B. Paolo VI Omelie 17466

Domenica in Albis, 17 aprile 1966: BEATIFICAZIONE DEL CAPPUCCINO IGNAZIO DA SANTHIÀ

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IL GIUBILO DI TORINO E DEL PIEMONTE

Ancora una volta il Piemonte è in festa. Un altro suo figlio sale agli onori dell’altare. Esulta Santhià, degno luogo d’origine del nuovo Beato il quale, secondo il costume dei Cappuccini, dopo aver rinunciato a tutto, anche al proprio nome, conserva però l’appellativo della città che gli diede i natali e se lo porta con sé, in Paradiso: Beato Ignazio da Santhià. Esulta Vercelli, storica, illustre venerata sede diocesana e prima scuola spirituale del Beato, dove egli fu educato alla vita ecclesiastica e incardinato Sacerdote; esultano Chieri, Saluzzo, Mondovì, dove Frate Ignazio, passato dal Clero diocesano alla Famiglia religiosa dei Frati Minori Cappuccini (allora, nel sec. XVIII, in grande fiore in tutta l’Europa), fu alunno e maestro; ed esulta finalmente Torino, che si ingemma d’un nuovo eletto, e che della lunga vita di lui ebbe gli anni della maturità, quelli che misero in migliore evidenza la figura ascetica e spirituale dell’umile Cappuccino e raccolsero i frutti più copiosi del suo ministero. Salutiamo le personalità e i fedeli di queste città fortunate e facciamo Nostra di cuore la loro esultanza. In modo speciale il Nostro riverente saluto e le Nostre congratulazioni vanno al veneratissimo Arcivescovo di Torino, qui presente, a cui auguriamo di vedere crescere ancora la schiera dei Santi della sua tanto celebrata città e del suo popolo tanto valido e laborioso, e tanto insigne e fecondo di esempi cristiani.


LETIZIA DELL’ORDINE DEI MINORI CAPPUCCINI

Ma l’esultanza maggiore sale al Signore, a buon diritto, dai Cappuccini, che vedono riconosciuti solennemente dalla Chiesa i meriti di questo loro Confratello, vedono riaffermata la tradizione di santità, che distingue il loro ramo francescano di severa osservanza, e vedono ripresentata la loro scuola di evangelica vita religiosa all’ammirazione e all’imitazione del nostro tempo. Esprimiamo loro Noi stessi la Nostra compiacenza per questa beatificazione, la quale, mentre riaccende gaudio e fervore in una sempre numerosa e austera Famiglia religiosa, richiama la riflessione di tutta la Chiesa, in questo periodo postconciliare, sull’autenticità e sul merito della vita consacrata alla sequela e alla imitazione di Cristo, nel duplice intento della perfezione evangelica e della diffusione esemplare della carità in mezzo agli uomini, cristiani o no, d’ogni luogo e d’ogni tempo. Così fiorisca sempre il venerato Ordine Francescano, edificando la Chiesa con simili documenti e illustrando al mondo un redivivo, anzi un sempre vivo San Francesco.



VERO E PERFETTO FRANCESCANO

Subito, quando la figura d’un nuovo Beato, o d’un nuovo Santo è esaltata dal giudizio della Chiesa, che lo acclama degno di culto, nasce in tutti la curiosità di osservare i caratteri peculiari, che definiscono la fisionomia del vincitore, chiamato a sedere, come leggiamo nell’Apocalisse, con Cristo sul suo trono di gloria (cfr. Apoc.
Ap 3,21). E la nostra mentalità agiografica, non poco abituata ad assimilare la santità alle manifestazioni carismatiche dell’uomo meraviglioso e dell’uomo miracoloso, le quali, alle volte, si accompagnano alla santità, vorrà trovare anche in Frate Ignazio da Santhià i segni singolari e prodigiosi, che stupiscono e che divertono. Ma nel caso presente questa scoperta sarà difficile, quasi delusa. Perché, se si eccettuano certi suoi momenti di estasi e di levitazione rimasti quasi segreti, e qualche singolare episodio, la vita del nuovo Beato non sembra offrire una storia avventurosa e interessante la fantasia, né segnalare fatti di carattere eccezionale, quelli che attirano l’ammirazione e insieme scoraggiano l’imitazione dei clienti spirituali dell’altrui santità. La esemplarità del nostro Frà Ignazio non sembra derivare da forme strane e superiori di spiritualità e di ascetismo, ma da un altro titolo, che Ci piace notare non solo a sua lode, ma a lode altresì di tutta la schiera dei più fedeli seguaci di San Francesco: il suo titolo di perfezione, potremmo dire, non è la singolarità, ma la normalità. Fu un vero Francescano, un vero Cappuccino. Così che in lui sono onorati oggi tutti i suoi identici fratelli. Ab uno disce omnes, Ci sembra lecito dire e augurare; e questo riconoscimento, che estende il titolo della perfezione religiosa ad una immensa e molto varia collettività, non abbassa il livello, cioè l’esigenza, della perfezione stessa, ma lo ravvisa raggiunto e raggiungibile da grande numero di aspiranti; solleva così il merito della intera collettività stessa; e mentre conserva, e sotto certi aspetti accresce, l’esemplarità del santo, la avvicina e tende a farla prossima alla sua imitabilità. Il santo allora non è tale, perché straordinario, e perciò irraggiungibile; ma perché perfetto e perché tipico nell’osservanza della norma che dovrebbe essere comune a tutta la schiera dei seguaci fedeli.


TRADIZIONI DI EROISMO E DI FEDELTÀ

Questa teorica concezione, che possiamo dire moderna, dell’agiografia, presenta certamente un pericolo, quello di troppo semplificare la via che ascende alla perfezione; via che, per essere evangelica, deve essere quale Cristo la definisce: «Quanto è angusta la porta e quanto aspra la via che conduce alla vita!», Egli ci ammonisce (Matt. 7, 14). Il desiderio di togliere dalla vita religiosa ogni artificioso ascetismo e ogni arbitraria esteriorità, per renderla, come oggi si dice, più umana e più conforme ai tempi, s’infiltra qua e là nella mentalità moderna di alcuni cristiani, anche religiosi, e può condurre insensibilmente a quel naturalismo, che non comprende più la stoltezza e lo scandalo della Croce (cfr. 1Co 1,23), e crede ragionevole conformarsi al comodo costume del mondo. Ma così non è nel nostro Beato. Lo troveremo, sì, semplice e accessibile, ma quanto ribelle allo spirito del mondo, quanto con se stesso povero e austero! È pur questa una nota della perfezione religiosa, che assume particolare rilievo nella scuola ascetica cappuccina; la nota della fedeltà testuale alle forme e, Dio voglia, allo spirito della primitiva osservanza francescana, rivendicata ancor prima della crisi protestante per via di interna riforma e ricondotta alla lettera della regola e del testamento del Fondatore San Francesco, e alimentata nel periodo aureo dei Cappuccini da maestri di spirito di grande nome e di grande influsso, sia nell’Ordine, sia nel popolo fedele: citiamo ad esempio Giovanni di Fano, Mattia Bellintani e Alessio Segala, entrambi di Salò, specialmente l’olandese Enrico Herp, e fra tutti San Lorenzo da Brindisi, e cento altri. (I nostri venerati P. Ilarino da Milano, Predicatore Apostolico, e P. Melchiorre di Pobladura, Relatore Generale per le cause storiche presso la Sacra Congregazione dei Riti, con molti altri loro illustri e studiosi Confratelli, ci vengono documentando queste splendide e ricchissime tradizioni spirituali e letterarie dell’Ordine Cappuccino). Ed è questa nota di fedeltà che descrive il profilo iconografico, non solo, ma spirituale altresì del Cappuccino, e che lo rende tuttora tanto popolare. Pensiamo a Padre Cristoforo, e a quanti umili e zelanti Cappuccini godono tuttora la stima e la fiducia della gente.

Padre Ignazio è precisamente uno di questi, e la Chiesa lo saluta oggi come un religioso ammirabile sotto ogni aspetto della sua vita francescana. È stato scritto argutamente di lui che fu un religioso «tutto-fare», perché appunto ogni momento della sua vita francescana ed ogni manifestazione della sua attività apostolica dimostrano questa versatilità per ogni interna ed esterna virtù, che lo può rendere a tutti esemplare.



UN PRIMATO SINGOLARE NELLA VIRTÙ DELL’OBBEDIENZA

Che se non volessimo rinunciare a cercare quale virtù Ci sembri in lui saliente, così da delineare un suo specifico profilo religioso e da determinare, per molti versi, l’esercizio di ogni sua francescana virtù, Noi diremmo essere nel Beato Ignazio da Santhià primeggiante la virtù dell’obbedienza, la virtù oggi più in crisi, ma appunto per questo più degna d’essere considerata nello specchio di questo nuovo Beato, che la Provvidenza ci consente d’onorare forse proprio a nostro ammonimento e a nostro conforto nel momento, che di tale virtù, per cui Cristo, factus oboediens usque ad mortem, ci istruì sulle vie del Vangelo e ci salvò, vi è maggiore bisogno.

Venga dunque nella nostra venerazione questo nuovo Fratello del Cielo, e col suo esempio, con la sua protezione, ci aiuti tutti a seguire il sentiero che al Cielo conduce.




Sabato, 23 aprile 1966: SACRO RITO PER IL GIUBILEO STRAORDINARIO

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COMUNIONE DI ATTIVITÀ E DI PREGHIERA

Diletti e venerati Fratelli nel Sacerdozio, e carissimi Figli e collaboratori nel servizio della Sede Apostolica Romana!

Una semplice e breve parola, dopo quelle tanto belle e degne di memoria, che avete ascoltate nei giorni precedenti in preparazione a questo nostro atto di penitenza e di preghiera, per l’acquisto delle indulgenze del Giubileo, indetto con la Nostra Costituzione «Mirifici eventus». Una parola per compiacerci con voi di codesta partecipazione, di codesta presenza, di codesta pietà; e per dirvi che Noi pure siamo con voi, col cuore, con la preghiera, con la fiducia nei benefici, che speriamo ottenere dal Signore, mediante questa uniformità alle condizioni prescritte dalla Costituzione medesima. Ci è sempre motivo di edificazione e di consolazione il passaggio dalla comunione del Nostro e vostro servizio alla Sede Apostolica alla comunione nella preghiera e nella celebrazione dei sacri riti, che insieme ci innalzano al culto di Dio e al godimento della presenza misteriosa di Cristo fra noi. Questa occasione poi Ci sembra particolarmente importante, perché Ci dà confidenza a confortare negli animi di tutti i presenti sentimenti e propositi di grande merito e destinati, se il Signore ci aiuta, a diventare duraturi ed operanti per tutta la vita e a produrre frutti magnifici, di cui Roma non solo, ma tutta la Chiesa dovrà compiacersi.

Questi sentimenti e propositi riguardano, niente meno, che due riforme; una, la nostra personale, quella voluta e promossa dal Giubileo, che dovrebbe avere efficacia di rinnovare in noi stessi la coscienza di quanto di meglio da Dio abbiamo ricevuto: la grazia, la vocazione, il Sacerdozio; e di quanto di meglio a Dio abbiamo stabilito di offrire: il cuore, l’opera, la vita, e con la coscienza la promessa d’un’assoluta, e sempre vigile, sempre alacre, sempre generosa fedeltà. L’altra riforma, quella della Curia e della Chiesa, voluta dal Concilio ecumenico, che nella celebrazione del Giubileo deve attingere le enèrgie necessarie alla sua sincera e metodica applicazione.



OFFERTA A DIO IN VIGILE ED ALACRE FEDELTÀ

Parola consueta, la riforma. Siamo stati ad essa abituati dalla nostra educazione cristiana ed ecclesiastica.

L’ascetica cattolica e la pratica della nostra religione, la frequenza specialmente del sacramento della Penitenza e degli esercizi spirituali ci ricordano continuamente questo dovere e questo bisogno di riforma: di rinvigorire cioè in noi la grazia di Dio, di vigilare sulla nostra fragilità, di deplorare le nostre mancanze, di riconfermare i nostri propositi, di riparare cioè ogni anno, ogni giorno, ogni ora la nostra inguaribile caducità, e di rimettere le nostre anime in condizioni sempre buone e sempre nuove; il che appunto significa attendere ad uno sforzo di riforma permanente; e Dio voglia ch’essa sia rivolta ad un crescente profitto di grazia e ad un progressivo esercizio di virtù, che ci portino ad un incremento di vita soprannaturale, mentre quella naturale va declinando: «donec occurramus . . in virum perfectum in mensuram aetatis plenitudinis Christi» (
Ep 4,13).


I RICHIAMI E LE ESIGENZE DEL GIUBILEO

Ma anche parola difficile e molesta, la riforma. La nostra debolezza prevale spesso sulle migliori disposizioni, e genera una tacita acquiescenza alla misura morale ch’è stata raggiunta, con la persuasione in alcuni d’avere ormai conseguita una perfezione sufficiente, ovvero con lo scetticismo in altri di poterne conseguire una migliore. Viene questo Giubileo; e ci parla d’una più volonterosa rinnovazione spirituale, e rivolge il suo invito, quasi indiscreto, anche a quelli che già sono sulla buona via, così che «christianos optimos ad altiora quaeque impellat, bonos vero ad acriorem alacritatem commoveat» (Const. Mir. eventus). Non lascia tranquillo alcuno il Giubileo, né alcuno il richiamo alla riforma interiore. Bisogna riprendere l’esame della coscienza, bisogna riconsiderare i benefici ricevuti da Dio, bisogna ricordare le tante promesse fatte, bisogna ripensare ai propri doveri, bisogna modificare tanti modi preferiti di pensare e di agire, e bisogna alla fine credere che è ancora possibile, con l’aiuto divino, diventare migliori. Non indugiamo di più. Voi conoscete tutte queste cose; alcuni di voi ne sono perfino maestri.


A SERVIZIO DELLA MISSIONE UNIVERSALE DELLA CHIESA

E noi oseremo compiere questo umile e coraggioso atto di revisione interiore in ordine specialmente alla posizione che la Provvidenza ci ha assegnata nella santa Chiesa. Non è dubbio che tale posizione deve considerarsi privilegiata, nel senso che l’essere membri della Chiesa romana, e l’essere in questa destinati al servizio della sua missione universale, al servizio cioè della Santa Sede, costituisce una particolare fortuna, che si connette con l’elezione di Pietro, e che tanto più aumenta la nostra responsabilità, quanto più gode della fiducia di Cristo e vuole, per vocazione di Cristo stesso, essere commisurata ad un maggiore amore. A ciascuno di noi, in quanto facenti parte della Santa Sede, cioè del ministero di Pietro, è da Cristo domandato: «Mi ami tu più degli altri?» (cfr. Jn 21,15). Al primato di autorità deve corrispondere un primato di carità, cioè di servizio, di esempio, di dedizione, di santità.

Questa considerazione dovrebbe essere prolungata nell’indagine dei nostri doveri specifici circa la verità cristiana, che a Roma ha la sua cattedra più autorevole, la sua custodia più fedele, la sua diffusione più apostolica; e ciò nel senso d’una nostra adesione sempre ferma e cordiale, a quella Parola di Dio, che la Chiesa ci ripete e ci spiega; e d’un’umiltà sempre sincera e a tutti palese, per il fatto che il saperci favoriti dal possesso della Verità vera, della Verità che salva, ci deve rendere trepidanti ed esultanti, sì, per tanto dono, ma tanto più solleciti a dirlo gratuito quel dono, a sentirlo interiormente esigente di fedeltà e di santità, a trasmetterlo apostolicamente con ansia che tutti ne abbiano parte. Non mai l’ortodossia di cui ci è dato godere sia per noi motivo di orgoglio e di prestigio, argomento per la vana polemica o contro la carità, pretesto alla pigrizia egoista dei fortunati, sì bene stimolo a maggiore studio, e a più fervorosa orazione, come pure a fraterna comprensione, a zelo maggiore.

Se riusciamo a riformare noi stessi, o meglio ad uniformare noi stessi in ordine ai grandi doveri che l’esercizio del supremo magistero ecclesiastico reclama da quanti, in qualsiasi forma e misura nel servizio della Sede Apostolica, vi sono addetti, abbiamo compiuto, Noi pensiamo, opera molto coerente con la tradizione romana, molto rispondente a ciò che il Signore vuole da noi, e molto conforme ai bisogni della Chiesa che ci guarda e del mondo che attende. Sempre, ed oggi dopo il Concilio più che mai, deve potersi ripetere l’elogio dell’Apostolo Paolo alla prima comunità della Chiesa romana: «Fides vestra annuntiatur in universo mundo» (Rm 1,8).


ATTUARE CON GENEROSO SLANCIO I DECRETI DEL CONCILIO

E che diremo della riforma della Curia romana e della Chiesa intera, a cui il Concilio ecumenico ci guida ed il Giubileo ci esorta? Nulla in questa sede ed in questo momento: per quanto riguarda le operazioni esterne e giuridiche, nelle quali la riforma dovrà concretarsi.

Qui ci basta confermare e conformare i nostri animi alle disposizioni, che il Concilio rimette alla nostra accettazione e alla nostra applicazione.

Qualunque sia stata la nostra opinione circa le varie dottrine del Concilio, prima che ne fossero promulgate le conclusioni, oggi la nostra adesione alle deliberazioni conciliari dev’essere schietta e senza riserve, volenterosa anzi e pronta a darvi suffragio di pensiero, di azione e di condotta. Il Concilio è stato una grande novità; non tutti gli animi erano predisposti a comprenderla e a gradirla. Ma bisogna ormai ascrivere al magistero della Chiesa le dottrine conciliari, anzi al soffio dello Spirito Santo; e dobbiamo con fede sicura ed unanime accettare il grande «tomo», cioè il volume, il testo degli insegnamenti e dei precetti, che il Concilio trasmette alla Chiesa. Noi, Chiesa romana, per primi; anche in questo a tutti amichevole stimolo e fraterno esempio, mentre di questa effettiva accettazione dobbiamo essere autorevoli promotori ed interpreti.

È stato, dicevamo, una grande novità, ma non difforme alla nostra autentica tradizione; anzi, per molti aspetti, il Concilio ha voluto essere un ritorno alle fonti, un restauro di forme originarie di culto, di pensiero, di prassi, uno studio di preferire, come disse il Signore, il «mandatum Dei» alla consuetudine invalsa nel corso del tempo (cfr. Matth. Mt 15,2). Ecco una riforma psicologicamente e praticamente non facile.



LA CONVINTA E FATTIVA ADESIONE ALLE VERITÀ DEL VANGELO

Non facile è pur quella che comporta qualche sviluppo nella dottrina e, di conseguenza, nella prassi; come non facile è anche la riaffermazione della tradizione autentica di verità e di costume, che il Concilio porta con sé; non sembra questa riaffermazione, a prima vista, una riforma, perché invece di mutamenti produce rinnovazione, ma la rinnovazione è, per molti riguardi, la più vera riforma, è quella che si compie negli animi più che nelle cose; negli animi immemori, negli animi dubbiosi, negli animi stanchi, negli animi superficiali, negli animi fluttuanti ad ogni vento di moderna opinione (cfr. Ep 4,14), e ricorda che la verità divina non muta e che sempre è feconda di luce e di vita, per chi docilmente la accoglie; ed era questa, nell’intenzione del Nostro venerato Predecessore Giovanni XXIII la principale riforma, non delle dottrine, ma degli animi, chiamati dal Concilio a più convinta e fattiva adesione alle verità del Vangelo, custodite e insegnate dal magistero ecclesiastico.

A tutto questo ci chiama l’atto profondamente religioso che stiamo compiendo; e ci darà sicurezza della sua sincerità e della sua efficacia l’amore che qui, nella sua prima Basilica, professiamo solennemente a Gesù Cristo nostro Signore, nostro Salvatore, nostro Maestro, nostro Alimento, nostro misterioso e silenzioso Compagno di via nel pellegrinaggio che da questa terra crepuscolare e tormentata ci conduce alla patria eterna luminosa e felice, dove Egli, Cristo Signore, vive e regna insieme col Padre e con lo Spirito Santo, per tutti i secoli.



Domenica, 1° maggio 1966: FESTA DI SAN GIUSEPPE ARTIGIANO

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NEL QUADRO E NEI RIFLESSI DEL VANGELO

Eccoci a salutare il gruppo principale presente a questa celebrazione del primo maggio, festa del lavoro e dei Lavoratori, assurta, per disposizione del Papa Pio XII, di venerata memoria, Nostro grande predecessore e promotore di idee e di movimenti per la elevazione del popolo lavoratore, assurta a festa di San Giuseppe, artigiano e lavoratore lui pure, e in quale quadro e con quali riflessi! Il quadro del Vangelo, i riflessi, che attribuiscono a Cristo, a Cristo stesso, la sua qualifica sociale: «Figlio del fabbro» (
Mt 13,55), la sua formazione umana, la sua professione economica, prima di quella messianica, quella anzi in funzione dispositiva e tipica di questa, a misteriosa e sconvolgente lezione sui valori, sulle virtù, sui requisiti preferenziali del regno messianico, offerto in primo luogo ai poveri, agli affaticati, agli umili, ai bisognosi di giustizia e di pace.

Salutiamo dunque, con tutti i Lavoratori presenti, il gruppo degli Aclisti romani, alla iniziativa dei quali dobbiamo questo religioso incontro. Li salutiamo di cuore, e diciamo loro la Nostra compiacenza per vederli così numerosi, così qualificati, così organizzati, così coscienti del titolo che li distingue, di Lavoratori cristiani. E profittiamo di questa occasione per assicurarli della Nostra affezione; per incoraggiare il loro movimento, che pensiamo sempre come provvida scuola di formazione al concetto cristiano del lavoro, e come fermento di coscienza morale e religiosa in seno alle varie categorie lavoratrici, a cui gli Aclisti appartengono; per dire loro la Nostra comprensione a riguardo delle difficoltà in cui si svolge la loro testimonianza cristiana, e dei problemi concreti, economici e professionali, che impegnano i vari settori operativi; per ringraziare i loro Assistenti ecclesiastici dell’amicizia che loro dimostrano e del ministero che loro dispensano; e per esortarli infine a perseverare con fedeltà e con fervore nella scelta generosa, da loro fatta, d’essere quelli che sono, Lavoratori cristiani.


STIMA E INTERESSE DELLA CHIESA

Noi abbiamo voluto, nei mesi scorsi, fare qualche visita personale ad alcuni caratteristici campi di lavoro di questa Nostra diocesi di Roma, per dimostrare con tali Nostre insolite apparizioni la stima e l’interesse che la Chiesa, specialmente in questo periodo dopo il Concilio, nutre sia per il lavoro moderno, per l’opera umana ingigantita nella sua potenza, nella sua abilità, nella sua organizzazione dalla meravigliosa tecnica scientifica in fase di sempre nuovi e prodigiosi sviluppi; sia, ed ancor più, per i Lavoratori del giorno d’oggi, che, inseriti nell'ingranaggio del lavoro industriale, sono esposti alle più esaltanti e insieme più pericolose conseguenze, sia sociali, che economiche, morali e religiose, che tutti conosciamo. Stima e interesse, che si estendono a tutti i più vasti ed i più vari campi di lavoro e di Lavoratori, e che, in questa festa dell’umile e grande loro Protettore ed esempio, S. Giuseppe, designato dalla Chiesa, e precostituito dal Vangelo stesso, al culto e alla fiducia dell’umanità impegnata nella fatica trasformatrice delle cose in beni utili alla vita, Noi rinnoviamo ed annunciamo, nel sentimento e nel voto della progrediente giustizia, della libertà ordinata e fraterna, della pace delle coscienze, degli ordinamenti sociali, dei popoli fra loro, e finalmente nella affermazione di quei superiori valori spirituali, che soli possono dare consistenza e pienezza ad ogni altra umana, temporale conquista. Siate voi, carissimi Lavoratori cristiani qui presenti, messaggeri di questi Nostri affettuosi ed augurali pensieri a tutti i vostri colleghi di lavoro.


EVOLUZIONE SOSTENUTA ED ANIMATA DAI PRINCIPII CRISTIANI

Questo diciamo tanto più volentieri a voi, Aclisti romani, perché vi sappiamo convinti e fiduciosi della sincerità e dell’efficacia proprie dell’assistenza che la Chiesa offre alle classi lavoratrici in quest’ora importantissima per esse, e non meno per la Chiesa; perché la grande evoluzione, ch’è in corso nella società moderna, raggiungerà fini realmente benefici e duraturi per l’uomo - per l’uomo artefice, protagonista, spettatore, vittima o vincitore del medesimo processo evolutivo -, se tale evoluzione sarà sostenuta ed animata da principii, da dottrine, da energie, che soltanto il cristianesimo può suggerire ed infondere. Sembra esagerata, sembra utopistica questa affermazione; ma siamo sicuri che essa è vera; la fede la proclama, la ragione la conferma, la storia la prova, la coscienza la sente e anche la scienza alla fine la scopre.


POSSENTE AZIONE DELINEATA DAL CONCILIO

Donde: dovere impellente per la Chiesa di offrire al mondo i tesori di verità, i servizi di carità, i carismi di grazia e di preghiera, di cui ella è depositaria e tuttora idonea ad un’effusione originale ed espressa, sì, in termini autentici e perciò soprannaturali, ma umanissimi, e cavati, si direbbe, da quel cuore umano medesimo, a cui sono diretti, tanta è la omogeneità, - l’incarnazione - del messaggio cristiano con lo spirito umano. Dovere, figli carissimi, che attende da voi libera e virile collaborazione: come potrebbe la Chiesa far giungere questo suo messaggio di salvezza nello sconfinato e complicato campo del lavoro, se non trovasse in voi, ed in altri come voi alfieri del nome cristiano, la schiera massiccia, ovvero i singoli testimoni capillari, che assumono per sé la missione apostolica della diffusione di tale messaggio, rendendola con la parola, con l’esempio, connaturata all’ambiente a cui è destinata? Si è detto, a ragione, che il Lavoratore deve essere l’apostolo del Lavoratore, e che il mondo del lavoro deve trovare nell’interno stesso della sua area spirituale e professionale i suoi capi morali, i suoi maestri, le sue guide. La Chiesa, in certa misura, quella misura che è chiamata apostolato d’ambiente, ammette, anzi promuove questa forma di espansione del suo messaggio; ed oggi più che mai, forte della parola del Concilio, ella invita i Laici ad assumere per sé questa funzione evangelizzatrice, altissima, degnissima, non disgiunta dalle cure temporali, bensì ad esse congiunta e quasi compenetrata. Grandi e molte parole ha detto il Concilio a questo riguardo: sarà bene conoscerle e sarà bene sentirne lo stimolo nuovo e potente ad un’azione spiritualizzata del mondo profano, perché da tale azione dipende in gran parte l’esito felice dello sforzo in corso verso una civiltà di’autentico benessere umano.

Questo vi dica, cari Lavoratori intelligenti e volonterosi, come la qualifica di «cristiani», che vi definisce, non è un pleonasmo decorativo, e non incidente sulla vostra coscienza, sulla vostra concezione della vita, e sulla vostra attività; né tanto meno una catena al piede, che frena e limita la vostra efficienza operativa, e neppure un titolo che autorizza ed immunizza collusioni, che annullino le sue proprie esigenze di pensiero e di azione; ma è qualifica quella di «cristiani», che dà a coloro che la portano con franchezza e con semplicità un fermento profondo negli animi, uno stimolo vivace nelle coscienze, uno stile superiore in tutto il comportamento personale e collettivo, privato e sociale, che marca un carattere, che infonde uno spirito, che scolpisce una vita.



LA NOBILTÀ, L’IMPEGNO, L’APOSTOLATO NEL NOME DI CRISTO

Ci compiacciamo con voi che tutto questo capite e professate; incoraggiamo le vostre iniziative, che vi portano di tanto in tanto a pause di rifornimento interiore, nei «Ritiri Operai», o nei vostri convegni di preghiera e di studio; vi diamo volentieri il Nostro plauso per la fedeltà, per la fermezza, per la coerenza, con cui vi professate Lavoratori cristiani; vi raccomandiamo ancora di onorare codesto degnissimo nome con un corrispondente spirito sociale, che vi dia sana e vigilante sensibilità dei vostri problemi del lavoro; vi renda abili, forti e leali, e sempre comprensivi del bene comune, nella tutela dei vostri interessi; capaci d’essere per tutti i vostri colleghi amici sinceri e sereni, ma non mai satelliti di altrui errate ideologie e di altrui metodi riprovevoli e in fondo antisociali.

Noi portiamo sempre nella memoria e nel cuore l’immagine di alcuni fra voi, veri tipi di Lavoratori cristiani, dalle braccia forti e impegnate in una rude e onesta fatica e dal cuore schietto; tipi che sanno che cos’è la sincerità, il dovere, il sacrificio necessario, l’amore vero, l’allegria sana, la vita buona, tipi dall’anima semplice e grande, che sentono il bisogno e la forza della fede, della preghiera, di Cristo; e che quando li incontriamo Noi possiamo guardarli in viso, come se già li conoscessimo, come amici di antica data, come silenziosi, ma poderosi costruttori della società e dei suoi complicati servizi. Sono muratori, sono minatori, sono tranvieri e ferrovieri, sono contadini, sono meccanici, sono netturbini, sono operai, sono tipografi, sono autisti, sono impiegati, sono lavoratori e sono lavoratrici in una parola: uomini veri e bravi cristiani. Ma forse non siete voi tutti così? Quale bellezza umana autentica! San Giuseppe, certo, vi guarda contento dall’alto, e vi protegge. Noi di cuore tutti vi benediciamo.



Domenica, 15 maggio 1966: CELEBRAZIONE PER IL «SACRO MILLENNIO» DEL CRISTIANESIMO IN POLONIA

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Diletti Figli!

Chi siete Voi, che assistete a questa sacra celebrazione, e che riempite d’insoliti canti questa basilica? Oh! Noi lo sappiamo; e non possiamo annunciarvi la parola evangelica di questa domenica, né offrire a Dio il Sacrificio della Messa, che abbiamo incominciato, senza prima salutarvi e senza prima stabilire con voi quella unità spirituale, che deve preparare la presenza sacramentale di Cristo fra noi. La comunione dei nostri animi deve precedere e predisporre la nostra comunione con Lui; l’attuazione del corpo mistico di Cristo, ch’è la Chiesa, è strumento e fine dell’attuazione del Corpo reale di Cristo, che sarà tra poco con noi nel Mistero eucaristico.



NELL'INCONTRO DI FEDE IL TENERISSIMO SALUTO DEL PADRE

Chi siete voi, Noi lo sappiamo; perché a questo rito Ci avete invitati, e perché a questo rito Noi vi abbiamo attesi; e come un padre accoglie figli che vengono da lontano sulle soglie della casa domestica, non meno loro che sua, così siamo lietissimi di avervi oggi con Noi, di aprirvi non solo le porte di questo santuario, che custodisce la tomba dell’Apostolo Pietro, ma le braccia altresì, ed il cuore! Noi lo sappiamo: voi siete Polacchi; veri Polacchi, e perciò cattolici; pellegrini Polacchi voi siete, provenienti da diverse e da lontane regioni, dispersi nel mondo, ma memori sempre della comune origine, consapevoli sempre d’una fraternità di sangue, di storia, di lingua, di religione, e sempre pronti a mettervi in cammino verso una comune meta centrale, come il vostro poeta nazionale scriveva: «La stella dei pellegrini è la fede celeste; e la bussola è l’amore della patria» (Mickiewicz). Pellegrini polacchi, siate i benvenuti! Voi non avete sbagliato strada, venendo a Roma, e cercando col Nostro il vostro incontro. Come voi ora rappresentate tutto il vostro Popolo, quello dimorante nel territorio nazionale e quello, tanto numeroso e tanto rinomato, emigrato in tutta la terra, così questa Roma cattolica, questa fonte della vostra fede, questo cuore dell’unità e dell’universalità della santa Chiesa, questa sede di Pietro, dove trova rifugio nei secoli chiunque cerca di costruire il mondo nella verità, nell’amore, nella giustizia, nella libertà, nella speranza, questa isola apostolica è simbolo ora della vostra patria, veramente anche per voi «patria communis».

Noi siamo felici di accogliervi e di salutarvi, proprio nell’ora in cui il sentimento della vostra terra benedetta è in voi molto forte; e mentre il bisogno di risvegliare la coscienza di quello che siete diventa un dovere, al quale non potete mancare, la gioia di affermare tutti insieme la vostra fedeltà e la vostra fraternità vi ripaga di tanti anni di esilio e di tante molestie per arrivare a questo incontro straordinario.



LA POLONIA È VIVA . . . LA POLONIA È CATTOLICA

Ma qual è dunque la causa del vostro pellegrinaggio e del vostro incontro? Anche questo sappiamo, ma bisogna che Noi la proclamiamo codesta causa, a gloria di Dio, a vostro onore, a conforto di tutta la Chiesa, ad esempio del mondo intero. Voi celebrate un anniversario, voi computate un millennio, voi risalite una storia di dieci secoli, voi andate alla sorgente della vostra coscienza nazionale, voi esultate di collegare la vostra dignità di popolo libero e unito e la vostra missione civilizzatrice delle vostre genti e fra le genti della comunità internazionale ad un fatto religioso, ad un avvenimento trascendente la vicenda politica e l’esperienza naturale, ad un momento mistico, sì, ma come nessun altro incisivo, decisivo, definitivo della vostra esistenza, sia come uomini singoli, e sia come popolo eletto, come nazione immortale. Si tratta, tutti ben lo sappiamo, del battesimo cristiano ricevuto, appunto nel 966, da un principe discendente dei Piast, la stirpe dei capi organizzatori delle tribù slave nel territorio polacco, Mieszko, sposo della pia principessa boema e cattolica, Dabrówka, e primo a dare alla sua corte e al suo popolo l’esempio, a quel tempo quasi determinante, della adesione al Cristianesimo, e primo ad avviare il processo d’integrazione della sua nazione, in via di formazione in stato medioevale, alla Chiesa cattolica. San Pietro e la luce di Roma non furono estranei a quei primi momenti della nuova vita spirituale della nazione; la fede cristiana, la lingua e la scrittura latina, la coscienza civile del mondo occidentale inaugurarono insieme la nuova cultura del Popolo polacco, che doveva poi dare con le sue istituzioni politiche, religiose, scolastiche ed artistiche ininterrotta testimonianza della sua inestinguibile vitalità morale, della sua connaturata omogeneità alla civiltà europea, e della sua inconfondibile originalità etnica, per mille anni di storia tormentata e gloriosa.

L’orologio dei secoli, silenzioso in molti e così lunghi periodi fino ad indurre talora nel dubbio della sua fedele continuità, si è adesso svegliato, e batte puntuale e squillante la sua campana: uno, due, tre . . . dieci secoli! Quale ora, Polonia, della tua vita? L’ora del millennio! Questa voce, che porta l’eco dei tempi lontani, è impressionante! Ogni città della Nazione polacca la esprime, ogni monumento della patria la ripete, ogni tomba misteriosamente la effonde. È una voce, che grida: la Polonia è viva; una voce, che canta: la Polonia è unita; una voce, che piange: la Polonia è paziente; una voce, che prega: la Polonia è cattolica. Voce di grandi, voce di eroi, voce di artisti, voce di giovani, voce di umili, voce di santi. È un coro, questa voce! Tutto un popolo è all’unisono! Ascoltate, ascoltate; essa ripete:

Niech bedzie pochwalony Jezus Chrystus! na wieki wieków!

(Sia lodato Gesù Cristo per tutti i secoli!).



TRIPLICE PROSPETTIVA DI EPOCHE E VICENDE CONSIDERATE NELLA LUCE DI DIO

È bello, è doveroso ascoltare la voce dei secoli, quando essa è messaggio che si trasmette fedelmente da una all’altra generazione. Vogliamo dire, Figli carissimi, che la celebrazione del vostro millennio cristiano è un fatto molto importante. Avete fatto bene a prepararne la ricorrenza con tanta cura; per nove anni avete meditato e pregato per essere veramente consapevoli del suo valore storico e morale. E avete fatto bene a celebrare la grande data con religiosa e popolare solennità. La sua importanza si desume in ordine ad una triplice prospettiva storica; la prospettiva del passato: il ricordo del tempo trascorso è una scuola nobile e sapiente; la coscienza storica giova assai alla pedagogia d’un Popolo; gli dà il senso della sua dignità, la passione della sua libertà e della sua unità, l’entusiasmo per la sua coerente e ordinata evoluzione; anzi, in un Popolo come il vostro lo sguardo sintetico sul proprio passato aiuta a scoprire il suo genio etnico, la sua vocazione civile ed anche la sua missione spirituale; può anche svelare, da certi segni particolari, un disegno divino: Dio guida i Popoli buoni; e nelle ore difficili e oscure tale sguardo pensoso può essere fonte di luce, di conforto e di speranza.

Poi vi è la prospettiva del presente. Essa riguarda molti problemi, molto gravi e complessi, quelli cioè della vita moderna, i quali come tutti sappiamo, sotto ogni aspetto presentano tante difficoltà e insieme tante possibilità di felici soluzioni. Il problema principale, in questa occasione, è certamente quello del posto e della funzione da riconoscere alla vita religiosa, che alla celebrazione del millennio offre la sua vera motivazione, nella odierna società.

Noi crediamo che la celebrazione millenaria del carattere cristiano del Popolo polacco non possa sospettarsi né antinazionale, né rivendicativa di privilegi teocratici, o di arcaiche forme politiche e sociali; ma debba valutarsi come espressione e come aspirazione d’un Popolo credente ad una autentica libertà religiosa e civile, dovuta, oltre che per naturale diritto, per la sua caratteristica, secolare e onorevolissima tradizione; e perciò pensiamo che la celebrazione stessa non sia affatto contraria al benessere e al progresso d’una moderna società, ma piuttosto sia da giudicarsi in suo onore e in suo vantaggio.



AMORE PIÙ VIVO NONOSTANTE IL MANCATO INCONTRO A CZESTOCHOWA

In questa prospettiva, come è stato largamente pubblicato, Noi avremmo voluto recare di persona, accogliendo l’invito del Signor Cardinale Wyszynski, Primate di Polonia e Arcivescovo di Varsavia, unitamente a tutto l’Episcopato Polacco, non che quello di tanti Nostri figli di quella cara Nazione, il Nostro paterno saluto al Popolo Polacco e il Nostro omaggio devoto alla Madonna santissima, onorata a Czestochowa, per celebrare con tutta la popolazione, dimorante in patria, o accorsa da tutte le parti del mondo, la faustissima data. Ma questo pellegrinaggio non Ci è stato consentito, sebbene Noi ne avessimo manifestato riguardosamente il proposito, e avessimo assicurato non avere il Nostro brevissimo viaggio altro carattere che quello religioso, né altra intenzione che quella celebrativa della singolare ricorrenza millenaria. Ne abbiamo naturalmente provato vivo dispiacere, anche per la personale affezione che nutriamo per la Polonia. Siamo convinti che i motivi opposti alla attuazione del Nostro pellegrinaggio, e addebitati ad atti e ad atteggiamenti del veneratissimo Cardinale Wyszynski, non sono giustificati e non possiamo credere che siano suffragati dal sentimento comune d’una Nazione così nobile e alla Chiesa così deferente, qual è la Polonia.

Ma diciamo subito: non per questo Noi la ameremo meno, la diletta Polonia. Così certamente farete voi pure, carissimi Figli qui presenti, e così faranno i fedeli Polacchi residenti in Patria, e sparsi per il mondo.


TESORI DI VERITÀ, FORTEZZA, SANTITÀ

Ed è questa la prospettiva sull’avvenire, che la celebrazione del millenario Ci apre davanti: dovremo amare ancor più che nel passato questa cara, tribolata, sempre viva e sempre fedele Nazione. Ci piace rilevare che la celebrazione del millenario si traduca in una grande professione di fede cattolica; Noi siamo sicuri che questa professione, lungi dal vincolare al passato e dal soffocare l’anima della Nazione, la corrobori e la apra ad ogni vera e salutare conquista della vita moderna: sulle vie del pensiero e della scienza; sulle vie della libertà civile e del progresso sociale; sulle vie della collaborazione, della concordia e della pace nell’ordine internazionale; sulle vie della generosità, della bontà, della gentilezza, della santità e d’ogni umana perfezione. Perché la Fede è la verità, la Fede è la fortezza, la Fede è la vita, la Fede è la salvezza. E Ci piace infine notare che questo atto di fede millenaria si esprime praticamente in due atti, che la contengono, la manifestano e la confermano: la filiale adesione alla Cattedra di San Pietro e l’omaggio di religiosa pietà a Maria Santissima, Madre di Cristo, e perciò Madre di Dio e Madre nostra.

Ringraziamo Iddio, Figli carissimi, del grande e insostituibile dono della Fede, concesso alla Polonia cattolica; rinnoviamo l’impegno di conservare la Fede, sempre forte e sempre sincera, negli anni, nei secoli venturi; e, edotti dal Vangelo, che in questa domenica la Chiesa propone alla nostra meditazione, preghiamo, preghiamo, nel nome di Cristo, affinché Iddio conservi sempre alla Polonia la sua protezione e la sua benedizione.

Nasza mysl wybiega w tej chwili ku Kardynalowi Wyszynskiemu, ku wszystkim Biskupom Polskim, ku Kaplanom, Zakonnikom i Zakonnikom, ku Rodzinom katolickim, ku mlodziezy, ku pracujacym, ku cierpiacym.

Wybiega takze, bo tak nakazuje czynic obowiazek chrzescianski, do wszystkich Wladz swieckich, proszac Boga by je wspomagal w zapewnieniu Narodowi prawdziwego i calkowitego wspolnego dobra.

Wybiega nadewszystko Nasza mysl ku Pani Naszej Czestochowskiej, aby otaczala nieustajaca opieka ziemie, Kosciol i Narod Polski.

Nous voulons que les Polonais de langue française soient eux aussi salués par Nous et assurés de Notre bienveillance et de Notre Bénédiction.

To the English-speaking visitors of Polish birth or descent, We also offer Our greetings, and We assure them of Our benevolente and Our paternal Blessing.

Diamo una nostra traduzione del saluto finale in lingua polacca detto dal Sommo Pontefice:

Il Nostro pensiero va ora al Card. Wyszynski, a tutti i Vescovi Polacchi, ai sacerdoti, ai religiosi e religiose, alle famiglie cattoliche, ai giovani, ai lavoratori, ai sofferenti.

Va anche, come il Nostro dovere cristiano Ci impone, a tutte le Autorità civili, con la preghiera a Dio affinché le assista ad assicurare alla Nazione il vero ed integro bene comune.

Va soprattutto alla Madonna di Czestochowa perché protegga incessantemente la terra, la Chiesa e la Nazione polacche.






B. Paolo VI Omelie 17466