B. Paolo VI Omelie 24126


OMELIE 1967



Venerdì, 6 gennaio 1967: SOLENNITÀ DELL'EPIFANIA DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO

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Signori Cardinali,

Venerati Confratelli,

Figli carissimi!

Sapete quale sia il motivo occasionale che Ci ha suggerito di celebrare con voi, Superiori ed Alunni del Nostro Collegio Urbano «de Propaganda Fide», e con voi, Figli cattolici della lontana Cina, questa festa della Epifania del Signore, in questa basilica di San Pietro, sulla tomba del primo fra gli Apostoli, dove sembra farsi visibile e simbolico il punto di convergenza dell’unità della Chiesa, anzi del genere umano?

Si, voi lo sapete. Noi abbiamo scelto questo momento, questo luogo, questa assemblea e questa festa per ricordare, con gioia celebrativa e con speranza antiveggente, un duplice anniversario: quello della consacrazione dei primi sei Vescovi cinesi, avvenuta quarant’anni fa, il 28 ottobre 1926, in questa stessa basilica, per mano del Nostro predecessore di venerata e grande memoria, Pio XI, e quello dell’istituzione canonica, normale della sacra Gerarchia in Cina, decretata vent’anni fa, nel 1946, da un altro Nostro non meno venerato e grande predecessore, Pio XII.

Perché celebrare questi anniversari? Perché i due fatti, che Noi vogliamo ricordare con religiosa e raccolta solennità, sono fatti grandi, sono fatti storici, sono fatti pieni di significato umano e spirituale, e perché sono fatti che postulano una loro regolare e felice sequela, la quale invece incontra in questi ultimi anni gravi e dolorose difficoltà. I fatti vi sono noti. La libertà religiosa nella Cina continentale incontra gravi ostacoli; le Nostre comunicazioni sono del tutto impedite; il Concilio ecumenico non ha visto presente alcun membro di quella Gerarchia; tutti i Missionari sono stati espulsi; alla Chiesa cattolica, a questa stessa Sede apostolica si fa accusa d’essere contraria al Popolo Cinese. Ora tutto questo non ha ragione d’essere; e lo potremmo provare con molti argomenti. La Chiesa cattolica, ognuno lo sa, ha sempre guardato con immensa simpatia alla Cina; una lunga e drammatica storia delle sue relazioni con il Popolo Cinese dice con quale stima, con quale dedizione ella ha desiderato conoscerlo, senza alcun interesse temporale proprio; ha desiderato servirlo, cercando di aiutarlo a sviluppare le sue intrinseche ricchezze morali e offrendo quanto di meglio ella possiede per contribuire all’istruzione, all’assistenza, al prestigio del Popolo stesso. È noto come in quel risorgente Paese la vita cattolica - specialmente in virtù degli avvenimenti che stiamo commemorando - abbia del tutto rinunciato d’essere e d’apparire un fenomeno paracoloniale, e come sia e voglia essere autentica espressione dell’anima cinese, la quale può trovare nella fede cristiana il rispetto delle sue nobili tradizioni e la pienezza delle sue profonde aspirazioni spirituali. La Chiesa cattolica, e questa Sede apostolica in ispecie, non è mai stata nemica, ma sempre amica della Cina - così grande per estensione di territorio, per numero di abitanti, per tradizioni civili e culturali, per virtù naturali e per capacità evolutive - ella l’ha sempre ammirata ed amata, ed è ancor oggi in grado di comprendere e di favorire, nelle sue giuste espressioni, il travaglio della presente fase storica della sua trasformazione, dalle antiche e statiche forme tradizionali della sua cultura a quelle inevitabili e nuove, nascenti dalle strutture industriali e sociali della vita moderna: la dottrina sociale della Chiesa ne può essere prova.

Che cosa dunque vorremmo? Lo diciamo semplicemente: riprendere i contatti, come già li conserviamo con quella porzione del Popolo Cinese con la quale abbiamo relazioni amichevoli. Dobbiamo anzi riconoscere che fra i tanti Cinesi dimoranti fuori dello Stato continentale la Chiesa cattolica è lieta di annoverare, in estremo Oriente e in ogni parte del mondo, molti figli ottimi e fedeli, e comunità fervorose e fiorenti, bene assistite da Vescovi cinesi e Clero cinese; gli Alunni cinesi presenti a questo rito, come gli altri Cattolici cinesi, che pure vi assistono, sono per Noi un carissimo segno della persistente vitalità della Chiesa cinese e sono motivo di grande conforto e di grande speranza.

Vorremmo ora tuttavia riprendere i contatti col Popolo cinese del continente; contatti non da Noi interrotti volontariamente, per dire a tutti quei Cattolici cinesi, che sono rimasti fedeli alla Chiesa cattolica, che Noi non li abbiamo mai dimenticati, e che non rinunceremo mai alla speranza della rinascita, anzi dello sviluppo della religione cattolica in quella Nazione. Riprendere i contatti per far sapere alla gioventù cinese con quale trepidazione e con quale affezione Noi consideriamo la presente sua esaltazione verso ideali di vita nuova, laboriosa, prospera e concorde. E vorremmo anche con chi presiede alla vita cinese odierna nel Continente ragionare di pace, sapendo come questo sommo ideale umano e civile sia intimamente congeniale con lo spirito del Popolo Cinese.

Sono questi i Nostri desideri, i Nostri voti. Ma conosciamo le difficoltà dell’ora presente. Esse però non impediscono che Noi rendiamo particolarmente vigilante, amoroso, premuroso il Nostro pensiero per la Cina. Ed è ciò che stiamo facendo. Se altro non Ci è dato praticamente di fare, questo, non solo Ci è consentito, ma Ci è più fortemente imposto: ricordare e pregare. È ciò che stiamo facendo: ricordiamo e preghiamo. Per questo siamo qui riuniti per commemorare due fatti della storia religiosa della Cina, i quali a Noi sembrano simbolici e decisivi. E tutti i presenti Noi invitiamo, anzi tutti quanti sono in comunione con Noi, a ricordare ed a pregare.

E proprio in questo giorno, Figli carissimi; in questa festa della Epifania, cioè della manifestazione di Cristo all’umanità. Quanta luce contiene questo fatto, questo mistero! Il Nostro discorso non avrebbe fine, se Noi lasciassimo la Nostra parola seguire il filo interminabile dei pensieri, che questa festa della rivelazione del Salvatore suscita nello spirito. Uno di questi pensieri, uno solo, a voi consegneremo, e non con parole Nostre, ma con quelle del Concilio ecumenico testé celebrato. Vi suggeriamo di considerare l’Epifania come la festa della vocazione dei Popoli, di tutti i Popoli, senza distinzione, alla medesima salvezza, alla medesima fortuna. E Ci sembra che voi, Figli carissimi dei Paesi dove l’annuncio di Cristo è ancora nella sua fase costitutiva della Chiesa, diventiate in questo momento i rappresentanti - i Magi - delle vostre rispettive Nazioni, e realizziate in questo momento un episodio tipico del mistero dell’Epifania: quello della scoperta che la venuta di Dio nel mondo è proprio a ciascuno di voi destinata, a ciascuno dei vostri Paesi; e ciò non per sconfessare ciò che voi siete e rappresentate, ma per assumere la vostra singola anima e la vostra personalità nazionale ai vertici d'una espansione, d’una coscienza, d’una capacità nuova di vita e d’una speranza di ineffabili destini, in cui consiste appunto la Redenzione di Cristo. Ascoltate il Concilio: «Dai tempi più antichi fino ad oggi presso i vari popoli si trova una certa sensibilità di quella forza arcana, che è presente al corso delle cose e agli avvenimenti della vita umana, anzi talvolta si trova la cognizione della Divinità suprema, ed anche del Padre! Sensibilità e conoscenza che compenetrano la loro vita d’un intimo senso religioso . . . La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini» (Nostra aetate, 2).

Pensate: quanto voi siete ha questo supremo significato: di vocazione, di predisposizione a Cristo. Quale gioia dev’esser la vostra nel riconoscere che nella chiamata alla fede un’immensa bontà divina si rivela, un dono è preparato, una felicità. Nulla toglie questa chiamata di ciò ch’è veramente umano, e tutto assume e redime.

A voi Alunni di «Propaganda», specialmente, non sono ignoti questi riferimenti al grande disegno della diffusione della Fede nel mondo e a voi sono familiari le magnifiche e moderne idealità che illuminano il panorama missionario, nel quale sono inseriti i vostri Paesi, e oggi possiamo quasi dire: tutti i Paesi della terra. E sia con questa visione della capacità cristiana d’ogni Popolo, d’ogni anima, dell'universalità potenziale della fede cattolica d’essere retaggio di ciascuno e di tutti, che Noi mandiamo i Nostri voti alla Cina così remota da Noi geograficamente e così vicina a Noi spiritualmente, alla Cina ed a tutti i Popoli della terra, a tutti i messaggeri del Vangelo sparsi nel mondo, a tutte le Missioni cattoliche, affinché l’Epifania, la manifestazione di Cristo, tutti ci illumini, ci diriga sulle vie della verità, della giustizia, della fratellanza e della pace, e tutti ci salvi.



Giovedì, 2 febbraio 1967: TRADIZIONALE CERIMONIA DI OFFERTA DEI CERI

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Festa della Presentazione di Nostro Signore Gesù Cristo al Tempio


Non vogliamo lasciare questa singolare assemblea senza un Nostro saluto speciale. Sappiamo d’avere davanti i rappresentanti dei vari corpi associati - Capitoli, Collegi, Seminari, Ordini religiosi e cavallereschi, Confraternite, comunità e istituzioni - che appartengono alla nostra vetusta famiglia spirituale della Chiesa Romana; e sebbene questa riunione non ne raccolga tutti gli enti ecclesiali, Ci piace moltissimo ammirare la bella rassegna di questi gruppi qualificati, che formano l’onore e la consistenza di questa benedetta Chiesa dei Santi Pietro e Paolo, ne rappresentano le tradizioni spirituali e rituali, ne illustrano la religiosità, ne coltivano le cristiane virtù, ne difendono il nome, ne dilatano gli esempi e ne accrescono la carità.


LA PERFETTA UNITÀ DEL CORPO MISTICO DI CRISTO

Ci piace sapere che ognuna di codeste corporazioni attende al proprio perfezionamento, cercando di derivare dagli insegnamenti del recente Concilio norma e stimolo per quel rinnovamento che la renda al tempo stesso fedele ai propri originali statuti e idonea a perseguire le proprie finalità con forme più adatte ai moderni bisogni. E Ci piace oggi osservare che codesto sforzo di particolare risveglio, mentre meglio caratterizza ogni singola istituzione per quello che è e vuole essere, non la separa, non la isola dalla comunione che a tutte le altre, nei vincoli molteplici della fede, della preghiera, della disciplina, della carità, la congiunge; sì bene pare che tanto più salda si attesti, nello spirito e nelle opere, la comunione quanto più ordinato e perfetto si presenta ciascun ente che vi partecipa e che la forma. Bella, anche sotto questo aspetto, è la santa Chiesa, la quale garantisce ad ogni persona fisica e morale una sua propria dignità e libertà, e insieme unisce e fonde nell’unità, che Cristo in sé stabilì e a noi tanto raccomandò, quanti individui e corpi associati Chiesa si chiamano e sono. Non modelliamo la comunità ecclesiale né sul particolarismo feudale, né sul livellamento delle società totalitarie, ma sull’immagine del Corpo mistico, che San Paolo illustrò insegnando essere «uno il corpo e molte le membra», ammettersi cioè nella Chiesa di Cristo diversità di forme e di funzioni, articolate tuttavia in un’identità sostanziale di spirito e di vita (cfr.
1Co 12).

SIANO TUTTI I FEDELI «COR UNUM ET ANIMA UNA»

E questa unità, che in questa cerimonia più che in ogni altra offre di sé l’immagine edificante, vorremmo fosse in ogni comunità, in ogni gruppo, in ogni religiosa famiglia, in ogni seminario, in ogni associazione cattolica, riaffermata e coltivata e sentita e goduta, affinché l’antica Chiesa di Roma esprimesse, nei nuovi tempi, la fedeltà primigenia del Popolo cristiano, stupendamente registrata nella prima cronaca della Chiesa di Gerusalemme: «La moltitudine dei credenti era un cuore solo ed un’anima sola» (Ac 4,32). Roma è oggi più che mai cosmopolita; Roma risente del pluralismo etnico e internazionale delle città moderne; Roma non è più l’Urbe medioevale, né la città papale del rinascimento, né il campo romantico di antiche rovine, dove la confluenza civica e spirituale nel suo centro storico era facile ed obbligata; Roma è la Città nuova, che voi conoscete. Vi è chi si domanda se essa tuttora abbia sufficiente e vera, profonda e unitaria coscienza di sé. Per quanto Ci riguarda, Noi pensiamo che a dare alla Nostra Città episcopale, centro della Chiesa universale, un certo suo vivo tessuto di uniforme spiritualità voi possiate concorrere, con la rete pastorale delle Parrocchie e non certo con mire di temporale influsso, ma col proposito di ingemmare il grande manto dell’Urbe moderna della vostra presenza silenziosa e splendente. Com’è unico al mondo e bello il volto di Roma cattolica per ciò!

Ed ecco che i ceri, di cui voi Ci fate omaggio, assumono anche sotto questo aspetto un significativo valore simbolico. Che cosa è un cero? Possiamo dire che quanto meno ci serviamo di questo vecchio e modesto mezzo di illuminazione, tanto più esso ci offre la sua sempre parlante lezione spirituale; lo notiamo oggi per quanto a noi la lezione si riferisce, lo celebreremo a Pasqua per quanto di Cristo essa discorre. Cero è il segno d’una vita. Ognuno ami esservi rappresentato. Una vita che, proprio come in questo momento, dichiara, deponendo il suo simbolo ai piedi della santa Chiesa, di offrirsi. Il cero significa qui una vita, anzi molte vite, quante sono quelle che compongono la comunità da cui lo riceviamo; vite che si offrono: a Cristo, alla Chiesa. Noi ascoltiamo codesto linguaggio; Noi lo ammiriamo figurato nell’arcaica, ma sempre viva immagine, nella quale, a memoria della festa odierna, si esprime. Quanto Ci è cara la vostra oblazione! e quanto Noi vogliamo ravvisarvi il dono, la promessa della vostra fedeltà! La Chiesa ha bisogno di codesta, sempre nuova sempre sincera professione di dedizione e di fedeltà.


SIMBOLO DI SACRIFICIO E DI LUCE

Ma il senso simbolico del cero, voi sapete, non è così esaurito. Il cero, riferito alle nostre esistenze consacrate, dice di più. Dice la fiamma, alla quale è destinato. Non è offerta che si conserva intatta; è offerta destinata a consumarsi per dare all’ambiente la luce. Sacrificio di sé, luce per gli altri, vuole il cero significare. Testimonianza che divora, ecco il cero. Figli carissimi, siamo noi disposti a fare nostro il senso di quest’umile e benedetta cosa: che oggi si moltiplica per tutti i devoti e si distribuisce alle mani di quanti la gradiscono?

Anche di questa comprensione la Chiesa ha bisogno. Occorre vivere la Chiesa nella perpetua memoria della culla, donde è sortita, la Croce. Se è vero che la vita cristiana, e quella ecclesiastica e religiosa non escluse, è suscettibile di tanti ragionevoli adattamenti (non è stato il Concilio a ricordarcelo?), non è men vero che non sarebbe felice adattamento ai suoi bisogni odierni, al suo genio autentico, il conformismo ai gusti, alle forme, alla mentalità di quel mondo, in cui, sì, viviamo e a cui diamo la nostra stima e il nostro amore, ma al quale dobbiamo la nostra originale testimonianza di esempio evangelico. L’indulgenza verso il diffuso naturalismo, verso il benessere temporale, verso l’affare economico, verso l’indiscreta curiosità esteriore, verso la sensualità dilagante, non è ciò che fa moderna la Chiesa; la svigorisce, la rende, come il sale che ha perduto il suo mordente sapore, inutile, inefficace. Non diciamo di più. E ritorniamo all’immagine del cero sacro, puro e diritto, tutto teso verso la fiamma che lo brucia, verso la luce che diffonde.

Così Noi, così voi, Figli carissimi - Maestra e Protettrice la purissima Madre di Cristo - con la Nostra Benedizione Apostolica.


Mercoledì delle Ceneri, 8 febbraio 1967: INIZIO DELLE STAZIONI QUARESIMALI A SANTA SABINA

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RIMANE SEMPRE LA NECESSITÀ DELLA PENITENZA

Ai carissimi figli in Cristo il Santo Padre rivolge il proprio saluto. Ci ritroviamo qui - Egli dice - per la grazia del Signore anche quest’anno in capite jeiunii, all’inizio, cioè, del lungo periodo penitenziale che la Chiesa antepone alla celebrazione del Mistero pasquale. E siamo tutti compresi dei motivi sia spirituali che ascetici, che qua ci conducono per dirigerci nel cammino della santa Quaresima.

Un cammino di penitenza. Arrivati a questa conclusione e, speriamo, al corrispondente proposito, sorge nella mente di tutti un dubbio molto facile, una domanda quasi spontanea: che cosa resta della penitenza, oggi, nella disciplina e nello spirito! della Chiesa?

Si sono fatte riduzioni, semplificazioni, si sono accordate dispense: e sembra che dell’albero frondoso che ancora dona i suoi frutti e le sue ombre sin dai tempi più remoti e proprio nei luoghi santi e suggestivi in cui ci troviamo, non rimangano che poveri rami spogli dell’autentica penitenza. Il rilievo non contraddice al fatto che siamo indulgenti e ragionevolmente convinti della necessità di essere pietosi verso questa nostra povera vita umana molto affaticata per tante vicende, assai debole per costituzione, inetta a sostenere le discipline ascetiche di altri tempi.

Di qui alcune teorie, le quali parlano del rispetto non solo della persona astrattamente considerata, ma della vita umana quale si presenta; per cui, invece di ,aggravarla con pratiche che possono rendere più triste e difficile la sua esistenza, bisognerà, si dice, alleggerire i suoi pesi e rendere facile, comoda e, se possibile, piacevole la sua giornata terrena.


OCCORRE PORTARE LA CROCE

A questa visione materialistica, assai diffusa e corrente, altra se le aggiunge: quella che ci fa considerare il Cristianesimo sotto l'aspetto grave, severo, esigente, che ci è stato tante volte e ragionevolmente, del resto, presentato e autenticamente esposto; mentre pur sappiamo che il Cristianesimo ci deve apparire, come è, pieno di bellezza, di attrattive, di felicità, sì che è nostro dolce dovere tradurlo in aumento di vita e di gaudio; accogliendo le ricchezze che la mano di Dio ha diffuso intorno a noi. Questo dobbiamo vedere nel Cristianesimo e non una disciplina che mortifica e castiga la vita umana.

Adunque, seguendo appieno le suddette mentalità, tutto si ridurrebbe a piccoli precetti di salvaguardia o di igiene per raggiungere un pieno benessere e per evitare i più piccoli malanni?

Orbene - prosegue il Santo Padre - in questo momento, in questo atto di pietà e di riflessione da noi qui compiuto, che non è soltanto un ricordo arcaico di tempi andati, ma sì, invece - come il Papa ha detto al mattino nella Basilica di San Pietro - una professione di vita odierna, moderna, attuale, ecco che noi ancora una volta troviamo la risposta dovuta alla domanda iniziale: che cosa resta della penitenza cristiana? La prima verità - e nessuno, Vangelo alla mano, potrà contestarla - è la seguente: rimane sempre la necessità della penitenza: non si può fare a meno della penitenza. La parola di Cristo è là: sonante, tagliente a proclamare: «Si paenitentiam non egeritis, omnes . . . peribitis: se non farete penitenza, perirete tutti». E lo dice due volte il Vangelo di S. Luca, che di solito preferisce registrare le effusioni misericordiose di Gesù. Bisogna fare penitenza.

Ognuno, da questa certissima premessa, vorrà proseguire per proprio conto, e cogliere nel Vangelo, in tutto il Nuovo Testamento, gli altri testi che confermano, con una gravità che non ammette discussioni e riduzioni: occorre portare la croce.

E allora, ci chiediamo ancora, che cosa resta della penitenza?


PROFONDO MUTAMENTO INTERIORE

La sua necessità. Questa è documentata dalle due fonti che gli studiosi, i maestri di spirito ci ricordano. Innanzitutto la penitenza è un correttivo della nostra maniera di vivere. Lo sappiamo bene: la nostra natura non è perfetta; non funziona bene: porta in sé un guasto profondo interno che deve essere rimediato, e perciò quanti tessono l’apologia della immediatezza dell’azione e di taluni comportamenti, della bontà sostanziale della vita umana, sono profeti di illusioni e tante volte di delusioni, poiché appunto il funzionamento e lo sviluppo della nostra vita, abbandonata a se stessa, senza questi correttivi e questa disciplina, la quale viene a ridimensionare, come oggi si dice, l’espressione di ogni nostra attività, la vita non sarebbe buona e quindi, in realtà, non sarebbe nemmeno felice.

C’è, poi, un altro titolo a ribadire la necessità della penitenza; ed è la riparazione. Abbiamo peccato, abbiamo dei debiti. Poiché esiste un ordine obiettivo di giustizia e Iddio giusto ci propone una legge, una legge d’amore, esigente, bruciante, se noi non l’abbiamo osservata, bisogna fare i conti proprio col Signore. Sono conti pesanti: richiedono, da parte nostra, ogni possibile riparazione. Occorre perciò ritornare alla disciplina che intende accogliere la divina giustizia e ci fa inginocchiare dinnanzi a Dio, pronti ad assumere qualche castigo per essere risparmiati da pene più gravi.

La penitenza, adunque, rimane e, nel contempo, un’altra cosa resta pratica e diviene per ognuno di noi parlante nel profondo del cuore. Lo diciamo ogni qualvolta vogliamo sfuggire ai rigori delle penitenze antiche: è lo spirito della penitenza; e tale spirito la Chiesa ci raccomanda.


LA NECESSITÀ DELLA RIPARAZIONE

A chiedere agli studiosi in che cosa esso consiste ci si sentirebbe rispondere che elemento primo è la metanoia, cioè un cambiamento interiore. È più facile un mutamento esteriore o interiore? È più agevole, ad esempio, rinunciare a qualche cosa che circonda la nostra vita dal di fuori o trasformare il cuore, i nostri pensieri, gli stinti, le idee, quel tesoro di interiorità che ciascuno custodisce ostinatamente nel suo interno e dice: io sono così; questi i miei principi, il mio modo di pensare, la mia educazione e - la grande parola! - la mia personalità?

La Chiesa è pronta e sollecita ad ammonirci: è lì che devi mettere la tua attenzione e rivolgere il tuo sforzo. Bisogna davvero rinnovare lo spirito. La penitenza non produce un regresso nella vita e nella pedagogia moderna; compie anzi un progresso, giacché diventa più interiore, ed è più esigente in merito alla riflessione sopra se stessi, e alla elaborazione della propria personalità per renderla quale deve essere: cristiana. Ora, siccome l’essenza del cristianesimo è la carità, ciascuno di noi deve affrontare le rinunce, i sacrifici, l’abnegazione, la perseveranza che la carità esige; sino a raggiungere una certa forma di ,abdicazione di noi stessi, del nostro io. Bisogna morire interiormente, se si vuole rinascere; è necessario avere il coraggio della umiltà totale, del lavorio interiore, dell’accusa di sé e non degli altri e non appellandosi alle circostanze. Occorre riconoscere pienamente: io sono debole, io sono illogico, io sono stato cattivo ed ho commesso lo sbaglio che devo deplorare nella mia coscienza, di fronte a Dio e, se occorre, di fronte alla Chiesa, dicendo sinceramente mea culpa.


LA PREGHIERA E LA MERITORIA CARITÀ

Lo spirito di penitenza: ecco il fondamento. Sopravvivono, poi, anche alcune pratiche esteriori, le quali, più che altro, sono il simbolo verace dell’impegno di rinnovamento interiore. Oggi, mercoledì delle Ceneri, la Chiesa ci ordina l'astinenza e il digiuno, quasi a indicare la rinuncia e a dimostrare che siamo padroni di noi stessi. che lo spirito ha il sopravvento su ogni incontrollata istintività della nostra complessa natura.

Resta poi la grande penitenza, cioè la direzione della nostra anima verso Dio, la preghiera: elevatio mentis ad Deum. Anche questa forma di spirituale dovere noi riteniamo facile, poiché la preghiera ci è familiare, riempie le nostre giornate, i nostri orari. Ma è indispensabile pregare bene; tendere a Dio con amore ed umiltà, con senso religioso pieno e profondo, col desiderio sincero di giungere al meraviglioso colloquio, a parlare al Signore: è un esercizio, per chi lo conosce, molto difficile. I Santi impiegavano diverse ore per arrivare a qualche istante del sublime contatto con Dio.

Pertanto, la Chiesa ci raccomanda di fare almeno questa penitenza; ci esorta a educare lo spirito al linguaggio religioso, a riprendere le grandi, belle, classiche preghiere offerteci dalla Liturgia; e soprattutto a cercare di coglierne lo spirito per allenare le nostre espressioni interiori alla grande epopea, all’eccelsa poesia dell’anima, costituita appunto dal ciclo liturgico quaresimale.

Infine, sempre tra le opere di penitenza, oggi specialmente la Chiesa prescrive l’esercizio della carità.

Anch’esso è bellissimo, entrato ormai nelle nostre consuetudini e, sotto vari aspetti, ritenuto facile, specie nell’attuare le opere di misericordia, che sono il tessuto pratico appunto nell’esercitare la carità. Ma, a guardarle più da vicino, queste pratiche, ci si può imbattere in alcune sorprese. È facile perdonare un’offesa? Quante reazioni si avvertono e si moltiplicano a proposito del necessario perdono, specie quando l’orgoglio esige riparazione o vuole comunque spiegare ed imporre al prossimo le proprie ragioni!

Del pari, come è difficile, nella carità materiale, privarsi di qualche cosa di caro, di utile, forse di necessario: fare una elemosina che davvero incida nei nostri risparmi, nel nostro peculio. Si dà volentieri il superfluo, quel che non costa niente. La vera carità, invece, propone di dare qualche parte di ciò che costa, che sembra a noi indispensabile. Qui la sapiente norma che può dischiudere inesplorati orizzonti.


AFFRETTARE LA PACE NEL MONDO

Al termine del suo dire, il Sommo Pontefice insiste su una speciale fervida esortazione. Consentite - Egli dice - che parlando del multiforme esercizio del bene, adempiuto anche con il coraggio e con il proposito di affrontare gli ostacoli - sono le difficoltà della penitenza - Noi raccomandiamo una cosa, del resto facilissima: una preghiera speciale per la pace. Avete forse già appreso dalle notizie del pomeriggio, che Noi abbiamo reiterato l’appello a tutti coloro che sono parte in causa nel lontano conflitto in atto ma che coinvolge un po’ le sorti e soprattutto lo spirito del mondo moderno, invitandoli a preparare ed attuare la pace. Voi, anime buone, specialmente voi Religiose, pregate per la pace. Voi non potete, certo, concretare grandi imprese o partecipare a speciali organismi, ma essere le anime militanti nella preghiera, nell’ardore della carità e della fiducia in Dio: voi lo potete. E perciò a voi, in particolare, tale intenzione raccomandiamo; come a voi, carissimi figli, e a voi, confratelli nella preghiera e nell’esercizio del sacro ministero, questo desiderio sincero affidiamo: che la pace renda tutti buoni gli uni per gli altri, capaci di perdono, di considerazione, di stima; cercando, in tal modo, di dare a questo mondo che va tanto agitandosi, una nuova carica di speranza, di bontà e di spirito cristiano.

E con tale voto nel cuore vi salutiamo, aggiungendo l’augurio di buona Quaresima, di buona Pasqua, mentre tutti, nel nome di Cristo, benediciamo.





Domenica prima di Quaresima, 12 febbraio 1967: CELEBRAZIONE NELLA CHIESA PARROCCHIALE DI S. IPPOLITO

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La pace del Signore sia con voi, figli carissimi. Con questo augurale saluto il Santo Padre intende subito manifestare la letizia nel trovarsi tra una parte tanto eletta di fedeli della sua Diocesi Romana, avendo presso di Sé il Signor Cardinale Vicario, il Vescovo Ausiliare, che ha in cura la zona della parrocchia di S. Ippolito, molti sacerdoti, a cominciare dalla comunità dei Religiosi Cappuccini, ai quali la parrocchia stessa è affidata.

Sua Santità vuole esporre, principalmente, due considerazioni. La prima concerne appunto la sua visita; la seconda è il commento ad una parola del Vangelo testé letto.

Quale il motivo della presenza del Papa in questa prima domenica di Quaresima in una delle più fiorenti parrocchie di Roma?


MOTIVI DI UNA VISITA

Non è per una festa; non è per una indagine (alle autorità spesso è attribuito uno scopo indagatore o di vigilanza) e nemmeno per un semplice farsi vedere, benché sia legittimo l’incontro di famiglia del Padre con i figli e l’affabile colloquio tra loro.

L’origine della visita va riconnessa a un punto di partenza molto preciso e importante: risale a Nostro Signore Gesù Cristo ed è la missione della Chiesa. Il Papa è venuto per ricercare le anime affidate alle sollecitudini del Pastore; per avvicinare sia coloro che seguono con buona volontà gli insegnamenti del Salvatore, sia coloro che ne sono lontani. Per mandato divino, il Papa e i Vescovi, successori degli Apostoli, nonché i sacerdoti che li coadiuvano, sono pescatori di anime.

Qualcuno chiederà: perché prima, nei tempi andati, il Papa non lasciava la sua residenza? V’erano ragioni di impossibilità ben note. Ora è diverso; Egli può muoversi più agevolmente.

Ma c’è di più. Prima era maggior consuetudine che i fedeli, gli individui e i gruppi andassero essi a trovare i propri Pastori e Sacerdoti, che sono sempre in attesa e a braccia aperte. Oggi, a causa di tante trasformazioni e del ritmo delle diverse attività, la gente, in genere, non cerca più con acceso interesse chi deve annunciare il Vangelo e diffondere la grazia del Signore. Oggi imperversano moltiplicate distrazioni e dispersioni, ed è trascurato l’incontro con Dio. Tanti vi sono - e ad essi va egualmente il saluto affettuoso del Papa - i quali non cercano il Signore, lo dimenticano; altri, ancor più accentuatamente, si distaccano da Lui e non vogliono più saperne di religione, di Chiesa, della fede, della preghiera. Vivono come esseri irrazionali ed inferiori, senza guardare al Cielo.

Ecco, quindi, che coloro i quali sono incaricati di avvicinare, istruire il popolo e renderlo fedele a Cristo, si muovono verso i lontani, ponendo in atto la legge, il mandato del Signore: di insegnare e predicare a tutte le genti, sì da unire tutti gli uomini nell’unica famiglia spirituale, la Chiesa.

Così alto ministero si accentua - è logico - in un’epoca come la presente, di fervoroso lavoro di ricostruzione all’indomani del Concilio. È dunque una gioia, per il Padre l’incontro: lo sarà anche per i figli, ognuno dei quali potrà dire: è venuto per me, per parlarmi ed aiutarmi.


LE BENEMERENZE DEI PADRI CAPPUCCINI

All’inizio d’ogni conversazione c'è il saluto preliminare. Il Santo Padre intende darlo anzitutto a colui che è il responsabile di ogni preziosa attività nella parrocchia, al Parroco di S. Ippolito, il Padre Agatangelo da Cuneo, dei Frati Minori Cappuccini. Il Papa desidera porre in evidenza il Parroco dinnanzi alla sua popolazione - ben 28.000 abitanti conta la parrocchia - per dire a tutti che Sua Santità gli è riconoscente delle fatiche pastorali da lui svolte; vuole accreditare ancor più l’opera sua, raccomandare a tutti di volergli bene, di assecondarlo nelle opere e fatiche, mentre Paolo VI è lieto di potergli dire: Fratello, sii benedetto perché tu sei mandato dal Successore di Pietro, hai l’incarico della vita spirituale di tante anime, nel tuo cuore e nelle tue mani sta il ministero di Cristo. Il Papa ti abbraccia, lodando e glorificando la tua persona, affinché tu possa svolgere opera sempre più efficace e salvatrice per l’intera grande famiglia parrocchiale.

Con il Parroco, il Santo Padre saluta gli ,altri Cappuccini di S. Ippolito, rievocando, con affetto, il caro Religioso, poi Vescovo, Padre Leone da Caluso (Monsignor Ossola) che, essendo zelantissimo parroco di San Lorenzo al Verano, pensò al nuovo quartiere che stava qui sorgendo e fece sciamare - api industriosissime - una parte della propria comunità in questa zona.


IL DIVINO MONITO DI GESÙ

Ed ecco il saluto al popolo, ad ogni categoria. Una, precipua nel quartiere, è quella dei ferrovieri. Paolo VI tiene a ribadire che i ferrovieri, anche per il genere del lavoro che li chiama spesso lontani dalle abitazioni e a responsabilità delicate, sono considerati ed amati, in maniera singolare, dal Papa e dalla Chiesa; e perciò sono, con viva effusione, benedetti.

Altre menzioni vanno, nella paterna rassegna, ai bambini, ai giovani, ai sofferenti, sia nelle angustie per mancanza di lavoro o del necessario, sia perché afflitti da malattia. Vogliano i presenti, tornando a casa, dire loro che il Papa li saluta, li tiene presenti nella sua preghiera e li benedice.

Ed eccoci, ora, al secondo punto della Esortazione pontificia: il Papa è venuto a portare la Parola di Cristo.

Che cosa fa per prima cosa il Vescovo, l’apostolo, il sacerdote, il missionario? Il suo immediato dovere è quello di parlare; di far scaturire la parola di Cristo che tiene in sé e di annunciarla. Procedono dal Signore gli apostoli, i profeti, i predicatori, i sacerdoti; e i catechisti, tanto meritevoli di lode in questa parrocchia.

Ebbene, avete sentito quale racconto complesso, misterioso e difficile è stato letto, nel brano evangelico della prima domenica di Quaresima. È la storia della tentazione di Gesù nel deserto.

Nel Nostro viaggio di tre anni or sono in Terra Santa - nota l’Augusto Pontefice - abbiamo voluto dare uno sguardo speciale proprio a quella zona deserta, senza piante, senza sentieri, quasi bruciata, distendentesi dalla montagna che, sulla strada da Gerusalemme a Gerico, va sino al Giordano. Il Signore ha passato là i quaranta giorni di solitudine, digiuno totale e preghiera, prima di incominciare la sua predicazione messianica, la sua missione di Figlio di Dio, Redentore del mondo.

Guardando quella desolazione era naturale sentirsi vicini a Gesù e partecipare il più possibile al suo abbandono, alla sua prova di mortificazione e sacrificio.

Alla fine, Egli rimane estenuato, sfinito: sente il bisogno di cibo; «ebbe fame», è scritto nel Vangelo.

In quel momento, la tentazione. Lo spirito del male si appressa a Gesù, forse prostrato a terra per l’acuta inedia: «Hai fame? Guarda questi sassi; se davvero sei il Figlio di Dio, trasformali in pane».

Ora è la risposta data da Gesù a richiamare la nostra mente a maggiore riflessione. Si considerino l’infinita grandezza e la superiorità dello spirito di Cristo: «Non di solo pane vive l’uomo, ma egli vive principalmente d’ogni parola che scende dalle labbra di Dio!».


INSIDIE DEL MONDO MATERIALISTICO

Studiamo il significato della grande verità. Sua Santità vuole ripeterla, perché essa non è soltanto adatta a respingere il demonio nel deserto della Palestina, ma serve a guidare, in modo perfetto, la nostra vita moderna, attuale. Dobbiamo tutti tener presente che non si vive soltanto dei beni economici, del pane materiale, della vita esteriore.

Attenti, però! Gesù non ha detto che non serve il pane materiale, il salario, tutto quanto è indispensabile per la nostra vita fisica e corporale. Ha proclamato una verità più grande. Non ha detto: «Non serve»; ha detto: «Non basta». Non è sufficiente: altra cosa v’è di molto necessario. Se noi ci contentassimo del solo pane materiale, invece di animare la nostra vita, la ridurremmo al livello della esistenza animale. Il Signore ha voluto respingere questo programma imperfetto di vita, affermando che l’uomo ha sì delle esigenze temporali, ma deve tendere, aspirare ad un programma ideale e superiore.

E qui - spiega il Santo Padre - va ricordato che la tentazione sul primato della vita economica, del pane materiale, anzi dell’esclusività di questo pane, è proprio il convincimento e l’impegno speciale del mondo odierno. Si tratta del materialismo. Esso ci dice: guarda, se vuoi vivere, accumula denaro; godi alla giornata, cerca di soddisfare tutte le brame della tua natura istintiva: non pensare ad altro, giacché il resto è un insieme di sogni inutili e distraenti. Cerca di mangiare in maniera raffinata, di dormire tranquillo, d’essere ricco e agiato; in ciò è la grande soluzione. Pertanto, coloro che sentenziano in modo diverso da questo, particolarmente i profeti della parola di Dio, ti offrono solo parole vuote, inutili, ti incantano e basta. «Oppio del popolo», è stata definita la Religione.


LA DOTTRINA SOCIALE CRISTIANA

E invece il Vicario di Gesù Cristo ripete: guardate e ricordate che la Chiesa, predicando questa parola del Redentore, il quale asserisce non essere sufficiente il pane materiale, e doversi ancor più esigere un pane spirituale superiore, non nega la legittimità, la necessità, e nemmeno, si può dire, la sacralità del pane materiale. Come non ripensare al miracolo operato dallo stesso Divino Maestro con la moltiplicazione dei pani per sfamare la moltitudine che Lo seguiva? E non ha Egli detto che ogniqualvolta noi diamo da mangiare ad un povero affamato, considera tale atto di carità come fatto a Se stesso?

E nell’ultima Cena Gesù prese il pane, venuto dai nostri campi, frutto delle fatiche dell’uomo, e lo trasformò nel Corpo suo, cioè di quel cibo materiale ha fatto il simbolo e il veicolo del nutrimento soprannaturale, della sua sacramentale presenza.

Tutto ciò conferma che la Chiesa conosce, dichiara, promuove, difende, segue ed assiste tutto lo sforzo richiesto per dare al popolo lavoratore, sia ai poveri, sia a coloro che cercano di conseguire qualche cosa di meglio, ogni appoggio. La Chiesa è con loro.

E se dice: bisogna cercare più in alto, non nega e non disconosce la legittimità e il dovere della soddisfazione di questi bisogni. Basterebbe il ricordo di quanto insegna, al riguardo, la Scuola Sociale Cristiana.

Che cosa insegna ? Entrando nella residenza oggi visitata, il Papa ha visto il cartello indicatore delle ACLI. Che cosa sono? Appunto una testimonianza dello sforzo della Chiesa nel proteggere e promuovere il popolo affinché abbia il pane materiale a sufficienza, e i vestiti, la casa, quanto spetta, in una parola, alla vita umana e al suo benessere.


PROMESSA E PEGNO BELLA VITA ETERNA

Ma la Chiesa dice una parola di più: figliuoli, quando aveste tutto ciò ed oltre, e con abbondanti ricchezze, sareste ancora poveri. Questo non basta. Voi avete nello spirito delle capacità, dei desideri ancora più ampi, superiori: e se rimangono inappagati, voi restate insoddisfatti, anche se avete mangiato e dormito bene e avete il portafoglio pieno. Perché?

Perché l’uomo ha un’anima: non soltanto un corpo. L’uomo non è destinato solo a scavare la terra e far venire su il grano, a trasformare tante risorse nel pane che sazia la fame naturale. L’uomo deve vivere di alimenti che scendono dal Cielo: la parola di Dio, la verità, la fede, la religione, il contatto proprio con la vita di Dio. Anche e soprattutto di ciò ha bisogno.

Figliuoli - conclude il Santo Padre - vogliate bene a questa vostra parrocchia, a questa chiesa, a questa istituzione che è intesa precipuamente a darvi il cibo superiore, a dire a ciascuno di voi: guarda che non sei soltanto un operaio, sei figlio di Dio; non sei una macchina, o un complesso di muscoli adatti ad una fatica materiale: sei un cittadino del Regno di Dio.

Questa voce redentrice e liberatrice il Papa ripete quale eco della parola di Cristo: sentite, figliuoli, la vocazione che il Signore vi dà: guardate come il Vangelo tutti ci chiama a dignità sublime. Non nega, non disconosce i bisogni materiali, anzi li difende e li cura con l’interesse della sua carità, perché ognuno sia soddisfatto. Ma non basta: bisogna mettere sulle labbra una preghiera, nel cuore una speranza, nell’anima una capacità di nutrirsi di Dio e di diventare, davvero, figli di Dio.

Con quanto dice la Chiesa, il Papa, venuto, in una visita a Lui tanto gradita, a celebrare la Santa Messa e a colloquiare con fedeli dilettissimi, ripete la stessa parola di Gesù: Non di solo pane materiale ha bisogno la nostra vita; essa richiede la parola del Signore, perché questa, unica, ha la promessa e il pegno della vita eterna.




B. Paolo VI Omelie 24126