sono eloquenti, oggi ancora, queste risonanze che, attraverso le tumultuose esperienze della storia, arrivano alla nostra anima!

Cerchiamo di essere sensibili alle ispirazioni dello Spirito, ai segni dei tempi! Da uomini autentici e forti del nostro tempo, da cristiani desiderosi di essere discepoli fedeli del Divino Maestro, da cattolici viventi nel mistero di verità e di carità che ha la santa Chiesa di Dio, sforziamoci di essere - all’interno delle nostre anime, delle nostre famiglie e delle nostre relazioni sociali immediate, o entro un raggio più vasto del mondo dove ci abbia posti la Provvidenza - sforziamoci di essere generosi artefici della pace nella carità: e riceveremo la ricompensa della beatitudine evangelica, che vale per la vita presente e per la futura: noi saremo posti nel numero dei figli di Dio.

Così avvenga, con la Nostra Benedizione Apostolica.





Domenica, 22 giugno 1969: SOLENNE CANONIZZAZIONE DELLA BEATA GIULIA BILLIART, FONDATRICE DELLE SUORE DI NOSTRA SIGNORA DI NAMUR

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Signori Cardinali, venerati Fratelli,

carissimi Figli,

e voi, dilette Figlie in Cristo

oggi con Noi esultanti!

Che cosa abbiamo Noi ora compiuto? Noi abbiamo emesso una sentenza definitiva e solenne con la quale abbiamo inserito la Beata Giulia Billiart, Fondatrice della Congregazione delle Suore di Nostra Signora di Namur, nel catalogo dei Santi, dichiarandola degna cioè di culto che la Chiesa tributa ad uno dei suoi membri il quale abbia raggiunto la salvezza e sia fatto partecipe della gloria di Cristo.

Tre aspetti bisogna considerare a riguardo di questo atto, che impegna l’autorità docente della Chiesa. Il primo aspetto è l’avvertenza del riflesso di Cristo nell’anima che dichiariamo santa; noi scorgiamo in essa quella conformità all’immagine del Figlio di Dio, Gesù Cristo, la quale ci svela a riguardo di tale anima una prescienza e una predestinazione da parte di Dio, come c’insegna San Paolo: una vocazione dapprima, una giustificazione poi, cioè un’opera di santificazione, che alla fine ha portato quest’anima eletta alla glorificazione (cfr.
Rm 8,29-30). Una storia meravigliosa e misteriosa, che ha la sua origine nell’ineffabile e misericordioso pensiero di Dio, e la sua manifestazione nella vicenda biografica della Santa nel corso della sua vita temporale, che si conclude, oltre la morte terrena, nella pienezza della vita eterna. Noi non creiamo, non conferiamo la santità; la riconosciamo, la proclamiamo. La Nostra prima intenzione è dunque rivolta a Dio, autore d’ogni grazia e d’ogni gloria; a Cristo, il solo Santo, il solo Signore. Così che è ben concepita la formola della canonizzazione ora proclamata: «Ad honorem Sanctae et Individuae Trinitatis». È l’onore di Dio, che professiamo esaltando la santità di una creatura umana; è l’irradiazione di Cristo, che identifichiamo in essa; è l’unica luce del nostro mondo religioso, che noi celebriamo, presentando alla venerazione della Chiesa una vita in cui quella luce si ripercuote e risplende. Così è nell’ordine fisico: la luce rimane invisibile, finché non incontra un oggetto, e su di esso si ferma e così lo illumina, lo rende visibile, e fa visibile se stessa, la luce. Soccorrono alla memoria i versi famosi: «Come la luce rapida, piove di cosa in cosa, e i color vari suscita dovunque si riposa...» (MANZONI, La Pentecoste). Perciò nessuno pensi che onorando i Santi la Chiesa cattolica detragga qualche cosa all’onore dovuto a Dio solo e a Cristo, «che è l’immagine dell’invisibile Iddio» (Col 1,15 2Co 4,4); nessuno dica superstizione il culto dei Santi, quando in essi la Chiesa ricerca e celebra la fonte della santità.

E questo è il secondo aspetto dell’atto testé compiuto, e cioè l’autenticità della qualifica attribuita a Giulia Billiart: è santa, diciamo. E questo conferimento del titolo più alto, che possa essere attribuito ad una creatura umana, che cosa significa? Che cosa è la santità? Oh! quale lunga, splendida e interessante riflessione si .potrebbe svolgere a questo riguardo! Quale teologia e quale psicologia! Perché il concetto di santità è uno di quelli più diffusi e più comuni sia nel linguaggio religioso che profano, da non potersi facilmente definire. Dovremo ricorrere ai suoi sinonimi per darne qualche definizione. Santità significa perfezione; e nel suo grado sommo ed assoluto, questa non si trova che in Dio. Dio è la perfezione, Dio è la santità. Nei suoi gradi relativi ad esseri limitati, quali noi siamo, dovremo dire che la santità è la perfezione dell’uomo in ordine a Dio; la religione, vitalmente professata con piena fedeltà, è la santità (cfr. S. Th. II-II 81,8). E sappiamo che questa perfezione religiosa è innanzi tutto la carità: carità che da Dio discende, e ci è comunicata; è la grazia, la prima, la vera, l’indispensabile perfezione; la santità è a noi conferita in via ordinaria mediante un’azione sacramentale, o mediante l’effusione di divini carismi, la carità cioè emanante dallo Spirito Santo diffuso nei nostri cuori (Rm 5,5). Ed è poi carità che sale a Dio, è la risposta dell’amore umano all’Amore di Dio, è la santità morale, quella che ammiriamo nella pratica delle virtù cristiane, animate dalla carità, dall’amore, in cui si assomma tutta la legge morale (cfr. Matth. Mt 22,40), ed esercitate in un grado di singolare purezza e fermezza, in grado eroico, diciamo nel linguaggio canonico. La santità è perciò un dramma di amore, fra Dio e l’anima umana; un dramma in cui il vero protagonista è Dio stesso, operante e cooperante (cfr. S. Th. I-II 111,2); nessuna storia è più interessante, più ricca, più profonda, più sorprendente di questo dramma; dovremmo esserne curiosi e ammiratori, come lo erano i cristiani d’una volta, sapientemente attratti dall’incanto del singolare fenomeno, che lascia intravedere qualche cosa della prodigiosa azione di Dio in una vita umana privilegiata, e fa ammirare questa stessa vita nella esplicazione delle più segrete e più belle virtualità della nostra natura animata da forze soprannaturali. Questa è l’agiografia: lo studio della santità. Il quale studio degnissimo ha spesso rivolto il suo sguardo appassionato agli aspetti miracolosi della santità; e se ne è tanto invaghito da fermare all’osservazione dei miracoli la sua attenzione, quasi facendo un’equazione fra santità e miracolo, a tal punto da concedere talvolta in altri tempi alla devozione verso la santità la licenza d’ornarla di miracoli immaginari e di leggende stupefacenti, non forse con l’intenzione di recare offesa alla verità storica, ma in omaggio gratuito e convenzionale, floreale e poetico, potremmo dire, alla santità stessa, e in edificante divertimento alle anime pie e al popolo religioso (cfr. H. DELEHAYE, Cinq Leçns sur la méthode agiographique, ch. II). Ora non più così. Il miracolo resta la prova, un segno della santità; ma non ne costituisce l’essenza. Ora lo studio della santità è piuttosto rivolto alla verifica storica dei fatti e dei documenti che la attestano, e all’esplorazione della psicologia della santità e sia l’uno che l’altro sentiero conducono a campi sconfinati di interessantissime osservazioni; questo secondo specialmente, quello propriamente agiografico, merita tutto il nostro interesse, di noi moderni in modo particolare, abituati come siamo dalla psicanalisi moderna a scoprire e ad agitare il torbido fondo dello spirito umano, mentre potremmo e dovremmo nello studio delle anime sante scorgere con maggiore acutezza e con maggiore godimento «quale splendida cosa sia l’umanità» («how heauteous mankind is»: cfr. BREMOND, Histoire, I, p. ).

Perché non riprendiamo a scrivere e a leggere, come oggi si deve, le «vite dei Santi»? Analoghe osservazioni si potrebbero far circa un altro aspetto, oggi studiato di preferenza nelle manifestazioni della santità: quello comunitario, quello sociale, quello cioè riguardante l’influsso benefico che un Santo diffonde intorno a sé e che subito anticipa nell’opinione di chi l’abbia conosciuto una specie di canonizzazione, la «fama sanctitatis». Anche questo aspetto è evidente nella Santa nostra, alla quale la Chiesa oggi riconosce il buon diritto d’essere chiamata tale.

E fatta questa scoperta, che la canonizzazione annuncia, non descrive, un terzo aspetto Ci resta da indicare di questo atto solenne, la relazione cioè che la nuova Santa assume nella vita ecclesiale nella «comunione dei Santi», ch’è appunto la Chiesa stessa (cfr. PIOLANTI, Il mistero della Comunione dei Santi); e la relazione è anch’essa triplice: il culto, l’intercessione e l’imitazione. Non ne di. remo alcuna cosa in questo troppo breve momento; ma invitiamo chiunque partecipi al gaudio di questa celebrazione di sperimentare da sé questi tre modi, in cui si concreta il rapporto nostro con l’anima eletta, che è presentata alla Chiesa come santa: il culto non solo è reso lecito e universale, ma è raccomandato: dobbiamo riconoscere e onorare Dio nelle sue opere; quale opera più bella e più grande d’un’anima santa? L’intercessione è ammissibile: non sono i Santi i nostri fratelli, i nostri amici, i nostri protettori? Non rimane forse un vincolo, più che mai operante, fra la Chiesa gloriosa in cielo e la Chiesa pellegrina sulla terra? Non esiste fra quella e questa una circolazione della carità che fa salire ai Santi, interpreti nostri presso la divina Bontà, la nostra invocazione e fa discendere da quella i suoi favori? La imitazione infine: che varrebbe celebrare i Santi se non cercassimo di seguirne gli esempi? Non sono essi che ci confortano ad osare grandi case, mostrando in se stessi la possibilità della pratica effettiva delle virtù cristiane? «Si isti et istae, cur non ego?», se questi e queste hanno potuto, perché anch’io non potro? (cfr. S. AGOSTINO, Conf. IX, c. 27).

Nous devrions maintenant commencer le panégyrique de la nouvelle Sainte, c’est-à-dire l’histoire de sa vie, étudiée dans sa signification profonde, aussi bien dans son cadre historique, - celui de la révolution française et de l’époque napoléonienne -, que dans son cadre biographique, avec ses composantes physiques, spirituelles et ascétiques, et dans son cadre social et ecclésial. Celui-ci nous montre les origines de la Congrégation des Soeurs de Notre Dame de Namur, et aussi des Soeurs de Notre Dame d’Amersfoort et de celles de Coesfeld, qui en émanent: très dignes familles religieuses, désormais répandues dans le monde entier, pour l’honneur et le réconfort de l’Eglise de Dieu et du monde.

Nul doute que l’élévation de leur Fondatrice aux honneurs des autels offrira à toutes les filles de cette sainte Mère, comme à tant de dévots de Julie Billiart et à toute l’Eglise, l’occasion de reprendre l’histoire humble et grande de sa vie. Tous voudront méditer les différents aspects de sa biographie, dont chacun laisse transparaître une splendeur de grâce et un exemple de vertu chrétienne: l’humilité, la pureté, la patience, la douceur, l’intériorité dans l’agir, et toujours, d’une manière quasi connaturelle, l’aspiration à l’apostolat, l’amour de l’Eglise au milieu de tant d’épreuves et d’amertumes, l’assiduité dans la prière, la dévotion à la Vierge, l’art de se faire aimer et obéir, le talent d’organisatrice, etc. Vous qui êtes ses filles dans le Christ, vous connaissez l’histoire simple et admirable de votre Sainte, et sous la pénombre de ses événements bien communs, vous savez découvrir cette lumière évangélique qui la rend si proche de notre sympathie, et nous fait écouter avec tant de joie son affable conversation aussi, modeste que sage, avec, pour conclusion, cette exclamation qui la caractérise toute entière: «Comme est bon le bon Dieu!».

Si, au milieu de tant de rayons de sainteté qui font couronne à la nouvelle Sainte, nous devions en choisir un comme digne de se projeter sur vos familles religieuses pour en qualifier pour toujours l’esprit et le programme, nous arrêterions notre regard sur celui qui définit le but de sa fondation, et qui semble lui avoir été congénital dès les premières années de sa vie: l’instruction religieuse et l’éducation chrétienne des jeunes filles, spécialement des pauvres. Cette activité qui, chez la Sainte, s’exprime sous des formes d’abord très humbles, et par la suite toujours mieux préparées et développées, se greffe sur la grande et essentielle vocation de l’Eglise, celle même du Christ: «Evangéliser les pauvres» (Lc 4,18). Cette vocation conserve encore au milieu des transformations sociales et du progrès culturel de notre temps son actualité intacte, peut-être accrue, mais non pas diminuée par la diffusion de l’instruction publique. Car l’homme grandit peu à peu dans la civilisation moderne, et sa capacité réceptive s’accroît, mais souvent aussi son indigence de Dieu, du Christ, et de l’Eglise, dont la doctrine pourtant peut apporter ce complément de sagesse supérieure, qui seule illumine la vie et la sauve.

Et si aujourd’hui tant d’errements idéologiques troublent la société des hommes, si tant de doctrines erronées ou incomplètes apportent la confusion dans notre culture, et si même au milieu du peuple chrétien les notions religieuses sont souvent si rares, désordonnées et arbitraires, et manquent souvent de certitude claire et ferme, vous, du moins, continuez votre sage mission d’enseigner la foi authentique du Christ, celle que l’Eglise catholique enseigne et défend; faites goûter aux jeunes les richesses de la vérité religieuse; montrez-leur comment la foi, dans son mystère même, contient la lumière, et comment son intégrité objective possède, comme innée, la vertu de s’appliquer aussi à la vie moderne et de la couronner. Grande mission en vérité! Que sainte Julie vous aide à la remplir fidèlement et vaillamment; avec notre Bénédiction apostolique.




Domenica, 29 giugno 1969: SOLENNITÀ DEI SANTISSIMI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

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Fratelli e Figli, tutti in Cristo carissimi!

Noi faremo di questa nostra celebrazione della festa di San Pietro una preghiera, una preghiera principalmente per questa sua e nostra Chiesa romana, e poi per tutta la Chiesa cattolica, e per i Fratelli cristiani, con cui desideriamo avere un giorno perfetta comunione, e per l’intera umanità, alla quale Il Vangelo, mediante la predicazione apostolica, è destinato (cfr. Marc.
Mc 16,15).

Potremmo, anzi dovremmo fare dapprima una meditazione, di capitale importanza nel disegno della nostra fede: dovremmo ricordare ciò che il Vangelo e altri libri del nuovo Testamento ci narrano di lui, Simone, figlio di Jona e fratello di Andrea, il pescatore di Galilea, discepolo di Giovanni il Precursore, chiamato da Gesù con un nuovo nome, Cefa, che significa Pietro (Jn 1,42 Mt 16,18); e ricordare la missione, simboleggiata dalle figure di pescatore (Lc 5,10) e di pastore (Jn 21,15, ss.), affidata a lui da Cristo, che, con gli altri undici e primo di essi, fece del discepolo l’apostolo (Lc 6,13); e ricordare poi la funzione, che questo uomo, umile (Lc 5,8), docile e modesto (cf. Jn 13,9 1P 5,1), debole anche (Mt 14,30), ed incostante e pauroso perfino (Mt 26,40-45 Mt 26,69 ss.; Ga 2,11), ma pieno d’entusiasmo e di fervore (Mt 26,33 Mc 14,47), di fede (Jn 6,68 Mt 16,17), e di amore (Lc 22,62 Jn 21,15 ss.), subito esercitò nella nascente comunità cristiana (cfr. Ac 1-12), di centro, di maestro, di capo. Così dovremmo riandare la storia del suo ministero (cfr. Vangelo di S. Marco e Lettere di S. Pietro) e del suo martirio, e poi della successione nel suo pontificato gerarchico, e finalmente lo sviluppo storico della sua missione nella Chiesa, e la riflessione teologica, che ne risultò, fino ai due ultimi Concili ecumenici, Vaticano I e Vaticano II. Avremmo di che pensare e riflettere non più sul passato, ma sul presente, sulle condizioni odierne della Chiesa e del cristianesimo, e sull’istanza religiosa, ecclesiale ed ecumenica, con cui questo Pietro, messo da Cristo a fondamento del suo edificio della salvezza, della sua Chiesa, quasi tormentandoci e guidandoci ed esaltandoci, ancor oggi batte alla nostra porta (cfr. Ac 12,13).

Ma preferiamo supporre tutti questi ricordi e questi pensieri già presenti e fermentanti nelle nostre anime; essi ci hanno qua condotti, qua ci riempiono i cuori d’altri sentimenti, propri di noi tutti che qui siamo per onorare l’Apostolo, che fra tutti ci assicura della nostra comunione con Cristo, e che, per quelle Chiavi benedette, le Chiavi, nientemeno, che del Regno dei Cieli, a lui poste in mano dal Signore, ci ispira tanto semplice, filiale e devota confidenza. Più che pensare, in questo momento, desideriamo pregare. Desideriamo parlargli. Ci conforta ad assumere questo atteggiamento di umile e fiduciosa pietà la tradizione dei secoli, che fin dai primi albori del cristianesimo, e poi ai tempi successivi, registrò commoventi segni della devozione alla tomba dell’Apostolo, con iscrizioni sepolcrali, con graffiti di visitatori, con offerte di pellegrini e con riferimenti alle condizioni civili e politiche (cfr. ad es. HALLER, Die Quellen . . . n. 10, p. 95 ss.). La spiritualità locale romana è tutta imbevuta d’un culto di predilezione ai Santi Apostoli Pietro e Paolo, al primo specialmente; la nostra non dovrebbe esserlo da meno. Per di più, proprio in questi ultimi anni, gli scavi e gli studi archeologici, compiuti sotto l’altare della Confessione in questa stessa Basilica, hanno portato le ricerche a rintracciare non solo la tomba dell’Apostolo Pietro (cfr. PIO XII, Discorsi, XII, p. 380), ma, secondo gli ultimi studi, le reliquie altresì (cfr. GUARDUCCI, La tomba di Pietro, 1959; Le Reliquie di Pietro, 1965). Questo luogo, questa basilica trovano in questi fatti la loro superlativa storicità e la ragione della loro eccezionale e monumentale sacralità: dovrebbe la nostra presenza trovarvi la fonte e lo stimolo ad una viva e speciale riverenza, ad una singolare commozione religiosa. Pietro è qui! (Pétros ëni), come si ritiene che ci assicuri il famoso graffito sull’intonaco del così detto «muro rosso».



IL PRIMATO DELLA FEDELTÀ

Se Pietro è qui, anche con i resti del suo sepolcro e delle reliquie del suo corpo benedetto, oltre che con il centro della sua evangelica potestà e della sua apostolica successione, lasciamo, Figli carissimi, che l’istintivo desiderio di parlargli, di pregarlo, sgorghi in semplice ed umile invocazione dai nostri cuori. Pietro è qui. È la sua festa, la memoria del suo martirio, che, in segno di supremo amore e di suprema testimonianza, Cristo stesso gli aveva preannunciato (Jn 21,18). È qui: che cosa gli chiederemo?

Noi cattolici, noi romani specialmente, gli chiederemo ciò ch’è proprio del suo particolare carisma apostolico, la fermezza, la solidità, la perennità, la capacità di resistere all’usura del tempo e alla pressione degli avvenimenti, la forza di essere nella diversità delle situazioni sempre sostanzialmente eguali a noi stessi, di vivere e di sopravvivere, sicuri d’un Vangelo iniziale, d’una coerenza attuale, di una meta escatologica. La fede, voi direte. Sì dobbiamo domandare a Pietro la fede, quella che da lui e dagli Apostoli ci deriva, quella che lo scorso anno abbiamo, in questa stessa ricorrenza, apertamente professata, quella di tutta la Chiesa. Sì, la fede: che saremmo noi, cattolici di Roma, senza la fede, la vera fede? Ma a noi è richiesto qualche cosa di più, se vogliamo essere i più vicini e i più esemplari cultori di San Pietro; è richiesta la fedeltà. La fede è di tutto il Popolo di Dio; ed anche la fedeltà; ma tocca principalmente a noi dare prova di fedeltà. «Siate forti nella fede», ci ammonisce San Pietro stesso, nella sua prima lettera apostolica: «Resistite fortes in fide» (1P 5,9). Cioè non potremmo dirci discepoli e seguaci e eredi e successori di San Pietro, se la nostra adesione al messaggio salvifico della rivelazione cristiana non avesse quella fermezza interiore, quella coerenza esteriore, che ne fa un vero e pratico principio di vita. Roma deve avere anche questo primato: quello, ripetiamo, della fedeltà, che traduce la fede nella sua vita, nella sua arte, un’arte di santità, di dare alla fede un’espressione costante e coerente, uno stile d’autenticità cristiana. E questa fedeltà, mentre nel cuore la promettiamo, oggi nella nostra orazione a S. Pietro la domandiamo, a lui, che come uomo ne sperimentò la difficoltà e la contraddizione, ma, come capo degli Apostoli, e di quanti gli sarebbero stati associati nella fede, ebbe da Cristo l’incomparabile favore della preghiera da Lui stesso assicurata proprio per la resistenza nella fede: «Ut non defìciat fides tua»; e insieme ebbe l’infallibile mandato di confermare, dopo l’ora della debolezza, i suoi fratelli: «Confirma fratres tuos» (cfr. Lc 22,31-32).


MISSIONE PASTORALE

E noi vorremmo che questa fedeltà fosse da noi considerata non soltanto nella sua immobile adesione alla verità, da noi ricevuta da Cristo ed evoluta e fissata nel magistero della Chiesa, convalidato da Pietro, ma nella sua intrinseca capacità diffusiva ed apostolica; una fedeltà cioè non così statica ed immobile nel suo linguaggio storico e sociale da precludere la comunicazione agli altri, e agli altri l’accessibilità; ma una fedeltà che trovi nella genuinità del contenuto sia la sua intima spinta evangelizzatrice (cfr. 1Co 9,16, «Guai a me, scrive San Paolo, se non predicassi il Vangelo»), sia la sua autorità per essere dagli altri accettata (cfr. Ga 1,8, «Anche se noi stessi - scrive ancora S. Paolo - o un angelo del cielo venisse ad annunziarvi un altro vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunziato noi, sia egli anatema»), e sia il carisma dello Spirito Santo che accompagna la voce del Vangelo (cfr. Jn 15,20).

E chiederemo a S. Pietro un’altra fedeltà, anche questa superlativamente sua, quella dell’amore a Cristo, che si effonde in concreto e generoso servizio pastorale (cfr. Jn 21,15 ss.). Abbiamo noi a Roma, proprio per la missione di Pietro qui stabilita e da qui irradiata, grandi doveri, maggiori doveri di quanti ne abbia qualsiasi altra Chiesa.



SERVIRE PER AMORE

Bisogna servire per amore. Questa è la grande legge del servizio, della funzionalità, dell’autorità della Chiesa. Ed è la legge, che noi siamo felici di vedere praticata, con tanta generosità e assiduità, nel cerchio romano, e diffuso nel mondo, dei collaboratori che sorreggono ed eseguiscono il nostro ministero apostolico.

Ma non sarà mai vano per noi, che vi parliamo, né per voi, che ci ascoltate, rinnovare cento volte il proposito di adempiere in perfezione questa legge di amore evangelico; e non sarà inutile perciò che anche di questa fedeltà, di questo carisma supremo della carità, noi facciamo oggi preghiera all’Apostolo, che sull’invito e sul favore di Cristo, ebbe l’audacia di rispondere che sì, alla domanda di Gesù se egli lo amava di più degli altri. Lo amava di più! Aveva il primato dell’amore a Cristo, e perciò quello pastorale verso il suo gregge.

O San Pietro! ottieni anche a noi di essere forti nella fede e di amare di più. Fa’ che questa tua Roma, in codesti doni si affermi ed anche a beneficio, ad esempio dei fratelli che sono nel mondo essa si distingua.

O Santi Pietro e Paolo («ipse consors sanguinis et diei» S. AG., Serm. 296; P.L. 38, 1354) «in mente habete»! Ricordatevi di noi! Così sia!






Kampala (Uganda), 31 luglio 1969: CELEBRAZIONE EUCARISTICA A CONCLUSIONE DEL SYMPOSIUM DEI VESCOVI DELL'AFRICA

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Signori Cardinali!

Venerati Fratelli!

Fedeli carissimi,

e voi Figli dell’Africa qui presenti!

A voi tutti il Nostro riverente e affettuoso saluto!

Il Nostro saluto di Fratello, di Padre, di Amico, di Servo, ed ora di ospite vostro! A voi il Nostro saluto di Vescovo di Roma, di Successore di San Pietro, di Vicario di Cristo, di Pontefice della Chiesa cattolica, il quale ha la fortuna di essere finalmente, e per primo Papa, in questa terra Africana. Nel Nostro saluto vi è quello di tutta la fraternità cattolica; Noi possiamo dire, con San Paolo: «Vi salutano tutte le Chiese di Cristo» (
Rm 16,16)!

Ed accogliete questo saluto voi, Signori Cardinali di questo continente. Noi siamo lieti ed onorati di avervi membri del Sacro Collegio, Nostri personali consiglieri e collaboratori, autorevoli rappresentanti della Chiesa africana nei dicasteri della Sede Apostolica. Grazie del segno della vostra adesione, che Ci date con la vostra presenza. E grazie a voi, Fratelli carissimi nell’Episcopato ! Sappiamo le vostre fatiche pastorali e i vostri meriti! Tutti vi abbracciamo e vi benediciamo! E ai Sacerdoti, ai Religiosi, alle Religiose, ai Catechisti, ai Maestri, a tutti i cooperatori del Laicato Cattolico, a tutti i Fedeli: grazie e voti e benedizioni.

Due sentimenti riempiono in questo momento il Nostro cuore. Un sentimento di comunione! Noi ringraziamo il Signore, che Ce ne concede l’ineffabile esperienza. Dobbiamo dirvi che nel desiderio di questa esperienza spirituale Noi abbiamo intrapreso questo viaggio: per essere con voi, per godere della comune fede e della comune carità, che ci uniscono, per affermare, anche sensibilmente, che siamo un’unica famiglia, nel corpo mistico di Cristo, la sua Chiesa! Noi dobbiamo dirvi che siamo felici di ripetere qui le parole dell’Apostolo delle genti: noi siamo «un solo corpo ed un solo Spirito . . . . chiamati a una sola speranza . . . Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti . . .» (Ep 4,4-6). Se questo sentimento di comunione sarà anche in voi, come Noi speriamo, e se esso sarà il ricordo di questo nostro incontro, Noi potremo dire che il Nostro viaggio avrà già ottenuto un grande effetto soddisfacente.

Un altro sentimento, Fratelli e Figli, è ora nel Nostro cuore: quello di profondo rispetto per le vostre persone, per la vostra terra, per la vostra cultura. Siamo pieni di ammirazione e di devozione per i vostri Martiri, che Noi siamo venuti ad onorare e ad invocare. Non abbiamo altro desiderio che di promuovere ciò che voi siete: cristiani ed africani. Noi vogliamo che la Nostra presenza fra voi abbia il significato del Nostro riconoscimento della vostra maturità e del Nostro desiderio di dimostrarvi come la comunione, che ci unisce, non soffoca,, ma alimenta l’originalità della vostra personalità individuale, ecclesiale ed anche civile. Noi chiediamo al Signore la grazia di giovare al vostro incremento, svegliando i germi buoni e suscitando le energie umane e cristiane, che sono nel genio della vostra vocazione alla pienezza spirituale e temporale. Non i Nostri, ma i vostri interessi sono oggetto del Nostro ministero apostolico.

Questo pensiero Ci consente di dare un brevissimo sguardo riassuntivo alle questioni caratteristiche della Chiesa Africana. Noi sappiamo che molte di queste questioni sono state trattate da voi, Vescovi di questo Continente; e a loro riguardo a Noi non resta che di apprezzare il vostro studio e di incoraggiare il vostro zelo: abbiate idee chiare e concordi; e andate avanti metodicamente e coraggiosamente, con la coscienza d’un grande mandato: costruire la Chiesa!

Noi Ci limitiamo ora ad accennare ad alcuni aspetti generali della vita cattolica africana in questo momento storico.

Il primo aspetto Ci sembra questo: voi Africani siete oramai i missionari di voi stessi. La Chiesa di Cristo è davvero piantata in questa terra benedetta (cfr. Decr. Ad gentes, AGD 6). Un dovere dobbiamo noi compiere: noi dobbiamo ricordare coloro che hanno in Africa prima di voi, ed ancora oggi con voi, predicato il Vangelo, come ci ammonisce la Sacra Scrittura: «Ricordatevi dei vostri predecessori, che vi hanno annunciato la parola di Dio, e considerando la fine della loro vita, imitate la loro fede» (He 13,7). È una storia che non dobbiamo dimenticare; essa conferisce alla Chiesa locale la nota della sua autenticità e della sua nobiltà; la nota «apostolica P; essa è un dramma di carità, di eroismo, di sacrificio, che fa grande e santa, fin dall’origine, la Chiesa africana; è una storia, che ancora dura e deve durare per lungo tempo, anche se voi Africani ne prendete ora la direzione. L’aiuto di collaboratori, provenienti da altre Chiese, vi è oggi tuttora necessario: abbiatelo caro, onoratelo e sappiate unirlo alla vostra opera pastorale.

Missionari di voi stessi: cioè voi Africani dovete proseguire la costruzione della Chiesa in questo Continente. Le due grandi forze (oh! quanto differenti e disuguali!), stabilite da Cristo per edificare la sua Chiesa, devono essere all’opera insieme (cfr. Ad Gentes, AGD 4) con grande intensità: la gerarchia (e intendiamo con questo nome tutta la struttura sociale, e canonica, responsabile, umana, visibile della Chiesa: i Vescovi in prima linea), e lo Spirito Santo (cioè la grazia, con i suoi carismi: cfr. CONGAR, Esquisses du mystère de l'Eglise, p. 129 ss.) devono essere all’opera in forma dinamica, come appunto si conviene ad una Chiesa giovane, chiamata ad offrirsi ad una cultura aperta al Vangelo, com’è la vostra africana. All’impulso, che veniva alla fede dell’azione missionaria da Paesi stranieri, deve unirsi e succedere l’impulso nascente dall’interno dell’Africa. La Chiesa, per natura sua, rimane sempre missionaria. Ma non più un giorno chiameremo «missionario» in senso tecnico il vostro apostolato, ma nativo, indigeno, vostro.

Un lavoro immenso si prepara alle vostre fatiche pastorali; quello specialmente della formazione dei cristiani, chiamati all’apostolato: il Clero, i Religiosi, le Religiose, i Catechisti, i Laici attivi. Dipenderà dalla preparazione di questi elementi locali, scelti ed operanti del Popolo di Dio, la vitalità, lo sviluppo, l’avvenire della Chiesa Africana. È chiaro. Questo è il piano scelto da Cristo: i fratelli devono salvare i fratelli; ma per compiere questa impresa evangelica che fratelli qualificati siano i ministri, i servitori, i diffusori della parola, della grazia, della carità in favore degli altri fratelli, chiamati poi loro stessi a cooperare all’opera comune di edificare la Chiesa. Voi sapete tutto questo. Noi non dobbiamo fare altro che incoraggiare e benedire i vostri propositi.

Una questione molto viva e discussa si presenta alla vostra opera evangelizzatrice, quella dell’adattamento del Vangelo, della Chiesa alla cultura africana. La Chiesa deve essere europea, latina, orientale . . . . ovvero dev’essere africana? Sembra problema difficile, ed in pratica lo può essere davvero. Ma la soluzione è pronta, con due risposte: la vostra Chiesa dev’essere innanzitutto cattolica. Cioè deve essere tutta fondata sul patrimonio identico, essenziale, costituzionale della medesima dottrina di Cristo e professata dalla tradizione autentica e autorevole dell’unica e vera Chiesa. Questa è una esigenza fondamentale e indiscutibile. Tutti dobbiamo essere gelosi e fieri di quella fede, di cui gli Apostoli furono gli araldi, i Martiri, cioé i testimoni, furono gli assertori, i Missionari, cioè furono scrupolosi maestri. Voi sapete come la Chiesa sia soprattutto tenace, diciamo pure conservatrice. a questo riguardo. Per impedire che il messaggio della dottrina rivelata possa alterarsi la Chiesa ha fissato perfino in alcune formole concettuali e verbali il suo tesoro di verità; ed anche se queste formole sono alcune volte difficili, essa ci fa obbligo di conservarle testualmente. Non siamo noi gli inventori della nostra fede; noi siamo i custodi. Non ogni religiosità è buona, ma solo quella che interpreta il pensiero di Dio, secondo l’insegnamento del magistero apostolico, stabilito dall’unico Maestro, Gesù Cristo.

Ma, data questa prima risposta, viene la seconda: l’espressione, cioè il linguaggio, il modo di manifestare l’unica fede può essere molteplice e perciò originale e conforme alla lingua, allo stile, all’indole, al genio, alla cultura di chi professa quella unica fede. Sotto questo aspetto un pluralismo è legittimo, anzi auspicabile. Un adattamento della vita cristiana nel campo pastorale, rituale, didattico e anche spirituale non solo è possibile, ma è favorito dalla Chiesa. La riforma liturgica, ad esempio, lo dice. In questo senso voi potete e dovete avere un cristianesimo africano. Anzi voi avete valori umani e forme caratteristiche di cultura, che possono assurgere ad una loro perfezione idonea a trovare nel cristianesimo e per il cristianesimo una genuina e superiore pienezza, e quindi capace di avere una ricchezza d’espressione sua propria, veramente africana. Occorrerà forse del tempo. Occorrerà che la vostra anima africana sia imbevuta profondamente dei segreti carismi del cristianesimo, afinché poi questi si effondano liberamente, in bellezza e in sapienza, alla maniera africana. Occorrerà che la vostra cultura non rifiuti, anzi si giovi di attingere al patrimonio della tradizione patristica, esegetica, teologica della Chiesa cattolica i tesori di sapienza, che possono considerarsi universali, ed in modo speciale quelli che sono più facilmente assimilabili dalla mentalità africana. Anche l’Occidente ha saputo attingere alle fonti degli scrittori Africani, come Tertulliano, Optato di Milevi, Origene, Cipriano, Agostino . . . (cfr. Decr. Optatam totius, OT 16): questo scambio delle più alte espressioni del pensiero cristiano alimenta, non altera l’originalità d’una particolare cultura. Occorrerà un’incubazione del «mistero» cristiano nel genio del vostro popolo, perché poi la sua voce nativa, più limpida e più franca, si innalzi armoniosa nel coro delle altre voci della Chiesa universale. Dobbiamo Noi ricordarvi, a questo proposito, quanto utile sarà per la Chiesa Africana avere centri di vita contemplativa e monastica, centri di studi religiosi, centri di addestramento pastorale? Se voi saprete evitare i pericoli possibili del pluralismo religioso, e cioè di fare della vostra professione cristiana una specie di folklorismo locale, ovvero di razzismo esclusivista o di tribalismo egoista, oppure di separatismo arbitrario, voi potrete rimanere sinceramente africani anche nella vostra interpretazione della vita cristiana, voi potrete formulare il cattolicesimo in termini congeniali alla vostra cultura, e potrete apportare alla Chiesa cattolica il contributo prezioso e originale della «negritudine», del quale essa in quest’ora storica ha particolare bisogno.

La Chiesa Africana ha davanti a sé un compito originale ed immenso: essa deve rivolgersi come una «madre e maestra» a tutti i figli di questa terra del sole; essa deve offrire loro un’interpretazione tradizionale e moderna della vita; essa deve educare il popolo alle forme nuove dell’organizzazione civile, purificando e conservando quelle sapienti della famiglia e della comunità; essa deve dare impulso pedagogico alle vostre virtù individuali e sociali dell’onestà, della sobrietà, della lealtà; essa deve sviluppare ogni attività in favore del pubblico bene, la scuola specialmente, e l’assistenza ai poveri e ai malati; essa deve aiutare l’Africa allo sviluppo, alla concordia e alla pace.

Sì, sono doveri grandi e sempre nuovi; ne riparleremo; ma Noi vi diciamo, in nome del Signore, che insieme seguiamo ed amiamo, che voi ne avete la forza e la grazia, perché voi siete membra vive della Chiesa cattolica, perché siete cristiani e africani.

Così vi aiuti la Nostra Apostolica Benedizione.






B. Paolo VI Omelie 10669