B. Paolo VI Omelie 60366

Domenica, 6 marzo 1966: II DOMENICA DI QUARESIMA NELLA CHIESA PARROCCHIALE DI SAN BARNABA

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«Siamo venuti, dilettissimi figli, per conoscervi. E voi - questo l’amabile esordio di Sua Santità - subito comprendete come questo appellativo indichi il Nostro dovere di venire tra voi; il vostro diritto di essere visitati». Da ciò deriva un vivo gaudio per il Padre delle anime, anche perché quasi si tratta di una scoperta. Infatti, sebbene Egli abbia dimorato in Roma sin dal 1920, e nell’Urbe sia rimasto, ad eccezione dei nove anni trascorsi a Milano, il Papa non conosceva la parrocchia di S. Barnaba, costituita appunto durante il periodo del suo governo nella arcidiocesi lombarda.

Oggi, quindi, è doppiamente lieto di poter ammirare la nuova e grande chiesa e di conoscere persone e luoghi della cara parrocchia sorta dove, venti anni or sono, non esisteva il cospicuo quartiere ora così sviluppato.



LA MEMORIA D’UN GRANDE BRESCIANO

Altro motivo di letizia è per il fatto d’essere la parrocchia affidata ai Religiosi Pavoniani: i Figli dell’Immacolata Concezione, che onorano in Ludovico Pavoni il fondatore.

Questo Servo di Dio era di Brescia, la città del Papa; e colà esplicò il suo santo ministero, attuando elette e generose iniziative, sino alla pia morte avvenuta in Brescia il 1° aprile 1819, durante le famose «dieci giornate».

Dei Pavoniani, delle loro attività ed opere - basterà citare l’editrice Ancora per la diffusione della cultura cristiana -, il Santo Padre conosce molto anche per averlo ben rilevato durante il soggiorno pastorale di Milano. Ora è felice di rinnovare conoscenze e voti; e perciò, salutato il parroco, ringrazia il Signor Cardinale Vicario ed estende il saluto riconoscente a Monsignor Vicegerente, ai Vescovi. Ausiliari, ai Parroci della zona e a tutti gli altri sacerdoti.

Tiene, anzi, a riconfermare ai diletti sacerdoti gratitudine, stima ed incoraggiamento, assicurando per loro continua preghiera, affetto profondo, specialissima benedizione.

Dopo aver rivolto un pensiero augurale di prosperità, fedeltà e santità alle famiglie religiose esistenti nella parrocchia, l’Augusto Pontefice desidera intrattenersi alquanto con i fedeli, rivolgendo una particolare esortazione ad essi e a tutti gli appartenenti alla circoscrizione di S. Barnaba.



PRESENZA, INVITO, RICHIAMO

La visita del Papa non è soltanto di esplorazione o di nuove conoscenze, ma vuol essere conferma del ministero che i parroci e i sacerdoti svolgono in mezzo al popolo. La visita potrà così essere definita un invito. Mandato precipuo del sacerdote è di chiamare gente, attuando e perpetuando l’appello stesso di Gesù: Venite tutti, specialmente voi, gli affaticati, i tribolati, i piangenti; tutti voi che lavorate, che soffrite: venite a me. Tale invito ha il più splendente riscontro nel brano del Vangelo delle Beatitudini testé letto.

È la parola di Gesù: è la grande parola di convocazione, di congregazione, di riunione. Nel tenere sempre vivo questo desiderio del Divino Maestro, consiste il ministero sacerdotale. Ed è istruttivo considerarlo in due aspetti salienti.

Quando uno chiama, si rivolge non ai vicini, bensì ai lontani: e l’ha chiarito bene Gesù, allorché ha parlato della necessità di rintracciare la pecorella smarrita per ricondurla ad unirsi a quelle che già si trovano al sicuro. Perciò la voce del Vescovo, del Vicario di Cristo, intende levarsi come un grido, farsi ascoltare oltre le distanze; e raggiungere tutti. Anzi quanto più uno è lontano, con tanto maggiore insistenza è sollecitato.

«Venite»: è detto con amore ad ognuno, anche a chi vede passare il Papa e magari pensa nel suo cuore: il Papa è venuto per quelli che vanno in chiesa, che dicono le preghiere; è qui per i fedeli, non per me . . .

Invece, proprio a chi pensa in questo modo il Padre delle anime vuole ripetere: Figliuolo, non è così; sono venuto anche per te, appunto per te. Potrei restare a San Pietro ed attendere; invece esco per vedere coloro che non si incontrano mai, per quanti si credono avulsi dalla Chiesa; si ritengono indegni o nemici . . .

Non abbiamo nemici, noi. Tutti sono figli, tutti sono cari, tutti sono nostri, specialmente se hanno ricevuto il Battesimo. In questo caso dobbiamo non solo desiderare, ma esigere che tornino e ci siano vicini. Ciascun fedele echeggi per gli amici, i conoscenti, questo possente invito: Vieni, vedrai che sarai contento, felice; troverai la pace: non castighi, non reprimende, bensì l’abbraccio di perdono che Cristo ha portato all’intera umanità.


PREDILETTI DELLA CHIESA I SOFFERENTI

Il secondo significato della visita è il tener ben presente che la Chiesa si rivolge di preferenza a coloro che soffrono: i malati, i deboli, i poveri, i disoccupati. Ad essi è particolarmente dedicata la visita del Papa. È vivo il rammarico di non poter offrire, per ciascun caso, soccorsi materiali concreti: ma Egli a tutti dona il cuore, cioè il conforto più alto per quanti sono oppressi dal dolore, dalla malattia, forse dal peccato. Qui è l’espressione genuina dell’ufficio apostolico; la luce del Concilio; il dono del Giubileo.

Ed un’altra riflessione è necessaria. Non basta l’invito di adunarsi intorno al Pastore. Ognuno legittimamente aspetta di ascoltare qualche cosa. È la parola di Cristo, la parola di Dio. Il Sacerdote, il Vescovo e tanto più il Papa giunge tra i suoi figli per annunciare il Vangelo. Qui è la sostanza del sacro ministero. Parlare insieme - ora si dice dialogo - cioè ricordare e rivivere, concordi, gli insegnamenti non di un uomo ma del Figlio di Dio, nostro Maestro, affidato agli apostoli e discepoli con il comando: «Andate e predicate».

Il Papa è venuto per predicare. È ciò che avviene oggi nella parrocchia di S. Barnaba. Ora questa assemblea come si chiama? Si chiama Chiesa. La Chiesa non è altro che l’adunanza del popolo in ascolto della parola di Dio.

Chiesa vuol dire riunione, famiglia, comunità. Si forma la comunità quando c’è chi parla. Nel nostro caso è diffusa, nientemeno, la parola stessa di Dio. Non si tratta dell’annuncio di semplici realtà scientifiche o di altro genere: ma è la Verità che il Signore porta dal Cielo per donarla a noi.


LA SCIENZA SUPERNA: «EGO SUM VIA . . .»

A tale Verità è connesso l’altro fine del magistero della Chiesa. Dopo aver convocato e istituito la società, la Chiesa insegna a vivere, spiegando il perché della esistenza e del nostro passaggio nel mondo; indicando il cammino giusto: «Ego sum via . . .» ha detto Gesù. Questa è la scienza suprema, indispensabile: e la si apprende solamente nella Chiesa.

Non è cosa di lieve importanza. Molta gente vive ad occhi chiusi: lavora, cammina, si agita senza scopo preciso, è nell’affanno, senza conoscere la mèta dell’essere, di ciascun individuo. Insipienza, cecità, destino tenebroso concorrono a ridurre l’umanità sempre più smarrita. Perciò Gesù ha detto: «Uno solo è il vostro Maestro, il Cristo» . Egli soltanto ha la lampada per tracciare la strada esatta. Nella Chiesa dunque si impara quanto è necessario per vivere e progredire.

Che cosa risulta da questo fondamentale principio? Un appellativo. Gli appartenenti alla Chiesa sono denominati fedeli; i discepoli del Signore, coloro, cioè, che accettano il suo insegnamento.

Sanno, allora, dalla concorde preghiera, dopo aver assimilato le supreme verità: su di noi veglia il Padre celeste; Cristo è con noi e prega in noi; lo Spirito Santo ci ha segnati per essere figli di Dio e fratelli di Cristo.

Dalla preghiera scaturiscono, poi, tutti gli altri doveri del buon cristiano. Andare in chiesa, partecipare in modo esemplare alla vita della parrocchia, assistere alla celebrazione dei sacri Riti. Quindi far tesoro di quanto viene insegnato per essere buoni, a cominciare dalla pratica assidua e convinta della carità: verso Dio, verso il prossimo. Qui è l’essenza di tutta la Chiesa.

Tuttavia, può questo definirsi un programma completo, un paradigma sufficiente? In altri termini, è tutto enunciato ricordando la comune rispondenza dei fedeli all’invito del Signore? C’è ancora qualche grado di dedizione superiore, privilegiata. C’è chi avverte l’impulso d’una vicinanza più completa con il divino Autore del messaggio per la nostra salvezza. Chi si pone nelle condizioni di disponibilità totale, in docile e pieno ascolto, sentirà più profonda, più esigente e penetrante, la voce del Signore. Ecco la grande vocazione. È ancora una chiamata; ma essa impegna l’intera vita. Il Signore non può accontentarsi di cristiani mediocri, a metà, i quali solo talvolta adempiono i doveri della fede; vuole i cristiani perfetti; ci sollecita a divenire un popolo santo, anime elette, capaci di accogliere il suo amore, la sua conversazione. Qualcuno capisce sino in fondo: e sono le anime votate alla perfezione religiosa; sono i sacerdoti pronti a seguire il Maestro in oblazione completa, dovunque e come vorrà.



BEATI QUANTI SARANNO VERAMENTE CRISTIANI

Ma le vocazioni possono essere tante, graduali e diverse. Le hanno e le coltivano coloro che non si appagano di rimanere unicamente fedeli; vogliono essere seguaci convinti; non dunque portatori d’una vita cristiana accettata e passiva, bensì alfieri di azione.

Vediamo queste schiere già nell’età giovanile, nell’adolescenza. Il piccolo clero, gli alunni dell’oratorio, gli esploratori, i cooperatori del catechismo, gli iscritti nei sodalizi cattolici. Sono essi i fedeli più diligenti e volenterosi, poiché danno alla vita cristiana l’impronta di energia, pienezza e serietà di collaborazione con la Chiesa. A tali gruppi scelti la Benedizione particolare del Santo Padre.

Riassumendo: il pensiero riconoscente del Successore di Pietro è diretto a quanti lo ascoltano. Da coloro che ricordano la loro origine cristiana e odono la voce della Chiesa, agli altri che di tale voce intendono formare l’essenza della propria vita e si adoperano a diffonderla, con l’esempio e l’apostolato, nella famiglia, negli ambienti di lavoro, ovunque.

E il Vicario di Gesù Cristo aggiunge per l’eccelsa, provvida e santa attività il suo grazie e a tutti dice, nel nome del Signore: siate benedetti perché, così agendo, davvero suscitate la presenza di Cristo tra voi; la rendete attuale. E poiché Cristo passa lungo i secoli in questa maniera, Egli abiterà in noi, vivrà in noi, se saremo veramente e pienamente fedeli.

L’augurio del Papa è saldo, autentico, non cadrà mai. Egli assicura la grazia del Signore. Avete sentito la espressione del Vangelo, «Beati . . .»? La grande parola è oggi ripetuta da Gesù stesso, nell’insegnamento del suo Vicario sulla terra: Beati voi, se sarete esemplarmente e filialmente, cristiani.





Domenica, 12 marzo 1966: 40° DELLA RIAPERTURA AL CULTO DELLA CHIESA DI SANT’IVO A ROMA

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Eccoci di nuovo a Sant’Ivo. Sono passati quarant’anni, da quel 21 marzo; c’era allora Mons. Palica e fu lui, come Vicegerente, che riaprì al culto questa chiesa; e c’era il Ministro Pietro Fedele, e con lui tante altre autorità del Comune e dell’Università; ed anche molti studenti. E c’eravamo noi, là in fondo, a guardare e a partecipare, e così, finite le cerimonie, i giorni successivi restammo soli, e il Cappellano di allora - che salutiamo qui, adesso, con grande riconoscenza e compiacenza - cominciò a spiegare i suoi famosi Vangeli, e a dirci la Messa con tanta bontà, e con quella assiduità così regolare, così zelante e così cordiale.

Questo ci rese tutti una comunità di amici; e c’era il nostro Alessandrini che leggeva le preghiere e i brani dell’Epistola e del Vangelo, e c’era chi vi parla che faceva da introduttore, diciamo da vice Cappellano.

E poiché allora, - non so se sia così anche adesso, - gli studenti non erano puntuali, per coprire il ritardo decentemente si spiegava agli zelanti, che invece erano venuti con puntualità, qualche cosa del rito che stava per incominciare.

Questi furono gli inizi. Ma questa cappella cosa divenne? È la domanda che ciascuno di noi porta nel cuore in questo momento; vorremmo interrogare la storia, e il Card. Cicognani ce l’ha descritta adesso così bene, facendo vedere il collegamento tra la fase della presenza universitaria in questa chiesa con quella successiva dei Laureati.

E resta, in fondo all’anima, il desiderio di comprendere meglio; resta anche in Noi stessi, che pur abbiamo avuto tanto modo di riflettere sulle nostre anime e sui destini del mondo e delle nostre rispettive esistenze.

Saremmo tentati di lasciarci invadere dai ricordi, dagli episodi, e avremmo anche tanti sentimenti da esprimere, il Nostro specialmente, in questo momento di ringraziamento e di gratitudine, per questa vostra accoglienza, per questa presenza che Ci dice tante altre cose.

Ma non vogliamo cedere, durante la celebrazione dei misteri divini, a cosa che non sia l’attenzione alla parola del Signore, che abbiamo adesso ascoltata leggere da un altro insigne frequentatore e benefattore di questa cappella, il nostro Don Giovanni de Menasce. E allora, come abbiamo sempre fatto, in quei tempi e anche successivamente, concentriamo un momento la nostra attenzione sopra la parola del Signore: che cosa ci dice? E siamo sicuri che così facendo non solo - è uno dei giuochi della Provvidenza - comprenderemo le parole divine, ma comprenderemo noi stessi, poiché la parola del Vangelo, se la meditiamo, accende una luce sopra la nostra vita, che ci fa comprendere ciò che è Lui e ciò che siamo noi.

E Ci pare che sia così anche questa mattina, perché la parola del Vangelo che abbiamo letto è una parola che offre spunti caratteristici, precisamente all’ambiente che qui s’è formato e che abbiamo coltivato.

Meriterebbe un’esegesi molto accurata e prudente; le parole drammatiche e misteriose del Santo Vangelo ci dicono subito che si tratta di una controversia, dell’interpretazione capziosa, cavillosa, sofistica e falsa che alcuni di coloro che avevano visto Gesù operare un miracolo davano a questo suo prodigio, qualificandolo di finzione, di sortilegio diabolico, perfino di intesa con il demonio.

E il Redentore si difende con grande calma, con grande precisione: troviamo raramente nel Vangelo duelli dialettici di questo genere, ma ci sono: il Signore difende la ragione del suo operato e ne dà l’interpretazione esatta.

Vediamo qui una difesa di pensiero e di parola; vediamo come Gesù cerca di raddrizzare l’arte del pensiero, di educare coloro che lo ascoltano a quella elementarissima ma fondamentalissima cosa che è il pensare bene: il «travailler à bien penser», come diceva Pascal: lavorare e faticare a ben pensare, ecco l’insegnamento del Vangelo di questa mattina.

Ora, che cosa è stata per noi questa cappella? È stata forse un’accademia, un rifugio di iniziati? Ma è stata qualche cosa di molto più importante!

È stata una scuola di pensiero; un laboratorio di idee; un banco di prova della nostra fede: qui si veniva a professarla; qui si veniva a confermarsi e a fortificarsi nella sua stupenda ragionevolezza e a goderla, a viverla, a esprimerla, a darle il tributo di omaggio cordiale che essa merita.

Tutto questo aveva certamente - e lo avrà sempre - un carattere di sforzo, qualche volta anche una certa fatica, quasi varcando la siepe di tanti intralci, di tutte le obiezioni, per riuscire a dare una espressione intatta, felice e genuina al sentimento più profondo che il Battesimo ha messo nell’anima: «Io credo!».

Ma questo è il particolare carattere militante del pensiero professato a Sant’Ivo: ha due aspetti, due momenti, uno dei quali potremmo dire pedagogico, perché allena a raggiungere questo livello di pienezza e di certezza.

Infatti quante menti giovanili vegetano in una penombra, in un crepuscolo, in una incertezza penosa: credono di essere liberi perché sono sbandati; di essere intelligenti perché mettono tutto in discussione; di essere aristocratici perché hanno la malattia del dubbio che li rende svincolati da qualsiasi solidarietà con l’altrui conversazione e con l’altrui certezza; sono debolezze dell’anima che si erigono a sistema e che invece a Sant’Ivo non potevano e non volevano avere cittadinanza. Qui si voleva essere sicuri, si credeva nella verità, la si cercava e la si professava e, questo, dicevamo, con uno sforzo che educava lo spirito a bene agire e a bene esprimersi.

E anche sotto un altro aspetto, che potremmo dire comparativo, - non era soltanto espressione individuale e segreta dell’anima - la preghiera e la professione di fede di Sant’Ivo erano un fatto visibile, esterno, cioè istituivano un confronto con l’ambiente accademico prima, e poi con quello di fuori, sociale, politico, professionale.

Era una certezza acquisita e manifestata.

Ora, se consideriamo che il problema fondamentale della nostra vita è proprio quello di trovare qualche idea per cui vivere, per cui battersi, a cui consacrarsi per realizzarla, noi vediamo quale grado di altezza e bellezza acquistava Sant’Ivo, che appunto questa vetta raggiungeva ogni domenica, tranquillamente, senza pose esteriori, ma con la certezza tranquilla e sovrana di chi è discepolo del Vangelo.

E anche per un altro verso Ci sembra che Sant’Ivo abbia esercitato, e speriamo eserciterà sempre, una missione: poiché pensare bene non era e non è soltanto un fatto unicamente individuale.

Sant’Ivo non è un romitorio, non è la famosa stufa di Descartes. Non era solo un richiamo a concentrarsi per trovare i propri pensieri nella chiarezza e nella distinzione, che formano la base del sistema citato, ma era una conversazione e una comunione, uno scambio di idee, una coincidenza di pensieri, una circolazione di armonie spirituali, una collettività, una comunità di anime.

Cosa ci dice l’esperienza più elementare del mondo in cui viviamo? Tante volte ci pare di essere proprio ai piedi della torre di Babele: tutti sembrano capaci di esprimere, incapaci di ascoltare. Non c’è un colloquio armonioso e non c’è la gioia della verità che circola e che fa tutti uniti e felici. Qui, sì, qui c’è, qui c’era, ed era un miracolo silenzioso e bello quello di sentirsi un Cuor solo ed un’anima sola; di sentirsi uniti in questa misteriosa, ma così reale, comunità di anime, quella societas spiritus (
Ph 2,1) di cui parla San Paolo, in quella comunione delle anime che è pegno dolcissimo della presenza di Cristo.

Un atto di fede, un atto di carità, ha tante volte dato il presupposto migliore, la preparazione, la cornice, la confluenza spirituale per la celebrazione della Santa Messa, che appunto è la presenza, e non solo ricordata ma rinnovata, reale, di Cristo fra noi.

Questo era Sant’Ivo, e vorremmo che questo tesoro fosse custodito, e se ne facesse una segreta sorgente interiore di conforto, di luce, di fiducia e di orientamento anche nei momenti di stanchezza e di debolezza.

Quarant’anni sono molti. Ma quando si ricordano e si vedono tradizioni superstiti, così felicemente vittoriose, ci si conforta a dire che si cammina bene e si può quindi andare avanti tranquillamente.

Gli anziani lo sanno; i giovani vorrebbero pertanto essere i principali destinatari di questa raccomandazione. I giovani presenti in così gran numero ci dicono che la Sapienza, è ancora piena di gioventù. Abbiate fiducia e abbiate il buon gusto e la saggezza di rinnovare queste esperienze così autentiche e così semplici, ma anche così vere e così vive. Cercate davvero che in mezzo alla grande palestra del pensiero ci sia Gesù Maestro che vi viene incontro e vi dice soavemente e solennemente le parole della sua verità. E cercate di ascoltarle e di rispondere, di riaffermare il vostro consenso con quella umiltà e con quella fierezza, che rendono gioioso e pieno l’atto di fede.

Cantatelo insieme questo atto di fede: ditelo con l’armonia dei cuori e delle labbra, e sentirete che cosa è l’esperienza della carità, del volersi bene, dell’essere uniti in Cristo. Così si potrà avvertire che qualcosa si sta creando proprio nelle nostre umili esistenze, una specie di palingenesi di cui siamo e protagonisti e beneficiari, formando il Corpo Mistico di Cristo appunto, nella fede e nella carità.

Abbiate fiducia in queste umili formule. che le cappelle universitarie vi offrono, che questi cenacoli di pensiero e di preghiera vi aprono, e troverete davvero che la vita cristiana è facile, è bella, è piena, è vera. Ed è vostra. E così sia.





Domenica, 13 marzo 1966: III DOMENICA DI QUARESIMA NELLA CHIESA PARROCCHIALE DI SANTA GALLA

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L'odierna esortazione nel sacro rito della terza Domenica di Quaresima vuol essere intessuta di tre punti, tre temi.

Il primo riguarda gli ascoltatori, cioè i fedeli della Parrocchia di Santa Galla; il secondo concerne la persona del Papa e il suo quotidiano ministero; il terzo vuole illustrare la presenza reale con amore infinito di Nostro Signore Gesù Cristo, del quale or ora è stata riascoltata la voce, l’eco fedele e testuale nel suo Vangelo.


I TRE TEMI DEL COLLOQUIO

Innanzitutto il Santo Padre intende rivolgere il suo saluto a ciascuno di quanti gli fanno corona. Egli tiene a sottolineare il contatto spirituale di Chi ha il mandato di governare e la responsabilità di dirigere l’intera Chiesa nel mondo e tutti i fedeli, a ciascuno dei quali desidera ripetere: tu sei figlio legato al Papa da vincolo impercettibile eppur reale nell’affinità dello spirito: devi perciò sentirti come inondato e rinvigorito da così eccelsa grazia.

La Parrocchia di Santa Galla celebra in quest’anno il suo venticinquesimo, dopo momenti non sempre lieti, soprattutto a causa della guerra. Ma ora è rifiorita, efficiente ed ordinata, e si può ammirare la restaurata casa del Signore gremita di moltitudine orante e fervorosa. Il Papa tutti benedice perché sono uniti, e perché siano uniti, così come il Signore vuole: essendo fratelli, amici, figli di uno stesso Padre e di una medesima Chiesa.

Dopo il saluto allo zelante Parroco, che è come il braccio e l’interprete del Supremo Pastore, il pensiero di Sua Santità va all’alta persona che, come Cardinale Vicario, interpreta tanto bene i suoi intenti e le sue disposizioni nel reggere la Diocesi di Roma, ora coadiuvato da sette Ausiliari, a due dei quali lo stesso Sommo Pontefice conferirà la dignità episcopale nella imminente festività di San Giuseppe.

Altro speciale saluto va ai molti sacerdoti che, nell’ambito della parrocchia, coadiuvano il Parroco; alle Comunità religiose, le quali tanto si prodigano per insegnare a pregare, per istruire, assistere, soccorrere, specie i sofferenti; ai volenterosi che militano nei vari rami dell’Azione Cattolica e che si prodigano alla diffusione del Regno di Dio. La Chiesa, più che considerarli strumenti, li stima quale tramite tra la Gerarchia ed il popolo, poiché essi stessi dimostrano di voler diventare quella «gens sancta» e quel «regale sacerdotium» enunciati da San Pietro. Il Concilio si è molto occupato di così encomiabili attività ed il Papa fa su di esse valido assegnamento.

Infine il saluto paterno si rivolge ai diletti lavoratori, ai vari sodalizi ed alle singole famiglie, segnatamente ai bambini, ai giovani, ai poveri, ai sofferenti.



CHI È IL PAPA, SUCCESSORE DI PIETRO?

Ed eccoci al secondo punto. Dobbiamo parlare di Noi, dice il Santo Padre, della Nostra umile Persona. Già Ci conoscete, ed è pur necessario che Ci presentiamo. Il Papa viene in questa Parrocchia non a caso, ma perché è rivestito del ministero altissimo, ineffabile che il Signore ha posto sulle sue spalle. Come individuo Egli non mira certo né pone mente a speciali accoglienze, ma la sua eccelsa qualifica di Ministro e di Rappresentante di Dio suscita, esige l’entusiasmo filiale. Del resto i fedeli devono sempre onorare gli inviati del Signore, i quali sono come i canali, i distributori, i veicoli delle divine grazie; e vanno perciò considerati quali fontane che dànno l’acqua refrigerante della infinita generosità. Ora Chi parla in questo momento - e quanto è lieto di potersi definire così! - è il Vescovo; è l’inviato dal Signore per promuovere e tutelare la comune salvezza, il cristianesimo in tutte le anime. Ciò spiega l’immenso suo gaudio di vedere intorno a Sé tanti figli affezionati e premurosi, mentre, allo stesso tempo, ciò suscita in Lui grande sgomento e preoccupazione perché Egli sente la responsabilità dinanzi a Dio della vita cristiana di coloro che gli sono affidati. Anche le eventuali mancanze e infedeltà possono avere riverberi su di Lui, lo colpiscono nel cuore, ritenendosi Egli quasi coinvolto dalle eventuali deficienze dei battezzati nei confronti di Dio. Perciò, tra i motivi della sua visita odierna e della celebrazione della Santa Messa c’è pure quello di chiedere al Signore perdono, e la remissione di ogni colpa o negligenza, per tutti riconciliarci al suo amore.

Ricordando agli ascoltatori di essere il loro Vescovo, il Santo Padre dovrebbe elencare tutti i tesori del suo ministero: la parola, la guida, l’insegnamento, la comprensione. Quei diletti figli certamente comprendono ogni cosa e vorranno anzi aggiungere alle ovvie comuni considerazioni un elemento che è unico al mondo e si riferisce a Roma. Il Vescovo di Roma è anche il Papa della Chiesa Universale. È il Successore di San Pietro. Da quanti anni, o meglio, da quanti secoli persiste il Pontificato Romano? San Pietro è stato l’evangelizzatore dell’Urbe e qui venne coronato del martirio 1900 anni or sono. Gli storici indicano la data di quella suprema dedizione tra l’anno 65 e 67 dell’èra cristiana: certamente l’anno venturo sarà celebrata degna memoria di questo mirabile epilogo e testimonianza del Principe degli Apostoli, che in Roma suggellò col sangue la sua fedeltà a Cristo.


ANZITUTTO: CONOSCERE IL VANGELO

Ora il Papa dei nostri giorni è un anello della lunga catena e rappresenta intero e perenne l’apostolato, la missione che Gesù ha dato sia agli Apostoli con le parole «Andate e predicate», sia in maniera particolare a Pietro conferendogli il Primato. Dopo Pietro tutti gli altri Vescovi di Roma, gli altri Papi hanno avuto identica missione; ed ecco oggi giungere a voi la voce stessa di Cristo attraverso le labbra ed il ministero del suo Rappresentante sulla terra. Questa sera Gesù medesimo vi parla con gli accenti del suo Vicario; ed anche ciò è comprensibile e diventa sempre più luminoso se pensate che il Vescovo di Roma, il Successore di Pietro, è stato onorato dal Signore d’una predilezione speciale, d’un incarico riassuntivo, totale, allorché Gesù gli ha detto: «Conferma nella fede i tuoi fratelli».

Adunque Pietro è il Rappresentante, il Vicario di Gesù Cristo. E questa sera Egli viene: il Papa lo dichiara con umiltà e tremore, ma con tutta la forza derivante da questo ufficio commessogli dal Divino Maestro.

Appunto di Nostro Signore Gesù Cristo egli intende adesso parlare alla cara popolazione che gli è dinanzi, quasi intessendo un dialogo. A sua domanda ciascuno potrà rispondere, nel proprio cuore, che certamente il Papa è il Rappresentante di Cristo, e che la sua visita equivale alla visita stessa del Signore. Ed ecco Gesù a interrogare ciascuno dei presenti come un giorno fece agli Apostoli: che pensate di me? Cioè: conoscete voi il Cristo? e come lo conoscete?

La prima risposta è ovvia e semplice. Tutti riandranno con la mente al Presepio, che è la raffigurazione soave ed amata della nascita del Figlio di Dio tra noi, del Figlio di Dio fatto Uomo, in una parola del mistero dell’Incarnazione. Subito dopo si va naturalmente all’altro polo, alla Croce, ove lo stesso Figlio di Dio si è immolato per la nostra salvezza, e cioè per la Redenzione.

Gesù dunque è il Verbo incarnato, è il nostro Redentore. Tutti pertanto conosciamo la nascita e la morte di Cristo. Ma un altro interrogativo ancor più profondo ed insistente incalza: conoscete il Cristo più da vicino?

A questa richiesta mancano senz’altro le parole per una adeguata risposta. In realtà noi non conosciamo mai abbastanza Gesù. Il solo guardare entro la sua personalità è come avviarsi su fragile barca in un oceano immenso, è come fissare il povero occhio umano sull’infinito.



ACCOGLIERE COMPLETAMENTE GESÙ NELLA VITA E NEL CUORE

Volendoci allora limitare soltanto all’aspetto storico dell’uomo-Dio, potremo ridurre la stessa domanda: conoscete il Vangelo?

Possiamo forse noi ignorare la manifestazione di Gesù, le sue parole, i desideri, i sentimenti, il magistero? Orbene, quando il sacerdote parla, nei giorni festivi, altro non fa se non ricordare e spiegare l’insegnamento di Gesù. Se ciascun fedele riportasse, da quella fertile ricchezza e abbondanza di fiori e di frutti, una sola espressione, un pensiero dominante per assimilarlo, studiarlo, viverlo nella esistenza quotidiana, avrebbe già acquisito un dono inestimabile di progresso e di perfezione, con piena capacità di encomiabili imprese.

Doverosa, logica, improrogabile è la raccomandazione del Papa visitando i suoi fedeli ed annunciando Cristo in mezzo a loro: Ascoltate la parola divina, mettetela nel cuore, meditatela. Egli ha definito, questa sua parola, il pane, allorché ha detto: Io sono il Pane vivo disceso dal cielo. Egli inoltre ha detto di essere il Pane vivo disceso dal Cielo, dato a noi in cibo con la sua Carne e in bevanda con il suo Sangue nel Sacramento della Ss.ma Eucaristia. Per essa il Signore vuol essere nostro alimento, rimanere dentro di noi, il principio sostanziale, interiore della nostra esistenza e non un semplice ricordo mnemonico, psicologico, ma realtà viva ed operante. Cristo vuole vivere in me. E se io lascerò svolgere questa azione divina sarò veramente cristiano, «alter Christus», giacché il Signore prende la mia forma e figura per attuare, in tal modo, la perfetta comunione tra me e Lui.

Per concludere, questo l’invito del Santo Padre: vivete la istruzione religiosa; fate in modo che questa Parrocchia non sia una semplice accolta di gente per guardare un po’ in alto; ma cercate di essere cristiani esemplari, autentici, sinceri. Questa autenticità e sincerità giunge come primo elemento e fattore di più vasta conoscenza di Nostro Signore Gesù Cristo, della sua parola, dei suoi Comandamenti, del suo segreto anelito di donarsi e far coincidere la nostra con la sua stessa vita.

Prima di terminare, però, il Santo Padre desidera ancora avvertire i diletti fedeli di quanto può accadere all’avvicinarsi del Signore. Allorché Egli ci si fa più dappresso, noi ci sentiamo talvolta un po’ sconcertati e ripetiamo, magari inconsciamente, il gesto timoroso di Pietro: allontanati da me, o Signore, perché sono uomo peccatore. È l’avvertenza del divario tra Dio che parla e noi che siamo povera cosa, piccoli, peccatori, incapaci; rimaniamo come sopraffatti dal timore e dalla trepidazione di essere assorbiti da questo sole che vuole inondare di luce la nostra persona. Orbene rianimiamoci, invece, accresciamo la nostra fiducia.



IL CRISTIANO VIVO INTREPIDO PERFETTO

In altri casi spesso si ha paura di Dio. Paura di che? Ma forse che ci chieda troppo, che si prenda la nostra vita e quasi la paralizzi. Si ha l’umiliante panico, diciamolo pure con le parole correnti, di diventare bigotti, clericali, di mostrarci troppo devoti: e perciò neghittosamente dosiamo l’offerta di noi al Signore; vogliamo, sì, in qualche modo trattenerlo, ma aggiungiamo subito: cristiani, certo, ma senza esagerare; alla Messa una volta ogni tanto, qualche pensiero in talune circostanze, ma non di più. Invece dobbiamo essere pronti sempre e disporci con cuore aperto e completo al dono immenso che Cristo, che Dio ci fa di Sé. È Lui a dirci: Io do tutto per te, la mia vita, la mia parola; mi faccio Pane per essere il tuo cibo, entrare dentro di te. E tu? Tu mi ricevi come fa tanta gente socchiudendo appena o nemmeno aprendo l’uscio di casa, ti limiti a dire: chi è?, e non fai nulla, non apri, nel timore di qualche importuno. È quel che si fa proprio con Gesù! Eppure, con tutto il suo amore, Egli preme, urge «caritas Christi urget nos»: vuole entrare dentro di noi per inebriarci della sua grazia e della sua gioia; per darci la pienezza della sua vita e della sua felicità. E noi a rispondere: no, no, piano, vedremo . . . Come siamo meschini, come siamo davvero colpevoli al punto da meritare i castighi del Signore! Potrebbe egli infatti ripetere quanto già disse durante la sua vita terrena: «Verrà gente dall’oriente e dall’occidente, dal settentrione e dal mezzodì, e si porrà a mensa nel regno di Dio». Se non si avrà saputo accogliere la ricchezza delle grazie del Signore, si potrebbe incorrere in grave responsabilità, sino ad essere colpiti da ripulsa eterna, da temibile maledizione.

Invece - ed ecco il ricordo consolante che il Papa vuol consegnare a ciascuna delle persone che lo ascoltano, a ciascuna anima -: Fidatevi di Cristo, sentite la dolcezza e l’afflato del suo invito, gustate la bontà virile e forte del suo messaggio, aderite alla vocazione che trasforma le nostre povere aride anime e ci fa diventare buoni, forti, puri, capaci di compiere azioni degne dell’uomo rigenerato. Fidiamoci di Cristo e apriamogli l’anima e il cuore dicendogli: vieni o Signore Gesù, poiché tu sei la mia salvezza, tu solo il mio Maestro e Redentore.

Il brano del Vangelo testé letto nella Messa del Giubileo è quello delle Beatitudini; è l’effusione dell’Anima di Cristo per l’umanità. Voi beati se siete staccati dalle cose della terra, beati voi che siete mansueti, che piangete, aspirate alla giustizia, siete misericordiosi, siete puri di cuore; beati voi pacifici, beati quanti patite persecuzione per la giustizia e soffrite angustie nella vita presente . . . Il Signore è la sorgente d’ogni beatitudine; vuole renderci felici. Non rifiutiamo, figli carissimi, questa sua grazia; ma, come veri cristiani, e vorrei dire come veri uomini, e anche come veri romani, andiamo incontro a Cristo, così come Egli, a braccia aperte, con amore infinito, viene incontro a noi. E così sia.






B. Paolo VI Omelie 60366