B. Paolo VI Omelie 19267

Domenica seconda di Quaresima, 19 febbraio 1967: CELEBRAZIONE NELLA CHIESA PARROCCHIALE DI S. FILIPPO IN EUROSIA

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Il Santo Padre inizia il suo dire rievocando, con animo commosso, gli alti motivi di questa visita alla parrocchia di S. Filippo in Eurosia.

Anzitutto la memoria di San Filippo Neri, compatrono di Roma che, nel secolo XVI, con la iniziativa della visita alle Sette Chiese - un itinerario lungo circa venti chilometri e compiuto in un solo giorno - si soffermava qui con le comitive da lui guidate, per breve riposo, nel lungo e polveroso tratto da San Paolo a San Sebastiano.


ATTIVI SACERDOTI DELL’ORATORIO DI SAN FILIPPO NERI

L’esempio del grande apostolo dell’Urbe fu seguito dai suoi figli spirituali; e due sacerdoti dell’Oratorio sono particolarmente benemeriti : il Padre Generoso Calenzio, che, nel secolo scorso, seppe porre in nuovo valore l’interessamento per le zone archeologiche e, soprattutto, della chiesetta di Sant’Eurosia; e il carissimo Padre Paolo Caresana, già parroco alla Chiesa Nuova, ormai un po’ anziano, ma sempre vigoroso di spirito e di fervore. A lui si deve il merito di aver iniziato studi e concreti lavori per la nuova parrocchia. Il Santo Padre, perciò, dopo aver salutato il Signor Cardinale Vicario, i Vescovi Ausiliari e l’altro Vescovo presente, l’oratoriano Monsignor Carlo Manziana, Vescovo di Crema, stimato condiscepolo e amico, tributa particolare elogio al Padre Caresana, con il ringraziamento e con l’augurio che possa trarre ancora nuovi gaudi da questo centro benedetto. Egli inoltre si dice onorato e felice di aver potuto favorire e incoraggiare a suo tempo, essendo alla Segreteria di Stato, il sorgere della nuova Parrocchia e del nuovo Istituto.

Al realizzatore dell’opera, Padre Caresana, vanno associati, in gratitudine perenne, i più attivi benefattori, a cominciare dal compianto Monsignor Giovanni Carroll e dai Signori Streicht e Bradley, che concorsero generosamente sia per la costruzione della chiesa, sia per il sorgere della casa di studi intitolata al Cardinale Baronio.

Dopo questa premessa, il saluto alla popolazione della parrocchia. Poiché in essa la maggioranza è composta di impiegati dello Stato, Paolo VI tiene a menzionare questa categoria di bravi e solerti servitori della comunità nazionale, con l’augurio che essi abbiano sempre più ad onorare il Paese con la loro opera animata da onestà, precisione, competenza, spirito di sacrificio, e dall’amore per i fratelli.


IL RADIOSO AVVENIMENTO SUL TABOR

Con loro il Papa intende salutare le singole famiglie e particolarmente i giovani: quelli di S. Filippo in Eurosia hanno uno speciale titolo, nei luminosi insegnamenti ed esempi dell’insigne Fondatore della Congregazione dell’Oratorio, ad essere di modello, nella cristiana educazione e nel cristiano impegno, per i coetanei delle altre parrocchie.

Ed ora il Santo Padre entra nel vivo della Esortazione ai fedeli.

Gli araldi del Vangelo - Egli dice - i Vescovi e, primo fra essi, il Papa, hanno l’obbligo di annunciare e diffondere la parola di Dio, spiegarla e commentarla.

Rimeditiamo insieme, con attento animo, il brano di San Matteo testé presentatoci dalla Liturgia. È il racconto della Trasfigurazione del Signore. Una pagina della storia di Cristo, tra le più belle, splendide e misteriose.

Gesù, di notte, su di una montagna, all’aria aperta, forse durante la primavera, con tre suoi Discepoli: Pietro, Giovanni e Giacomo. Mentre questi, stanchi per l’ascesa, sostano a riposare sull’erba, Gesù si allontana alquanto per attendere alla preghiera, come sempre faceva durante le ore notturne: «Erat pernoctans in oratione Dei», ci ricorda San Luca.

Nel buio profondo, a un certo punto i tre dormienti sono destati da un abbagliante guizzo di luce. Ed ecco che, trasecolati, vedono Gesù - San Marco dà alcuni particolari - splendente come il sole, mentre le sue vesti sono candide come la neve.

Sole e neve. È la festa della luce. In quel trionfo i discepoli scorgono due eccelse figure dell’Antico Testamento, Mosè ed Elia, a colloquio con Gesù.

San Pietro non resiste alla letizia ed all’entusiasmo. Dopo aver esclamato: Come è bello star qui!, propone di erigere tre tende per un permanente soggiorno dei tre Personaggi.

Ma, contemporaneamente, i tre Apostoli vedono formarsi una nuvola bianca ad avvolgere l’intero quadro beatifico: e dalla nube odono una voce possente esclamare: «Questi è il mio Figlio diletto, ascoltatelo».

Pietro, Giovanni e Giacomo rimangono atterriti e non osano più alzare lo sguardo. Qualche momento più tardi si sentono toccare. È ancora e sempre Gesù, ma privo del prodigioso fulgore di poc’anzi; Egli li invita a discendere il monte; e fa loro divieto di raccontare quanto era accaduto finché - altro motivo di stupore per gli Apostoli - il Figlio dell’uomo (era il titolo che Gesù dava a Se stesso) non sia risorto dai morti.


LA PIENA COGNIZIONE DI GESÙ

Si potrebbe scrivere un volume - così l’Augusto Pontefice nel passare dalla esposizione all’insegnamento - per illustrare questo tratto del Vangelo. Ma oggi il Santo Padre intende proporre soltanto qualche tema di più immediata importanza.

Quale problema pone l’episodio della Trasfigurazione? Può essere condensato in una domanda che ciascuno vorrà rivolgere a sé medesimo: Conoscete davvero Gesù? Cioè, avete di Lui una cognizione reale, positiva, concreta?

Sapreste realmente dire chi è? Lo avete presente nelle vostre anime?

C’è il pericolo - data la debolezza della natura umana - di soffermarsi a risposte e titoli giusti sì, ma non sempre completi. Un cristiano, però, deve saper rispondere più e meglio di quanto non risulti da un interesse, da una notizia superficiale.

Intanto: proprio questa domanda percorre tutta la storia evangelica, dal principio alla fine.


SAPIENZA BONTÀ AMORE DEL CRISTO

Chi è Gesù? si chiedono i suoi contemporanei. Varie sono le risposte: il figlio di Maria, il figlio del fabbro, un profeta, il Messia. Tale diversità di appellativi persiste: su di essa si costruisce addirittura un processo: la Passione di Gesù. Nella notte tremenda, dopo la cattura al Getsemani, Caifa, il Sommo Sacerdote, chiede al Cristo se Egli è il Figlio di Dio. Gesù risponde: Si, io lo sono. Più tardi è Pilato a domandargli se è Re: identica risposta affermativa. Di qui la condanna, per cui, sulla Croce, è apposto il cartello con la motivazione della sentenza: Gesù Nazareno, Re dei Giudei.

Dopo così eccezionali e terribili avvenimenti, è logico che i fedeli si chiedano se conoscono Gesù.

Per facilitare la risposta ripensiamo a due ordini di argomenti. Il primo scaturisce da Gesù stesso. In che modo Egli si presenta e si rivelai Va notata una specie di graduatoria. Il Salvatore del mondo ci appare in povertà, nell’umiltà, togliendo intorno a sé ogni apparato, ogni sfarzo e ogni segno della sua Divinità. Volle iniziare la sua vita terrena, di nascosto, introducendosi nell’umanità senza eventi straordinari; ed è vissuto per tanti anni come un povero operaio. Non poteva esservi umiltà più profonda. E chi non accetterà questa presentazione, si scandalizzerà e non comprenderà il resto della vita e della rivelazione di Cristo. Sembrerebbe, dunque, che Egli non voglia fa: notare la sua presenza. Ciò spiega perché tanti gli passano vicino e non ne avvertono il richiamo.

Ora questa rivelazione sensibile, umana, caratterizzata dalla povertà non è sola. Gesù ha dato a tutti la sua presenza, ma ad alcuni, a coloro che l’hanno avvicinato e seguito, ha accordato altre manifestazioni di Sé: la sapienza, la sua parola meravigliosa. Da essa rimangono folgorati - ad esempio - gli inviati dei nemici del Divino Maestro, i quali un giorno volevano farlo catturare. Restano come sgomenti nel sentirlo parlare. Altra volta una donna, dopo averlo ascoltato, alza la propria voce in mezzo alla folla esclamando; Benedetta colei che ti ha generato, perché nessuno ha mai parlato così bene come Tu insegni.

Accanto alla rivelazione della sapienza, quella della potenza: i miracoli. Sono tanti, strepitosi: tutti li abbiamo presenti. Non poteva, certo, un uomo qualsiasi operare simili prodigi.

In una terza maniera, inoltre, e in grado anche superiore: Gesù si rivela. È nella bontà. Chi lo avvicina ha la commozione e il fascino di tale incomparabile bontà. «Venite a me, voi tutti che siete affaticati; e io vi ristorerò». E il perdono ai peccatori, la dilezione per i fanciulli, i poveri, i sofferenti. Ognuno, adesso e sempre, può fare l’esperimento di passare accanto a Gesù e cogliere la sua luce penetrante, nella perfetta conoscenza delle anime. «Sciebat quid esset in homine». Sapeva ciò ch’era dentro nei cuori, e nei cuori effondere la sua bontà.

Finalmente - sempre più si restringe la schiera di coloro che conoscono la superna apparizione - Gesù si rivela pure in ciò che realmente è. Ecco la Trasfigurazione. In lui palpita non soltanto una vita umana, ma la vita divina. «Questo è il mio Figlio diletto» . È il Figlio di Dio fatto Uomo. Proprio tale aspetto diventerà, si direbbe, normale dopo la morte e la risurrezione del Signore. Il Santo Padre insiste, nel rivolgersi ai fedeli ascoltatori: l’avete mai conosciuto il Signore così?


APRIRE L'ANIMA ALLA FEDE E ALLA GRAZIA

Ora dobbiamo esaminare un secondo ordine di elementi che condizionano la nostra conoscenza di Gesù. Essa dipende da una disposizione nostra: quella di aprire gli occhi, il cuore, l’anima. Se andiamo da Lui col cuore chiuso, con gli occhi serrati, con la incredulità pregiudiziale e precostituita, Egli non si mostrerà. Passerà la luce vicino a noi e resteremo ciechi, indifferenti.

Bisogna dunque aprire gli occhi. Tutti devono farlo. Il Redentore non è venuto per una determinata categoria, ad esempio per i sapienti. Si è mostrato al mondo, alla intera umanità: e questa sarebbe, per sé, in grado di cogliere i raggi. del volto divino. La realtà ci dimostra invece che, purtroppo, non omnes: non tutti, come dice San Paolo, «oboediunt Evangelio». Alcuni guardano e non vedono: rimangono estranei e fiacchi dinnanzi alla Rivelazione.

Adunque occorre aprire le nostre menti alla conoscenza di Gesù. Né sembri esagerato questo esplicito invito, poiché non possediamo mai abbastanza siffatta conoscenza. Siamo sempre ignoranti, poiché quello che si può apprendere di Gesù è così grande ed infinito che le nostre povere facoltà, fossimo pure consumati teologi, dovrebbero ritenersi meschine e insufficienti.

Che cosa, allora, dobbiamo fare?

In primo luogo istruirci; aver cara la parola del Signore diffusa nella sacra predicazione, nella catechesi, nei libri adeguati.


LA FINALE TRASFIGURAZIONE

Gesù non si è rivelato tanto per la via degli occhi, quanto per l’ascolto che dobbiamo prestargli. Ce lo ricorda il Vangelo: «Ipsum audite»: Lui dovete ascoltare. E ancorai «Fides ex auditu» : la fede, cioè la misteriosa conoscenza di Gesù, l’avremo con la fortuna di poterlo ascoltare.

Di conseguenza non solo bisogna essere bravi ascoltatori, ma avidi di apprendere, perché la parola di Gesù è Gesù stesso, è il Verbo di Dio, che viene in maniera intenzionale, misericordiosa, amplissima, alle nostre anime, affinché ivi la sua parola sia ricevuta e divenga norma di vita.

La seconda cosa da compiere è amare Gesù. Chi lo ama, lo conoscerà nella maniera più valida. Egli stesso l’ha asserito: «Qui diligit me, diligetur a Patre meo; et ego diligam eum et manifestabo ei meipsum». Se qualcuno mi ama, io mi aprirò a lui, mi farò conoscere da lui. Sono le esperienze spirituali, che, sovente, hanno una certezza ben maggiore dei sillogismi del nostro ragionamento. Ebbene, a tutte le anime questo dono è largito; quanti desiderano realmente essere con Cristo potranno possederlo.

Allora, ecco il voto del Papa ai figliuoli carissimi; e qui siamo non tanto nell’annuncio quanto nell’augurio: tutti possano, un giorno, vedere il Salvatore nostro nella sua pienezza di vita, nella sua umanità, ch’è uguale alla nostra, nella sua Divinità che gli viene dal Padre. Il Dio vivente noi vedremo in Lui. Sarà, quell’incontro beato, quella trasfigurazione finale, la nostra gloria e felicità eterna: il nostro Paradiso. E così sia!



Domenica terza di Quaresima, 26 febbraio 1967: CELEBRAZIONE NELLA CHIESA PARROCCHIALE DI S. EUSEBIO

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Il Santo Padre, prima di offrire ai diletti figli che Lo circondano un commento al brano del Vangelo, dalla Chiesa proposto nella terza domenica di Quaresima, vuole considerare le molte ragioni per le quali avviene la sua visita alla chiesa di S. Eusebio.

È, questa, una delle circoscrizioni ecclesiastiche più antiche e venerande dell’Urbe, risalendo le prime notizie della sua esistenza ed attività agli stessi albori della riconosciuta libertà al Cristianesimo in Roma. È agevole, pertanto, riandare con la mente a tutto un tesoro di buone tradizioni, di opere egregie, pur se non sono mancate, lungo le varie epoche, prove e sofferenze.

Sappiamo, poi, che la parrocchia di S. Eusebio venne ricostituita alla fine del secolo scorso. Dei parroci il Santo Padre vuol ricordare Don Chimenti, Monsignor Antonelli e quindi il venerato Monsignor Domenico Dottarelli, che da 36 anni regge la parrocchia, unendo alla vegeta anzianità l’esempio di grande zelo e di specchiate virtù pastorali. Di ciò il Papa, Vescovo di Roma, vuole rendere esplicita testimonianza alla intera comunità parrocchiale, con il ringraziamento più sentito, e detto nel nome del Signore, il quale, solo, potrà munificamente compensare i tanti meriti di saggezza e dedizione accumulati dal generoso Pastore.


MERITI PASTORALI E FERVORE DI OPERE

Con lui il Santo Padre intende salutare chi sta per raccogliere così impegnativa eredità, Don Marcello Bordoni.

Uno speciale pensiero Sua Santità rivolge, poi, agli altri sacerdoti che svolgono attività nella parrocchia, e a due comunità di Religiose per vari titoli encomiabili: le Suore del Buon Salvatore, alle quali fanno capo tante opere di assistenza ed istruzione; e le Suore Missionarie Francescane di Maria, la maggiore Famiglia missionaria femminile. tanto nota per gli esempi di generoso e vigile apostolato, sacrificio e santità dati alla Chiesa di Dio.

Il saluto si estende, poi, a tutti e singoli i numerosi sodalizi religiosi della parrocchia; mai vari gruppi dell’Azione Cattolica, tanto più lodevoli, in quanto qui per essi non esiste sufficienza di locali; a tutte le categorie di fedeli. Un ringraziamento cordiale il Papa vuol dare a coloro che poco prima Gli hanno offerto magnifici fiori. Sua Santità intende benedire quanti, nel territorio di S. Eusebio, attendono al vasto commercio a vantaggio della città: e con le singole persone tutte le rispettive famiglie.


L’ACCLAMAZIONE DI UN’ANIMA SEMPLICE

Ed ora, dolcissimo dovere di ufficio e del sacro ministero - prosegue il Santo Padre - una illustrazione del brano evangelico testé letto e da tutti ascoltato.

È una pagina complessa, drammatica, con numerosi elementi e problemi: Sua Santità desidera limitarsi a richiamare l’attenzione dei presenti sull’ultima frase del brano stesso, nel quale è l’annuncio di una beatitudine, proclamata da Nostro Signore: «Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la custodiscono».

Più di una volta, sia nel Vangelo di San Luca, sia in altri Libri del Nuovo Testamento, è ricordata questa verità. È segno che qui c’è un pensiero caro e dominante nella predicazione del Divino Maestro.

La prima cosa da fare - e non senza un certo studio e superamento di talune difficoltà esegetiche - è chiederci che cosa intende Gesù, quando dice la parola. A quale parola Egli si riferisce?

Soffermiamoci subito a considerare la parentela esistente fra il Divin Salvatore - la sua Persona - e la parola. Non è detto nel Vangelo che Gesù è il Verbo, cioè la Parola fatta Uomo? Ma qui più che di parentela si dovrebbe parlare di identità. Non è forse Gesù stesso la Parola? È proprio così.

Su questa base di superna verità potremmo intanto esaminare in quali modi il Signore è presente in mezzo a noi. Il Concilio si è soffermato su tale argomento; ne tratta la Nostra Enciclica «Mysterium Fidei» del 3 settembre 1965; e in altre circostanze Noi ne abbiamo parlato.


GESÙ PRESENTE CON LA SUA PAROLA

In che modo Gesù è presente?

Naturalmente ci riferiamo subito alla sua presenza visibile e storica nel Vangelo: e il Divino Maestro proprio da ciò inizia l’insegnamento. Egli, nella scena a cui oggi ci riferiamo, da una umile donna del popolo - spinta da improvviso entusiasmo per la gioia di sentirlo parlare con tanta sapienza e con tanta forza - era stato acclamato: Benedetta la Madre che ti portò nel seno; benedetta Colei che ti nutrì bambino! Orbene, Gesù pone a confronto la sua presenza, questa sua associazione alla umanità con un’altra forma che Egli definisce superiore e preferibile. Alla maternità fisica della Madonna, il Signore contrappone una maternità spirituale, che certamente la stessa Vergine Santissima ha avuto in sommo grado insieme con quella fisica. È stata la Madre di Gesù nella carne ed è stata la Madre di Gesù per la sua fede in Lui: Beata quae credidisti, si legge in altra pagina del Vangelo.

Ma qui il Signore vuol porre in risalto che noi possiamo godere della sua presenza, anche prescindendo da ciò che ci manca, ossia il contatto sensibile, la visione immediata, materiale, nella conversazione umana. Il Signore ci dà e ci lascia la sua parola. La sua parola è un modo di presenza fra noi. Tale presenza ha due caratteristiche: essa dura, permane; e mentre la presenza fisica svanisce ed è soggetta alle vicende del tempo, la parola rimane. La mia parola resterà in eterno, leggiamo nella Sacra Scrittura.

In secondo luogo: l’altra presenza, quella di cui saremmo tanto avidi, invece d’essere esteriore, è interiore.

Come si fa presente Gesù nelle anime? Attraverso il veicolo, la comunicazione della parola - così normale, nei rapporti umani, ma che qui diventa sublime e misteriosa - passa il pensiero divino, passa il Verbo, il Figlio di Dio fatto Uomo. Si potrebbe asserire che il Signore si incarna dentro di noi, quando noi accettiamo che la sua parola venga a circolare nella nostra mente, nel nostro spirito; venga ad animare il nostro pensiero, a vivere dentro di noi.

Ci sono - è ben risaputo - altri modi con cui il Figlio di Dio ha voluto accentuare la sua presenza, a cominciare da quello sostanziale, sublime, della Santissima Eucaristia: Ia. presenza sacramentale di Gesù tra noi.


«SAPER ASCOLTARE»

E ancora: Gesù vuol essere presente con la sua autorità negli Apostoli e nei loro successori: «Chi ascolta voi, ascolta me»; vuoi essere presente altresì in una maniera che potrebbe dirsi a specchio, quale riflesso di Se stesso nei poveri: «Qualsiasi cosa avrete fatto a favore di questi, l’avrete fatto a me», ed in altre maniere ancora.

Ma la presenza della parola è la prima ed è indispensabile, giacché se non c’è l’aspettazione della prima venuta di Cristo nelle nostre anime, tutto il resto sarebbe inutile.

Da qui la raccomandazione del Papa: Figliuoli, bisogna saper ascoltare. Nessuno si meravigli di questo insistente invito. L’educazione moderna rende refrattari ad accettare la via di comunicazione silenziosa e spirituale. La comune psicologia non è ben disposta. Essa induce gli uomini a sentirsi autonomi in ogni campo, e a rivendicare persino una indipendenza nei confronti di Dio. Si è, quindi, dei pessimi ascoltatori. Si ammette più la cosiddetta civiltà dell’immagine che la comunicazione del pensiero e della parola. Tutto, insomma, sembra distogliere dalla concentrazione sulla verità.


LA FEDE: PRIMO ATTO DELLA NOSTRA VITA IN DIO

Se, invece, si riesce a divenire recettivi di una parola del Signore; se una sua frase, un solo suo accento venisse accolto dal cuore, quale eccelsa ventura!

Occorre adunque preferire questa presenza, che si potrebbe chiamare passiva, cioè di accettazione, di ascolto.

Cercate - insiste Sua Santità - di ascoltare bene; cercate, quando il Sacerdote parla non in nome suo, ma in nome di Cristo, di carpire qualche verità, almeno un qualche concetto.

Così, udendo le spiegazioni del Vangelo, assidua industria d’ogni cristiano sia quella di appropriarsi almeno di una preziosa nozione; e tornando a casa, di coltivarne il ricordo, dimodoché durante l’intera settimana successiva ci si alimenti di così sostanzioso cibo spirituale: la parola del Signore.

Questa accettazione produce il fatto più importante della nostra vita soprannaturale, per cui si decide anche il nostro futuro: e cioè la Fede.

Chi accetta, crede; chi accoglie, dice sì: io aderisco: obbedisco alla Parola di Dio e ad essa mi abbandono. È il segreto della salvezza: io consento ad essere in comunicazione vitale, appunto per mezzo della Fede, che mi comunica il pensiero di Dio. Se questo pensiero entra nel nostro intelletto, è la luce divina che si effonde nei meandri tanto complessi, profondi, insondabili della nostra psiche. Si parla tanto, oggi, di psicanalisi, e cioè d’una complicazione enorme del nostro essere. Ebbene; quando noi riceviamo la parola del Signore e ad essa aderiamo con umiltà, schiettezza e sincerità, in questo nostro complesso interiore, tanto difficilmente analizzabile, entra e si adagia e si effonde come una germinazione spirituale la Fede, misteriosa e luminosa insieme: il primo atto della nostra vita in Dio.


MEDITARE ED ATTUARE GLI INSEGNAMENTI DEL SIGNORE

Dunque, anzitutto ascoltare. Poi, è il Signore a proclamarlo, bisogna custodire.

Noi - anche qui basta dare uno sguardo alla vita quotidiana - siamo dei capitalisti della parola. Abbiamo giornali, libri, scuole, cinematografi, televisione; abbiamo la testa che rintrona sempre per il più svariato e multiforme ascolto. Sovente si tratta -pure di esortazioni religiose; di prediche, ritiri, istruzioni, ecc.

Che cosa resta? Il Signore dice: Beati coloro che ascoltano e custodiscono.

E cioè: occorre non soltanto un atto passivo di accettazione; è necessaria una reazione attiva, un atto riflesso. Bisogna, per usare una parola corrente, meditare.

Sappiamo noi meditare, riflettere, ossia ripiegarci sopra quanto abbiamo ricevuto, sopra la verità che ha varcato le soglie della nostra anima? Sappiamo davvero introdurla nel nostro pensiero, approfondirla, o per lo meno farle onore? Se non siamo capaci di discorrere nello svolgimento dialettico della meditazione, dovremmo almeno saper dire e ripetutamente: sì, vieni, o Signore! E quanto è bella la tua parola! La ricorderò; essa costituirà la mia divisa; sarà, in me, memoria e proposito.

Da ciò consegue che occorre favorire questa simpatia, la quale mantiene il contatto fra Dio e noi, mediante la forma prima e vitale della sua presenza: la sua parola a noi largita. Ecco quanto indispensabile e benefico è il meditare.

E v’è un terzo momento. La parola deve tramutarsi in azione, e guidare la vita. Essa va applicata al nostro stile, al nostro modo di vivere, di giudicare e di parlare. Allora solo possiamo dirci veri cristiani, quando la parola di Dio modella e informa il nostro modo concreto di vivere. È d’uopo quindi applicarci a dare il più possibile ai nostri atti la logica e la coerenza cristiana. Divenga la parola di Dio la sorgente d’ogni nostra virtù.


LA VERA BEATITUDINE

In tal modo, la vita cristiana si rivela oltremodo attraente. Lo ha detto il Signore: non solo essa sarà misteriosa e divinizzata; ma diverrà beata. «Beati coloro che custodiranno la mia parola!». Il fedele ascoltatore e custode avrà il gusto, la letizia di osservare: ho tradotto, in qualche mia azione, l’obbedienza che devo a Gesù Cristo. La mia adesione a Lui non è stata retorica, vana, puramente formale ed esteriore o, peggio, farisaica; bensì reale, umile e concreta.

Con queste disposizioni è agevole avvertire la voce del Signore allorché bussa alla porta della nostra coscienza e ammonisce: Perché non fai così: non perdoni quella certa offesa; perché non rinunci a quella cosa pericolosa; perché non adempi bene un dovere che ti è gravoso; perché non togli dall’anima la tristezza e il malumore e non li sostituisci con la luce che vi deve rimanere sempre accesa, poiché sei cristiano, custode della gioia di Cristo?

Di qui - conclude Paolo VI - il ricordo finale di queste umili, semplici, affettuose parole del Padre: Abbiate, figliuoli, il culto e l’amore per l’ascolto, la meditazione e la pratica della parola di Dio. Certamente, allora, il Signore ripeterà per voi le sue promesse indefettibili e splendenti: «Beati coloro che ascoltano la mia parola e la custodiscono!» .



Domenica quarta di Quaresima, 5 marzo 1967: CELEBRAZIONE NELLA CHIESA PARROCCHIALE DI S. MARIA DI LORETO NELLA BORGATA DI LUNGHEZZA

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Il primo saluto ai carissimi figli della Parrocchia di S. Maria di Loreto nella borgata Castellaccio e Ovile sulla Tiburtina vuole iniziarsi con l’invito a tutti, incominciando dai fanciulli raccolti vicino al Papa, a intessere un’affabile conversazione, rispondendo alle domande dell’ospite, e interrogandolo anche sulle ragioni della sua venuta.

I VARI MOTIVI DELLA PATERNA PREFERENZA

È chiaro, perciò, che, alla richiesta del motivo di questa visita, la risposta è: perché il Papa considera suoi, cioè da Dio affidati alle sue cure di Pastore, gli abitanti d’una borgata, sorta di recente, quanto a vita comunitaria e di parrocchia. Nessuno, infatti, deve pensare che il Vescovo di Roma abbia preferenze per le basiliche grandiose, per i convegni solenni, con gruppi di alti ceti sociali. No, affatto. Le sue predilezioni vanno ai più umili, agli aggregati da breve tempo alla grande famiglia dell’Urbe. È il caso del Castellaccio, che tra poco si chiamerà Castel Verde. Vi abitano persone con vari titoli a singolare benevolenza. Intanto appartengono tutti alla fede cattolica, e poi sono ottimi lavoratori, in mezzo ai quali non manca chi soffre, chi ha bisogno di aiuto, chi ha difficoltà ed angustie da superare.

Il Padre delle anime, pertanto, li accoglie a braccia aperte. Siano i benvenuti: saranno assistiti con ogni fervore nell’azione pastorale che Egli deve esplicare a loro vantaggio.

La parrocchia di Nostra Signora di Loreto - ed ecco un ulteriore titolo di vanto - è composta nella quasi totalità da famiglie provenienti dalle Marche. Il Papa conosce bene la regione d’origine, e, nei suoi viaggi di alcuni anni or sono, ha potuto specialmente, apprezzarvi la nota armoniosa delle campagne coltivate con vera perfezione, e lo splendore del paesaggio. Ma è chiaro che il ricordo più vivo nel suo cuore è proprio il grande Santuario Mariano di Loreto, a cui giustamente si denomina la nuova parrocchia oggi visitata.

E adesso, dopo i preliminari di tanto sentito affetto e vera tenerezza, tutti troveranno naturale una breve esortazione del Papa proprio a ricordo dell’incontro. Essa trae origine dalla pagina del Vangelo testé letta, che tutti, senza dubbio, hanno impressa nel cuore.


IL MIRACOLO DELLA MOLTIPLICAZIONE DEI PANI

Possiamo immaginare la scena - così il Santo Padre - da questa nostra medesima adunanza. Una immensa folla, attratta dall’insegnamento di Gesù e dai suoi prodigi, Lo aveva seguito per l’intera giornata. Erano, dice il Vangelo, pi6 di cinquemila persone, senza contare le donne e i ragazzi. Una folla, perciò, oltremodo considerevole nell’ampio anfiteatro tra i monti e il lago di Tiberiade. Stava per calare la sera e i discepoli sollecitavano Gesù a voler congedare una così immensa assemblea. Ma Egli rispose: non hanno bisogno d’andarsene; date loro da mangiare. E disse a Filippo, uno degli Apostoli, per metterlo alla prova: Dove compreremo pane per cibare questa gente?

Ed ecco l’Apostolo Andrea, il fratello di San Pietro, annunciare la presenza di un ragazzo - come fanno sempre bella figura i fanciulli nel Vangelo! - che recava seco una sporta con cinque pani e due pesci. Ma ci voleva ben altro per sfamare un così numeroso popolo. Ed ecco il miracolo: uno dei più impressionanti e grandiosi, poiché ebbe innumerevoli testimoni; uno dei più asseriti, poiché tutti e quattro gli Evangelisti ne parlano. Siamo ad un momento centrale della vita del Salvatore. Dopo aver ordinato che tutti prendessero posto sui vasti prati in fiore, poiché era già primavera, Gesù prese i cinque pani volenterosamente offertigli dal ragazzo, levò lo sguardo al cielo e cominciò a distribuirli, da Lui moltiplicati in numero ingente, agli Apostoli; e questi a donarli con sveltezza ai tanti gruppi perché si sfamassero. Lo stesso avvenne dei due pesci. Ora, si noti la precisione di particolari nel racconto evangelico, quando tutti furono saziati, i discepoli, ad esplicito comando di Gesù, raccolsero i frammenti dei pani, che erano di orzo, e ne empirono dodici canestri.

A questo punto il popolo non poté più contenere il proprio entusiasmo. Acclamò alla grandezza del Profeta atteso, del Messia, e voleva proclamare Re il munifico donatore. Ma Gesù - scrive San Giovanni - «si fuggì di bel nuovo, da solo, sul monte».


LA CHIESA E I PROBLEMI ECONOMICI

È, chiaro che il meraviglioso prodigio si presta a non poche considerazioni. Il Santo Padre intende solo far un cenno di alcune.

La prima può venire così enunciata. Nell’odierna circostanza il Papa parla a gente che si guadagna il pane, che conosce la necessità dell’alimento, il bisogno economico; esplica e sopporta la fatica indispensabile nel procurarsi questo cibo, sa che essa è inscindibile dalia esistenza quotidiana; ed ha notizia anche di tutte le questioni derivanti proprio dal pane materiale. In una parola è al corrente - usiamo il termine più in voga oggi - della questione economica. E ciò a tal segno che non pochi, i quali si atteggiano a maestri o guide delle masse, affermano: questo è l’unico punto. Quando abbiamo risolto la questione economica, tutto è a posto: date da mangiare e fate star bene; niente altro importa. Tutta la vita è qui; la sua integra essenza è collegata al pane materiale.

Eppure, tale rilievo ci porta naturalmente a rievocare la grande parola di Gesù, riferitaci nella prima Domenica di Quaresima: «Non di solo pane vive l’uomo». Ognuno di noi ha bisogno di qualche altro cibo; e il Divino Maestro spiegava essere questo la parola di Dio discesa dal Cielo. È nata, allora, una grave questione, per cui taluni ragionano cos]: Cristo pensa all’anima, ma Egli non può provvedere al corpo; e chi succede a Cristo, cioè la Chiesa, propone i beni spirituali. Ma questi a che servono? A noi occorre ben altro, e cioè il pane buono e nutriente, il pane della terra, non il pane del Cielo. Ed ecco quindi verificarsi una separazione, un vero malinteso, in certi casi, fra la Chiesa che offre i suoi beni spirituali - vale a dire la parola di verità, le virtù, la carità, le promesse non effimere - e gli altri che asseriscono: che cosa importa tutto ciò? L’indispensabile è una buona paga, lo star bene, il diventare ricchi ed avere tutte le comodità offerte dal mondo odierno. Questo il motivo per cui tanti si sono staccati, almeno spiritualmente, dalla Chiesa, poiché insistono col ritenere e ripetere: a che cosa Ella serve?


UNA PRESENZA PROVVIDA E VIVA

Ebbene: ecco la lezione del brano evangelico poco fa riletto. È vero: la Chiesa ha per fine sommo e precipuo la vita spirituale dell’uomo. Cristo è venuto per salvare le nostre anime. Egli non è un capo di opifici o di banche o d’una pur vasta produzione materiale. Il Signore ci appare in povertà; Egli pensa e provvede ad altro; ma però - attenti alla eccelsa verità! - Gesù e chi gli succede, il Papa che vi parla, i sacerdoti che vi assistono e quanti si professano cattolici militanti, la Chiesa, in una parola, non sono insensibili ai bisogni anche materiali del popolo; non li trascurano; non dicono che si tratta di cose inutili e che gli uomini devono essere tutti come angeli al di sopra e al di fuori delle cose terrene. La Chiesa, sull’esempio di Gesù, riconosce le necessità materiali. Anzi, proprio il Divin Redentore, con il miracolo testé ricordato, dimostra come provvedere. E se la Chiesa non può ripetere materialmente la moltiplicazione miracolosa operata da Cristo in brevi istanti, ha però egualmente la possibilità di agire: con la predica della sua carità, con l’amore per tutti quelli che versano nel bisogno, con la sua preferenza per i poveri, mediante una ininterrotta, fervida azione, da Gesù impartita e che domina il mondo, proprio sul complesso problema sociale, sui doveri dell’umanità ad organizzarsi secondo giustizia e secondo un piano di distribuzione migliore dei beni della terra, affinché tutti ne abbiano e ne usufruiscano.

Si arriva così al secondo aspetto su cui il Santo Padre intende richiamare un istante l’attenzione degli ascoltatori.

Il Signore ha dato pane a tutti. Che cosa ciò vuol significare? Che tutti, davanti a Lui e davanti alla Chiesa, siamo oggetto della provvidenza e della generosità divina.

Se qualcuno tra voi dicesse: la Chiesa non mi vuol bene, a me, in realtà, nessuno pensa; sappia di non essere nella verità. Tutti voi - sottolinea con forza il Santo Padre - siete, e non è: poca cosa, almeno amati, apprezzati, conosciuti. C’è sempre chi, in nome della Chiesa, per mandato di Dio, si pone al vostro fianco, cerca di consolarvi - vedete queste buone Religiose che hanno lasciato tutto per essere in mezzo a voi, per educare i vostri fanciulli, assistere i vostri malati - di accompagnarvi, dunque, lungo il cammino, anche aspro, da percorrere. La Chiesa è desiderosa di essere in mezzo a voi e di non lasciare alcuno senza una consolazione, senza un soccorso. Dovete avere fiducia, giacché, appunto, nell’ampiezza del cuore della Chiesa c’è posto per tutti; anche per voi, carissimi figli della Parrocchia di S. Maria di Loreto, voi del Castellaccio e voi di Ovile. La Chiesa vi ama come figli, vi serve, assiste, difende, guida; e farà tutto quanto è in suo potere, perché voi siate contenti anche materialmente in questa vita; e possiate col vostro lavoro e con la vostra onestà meritare, un giorno, la vita eterna.

Infine - dice Sua Santità avviandosi alla conclusione - ancora un ricordo di questo caro ed eletto convegno, che è prezioso e rimarrà certo indelebile. Il miracolo che Gesù ha compiuto non era che un segno, una lezione, un simbolo. Lo ha operato per far capire un’altra cosa, immensamente superiore; e cioè che Egli avrebbe moltiplicato un altro Pane. Difatti, il giorno seguente a quello in cui i cinque pani vennero moltiplicati in maniera ingente, Gesù sostò a Cafarnao e trovò ancora gran folla in attesa. Fu allora che tenne il sublime discorso sul Pane del Cielo.

Aveva distribuito il pane della terra; ora eccolo proclamare a coloro che dell’inatteso pane si erano nutriti: orsù, cercate il Pane del Cielo!

All’attonita richiesta: dove è? Gesù dà immediata risposta: «Io sono il Pane del Cielo». Se uno non mangia la mia Carne e non beve il mio Sangue non avrà la Vita. Io sono il Pane della Vita. Adunque la grande avventura, il grande miracolo della moltiplicazione dei pani, preparava un altro altissimo disegno che il Figlio di Dio aveva nel cuore: di farsi Lui stesso cibo delle nostre anime, Pane della nostra vita.


IL «PANE DEL CIELO» PER LA VITA ETERNA

Siamo all’insuperabile miracolo dell’amore di Cristo, che trasforma Se stesso in Pane! Voi comprendete dove arriva questo discorso: alla Ss.ma Eucaristia. Gesù ha inventato una nuova e perenne moltiplicazione. In ogni Messa il sacerdote che dice: «Questo è il mio Corpo»; «Questo è il mio Sangue», mette la Vita vera, la Persona di Gesù proprio sotto quelle specie, sotto quelle apparenze del pane e del vino, poiché Gesù vuol essere il nostro alimento, il principio intimo della, nostra esistenza.

E allora, figliuoli: abbiate fame del Pane del Cielo. Viene la Pasqua; fate la Pasqua! Cercate di comprendere come è grande il Cuore di Cristo, che si mette a disposizione di tutti: di voi, ragazzi; di voi, donne; di voi, uomini. Per tutti voi che soffrite, che lavorate; per chiunque ha un’inquietudine nell’anima, con l’anelito di un superiore conforto e sollievo.

Guardate: il Signore ci viene incontro con il suo ineffabile dono: il pane colto da questa terra, ma trasformato nella sua Presenza reale, perché Egli vuole unirsi a noi, farsi nostro, essere a noi principio di vita eterna: «Chi mangia di questo Pane avrà la vita eterna».

Perciò, venuto in mezzo a voi, ed avendo la fortuna di incontrarvi questa sera, e quindi di salutarvi e di benedirvi, ecco il ricordo che vi lascia il Papa: Abbiate desiderio, fame di questo Pane del Cielo; abbiate l’ansia di unirvi a Gesù e approfittate di questi giorni che ancora ci separano dalla Pasqua, per riflettere, ciascuno, alla propria coscienza, alla propria vita spirituale, confermando: Sì, quest’anno anch’io incontrerò Nostro Signore Gesù Cristo, che si è fatto Pane della mia vita; benedirò la sua umiltà e il suo amore. Sarò unito a Lui nella vita del tempo e nella Vita dell’eternità.




B. Paolo VI Omelie 19267