B. Paolo VI Omelie 25567

Giovedì, 25 maggio 1967: SOLENNITÀ DEL «CORPUS DOMINI»

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Fratelli e Figli carissimi!

A questo punto della nostra celebrazione del Corpus Domini noi sostiamo in un momento di riflessione: qual è lo scopo di questa celebrazione?


ACCLAMAZIONE ECCEZIONALE AL SIGNORE PRESENTE TRA NOI

È facile rispondere: noi vogliamo onorare il Mistero Eucaristico. Esso è tale Realtà, che merita ogni nostro interesse: le verità, che lo definiscono, sono meravigliose; le dottrine, che cercano di esplorarlo, sono ricchissime e profonde; i rapporti, che lo innestano nella Chiesa, sono essenziali; il culto, che gli è dovuto, impegna tutta la comunità dei fedeli, e reclama da ogni singolo fedele un ossequio personalissimo e vitale; gli effetti, che da tale mistero derivano, sono stupendi e a noi indispensabili: basti dire che sono quelli della nostra redenzione, della nostra intima unione con Cristo, dell’unità del Corpo Mistico; della grazia, del gaudio, della pace, della forza, del conforto, fluenti nelle anime. È tal cosa l’Eucaristia che merita da noi esaltazione e contemplazione, culto esterno ed interno, ossequio collettivo e individuale; merita l’adorazione silenziosa e clamorosa. Oggi l’intenzione nostra è di tributare a Cristo, presente e nascosto nel Sacramento, un’acclamazione eccezionale, che vorremmo pari all’intatta memoria che la Chiesa conserva del dramma pasquale, e degna della misteriosa e reale presenza di Cristo fra noi, della sua inesauribile e sacrificale carità, della sua gloria celeste, quasi che questa si riverberasse sulla terra. Vogliamo dire a Lui che abbiamo capito e che abbiamo creduto al suo amore: «credidimus caritati» (
1Jn 4,16); vogliamo dire a Lui che accettiamo questa sua immeritata e singolarissima visita, moltiplicata su tutta la terra, tanto da arrivare fino a noi, fino a ciascuno di noi; e dirgli ancora che siamo attoniti e indegni di tanta bontà, ma felici; felici che sia elargita a noi ed al mondo; vogliamo anche dirgli che tanto prodigio non ci lascia indifferenti ed increduli, ma ch’esso mette finalmente nei nostri cuori un entusiasmo gioioso, quale non dovrebbe mai mancare nei veri credenti, un desiderio lirico e giovane di cantare e di gridare le sue lodi, come dice la sequenza eucaristica ora letta all’altare: «Quantum potes, tantum aude, quia maior omni laude . . .»: quanto è possibile, tanto si osi, perché Egli è sempre maggiore d’ogni nostra lode. Sì, nella nostra intenzione celebrativa v’è anche questo desiderio: di lasciar traboccare dalle nostre chiese l’inno a Cristo per associarvi chi liberamente lo vuole fra i cittadini di Roma, l’Urbe, ch’è al centro della cattolicità: oggi più che mai vorremmo poter dantescamente dire che «Cristo è romano» (Purg. 32, 102).

LA CHIESA CI EDUCA A CELEBRARE L'EUCARISTIA

Vogliamo onorare, dicevamo, con tutte le forze della nostra fedeltà, il Mistero Eucaristico. A Cristo, nascosto e presente nel divino Sacramento, sia nel mondo, come in cielo, «la benedizione e l’onore e la gloria e la potenza per sempre» (Ap 5,13).

Questo il nostro scopo; e noi ora lo stiamo, umilmente ma cordialmente, manifestando. Ma ci dobbiamo chiedere: è questo il solo scopo della festa del Corpus Domini? Non ve ne sarebbe un altro, congiunto e subordinato al primo? Uno scopo, che riguarda noi piuttosto che Cristo? Si, la festa ha evidentemente un secondo scopo: liturgico il primo, pedagogico il secondo. Vuole cioè la Chiesa, celebrando con tanta solennità la festa del Corpus Domini, educarci a pensare, a valutare, a celebrare l’Eucaristia per l’importanza ch’essa ha non solo in se stessa, teologica diciamo; ma altresì per quella ch’essa ha per noi, spirituale e sociologica specialmente. Che cosa vuol dire, Fratelli e Figli carissimi, che per la festa del Corpus Domini tanto si cerca che tutto il popolo cristiano sia convocato, sia riunito, sia simultaneamente presente? Perché oggi la Chiesa chiama a raccolta tutti i suoi figli d’intorno all’altare? Invita il Clero, tutto il Clero, invita i fedeli, tutti i fedeli, affinché la totalità dei credenti si trovi insieme a celebrare il Mistero Eucaristico; non manchino i fanciulli, vengano ai primi posti i giovani, gli adulti sospendano le occupazioni profane e diano alla riunione un carattere marcato di serietà e di solidarietà, qui vogliamo gli uomini del pensiero e gli uomini del lavoro, qui le famiglie intere siano presenti nella più grande e spirituale famiglia ecclesiale, facciamo posto alle vergini, alle vedove, ai malati, agli anziani, ai bisognosi, nessuno sia assente, perché occorre oggi la moltitudine; e nessuno si senta forestiero, ma un senso di fratellanza tutti avvicini in un medesimo sentimento, con una medesima voce, nella medesima coscienza d’una fede comune, d’una speranza comune, d’un amore comune. La Chiesa oggi vuol essere Chiesa, cioè assemblea, cioè popolo, Popolo di Dio. Perché, celebrando l’Eucaristia, la Chiesa tiene tanto a questa presenza totale e corale di quanti le appartengono e la compongono? Ecco la risposta: perché l’Eucaristia è il Sacramento della comunità cristiana. Quante cose belle e profonde si potrebbero dire su questo tema!


L’UNIONE CON CRISTO E L’UNITÀ DI TUTTI I FEDELI TRA LORO

Noi siamo abituati a considerare, celebrando l’Eucaristia (come altra volta dicemmo), il rapporto ch’essa pone fra Cristo e la singola anima, rapporto meraviglioso, rapporto ineffabile, rapporto che potremmo dire terminale, per la vita presente, dell’amore di Cristo verso ciascuno di noi; ma non è rapporto unico ed isolabile da quello che lo precede, di Cristo con la comunità ecclesiale, a cui primieramente il dono dell’Eucaristia è rivolto. E l’avvertenza di questo aspetto, sia teologico che sociologico, caratterizza la pietà vivente della Chiesa ai nostri giorni, la pietà liturgica, per nulla contraria a quella personale, anzi da questa nutrita e di questa nutrimento. L’Eucaristia non soltanto è rivolta all’unione d’ogni singolo fedele con Cristo, ma è stata istituita altresì per l’unione di tutti i fedeli cristiani fra loro; «la grazia specifica di questo Sacramento è precisamente l’unità del Corpo Mistico» (S. Th. III 73,3), cioè della Chiesa, cioè nostra. L’Eucaristia è figura e causa di questa unità (S. Bonaventura). Il Concilio ce lo ha ripetutamente ricordato (cf. Sacr. Conc. SC 48).

E con la solennità del Corpus Domini la Chiesa vuole formare in noi questa coscienza d’unità, di fratellanza, di solidarietà, di amicizia, di carità, in cui ancora, anche noi cattolici, siamo tanto manchevoli. Perciò se un frutto di questa celebrazione noi possiamo desiderare e sperare sia quello d’un maggior senso di coesione spirituale e sociale fra noi, membri fortunati della Chiesa cattolica, che nutriti di uno stesso pane e dissetati. dallo stesso calice formiamo un solo corpo (cf. 1Co 10,17).


SPLENDA LA SOPRANNATURALE SOCIO LOGIA SULL'INTERA FAMIGLIA UMANA

E chiederemo a Cristo che questa grazia dell’unità Egli voglia concedere alla sua Chiesa! La grazia di vedere assisi alla comunione della stessa Mensa eucaristica, ivi attratti dalla stessa fede e dall’adesione all’unica Chiesa, i Fratelli cristiani tuttora assenti dalla nostra - e loro - casa paterna. La grazia, voglia Egli concedere, di sentire i cattolici più uniti fra di loro, più concordi, più disciplinati, più idonei a dare alla loro fondamentale identità di principii una espressione più efficace alla difesa e alla diffusione del nome cristiano nel tanto confuso e tanto areligioso mondo moderno. La grazia infine di vedere riverberata questa soprannaturale sociologia, scaturita dal mistero pasquale, sulla intera famiglia umana, nell’apprezzamento dei veri valori della vita, nella promozione della sincera fratellanza, nella tutela e nella costruzione della pace. E quanto ne sia il bisogno voi tutti sapete!

Ma a voi che dal circostante quartiere siete qua confluiti - con le Autorità, che cordialmente salutiamo - in questa nuova e grande piazza di Roma, nasceremo questo semplice ricordo della Nostra visita e della festa del Corpus Domini: state insieme, siate uniti, riconoscetevi cittadini di Roma cattolica, consideratevi fratelli affiliati a questa bella e accogliente Parrocchia; Don Bosco vi invita; chiama, con i vostri figliuoli, tutti voi con la gioconda carità che voi conoscete; egli ancora vi insegna dove dev’essere il centro dello spirituale e settimanale convegno: la Messa, la santa Messa festiva, dove Cristo ci attende, ci istruisce, ci conforta, ci nutre, ci fa uomini veri e forti, ci guida sul sentiero del nostro pellegrinaggio nel tempo verso l’eterna vita.



Domenica, 4 giugno 1967: III DOMENICA DOPO LA PENTECOSTE

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Avete ascoltato le parole del Signore? Le conoscete certo; e forse esse non avranno suscitato in voi l’impressione che meritano, tanto sono diventate abituali nei vostri spirituali colloqui.


IMMAGINARE IL VOLTO DI CRISTO

Eppure c’è molto da approfondire. Immaginiamo che a ciascuno di noi fosse proposto il tema: descrivete la fisionomia di Cristo; fate il ritratto di Gesù, anche sensibile; tracciate il suo profilo, la sua immagine. Verrebbe spontaneo un rilievo. Quante ne abbiamo viste di queste immagini! Tutti gli artisti si sono misurati a tradurre, nei colori e nelle forme, il volto divino di Gesù. E non ne restiamo soddisfatti. Forse la sola immagine della Sacra Sindone ci dà qualche cosa del mistero di questa figura umana e divina. Ma noi quel Volto santissimo vorremmo vederlo vivo; e allora dobbiamo concludere che i tratti sensibili restano indescrivibili: non riusciremo mai in questa impresa. Un giorno, finalmente potremo, Dio voglia, conseguire la infinita felicità di contemplarlo faccia a faccia. Ma, intanto, proviamo a definire il volto di Gesù concettualmente, cioè a notare quali sono i tratti salienti del suo aspetto. Se dovessimo scrivere un brano su questo soggetto ci troveremmo in grande imbarazzo perché il volto morale del Signore è molto complesso, profondo e vario. Lo preferiremmo come l’ha visto, nella tremenda maestà, Michelangelo dipingendo il suo affresco famoso alla Sistina, o lo vorremmo vedere nei lineamenti di talune devote immagini forse un po’ convenzionali: oppure come il profeta che parla delle cose arcane e future: Gesù che predica alle folle dall’alto della montagna? In una parola: qual è il tratto caratteristico a cui Egli ha tenuto? Troviamo la risposta nella definizione di Sé quando ha detto: imparate da me che sono mite ed umile di cuore. Per questa via noi riusciremo a scorgere qualche cosa della sua vera, storica e spirituale figura.


IL BUON PASTORE CUSTODISCE E CERCA

Soffermiamoci a quanto ci espone il Vangelo. Gesù ha tratteggiato un paragone che, si può dire, riassume l’intero suo insegnamento quando ha detto: Io sono il Buon Pastore. Gesù ha voluto assimilarsi questa semplice figura agreste che, meditata in chiave simbolica, ci dice un’immensità di cose. Ora proprio questo pensiero ritroviamo nella pagina evangelica di oggi, e quasi in fase polemica.

Avevano rimproverato al Divino Maestro di conversare con gente assai discussa, con i pubblicani, i peccatori; di arrivare persino ad assidersi a mensa con loro. Non così doveva agire un profeta. Come fa a chiamarsi il Cristo chi discende all’ultimo livello dei rapporti sociali? Allora Gesù, per difendersi, ricorre ai due paragoni: del pastore, il quale, avendo smarrita una pecora, lascia nel sicuro recinto le novantanove che non corrono pericolo e va in cerca della centesima, e non desiste dalla fatica sin quando non la riporta all’ovile. Il secondo raffronto è molto curioso. Gesù si paragona a una dorma di casa la quale cerca con ansia una moneta cadutale dal gruzzolo, e rovista ovunque sin quando riesce a ritrovarla. In questi affanni Gesù raffigura Sé stesso. Incontriamo, così, nel racconto, il tratto saliente della fisionomia umana e morale di Cristo.


APPARTENIAMO A DIO

Gesù si è voluto raffigurare in un ricercatore, poiché viene a recuperare gli uomini perduti. Gesù insegue un essere, un tesoro che gli è sfuggito di mano e si rappresenta nell’ansia di chi sta appunto esplicando la ricerca febbrile di ciò che per lui è inestimabile bene. Il Figlio di Dio ricercatore degli uomini!

Ciò vuoi dire - qui incomincia la riflessione in profondità della pagina del Vangelo - che gli uomini, e siamo noi, appartengono a Lui; sono sua proprietà. Ancor prima di aprirmi alla coscienza e alla vita, io sono già nel Cuore di Cristo, l'’Uomo-Dio; sono il suo gregge, il suo avere, la sua ricchezza.

Noi, iniziando la vita, siamo già parte di questo patrimonio: esso è inestimabile. C’è la grande parola scritturale che dice di Dio: «Ipse prior dilexit nos» . Il Signore ci ha amato personalmente prima che noi potessimo pensare alla nostra sorte, al nostro destino. Siamo nati in un ordine, quello della nostra esistenza, che ci pone in un rapporto di amore verso Chi crea la vita: Dio; e verso Cristo, il Salvatore della vita.

Noi apparteniamo a Dio. E non basta: il miracolo di questa scoperta procede in una rivelazione che non ci aspetteremmo e che sembra illogica. Quegli che è la creatura, a un tratto sfugge, si perde. Questo fatto quale reazione provoca? Noi penseremmo: di collera, condanna, anatema. Chi lascia la fonte stessa della vita si condanna da sé. È come un ramo staccato dall’albero: cade nella morte. Nel Vangelo, invece - ecco la sublime novità - questo distacco che, col Catechismo alla mano, chiamiamo peccato (la più grande disgrazia che l’uomo può infliggere a se stesso, poiché lo separa dalla vita), invece di provocare un abbandono, una condanna, suscita affanno ed amore anche più intensi. Sembrerebbe trattarsi di un paradosso: invece è così. «Ubi abundavit delictum superabundavit gratia».


SCONFITTA LA DISPERAZIONE

È San Paolo che lo dice: dove il delitto, il peccato, la nostra miseria, la nostra sciagurata possibilità di ribellarci a Dio, si pronuncia e diventa subito enorme, con abbondanza di malizia e stupidità, immediatamente si presenta una sovrabbondanza di grazia e di bontà. Felix culpa! canta la Liturgia nella Veglia di Pasqua e S. Ambrogio dichiara : il Signore creò tutte le cose e si fermò all’uomo, perché «finalmente aveva qualcuno a cui perdonare, a cui mostrare il suo cuore, la sua misericordia». Siamo all’ineffabile mistero celato dai secoli e manifestato a noi: la carità di Dio vuole inondare il mondo e raggiungere tutte le anime anche le lontane e perdute.

Ora, se adunque riflettiamo che quelle anime siamo noi, che noi siamo l’oggetto d’una trama divina, di questa attenzione che si concentra su di noi e ci insegue e persegue e ci vuole - dov’è colui da me creato per il mio Amore? dove è finita quella coscienza, quell’anima che Io plasmavo quasi risposta alla mia grande interrogazione: tu mi ami? - coglieremo appieno il contenuto della pagina di Vangelo che stiamo meditando.

L’uomo se ne va; si allontana. E Dio, rincorrendolo e ritrovandolo, disvela la meraviglia della sua grandezza più nel perdonare i fuggiaschi, nel colmare l’abisso di nullità prodotta dal peccato che non nella stessa creazione. C’è un Oremus che indica ciò in maniera esattissima: O Dio, che hai manifestato la grandezza della tua potenza nel perdonare, e nell’avere misericordia . . .

Giunti a questo punto, una ulteriore considerazione si impone. Abbiamo mai pensato quanto noi valiamo? Certo, per le nostre tendenze, abbiamo moltissima stima di noi stessi, e la nostra vanità ci riempie di grosse parole atte a inorgoglire quella che chiamiamo la nostra personalità: eppure non raggiungeremo la vera stima del nostro valore se non aprendo il Vangelo.

Noi siamo oggetto, e tanto più reale quanto meno degno, dell’Amore di Dio. Ora se Dio ci ama è segno che l’essere umano, la nostra vita, è d’un valore incalcolabile. Il Signore ha dato Sé stesso per recuperarci. Dovremmo avere la coscienza piena della nostra dignità: «Agnosce, o Christiane, dignitatem tuam»; e sappi che la sorte, la ventura di vivere è una cosa meravigliosa, immensa, sublime. L’essere viventi vuol dire essere oggetto dell’amore e della stima di Dio.


CI ACCOGLIE SEMPRE L’AMORE INFINITO

C’è ancora di più. Nonostante questo nostro dramma di incoscienza e di malizia col quale dissipiamo il tesoro datoci dal Signore per vivere la sua luce e la sua grazia, noi possiamo essere reintegrati nella dilezione di Dio. Come la pecorella smarrita, la moneta perduta. Siamo fatti per il salutare ritorno. Di questa rivelazione del Vangelo dovremmo ringraziare, con le lacrime agli occhi, il Signore, poiché concerne il destino di ciascuno di noi. Io sono salvabile: dunque non v’è più alcun motivo di disperazione.

Questa pagina del Vangelo cancella, quindi, la disgrazia più grande che possa toccare alla umanità: appunto il ritenersi abbandonati, reietti; il disperare. Quando si pensa agli scritti di gran parte della letteratura moderna, che terminano con asserzioni desolate sulla impossibilità del ricupero, del tornare, del riprendere, del rivivere, del risorgere, bisogna proclamare che il Vangelo sconfigge tali orrori, supera l’abisso e proclama: tu puoi, tu devi sperare. Voltati indietro: guarda Chi ti insegue: Dio ti è vicino. Gesù ti ama: è il Salvatore. Basta aprire le braccia, abbandonarti fiducioso sul suo Cuore. Egli non ti farà aspettare. Ti desidera proprio in questo atteggiamento di umiltà e intende svelarsi a te nel supremo dono della sua bontà. Tu eri morto e il Signore ti resuscita.

Quanto si potrebbe ancora meditare su questo portento di salvezza operato da Cristo! Ma soffermiamoci su di un solo tratto, quello che ci proponevamo di cogliere per imprimere nel nostro cuore l’immagine di Cristo. È il tratto che lo definisce di più. Ricordatevi, o figli, o fratelli, che Cristo è buono: anzi è la Bontà inesauribile; è l’Amore infinito.

* * *

Un saluto speciale alla Gioventù dell’Azione Cattolica Italiana, che ha promosso un convegno molto singolare, almeno nella storia dell’Azione Cattolica, secondo quanto afferma il Presidente, e cioè: questi giovani lavoratori e giovani lavoratrici stanno studiando insieme il tema: «Prepararsi all’amore».


UNA MISSIONE DELL'INTELLETTO E DEL CUORE

Grande argomento e nuova pedagogia nelle nostre associazioni. E se pur si rimane riflessivi e cauti di fronte a tale novità, sorge l’augurio che i risultati siano buoni. Infatti il convegno vuol proprio mettere in evidenza non solo la realtà delle cose: la gioventù chiamata, quasi da una vocazione, all’amore; ma la vuol porre nella sua evidenza migliore e più alta, più nobile, responsabile, cosciente e quindi meglio guidata da quella intelligenza, da quei propositi, da quella fede cristiana che devono dare all’amore la sua vera espressione, il suo volto, quale Iddio stesso ha stabilito nell’infonderlo nel cuore dell’uomo e della donna.

Ed ecco che voi - prosegue il Santo Padre - diventate alunni di questa scuola. Lasciateci riferire un istante alla piccola meditazione presentata, or ora, durante la Messa. Voi state riflettendo come imparare ad amarsi: Noi abbiamo poco fa insegnato come imparare ad essere amati; come, cioè, ricevere l’amore di Dio, che diventa la nostra scuola, l’energia e la luce per tutta la nostra vita. Perciò, se riceviamo pioggia d’amore sopra di noi, diverremo anche capaci di esercitare l’amore nella maniera più conforme alle disposizioni di Dio; di esprimere intorno a noi tale sentimento dopo averlo da Lui ricevuto.

Quando si riceve l’amore del Signore e davvero si è convinti della assoluta verità che Iddio ci ama, si procede bene verso le manifestazioni d’amore, con dovizia di sapienza e di propositi, necessari per dare a questa espressione provvida e stupenda della vita umana la sua autenticità e la sua migliore manifestazione.


ASCENDERE SEMPRE VERSO LA DIGNITÀ PIÙ ELETTA

Il Papa, parlando ai diletti giovani di Azione Cattolica che affrontano con tanta semplicità e nobiltà di sentimenti un tema oltremodo importante della vita, si dice lieto per i loro intenti, poiché è sicuro che essi hanno già appreso una prima nozione rilevantissima: la polivalenza - per usare un termine oggi ricorrente - della parola amore.

Questa parola indica tante cose. Si potrebbe erigere come una scala dei suoi significati, e notare come, dai gradini più bassi, ci si può innalzare sino a pervenire a quelli più eccelsi. Se si resta negli strati inferiori, l’amore è passione, è istinto; tante volte è vizio, offesa all’ordine, ai buoni sentimenti e, soprattutto, quando diviene rapporto a due, offesa al rispetto dovuto all’una e all’altra persona. Ma se si ascende, ecco l’amore diventare ricerca, integrazione, complemento naturale dell’esistenza.

Un autore inglese ha scritto: il Signore ci ha fatti uomini e donne per insegnarci ad amare. Ha impresso nella natura questa legge che è la sua finalità, il suo disegno. Vuole che l’uomo e la donna imparino ad amarsi per il fatto che essi sono complementari e cercano quella integrazione, unità e interpersonalità, che sarà domani, se Dio vuole, la famiglia.

Si proceda, dunque, sempre più in alto per la scala dell’amore. Solo in alto sono le espressioni molto nobili ed umane e quindi più responsabili.


«DEUS CARITAS EST»

Tuttavia, per ben raggiungere l’elevato traguardo, bisogna chiedersi: che cosa è l’amore? Qui troviamo il grande equivoco, la grande confusione: giacché non c’è alcuna parola che esprima l’egoismo umano, come l'amore; e non c’è nessuna parola che esprima la generosità umana, come l’amore. Il che vuol dire che l’amore può essere quanto di più gretto, egoista, ingrato, sterile e minaccioso può esservi per la vita umana, e, per altro verso, dimostrarsi quale ideale fecondo, sacro, eroico, sublime, e che avvicina a Dio.

Il Signore, anzi, si è riservato, proprio nella accezione. più alta e assoluta, il termine amore per definire Se stesso: Deus caritas est; Dio è Amore.

Dunque - così Sua Santità rivolto ai giovani che Lo ascoltano - voi salite questa scala per arrivare ai significati più veri e più sublimi del concetto di amore; ed arrivate a quel grado in cui è detto: bisogna che l’amore sia cosciente; cioè non sia fatto solo di istinto, passione, sentimento, ma contenga un atto riflesso di pensiero, di responsabilità, di grazia.

Volete che l’amore sia davvero conforme alle sue leggi fondamentali? Guardiamo alla testimonianza di tanta letteratura che, in genere, è sciagurata e desolata, perché si attarda ai gradi più deplorevoli. Viene, in un certo senso, a ribadire ciò che il cristiano afferma: l’amore tende ad essere esclusivo; tende ad essere perenne. Le due grandi basi su cui sorgerà, domani, una famiglia legittima e buona sono l’esclusività e la perennità, premesse della indissolubilità. Se non si accettano queste due caratteristiche essenziali dell’amore, esso è tradito, deformato, oppresso, perduto: procura soltanto infelicità. Bisogna essere permanentemente decisi nell’aspirare ad un amore unico che riempie il cuore ed è totale, ad un amore che non sarà mai rinnegato e non verrà mai meno: travalicherà anzi i confini del tempo presente per attingere quelli del Paradiso, dell’eternità.

Se voi siete incamminati su questa via, in questa pedagogia, figliuoli carissimi, state procedendo per una grande strada maestra e Noi vi auguriamo che, così, sappiate davvero conoscere ed attuare il vero e grande amore. Imparare ad amare; questa frase può sembrare paradossale: contraria ai moti naturali del cuore umano. E invece i giovani saggi, che vogliono vivere la propria fede cattolica, sono convinti che l’amore ha bisogno d’una grande scuola.


UN CAMMINO COSPARSO DI VIRTÙ

Occorre dunque imparare anche in questo campo. Non si deve amare per istinto, per passione, interesse, svago, capriccio. L’amore - se si vuole realmente che esso adempia la sua definizione e sia la fortuna, la gloria, la felicità della vita presente e futura - deve essere ricco di innumerevoli virtù. Non ì: sufficiente amare solo perché si è inclini a tale sentimento. Bisogna educarsi ad amare bene e si troveranno tante meraviglie spirituali in questo cammino, a cominciare dal rispetto reciproco, dalla attesa riverente, vigile ed orante. Splenderà alla fine il convincimento che non si può veramente amare se non si è disposti al dono dell’offerta totale, il che vuol dire abnegazione, sacrificio. E chi costruisce sopra questi fondamenti la propria regola di vita, è nel giusto.

Ma per guadagnare questo traguardo, quale fervore di anima, conoscenza della vita, dominio di sé è indispensabile; quante conversazioni con maestri e direttori di spirito; quali ponderati esami e quale scelta! Sì, l’amore è una scelta facile e difficile allo stesso tempo.

Di qui il voto del Padre, che vuol bene ai propri figli e null’altro desidera se non la loro perfezione e felicità. Vi auguriamo di saper scegliere, di saper scegliere bene; e che i vostri Angeli Custodi vi siano sempre vicini a consigliarvi, giacché la scelta deve essere coraggio, sia pur rischio e sacrificio. Sia, in una parola, il vero amore. E il Signore ve ne dia l’esperienza e la pienezza.



Mercoledì, 28 giugno 1967: EREZIONE DEL MONUMENTO A PAPA GIOVANNI XXIII NELLA BASILICA VATICANA

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Ecco, Signori Cardinali, ecco, venerati Fratelli e diletti Figli, ecco, illustri Signori, e voi tutti visitatori e fedeli, il monumento a Papa Giovanni XXIII, che lo ricorderà in questa Basilica di San Pietro, accanto alla tomba del quale le spoglie mortali di questo suo successore e Nostro predecessore riposano in pace, con quelle di tanti altri Pontefici, in attesa della risurrezione da Cristo promessa. Non è il primo, non è il solo monumento, che Noi abbiamo avuto la ventura di erigere a memoria e ad onore di tanto Pontefice: lungo la diritta salita del santuario della Madonna del Bosco, ad Imbersago, nella arcidiocesi di Milano, in ottima prospettiva, abbiamo collocato una maestosa statua di Papa Giovanni, quando ancora egli era in questa vita mortale e quando Noi avevamo la cura pastorale di quella arcidiocesi; là, in piedi, paterno e grave, sembra guardare a quei luoghi, che gli furono sacri e cari, e sembra tendere l’occhio affettuoso verso il non lontano paese nativo, Sotto il Monte, adagiato sulle vicine colline della sua prediletta diocesi di Bergamo; monumento anche quello pontificale e solenne, ma eretto all’aperto e posto in alto per la gioia della sua gente, quasi «genius loci», e quasi destinato a perpetuare una presenza del figlio elettissimo nella terra, di cui egli pare personificare e magnificare le umili grandi virtù; e messo perciò là come a placare la reciproca nostalgia, sua e dei suoi, per la lontananza di lui da una sempre bramata conversazione cordiale, domestica e confidenziale.


UNO SPIRITUALE DOVERE E UNO SLANCIO DEL CUORE

Questo monumento - opera dell’artista Emilio Greco - che trova degna sede nella maggiore basilica cattolica, monumento funerario essa stessa al Principe degli Apostoli, è invece dedicato a Giovanni XXIII per iniziativa, com’è costume, dei Cardinali «ab eo creati», fra i quali Noi per primi, non solo, pare a Noi, per obbedire ad una tradizione, che fa solleciti e pii coloro che dalla bontà del defunto Pontefice furono chiamati a far parte del Sacro Collegio, ma altresì per compiere uno spirituale dovere e quasi per assecondare un bisogno del cuore: quello di sigillare in un’opera destinata a vincere l’usura dei secoli la risposta alla domanda della Chiesa e del mondo, entrambi qua pellegrini e qui curiosi: dov’è Papa Giovanni? e chi era? com’era? domanda che va cercando l’effigie d’un padre non dimenticato, d’un amico sempre diletto, d’un personaggio tuttora tipico e caro, quasi vivo non pur nelle pagine della storia, ma nel cuore degli uomini.

Monumento questo perciò quant’altri mai dedicato alla memoria e all’onore d’un Papa, ch’ebbe la singolare prerogativa, in grado non comune, di farsi amare. Ritornano spontanee al nostro spirito le parole, che ci salirono dal cuore, quando nel Duomo di Milano, nella festa di Pentecoste del 1963, mentre l’agonia di Giovanni XXIII teneva in ansia ed in preghiera la Chiesa intera ed il mondo: «Benedetto questo Papa che ci ha fatto godere un’ora di paternità e di familiarità spirituale, e che ha insegnato a noi e al mondo che l’umanità di nessuna altra cosa ha maggior bisogno, quanto di amore». Amò e fu amato; e questo monumento, come raffigura Papa Giovanni nell’atteggiamento del suo multiforme apostolico amore, così vuol essere il segno che tale amore è stato compreso e a tale paterno amore il nostro filiale risponde.


SINTESI E RICORDO DI AZIONE VASTA E BENEDETTA

E qui è da notare subito, per riportarne tutti impressione perenne, il carattere peculiare di questo monumento, che fissa nei nostri spiriti la direzione dei sentimenti e delle reminiscenze che devono perpetuare la figura del grande e amabile Pontefice. Il carattere peculiare, che distingue questo cenotafio dagli altri, onde va gloriosa questa Basilica, sta nel fatto che l’artista ha avuto il felice intuito di presentare, ben più che la figura personale del Papa, l’azione di lui; l’artista lo ha raffigurato non solitario e maestoso, come appaiono di solito i monumenti destinati a ricordarci la grandezza dei personaggi ai quali essi sono dedicati, ma emergente da gruppi umani diversi e compositi, tutti attraversati da un comune carattere, il dolore, verso i quali, ammantato, sì, di pontificali indumenti tali da qualificarne la dignità e la missione, egli, il Papa, con umile passo, con volto affabile, si dirige nell’atto di proferire una parola, quale l’incontro con l’umana sofferenza può spontaneamente suggerire. È una scena, più che un’effigie, che noi abbiamo davanti; una scena plurima e confusa, com’è appunto quella della vita bisognosa di conforto e di soccorso.

Veramente la scena è duplice, perché, al di sopra di quella delle umane vicende, un’altra scena agitata e misteriosa è presentata, dove aleggiano angeli agili e potenti, a ricordare il mondo spirituale, che tutta pervase l’anima e la vita di Papa Giovanni, e che tanto più lo rese capace d’amare gli uomini quanto più egli s’era reso capace, in senso passivo e attivo, dell’amore di Dio.


FEDELTÀ AL PATRIMONIO ANTICO NELLE MERAVIGLIE DI VERO PROGRESSO SPIRITUALE

E questa visione sintetica potrebbe a noi ora bastare, non già a descriverci la lunga e complessa storia di Papa Giovanni, e a dirci la copiosa ricchezza del suo spirito e della sua attività, ma a fissare nelle nostre menti il punto focale della sua personalità, troppo spesso arbitrariamente interpretata, e talora malamente deformata da chi vorrebbe valersi del suo nome per sostenere qualche tentativo di indocile eversione delle sacrosante esigenze del dogma e della legge ecclesiastica: nulla di più estraneo e di più contrario alla sua indole, buona, sì, ed umanissima, ma ferma ed univoca nell’affermazione limpida e schietta della sua fede, quant’altre mai integra, romana e cattolica. Che se l’età nostra volle in lui riconoscere l’uomo «missus a Deo, cui nomen erat Joannes», che dischiuse alla Chiesa e al mondo un nuovo cammino - e ciò fu mediante la convocazione inattesa, ma, per chi conosce le radici interiori della storia, a quel momento matura, del Concilio ecumenico, e mediante certe sue coraggiose e famose encicliche, e forse non meno per quel suo fare dimesso e gioviale, sempre spirante sapienza e bontà, che trasformò la contenuta venerazione al Papa in fiduciosa simpatia - il nuovo cammino non fu diversione dall’antico, ma proseguimento, più sciolto, più rapido, se volete, ma egualmente diritto ed egualmente sorretto dall’unica forza, che interiormente sospinge alle sue mete la Chiesa; ed egli, sempre e più d’ogni altro, ebbe di ciò coscienza e volontà. Citiamo, ad esempio una sua parola (è del gennaio 1962): «Ben si può dire . . . che tutti ci sentiamo al traguardo di un’epoca nuova, fondata sulla fedeltà al patrimonio antico, che si dischiude alle meraviglie di un vero progresso spirituale: e questo solo da Cristo, re glorioso e immortale dei secoli e dei popoli, può attendere dignità, prosperità e benedizione» (Giornale dell’anima, 481).


MIRABILE FUSIONE DI NATURA VIRTÙ CARISMA DI DIO

Per questo Ci piace ravvisare in questo monumento l’espressione caratteristica e centrale della personalità di Papa Giovanni, la bontà, l’amore, il genio pastorale che fa del Vicario di Cristo un amico degli uomini, il quale muove loro incontro tutto comprensione, affabilità, richiamo, perdono, conforto, rigenerazione, salvezza, come nel Vangelo ci appare Gesù. Fu natura in lui tale bontà? se così, la sua terra ne avrebbe grande merito. Fu virtù? se così, la sua ascesi sacerdotale ne avrebbe grande gloria. Fu dono e carisma di Dio? se così, la sua presenza fra noi sarebbe allora per tutti grazia e mistero. Fu tutto questo insieme, e natura, e virtù e carisma? Crediamo che sì; ed è per questo che Papa Giovanni fu e sarà a tutti tanto caro.

Noi ricordiamo d’aver ascoltato un giudizio, quasi una profezia, pronunciato da persona di acutissimo ingegno, circa un minimo episodio della vita di Papa Roncalli, relativo al periodo del suo ministero pastorale quand’egli era Patriarca di Venezia. Monsignor Roncalli, allora ancora al principio del suo soggiorno colà, amava, come sempre, uscire nelle ore tranquille della giornata, per fare una passeggiatina nei dintorni della Basilica di San Marco, in perfetto incognito, dall’aspetto e dal passo d’un buon parroco qualsiasi. E fu visto una volta assidersi sopra una panchina, se ben ricordiamo, della Riva degli Schiavoni, in faccia alla laguna e al suo placido e piacevole movimento; e accanto a lui sedeva un uomo del popolo, un gondoliere forse in attesa di clienti, senza che questi sapesse d’avere vicino a sé Sua Eminenza il Patriarca, un nume per Venezia! E in quello stupendo dialetto veneziano, che sembra fatto apposta per chiacchierare, chiacchieravano insieme, l’uno, il Patriarca, cercando di svegliare nell’altro, il gondoliere, qualche buon pensiero, così come veniva ragionando dei più semplici casi della vita quotidiana. Non sappiamo se il gondoliere s’accorse alla fine chi era il suo interlocutore; ricordiamo invece il commento che della scenetta, non inconsueta per il Patriarca, ci fece la perspicace persona, di cui dicevamo: «Certo la popolarità d’un tale pastore un giorno andrà molto lontano!».

Molto lontano, sì. In omnem terram exivit sonus eius, è il caso di dire. È arrivata ai confini del mondo, è custodita qui, quella popolarità; è la popolarità, è la fama, è la gloria d’un Papa che ha amato e che è stato amato. Gli è dovuto il monumento. E ringraziamo quanti hanno cooperato ad erigerlo, e quanti qui oggi ed in futuro vorranno onorare la memoria buona e grande di Papa Giovanni XXIII.




B. Paolo VI Omelie 25567