B. Paolo VI Omelie 11270

PENSIERI, DEL SANTO PADRE NEL RITO PENITENZIALE DI MERCOLEDÌ DELLE CENERI, 11 FEBBRAIO

11270
ALLA BASILICA DI SANTA SABINA.
Mercoledì delle Ceneri, 11 febbraio 1970

Con un richiamo alla potenza espiatrice del dolore, il Santo Padre invita i fedeli a offrire, in questa Quaresima, le loro sofferenze perché la Chiesa possa sentire in se stessa la virtù redentrice di Cristo.

Voi sapete in quali condizioni oggi la Chiesa si trova. Fervore, novità, fermenti molto belli. Ma si trova anche in grande crisi. Si stupisce tante volte la nostra avvertenza di cose inaudite che avvengono intorno a noi. La Chiesa ha bisogno anch’essa di essere salvata da qualcuno che soffre, da qualcuno che porta dentro di sé la Passione di Cristo.

La Passione di Cristo deve avere un complemento nella nostra passione. Sarà una piccola porzione, ma anche noi avremo qualche cosa da offrire per la redenzione del mondo se impariamo quest’arte che è esclusiva della scuola del Signore: saper soffrire: l’arte di soffrire per la redenzione, per il bene, per la restaurazione dell’ordine divino, per riportare la vita dove è la morte.

Fate bene questa Quaresima proprio per la Santa Chiesa, perché la Santa Chiesa possa sentire in se stessa la virtù redentrice di Cristo.

All’inizio del discorso, Sua Santità sottolinea come la Chiesa dia grande importanza alla distribuzione del tempo e al suo impiego e come fra i vari periodi del calendario quello quaresimale sia il più intenso per le anime. Accenna poi al rito del mattino e al segno delle Ceneri: «Ricordati che non sei che polvere anche tu e in polvere sei destinato a ritornare». Pone quindi l’accento sull’utilità della pratica del digiuno, sulla necessità di astenersi e liberarsi dalla schiavitù dei bisogni esteriori e materiali per un arco di tempo pari a quello che Gesù stesso si impose.

Nel quadro della « pedagogia forte e sublime » della Quaresima, Paolo VI invita quindi a riflettere sulle implicazioni teologiche che la liturgia di questo tempo porta con sé, a riconsiderare ciò che la Chiesa pensa dell’uomo, del suo essere, della sua storia, del suo dramma, dei suoi destini, e come in questo dramma intervengano la giustizia e la severità di Dio. Siamo immagine di Dio, riflessi della sua infinità, della sua sapienza, della sua bellezza. Se fossimo ancora come Dio ci ha creato, dovremmo essere sue fedeli immagini. Ma venne il grande dramma, l’uomo cadde, ruppe in se stesso lo specchio in cui si riverbera la vita di Dio. Si spezzò nel peccato.

Il Papa osserva come l’uomo di oggi sia troppo abituato a incontrare il peccato dentro di sé e al di fuori di sé. È un momento in cui la ribellione sembra confondersi con la libertà: quanto più grande e inqualificabile è l’offesa, tanto più si ritiene che l’uomo abbia guadagnato se stesso. Occorre una rinascita interiore; dobbiamo ricostruire in noi questo senso perduto, il senso, la cognizione, almeno il barlume del dramma che è il peccato.

Facciamo diagnosi di tutte le nostre malattie, abbiamo medicine meravigliose ma stiamo dimenticandoci la scienza della nostra sorte. Tutta la storia del peccato dovrebbe diventare oggetto di meditazione quaresimale. Dovremmo meditare sull’inesorabile sfortuna della nostra sorte. Come potremo riavere il sorriso, la pace, la bontà, la misericordia, la vita che è Dio? Compare sul nostro cammino Cristo, che entra nella storia dell’uomo. Il periodo quaresimale suppone e mette in moto la Cristologia. Gesù viene come fratello, come uno di noi. Viene ad assumere su di sé tutto il peso, tutta la responsabilità, tutte le conseguenze del disordine umano. Ecco la vittima. Avviene l’incontro tra noi e il Benefattore. Il Figlio di Dio è venuto. Il Vangelo offre elementi di meditazione sublime alle nostre povere menti.

Come incontrarsi con questo Salvatore che è necessario più dell’aria? Paolo VI indica la pedagogia della Chiesa come l’arte con la quale ci si approssima al Cristo. Pedagogia della parola, pedagogia della penitenza. Tutti sono soggetti alla grande tentazione di assimilarsi agli altri, e alle mode che ci circondano. Si dice che ieri l’uomo si convertiva a Dio, mentre oggi si converte all’uomo: nel cinema, nell’abito, nella letteratura. Integrarsi? Allontanarsi dall’alienazione religiosa? Non così ci parla la Chiesa. Bisogna separarsi dalla turba, cercare qualche distinzione - anche sociale, se occorre - per marcare questa intenzione. Mettersi in condizione di essere preferiti, amati da Dio. Farci vedere da Cristo, porsi sotto il cono della sua luce. Convertirci non al secolo, ma al Signore.

Il Papa esorta, perciò, a coltivare nella Quaresima questo grande capitolo dell’antropologia cristiana, prima di arrivare al capitolo trionfale della Risurrezione. Nulla di utopistico in tutto ciò. Crediamo che la perfezione sia ancora possibile. La santità non è una utopia. È un livello difficile da raggiungere, ma non è un’illusione, è, anzi, una realtà che noi stessi dobbiamo creare.

La seconda esortazione del Papa, dopo quella a riflettere su questa grande lezione della Quaresima, riguarda la necessità di partecipare, e non soltanto di assistere, a questa importante stagione di grazia. Il Concilio ci ha invitato a seguire passo passo la Via Crucis. In questa partecipazione dobbiamo impegnare tutta la nostra personalità, tutto il nostro essere. Lasciamo - egli dice - che questa stagione ci commuova, che metta in moto oltre alla volontà anche la nostra sensibilità. Si tratta di ritornare alla Croce, di ricordare che il Signore ci ha salvato non con un colpo di bacchetta magica, ma dando il suo sangue per noi, il suo amore, il suo tutto. Ricordiamo la parola di San Paolo: Adimpleo ea quae desunt passioni Christi in carne mea pro corpore Eius quod est Ecclesia e soffermiamoci, con il Divino Paziente, sul mistero e sulla potenza espiatrice del dolore.





Domenica, 8 marzo 1970: SANTA MESSA NELLA PARROCCHIA DI SAN GIOVANNI LEONARDI A TORRE MAURA

8370
Dopo aver salutato il Cardinale Vicario, i vicegerenti, il Vescovo ausiliare di Roma Est e tutti i presenti, Paolo VI accenna alla ragione della sua venuta. Si è presentato come Vescovo di Roma che ha a cuore la vita spirituale dei suoi diocesani. È là come Pastore, maestro, guida, come amico e padre. La sua presenza nella parrocchia è un adempimento del suo ministero nei riguardi della popolazione romana, che la Provvidenza ha affidato alle sue cure pastorali.

Il Santo Padre quindi richiama le parole «profonde e belle» di Gesù contenute nel Vangelo di San Giovanni dov’è descritto l’incontro con Nicodemo, il fariseo credente e dubbioso. Il colloquio avviene di notte. C’è un piccolo lume, e Gesù, la Luce del mondo, che parla a quest’uomo in cerca di luce. Gli dice tante cose. Gli svela il perché della sua venuta nel ‘mondo. Cristo si presenta come Figlio di Dio, come Figlio dell’uomo, come unico, come Messia. E dice al mondo la semplicissima, ma sconvolgente, esultante parola: Dio . . .

Noi figli del nostro tempo sappiamo la difficoltà, il mistero che si addensa su questa parola. Conosciamo tutta la negazione che vuole cancellare il nome di Dio dalle coscienze e dalla professione pubblica. E sentiamo le mille voci che dicono su Dio le tante e tante cose che non sempre assimiliamo. Abbiamo qualche intuizione sulla Sua esistenza, sentiamo qualcosa della Sua grandezza. La nostra esperienza, che si ferma alle cose che si vedono e si toccano, pur non parlandoci di Dio, ne lascia trasparire qualcosa. Chi studia la scienza si trova in una posizione ambigua e dice: Non ho trovato Dio studiando le cose. Chi ha varcato i confini del cielo dice: Non ho trovato Dio viaggiando negli spazi. Eppure ripensandoci si deve dire: Tutto questo è così bello che qualcosa c’è dentro: un disegno, una parola stampata proprio sulle cose. Chi studia deve sentire che c’è una presenza del Signore.

Non è vero, adunque, che la scienza allontani da Dio. La scienza lascia intravedere una immensa realtà. I segni che troviamo in tutto il creato ci dicono che c’è una legge, un pensiero, una infinita personalità che domina l’esistenza dell’universo. Il Santo Padre ricorda a questo punto l’opportunità che ebbe alcuni giorni or sono di vedere da vicino alcuni frammenti di rocce lunari. Guardandoli, apparivano come le comuni pietre terrestri. Ma anche se fossero diversi l’indagine scientifica sempre conclude che le stesse leggi che regolano la natura terrestre dominano l’universo. Tutto l’universo è penetrato da un disegno che sarà misterioso, ma dice una verità: è un disegno, è un pensiero. E allora restiamo con un gemito nell’anima: perché il Signore si nasconde? Tormenta le grandi anime, e può tormentare anche le nostre, il senso dell’essere, dell’esistenza, del vivere. Che cosa penserà di me Dio? In che relazione sono io con Lui? Sarà il Dio terribile, che non mi conosce e lascerà che io sia stritolato dalle leggi del mondo che ha creato? Sono un essere che non ha nessuna importanza davanti a Lui? O invece . . .

Qui è la novità, qui arriva il Vangelo, a dirci perché è venuto Gesù. Egli nel mistero dell’essere, nella grande curiosità dell’uomo ha aperto un varco, ha spalancato una finestra ed è sorta una mirabile onda di luce. Dio ci ama. Questa la rivelazione. Noi siamo amati, siamo benvoluti, siamo pensati, siamo voluti da Dio. Dio veglia su di noi più che una madre non vegli sul suo bambino. E quando abbiamo voluto dare un nome a questo Essere sconfinato, infinito e tremendamente misterioso, Gesù ci ha insegnato a invocarlo in piena confidenza, in amore perfetto: Chiamatelo Padre.

Dio ci è padre. Nel mondo, nell’umanità, nella storia il Papa ripete l’eco di questa verità evangelica. Dio ci vuol bene. Dio pensa a noi, ha l’occhio suo sempre aperto sopra di noi e sta scrutando la nostra risposta. Dio ci ama, ci compatisce, ci perdona, ci consola e niente lascia cadere delle nostre parole, dei nostri gemiti, delle nostre invocazioni, delle nostre lacrime, delle nostre opere buone. Vuole che la nostra vita si riassuma in un atto d’amore. E il misterioso contatto tra Dio e l’uomo non si attua se non tramite Cristo. Occorreva un ponte tra noi e Dio, un intermediario che ci portasse alla pienezza cui tende la nostra vita, il nostro destino eterno. È il mistero della gioia e della salvezza qual è la Redenzione, che avrà la sua festa più solenne nella Santa Pasqua.

Quando nel silenzio delle nostre anime o nel tumulto della nostra esistenza ci domandiamo il perché del nostro essere al mondo, ricordiamoci che Dio ci ama. Tanto ha amato il mondo da dare Cristo, suo Figlio unigenito, per la salvezza degli uomini. Abbiamo la fortuna di chiamarci figli di Dio e di legare la nostra misera vita alla sua esistenza infinita, come piccole scintille che devono finire nel sole, nella luce del Signore. Dio ci ama! Ricordiamo questa verità e saremo felici, benedetti, salvati per sempre.





«DOMINICA IN PALMIS DE PASSIONE DOMINI», 22 marzo 1970

22370
Due pagine del Vangelo apre davanti a noi la liturgia di oggi, Domenica delle Palme, quella dell’ingresso clamoroso di Gesù in Gerusalemme, e quella della sua Passione. È l’evangelista Marco, testimonio probabilmente oculare dei fatti narrati, e a lui confidati, sulla traccia della prima catechesi della nascente comunità cristiana, dall’apostolo Pietro, forse qui in Roma. Delle due pagine ora scegliamo la prima, quella caratteristica di questa domenica, il Vangelo così detto delle Palme, per la Nostra breve meditazione.

Ne avete ascoltato poco fa la lettura. Ripensate la scena descritta. È singolare nella storia evangelica, perché è una scena pubblica, festosa, intenzionale. Abbiamo visto altre volte, leggendo il Vangelo, Gesù circondato dalle folle attratte dalla sua parola, dai suoi miracoli, dalla sua figura; ma abbiamo sempre notato come Gesù fosse alieno dal provocare acclamazioni per sé; era anzi schivo dall’eccitare la popolarità d’intorno alla sua persona. Questa volta no: Gesù desidera d’essere riconosciuto ed acclamato, tanto che quando «alcuni Farisei in mezzo alla gente (ipocritamente solleciti dell’ordine pubblico, ma in realtà infastiditi che tutto il popolo andasse appresso a lui) (
Jn 12,19) gli dissero: Maestro, sgrida i tuoi discepoli, Egli rispose loro: Io vi dico, se questi tacessero, griderebbero le pietre!» (Lc 19,39-40). Perché questo nuovo atteggiamento nel Signore? Gesù vuole entrare in Gerusalemme, in quei giorni straripante fors’anche di gente venuta per l’imminente celebrazione della Pasqua giudaica, in forma nuova, in forma, diciamo così, ufficiale. Egli sa che cosa lo attende, lo ha confidato ai suoi discepoli: «Ecco noi ascendiamo a Gerusalemme, e il Figlio dell’uomo (cioè lui stesso, Gesù) sarà dato in mano dei principi dei Sacerdoti e degli Scribi, ed essi lo condanneranno a morte, e lo consegneranno ai Gentili per essere schernito, flagellato e crocifisso» (Mt 20,18-19). Egli così comincia la sua passione, e vuole metterne in evidenza non solo l’aspetto libero e volontario (Cfr. Is 53,7 He 9,14 Ep 5,2), ma altresì l’aspetto messianico; Gesù, prima di consumare il suo sacrificio, perché tale è la sua morte, la sua immolazione, vuole svelare finalmente e apertamente chi Egli sia, e quale sia la sua missione; Egli è il Messia, e come tale Egli vuole essere liberamente e clamorosamente riconosciuto dal suo popolo.


ASPETTO MESSIANICO DELLA PASSIONE

Qui bisognerebbe avere una idea del significato pregnante di questa parola «Messia», che vuol dire Cristo, l’uomo eletto e consacrato, nel quale si concentravano le secolari e profetiche attese d’Israele, tutte le speranze della nazione privilegiata e predestinata ad essere, mediante il Messia, il cardine dei destini del mondo. Il Messia era considerato come il Figlio di David, il Re della storia guidata dai disegni di Dio, il Salvatore prodigioso, dal quale ogni malanno dell’umanità avrebbe avuto rimedio (Cfr. Matth. Mt 11,3 ss.). Gesù darà un significato più profondo e più drammatico, e soprannaturale a questo titolo meraviglioso, e a Sé lo rivendicherà, a Sé lo attribuirà, a Sé vorrà che sia palesemente riconosciuto. E noi oggi ricordiamo il momento fatidico nel quale Gesù è celebrato come Messia, come Cristo. È l’ora sua. L’epilogo della sua vita temporale dovrà consumarsi con questa qualifica di Messia. L’episodio dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme assume un’importanza risolutiva delle questioni che si erano addensate intorno alla misteriosa personalità di Gesù. Chi era Gesù? «Il figlio del fabbro»? (Mt 13,55) Una figura singolare: «Il Figlio dell’uomo», come Gesù stesso si qualificava? un Profeta? (Mt 16,14 Mt 21,11 etc.) era lui davvero il Messia? (Jn 1,41) proprio quello che deve venire? (Mt 11,3 Mt 11,5) Che sia lui il Figlio di David? (Mt 20,30-31) da proclamare Re? (Jn 6,15) o qualcuno più grande e misterioso ancora, il Figlio di Dio? (Mt 16,16 Jn 1,49 Mt 8, passim) il dubbio cresce a mano a mano che Gesù si concede rivelando il mistero della sua filiazione divina, fino alla domanda incalzante, nel processo del Sinedrio, durante l’ultima notte: «Sei tu il Cristo, Figlio di Dio benedetto?» (Mc 14,61). La identificazione della vera personalità di Gesù è la questione che attraversa tutto il Vangelo, e che lo rende drammatico e tragico alla fine.

Gesù aveva dato di Sé tante definizioni, che formano l’oggetto e la delizia della nostra fede; sarà bello ricordarle; come: «Io sono il pane della vita» (Jn 6,48); «Io sono il buon Pastore» (Jn 10,11); «Io sono la luce del mondo» (Jn 12,46); eccetera; ricordate, all’ultima cena: «Io sono la via, la verità, la vita»? (Jn 14,6) Ma nella scena che stiamo meditando Gesù, non con le parole, ma con un atto definisce Se stesso: Messia. Non è un atto trionfalista, ma piuttosto una umile, se pur pubblica e studiata, presentazione di Sé, la grandezza della quale non vogliamo considerare nel suo aspetto modesto e popolare, ma piuttosto nell’esplosione festiva della folla, nella certezza ormai acquisita del popolo, nella professione che i giovani specialmente fanno della loro fede e della loro letizia per il riconoscimento irreversibile del carattere messianico di Gesù: è Lui, è Lui l’atteso da secoli, Lui l’atteso da questa generazione, Lui la chiave di tutta la storia passata e futura. La curiosità, il dubbio, l’esitazione, il fascino, l’ammirazione, che avevano circondato fino allora Gesù, scoppiano ormai nella sicurezza delle entusiastiche acclamazioni: è Lui, è Lui, il Figlio di Davide, il Cristo, il Signore.

Ora fate attenzione. Nella liturgia che stiamo celebrando questo incontro si ripete. La Chiesa riporta quella scena, quel momento decisivo davanti ai nostri animi. Gesù si ripresenta davanti a noi, umile e formidabile, svelando se stesso. Egli parla, quasi da sé, e, cosa impressionante in tanta festa che lo circonda, Egli piange. Piange guardando la città vicina e dicendo, quasi a dialogo con essa, prevedendo, nonostante quell’ora di gloria: «Oh! se conoscessi anche tu, e proprio in questo giorno, quello che giova alla tua pace! Invece ora i tuoi occhi sono rimasti chiusi . . .»; e, predicando la futura rovina della santa, ma infedele città, soggiunge: «Perché non hai riconosciuto il momento nel quale sei stata visitata» (Lc 19,42-44).


GESÙ, NOSTRA SCELTA

Il significato di questo Vangelo delle palme, da noi ora riletto, è una domanda inevitabile. Propone una scelta, che riguarda il destino della nostra vita. Sì, o no: riconosciamo noi Gesù per chi Egli è, il Cristo? Cioè il Messia, il mandato da Dio, calato nel mondo, per dare all’umanità la salvezza? Ovvero per essere fra noi «il segno di contraddizione» (Lc 2,34), l’ago di scambio fra le due vie fatali, della salute o della perdizione, della vita o della morte? Abbiamo noi l’intuito felice, la freschezza, il gaudio, l’audacia di proclamare ancora oggi che Gesù è Lui, la nostra scelta, Lui è il nostro Redentore, necessario, sufficiente; Lui, venuto per tutti, venuto per ciascuno di noi; Lui, il Maestro, Lui l’Amico, Lui «la risurrezione e la vita»? (Jn 11,25) Lui, sì, la via, Lui, la verità, Lui, la vita delle nostre singole esistenze e di tutta la comunità di quanti in Lui credono, di Lui si fidano, da Lui si sentono amati e a Lui offrono il loro povero e grande amore?

Gesù, il Cristo, incrocia ancor oggi, incrocia sempre e dappertutto, i sentieri dell’umanità, e pone Se stesso come la grande questione, come la scelta somma e decisiva, che ogni uomo, che ogni popolo è chiamato a fare. Gesù è la grande responsabilità nella storia d’ogni umana esistenza, Gesù è al grado supremo di tensione della libertà della vita cosciente. Gesù è al nodo ultimo e primo, dove le nostre sorti si definiscono. Gesù è l’invito più intimo e personale rivolto alla nostra coscienza lucida ed operante.


APPELLO AI GIOVANI

Questo discorso, elementare ed essenziale, in cui si riassume il «cherigma», l’annuncio, la proclamazione del Vangelo, è per tutti; ma a voi, giovani, specialmente è rivolto; a voi, che abbiamo invitato a questo rito pasquale, e che qui ci rappresentate la presente generazione giovanile. Noi osiamo parlarvi direttamente, perché voi, come nel Vangelo delle palme, siete i protagonisti del sempre drammatico incontro di Gesù, il Cristo dei secoli, con l’umanità. Molti oggi parlano dei giovani; ma non molti, ci pare, parlano ai giovani. Forse non sanno, forse non si fidano. Noi vi parliamo, perché un dovere ineluttabile ci obbliga a farlo. E lo facciamo come chi vi vuol bene; come i vostri Genitori, come i vostri Maestri; e osiamo dire, con una parola ancora più grande, più profonda della loro, perché la Nostra parola, a vero dire, non è Nostra, ma di Cristo stesso, del quale Noi altro non siamo che l’umile eco fedele.

Vorremmo farci comprendere. Volete voi ascoltarci? Se sì, prima ascoltate voi stessi. Quali voci nascono dall’interno del vostro spirito? Provate a concedervi qualche momento di silenzio interiore: che cosa sentite? Noi crediamo che sentite molte voci confuse, alcune volte fino allo strepito. Quali voci? Sono le voci del mondo che vi circonda, e che sentite echeggiare dentro di voi: voci della conversazione domestica, voci della vostra scuola, voci dei vostri compagni, voci che cominciano a soverchiare le altre; sono quelle del nostro tempo, del nostro mondo; parole grosse e difficili, musiche piacevoli e frivole, grida umane, che cominciano ad essere impressionanti, e che generano dentro di voi altre voci, vostre queste: sono le voci dei primi giudizi, voci delle prime esperienze, voci perfino conturbanti e attraenti: curiosità, fantasie, tentazioni le chiamano; esse cominciano a suscitare in voi le voci, che diventeranno imperiose, le voci dei desideri, le voci che vogliono dare alla vita - badate! - il suo senso, il suo valore, il suo destino. Sono le voci personali.

Le avete mai ascoltate? Che cosa vi dicono? Qualche cosa di ideale, molto bello e molto difficile; tanto difficile che talvolta voi diventate impazienti, talvolta illusi, talvolta tristi. Sono le voci che suonano: libertà, verità, amore. Ovvero: grandezza, eroismo, felicità. Sono le voci proprie della vita. Sono sincere, o sono bugiarde? Le possiamo riempire di realtà, ovvero restano vuote, e ci tolgono la fiducia nella vita? Ci rendono buoni o cattivi? Ci dànno la gioia dell’azione e la speranza di qualche cosa che non muore, ovvero ci rendono ribelli e desiderosi di protestare e di distruggere? Ci alienano da noi stessi e dalla nostra società, ovvero ci fanno pregustare, e anche gustare in certa misura, l’autenticità della nostra conquista e di quella dei giusti rapporti con gli altri?

Noi non vogliamo ora continuare questa introspezione, questa psicanalisi morale e sociale. Noi vi diciamo semplicemente, ma con la fede e l’amore di cui siamo capaci, che a tutte codeste meravigliose e tempestose domande vi è una suprema risposta. Vi è Uno, che è Lui stesso risposta. Una Parola, che è una Persona. Una Persona, che si chiama luce: «Io sono la luce del mondo», Egli dice (Jn 8,12). Una Persona che si pone come la guida: «Chi mi segue, non cammina nelle tenebre» (Jn 8,12). Una Persona, pensate, che dice di Sé: «Io sono il Pane della vita» (Jn 6,48). Potremmo continuare; ma voi avete capito: quella Parola, quella Persona è Gesù, è il Cristo, «che si è fatto per noi sapienza, giustizia, santità, redenzione» (1Co 1,30). Egli è Colui che dà alla nostra esistenza il suo vero amore, la sua intangibile dignità, la sua responsabile libertà, il suo autentico valore, il suo pieno amore. È Lui il nostro Salvatore; Lui è la testa del nostro corpo immenso ed in formazione, ch’è l’umanità credente e redenta, la Chiesa; è Colui che ci perdona e ci fa capaci di cose più grandi di noi, è il difensore dei poveri, è il consolatore dei sofferenti, è, in una parola, il nostro Messia, è Cristo, Cristo Gesù!

Lo conoscete? Lo riconoscete? Lo acclamate anche voi, oggi, con la risposta inneggiante della vostra fede e del vostro ideale? Ecco: beati voi, se questo avete capito e se questo farete (Cfr. Jn 13,17).






Giovedì Santo, 26 marzo 1970: SANTA MESSA IN «CENA DOMINI» NELL’ARCIBASILICA LATERANENSE

26370
Venerati Fratelli e Figli tutti carissimi,

Obbligati dal nostro ministero ad aprire le labbra in questo luogo sacro, «magnum stratum», grande ed ornato, cenacolo per eccellenza della Chiesa romana e cattolica, ed in questo momento, fra tutti intenso di sentimenti e di pensieri religiosi ed umani, mentre ci sarebbe caro ascoltare in interiore silenzio le grandi voci che salgono dalla sublime liturgia, che stiamo celebrando, Noi offriremo alla vostra benevola attenzione alcune elementari indicazioni, che valgano a stimolare la nostra riflessione su gli aspetti ovvii e fondamentali di questo rito e a mettere in sintonia i nostri animi in un comune coro spirituale.


PIENEZZA DI COMUNIONE ECCLESIALE

E la prima indicazione è proprio questa relativa alla comunione ecclesiale, che qui ci riunisce e che ora acquista una singolare pienezza, un suo proprio significato. Questo è un momento particolare di comunione fra noi, fra quanti hanno accolto il Nostro invito e ci hanno fatto dono della loro presenza. Se mai occasione felice ci è offerta per realizzare le parole del Signore: «Dovunque due o tre persone sono riunite nel mio nome, Io sono in mezzo a loro» (
Mt 18,20), questa è per noi, mentre appunto questo suo nome, e solo il suo nome, polarizza la nostra assistenza, ed emerge fra noi, come se qui ora Egli fosse e tra poco sacramentalmente sarà, e fin d’ora riempie di Sé le nostre anime, e le affratella nella fede, nella concordia, nella pace, nel gaudio di saperci e di sentirci « chiesa », cioè unione, suo unico ovile, suo corpo mistico. Cada in questo momento ogni distanza fra noi, ogni diffidenza, ogni noncuranza, ogni estraneità; cada ogni rancore, ogni rivalità; e procuri ognuno di noi di sperimentare «quanto è bello e quanto è giocondo che dei fratelli si trovino insieme» (Ps 132,1); e avverta ciascuno dentro di sé come l’aver la fortuna d’essere, come la prima comunità dei credenti, «un Cuor solo e un’anima sola» (Ac 4,32) significhi realizzare la nostra impegnativa qualifica di cristiani cattolici. La carità dentro la Chiesa, la carità, che la raduna e la compone, la carità che la specifica «corpo mistico» e rende fratelli tutti quelli che ne accettano la socialità organizzata (Mt 23,8 Lc 10,16), la carità umile, amica e solidale fra di noi fedeli e seguaci e ministri di Cristo, è il primo esigente requisito per sedere alla mensa del Giovedì Santo (Cfr. Lc 22,24 ss.).

Insieme dunque, più che mai, viviamo quest’ora fugace. Ma quale ne è lo scopo, quale l’intenzione? Perché siamo qui riuniti? Ecco allora una seconda Nostra indicazione, anch’essa notissima. Siamo qui per una commemorazione. Questo è un rito di memoria. Sempre è tale una Messa, ma in questo giorno vogliamo far risaltare il suo carattere commemorativo. Noi celebriamo il memoriale del Signore, obbedendo alle sue parole, che possiamo dire testamentarie: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19 1Co 11,25). Tutto il nostro spirito si riempie adesso del ricordo di Lui, di Gesù: vorremmo potercelo raffigurare nella nostra fantasia, com’Egli era, com’era la sua figura, il suo volto, com’era il suono della sua voce, la luce dei suoi occhi, i gesti delle sue mani . . . Nessuna immagine sensibile ci è pervenuta di Lui; pensiamo con stupore a quella così impressionante e profonda della sacra Sindone; pensiamo a scelta del nostro genio alle effigie pie dei grandi artisti preferiti, alle descrizioni dei dotti e dei santi; ma sempre con l’insoddisfazione propria di noi moderni, anche troppo favoriti dalla civiltà dell’immagine, perché la sua non è esibita al nostro sguardo, ma solo al nostro desiderio escatologico: «Vieni, o Signore Gesù!» (Ap 22,20). La nostra memoria deve contentarsi d’un’altra sua presenza, quella della sua parola! Allora tutto il Vangelo passa davanti alla nostra mente, la quale però si arresta a quella parola che Cristo pronunciò in quell’ultima cena notturna, e che Egli raccomandò al nostro ricordo. Quale parola? Oh, bene lo sappiamo: «Prendete e mangiate: questo è il mio Corpo; prendete e bevete: questo è il calice del mio Sangue».


PRESENZA VIVA E REALE DEL SIGNORE

Il convito pasquale, perché tale era quella cena rituale (Cfr. Lc 22,7 ss.), doveva essere oggetto dell’indimenticabile ricordo, ma sotto un aspetto nuovo, non già dell’uccisione e del pasto dell’agnello, segno e pegno dell’antica alleanza, ma sotto quello del pane e del vino, tramutati nel corpo e nel sangue di Gesù. L’agape a questo punto si fa mistero. La presenza del Signore si fa viva e reale. Le apparenze sensibili restano quelle che erano, pane e vino; ma la loro sostanza, la loro realtà è intimamente cambiata; quelle restano solo per significare ciò che le ha definite la parola onnipotente, perché divina, di Gesù: corpo e sangue. Noi rimaniamo attoniti. Anche perché questo prodigio è proprio ciò che il Signore ci ha detto di ricordare; anzi di rinnovare. Egli ha detto agli Apostoli «fate questo», cioè ha trasmesso in loro la virtù di ripetere il suo atto consacratorio, e non solo di ripensarlo, ma di rifarlo; il sacramento dell’Ordine sacro, come custodia, come sorgente del sacramento dell’Eucaristia, è stato insieme a questo, in quella sera unica, istituito. Noi rimaniamo attoniti, e subito tentati: ma è vero? È proprio vero ? Come si spiegano quelle sillabe sacrosante di Cristo: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue? Si può trovare una interpretazione, che non faccia violenza alla nostra elementare mentalità? Alla nostra abituale metafisica riflessione? Viene anche alla nostra bocca il commento repulsivo degli uditori di Cafarnao: «Questo linguaggio è duro; e chi mai può ascoltarlo?» (Jn 6,61). Ma il Signore non ammette dubbi, né esegesi elusive della autentica realtà delle sue testuali parole; Egli ne fa questione di fiducia; lascerebbe disperdere il gruppo amatissimo dei suoi discepoli, piuttosto che esimerli dall’aderire alle sue paradossali ma veraci parole, proponendo loro con linguaggio non meno duro: «Volete andarvene anche voi?» (Ibid. Jn 6,68).


L'ORA DELLA FEDE

Dunque questa è un’ora decisiva, l’ora della fede, l’ora che accetta nella sua integrità, anche se incomprensibile, la parola di Gesù; l’ora in cui celebriamo il «mistero della fede», l’ora in cui ripetiamo anche con cieco e sapiente abbandono la risposta di Simone Pietro: «Signore, a chi andremo noi? Tu solo hai parole di vita eterna. Noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Cristo Figlio di Dio» (Jn 6,69-70). Sì, Fratelli e Figli, questa è l’ora della fede, che assorbe e consuma l’oscura e immensa nube delle obiezioni, che la nostra ignoranza da un lato, e la raffinata dialettica del pensiero profano, dall’altro, addensano sopra il nostro spirito, che umilmente e beatamente si lascia fulminare dal verbo luminoso del Maestro e gli dice tremando come l’implorante evangelico: «Credo, o Signore; ma Tu aiuta la mia incredulità» (Mc 9,24).

Ed allora la fede interroga ancora: ma che cosa significa questo modo di ricordare il Signore? Qual è il senso, quale il valore di questo memoriale? Di questo sacramento di presenza, di questo mistero di fede? Qual è l’intenzione dominante del Signore, che Egli voleva imprimere nella memoria dei suoi in quell’ultimo incontro conviviale?

Vi è chi non si pone questa domanda, quasi per non scoprire una nuova e strabiliante verità. Ma noi non ci possiamo fermare senza raccogliere l’ultimo tesoro del testamento di Gesù. Tutto ci obbliga a farlo, perché tutto in quella sera ultima della sua vita temporale è estremamente intenzionale e drammatico: basterebbe l’osservazione di questo aspetto dell’ultima cena per non porre più termine alla nostra estatica meditazione. La tensione spirituale quasi toglie il respiro.

L’aspetto, la parola, i gesti, i discorsi del Maestro sono esuberanti della sensibilità e della profondità di chi è prossimo alla morte; Egli la sente, Egli la vede, Egli la esprime. Due note squillano sopra le altre in questa atmosfera attonita e resa silenziosa dagli atti e dai presagi del Maestro: amore e morte. La lavanda dei piedi, esempio impressionante di umile amore, il mandato, il mandato ultimo e nuovo: amatevi come Io vi ho amato; e quell’angoscia per il tradimento incombente, quella tristezza che traspare dalle parole e dall’atteggiamento del Maestro, e quella effusione mistica e incantevole dei discorsi finali, quasi soliloqui di Cristo traboccanti da un cuore che si apre alle estreme confidenze, tutto si concentra nell’azione sacramentale, testé ricordata: corpo e sangue! Sì, amore e morte vi sono raffigurati; una sola parola li esprime: sacrificio. La morte vi è significata, la morte cruenta, la morte che avrebbe separato dal corpo di Cristo il suo sangue; una immolazione, una vittima. E vittima volontaria, vittima cosciente, vittima per amore. Data per noi. Da ricordare come annunciatrice della morte di Gesù, del suo sacrificio per sempre, finché Egli non tornerà alla fine del mondo (1Co 11,26). Cristo ha sigillato in un rito, rinnovabile dai suoi discepoli, fatti Apostoli e Sacerdoti, l’offerta di Se stesso, vittima al Padre, per la nostra salvezza, per nostro amore. È la Messa. È l’esempio, è la fonte dell’amore che si dà fino alla morte.

È il Giovedì Santo, che stiamo ricordando e celebrando. È il cuore e il paradigma della vita cristiana. È il mandato, è il memoriale, è la passione, è la carità di Cristo, che si trasfonde nella sua Chiesa; in noi, affinché noi di Lui e per Lui, come Lui possiamo vivere (Jn 6,57), offrirci in sacrificio anche noi per i fratelli, per la salute del mondo (Cfr. Jn 12,24 ss.), e un giorno in Lui risorgere (Cfr. Jn 6,54-58).





B. Paolo VI Omelie 11270