B. Paolo VI Omelie 28268

Mercoledì delle Ceneri, 28 febbraio 1968: SACRO RITO PENITENZIALE NELLA BASILICA DI SANTA SABINA

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Lo svolgimento della cerimonia suole esser concluso - rileva il Santo Padre - con un pensiero, un atto di riflessione. Noi inauguriamo questa sera un periodo di penitenza: e tutto lascia ritenere che quanti qui sono convenuti abbiano il desiderio di fare bene e sul serio, entrando realmente nello spirito di questi riti, del sacro tempo quaresimale; di cogliere i grandi insegnamenti che la Chiesa ci dà; e partecipare, per quanto è possibile, ai Misteri che vengono ricordati e riofferti alle anime.


PRIMARIO E INSOPPRIMIBILE DOVERE

Nuovamente, come già l’anno scorso, ci si presenta il tema fondamentale: la penitenza. Essa - conferma il Papa. - è necessaria. Ce lo ha detto Nostro Signore: «Si poenitentiam non egeritis, omnes simul peribitis»: Se non farete penitenza, tutti perirete. Parole - categoriche, esigenti, di singolare gravità.

Il Signore Gesù ci chiede la penitenza; l’invito è ripetuto dalla Chiesa. Di recente essa ha rinnovato, con la Costituzione Apostolica «Paenitemini», la disciplina sull’alto argomento e pur alleviando alcune prescrizioni, ha avuto cura di lasciare intatto lo spirito e valida sempre la necessità di opere penitenziali. Ciò è indispensabile; è legge della vita cristiana.

Occorrerà, quindi, adattare il nostro spirito a tale disciplina; ma non potremo esimerci dal confessare a noi stessi, per dovere di sincerità, che quella legge e regola non ci trova ben disposti e simpatizzanti. Ciò sia perché la penitenza è di natura sua molesta, costituendo un castigo: un qualche cosa che piega la nostra fronte, il nostro animo e tormenta un po’ anche le nostre forze; sia perché, - mentre ad alcuni manca la possibilità fisica e per questi la Chiesa è larga della sua liberalità - fa in genere difetto la persuasione, la stessa logica. Si succedono anzi in noi gli interrogativi: Perché si deve far penitenza ? Per qual motivo dobbiamo rendere amara e triste la vita quando è così piena di malanni e difficoltà? Perché, dunque ci dovremmo infliggere volontariamente qualche sofferenza, aggiungendola alle molte già esistenti?

Piuttosto, se guardiamo proprio l’onda dello spirito moderno, noteremo la ricerca del benessere, degli agi; la cura di eliminare ogni inconveniente, ogni malattia, ogni ostacolo. Si è come dominati dall’aspirazione verso una prosperità che finisce per introdursi anche nella nostra vita spirituale, religiosa. Magari inconsapevolmente, si assorbe un naturalismo, una simpatia con la vita materiale, al punto che il fare penitenza appare incomprensibile oltre che molesto.

Tutto ciò ci sospinge ad una breve analisi; a chiederci, infatti, quale è il fondamento della grande esigenza ricordataci dalla Chiesa: in una parola, che cosa è la penitenza.



IL SENSO E LA COSCIENZA DEL PECCATO

I religiosi Domenicani penseranno subito alla sintetica frase del loro grande S. Tommaso: «Dolor voluntatis»: un dolore della volontà. Per far penitenza bisogna entrare in questa forma di vita spirituale, d’un dolore nella volontà, e quindi libero ed accettato, quasi imposto da chi compie l’atto di penitenza.

Ciò suppone un male, di cui oggi abbiamo minore coscienza, da deplorare, da rimuovere espiando e riparando. Come si chiama questo atto riflesso della nostra psicologia che avverte tale necessità dolorosa? Si chiama il concetto, il «senso del peccato». È l’avvertire la propria coscienza non tranquilla; l’ansia di rimediare a qualche cosa che dà un profondo disagio all’anima. Ora, questo senso d l e peccato è venuto quasi meno, anche in non poche coscienze cristiane. La sensibilità, in esse, si è attenuata e quasi rassegnata a subire come un’abitudine quanto una volta era intollerabile: il sapersi in peccato: una tristezza che occorreva sollecitamente rimuovere.

Adesso è diverso, Papa Pio XII, di v. m., ebbe a scrivere, nel Messaggio al Congresso Catechistico degli Stati Uniti d’America, il 26 ottobre 1946, una frase che divenne celebre: «Il peggiore peccato dell’età moderna è quello di aver perduto la coscienza del peccato». Si ignorano, dunque, l’importanza e la gravità di così deleterio male; esso non fa impressione; quando addirittura non si sente dire, intorno a noi, che la morale può essere senza peccato.

Questo è, anzi, il titolo di un libro «Moralità senza peccato» del dott. Hesnard, che ha fatto molto parlare di sé in questi più recenti anni. E c’è di peggio. Si arriva ad espressioni addirittura enormi, secondo cui il peccato viene giustificato come un atto di forza e di liberazione da qualsiasi vincolo e prescrizione. Occorre - si dice - affrancarsi dagli scrupoli e dai timori, e diventare liberi. In una parola, il disagio, una volta sentito per la mancanza che il peccato comporta, oggi viene respinto.

Noi, al contrario, docili, come siamo, alla scuola della Chiesa, ci domanderemo ulteriormente che cosa il peccato significa e comporta, che cosa esso pone nella nostra anima per farla soffrire e indurla alla penitenza.

Il peccato è una nozione prettamente cristiana. Chi ha ricevuto il Cristianesimo, la Rivelazione di Dio, possiede la coscienza esatta del peccato. Altrove possono esservi idee approssimative, ma sempre vaghe e incerte: da noi tutto è preciso. Noi non possiamo .ammettere la teoria che nega la libertà (determinismo), né quella che nega la responsabilità (esistenzialismo). Il peccato implica due elementi veramente religiosi: il primo è quello del rapporto fra noi e Dio: e non soltanto il Dio della legge, il Dio potente ed esigente, il Dio della giustizia, che agli atti umani fa corrispondere una sanzione inesorabile e infallibile, ma il Dio dell’amore, della bontà; il Dio che per cancellare i nostri peccati è venuto fra noi ed ha preso sopra di Sé il peso delle nostre colpe e le ha espiate con la sua Morte. L’intera Quaresima è orientata verso la Croce: poco fa abbiamo ricevuto la benedizione con il Sacro Legno. Ciò indica appunto quale è l’atteggiamento benigno di Dio verso i nostri peccati. Egli non li può ignorare; non sarebbe più Dio se fosse indifferente, assente. Ma, ripetiamo, è il Dio della bontà, dell’amore infinito sino ad immolarsi sul patibolo della Croce per cancellare i nostri peccati. Adunque occorre ripristinare nelle nostre anime il senso del peccato: e cioè la coscienza sensibile di questo nostro rapporto con Dio.

L’altra nozione che il peccato comporta è di grandezza straordinaria. Esso dice come sia un dramma la colpa umana, poiché è nel giuoco della libertà. Il peccato è un abuso della nostra libertà responsabile. È una sfida a Dio; la trasgressione della sua legge; l’indifferenza al suo amore: è, quindi, un ritorcersi del male sopra noi stessi. Il male nostro vero è il peccato da noi commesso.



RIPUDIARE IL MALE È NECESSITÀ ASSOLUTA

Orbene, tutta la grande lezione che passa dalla teologia alla morale, alla psicologia ecc. dovrebbe essere ripetuta in qualche maniera durante la Quaresima. Siamo tenuti a rinvigorire in noi questo senso della vera coscienza cristiana, che ci accusa di essere colpevoli; e non ci dà pace finché non abbiamo trovato rimedio alla nostra fallibilità.

Ecco, allora, che la penitenza diventa non soltanto un rimedio, ma un bisogno. Dobbiamo fare penitenza per denunciare a noi stessi, al Cielo, alla terra, che siamo gente miserabile. Ci incombe l’obbligo d’implorare pietà e dimostrare con qualche nostro atto che ripudiamo -il male compiuto e il male che siamo capaci di fare.

Rientriamo, in tal modo, nell’ordine della penitenza. Molto vi sarebbe ancora da dire a questo proposito. Il Santo Padre accenna soltanto ad una conclusione.

Egli vede intorno a Sé numerosi sacerdoti, ministri, perciò, del Sacramento della Penitenza. Egli desidera esortarli a prendere molto, molto sul serio tale ministero: cercando di ridonare a tale atto la semplicità, la gravità, nonché la profondità che esso esige. L’eccelso potere largito ai sacerdoti di Cristo di cancellare i peccati altrui: «Quorum remiseritis peccata, remittuntur eis; et quorum retinueritis, retenta sunt»; questa potenza del Sacramento non solo nell’ambito umano, ma pure nell’ambito celeste, ci dovrebbe rendere ministri trepidanti eppur tanto premurosi di distribuirlo bene, consapevoli della stupenda economia che il Sacramento della Penitenza porta con sé.



IL «TEMPUS ACCEPTABILE» IL «DIES SALUTIS»

Ricordato l’alto dovere ai ministri, un invito paterno ai penitenti, cioè a tutti noi che usiamo di questa fonte di bontà e misericordia del Signore. Procuriamo, in questa Quaresima, - così l’appello del Papa - di accostarci con coscienza buona e nuova alla Confessione; di riesaminare le forme con cui la facciamo: non per rendere scrupolosa o sottile l’accusa e l’analisi psicologica delle nostre colpe, ma per avvertire la grandezza dell’uomo che si inginocchia davanti a Dio, riconosce il dramma della sua salvezza compromessa dal peccato, e si sente riabilitato dalla clemenza del Signore, offertaci nel Sacramento della Penitenza. Usiamo di questo dono con comprensione e compunzione. Così la misericordia di Dio da noi invocata, e che passa come ventata benefica sul nostro capo e sulle nostre sorti, sarà, anche quest’anno, propizia per dirimere le nostre angustie; e farà sorgere in noi il gaudio d’aver celebrato degnamente, con i migliori propositi e i più generosi intenti, il periodo della santa Quaresima.

E così sia.



Domenica, 10 marzo 1968: SANTA MESSA NELLA CHIESA PARROCCHIALE DI SAN SATURNINO

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IL SALUTO DEL PADRE E PASTORE

Nella omelia tenuta durante la Santa Messa, Paolo VI rivolge a tutti un paterno saluto, incominciando dal carissimo Cardinale Vicario, presente a quella Visita Pastorale. A lui Sua Santità tiene a rinnovare speciale attestato di affetto, lieto di vederlo in mezzo al popolo a cui è rivolto il sacro ministero.

Altri saluti il Santo Padre dà ai Vescovi Ausiliari, al Parroco della comunità ecclesiale di San Saturnino, per il quale esprime i migliori voti, esortando inoltre i fedeli a sempre più e meglio corrispondere alle premure e fatiche sacerdotali di chi ha la cura diretta delle loro anime.

Quindi il pensiero del Vescovo di Roma va a tutti e singoli i fedeli presenti al sacro Rito, ed agli altri loro fratelli della parrocchia; a ciascuna categoria di età, lavoro e professione, auspicando per ogni famiglia abbondanza di grazia e salute, di carismi e doni divini, di cristiana felicità.

Sappiano tutti - e gli ascoltatori recheranno ovunque il messaggio del Padre - che il Papa desidera far pervenire dappertutto il proprio voto di bene e di prosperità anche materiale, con effuse benedizioni.



DUE GRANDI DONI DELLA CHIESA

Ed ora - prosegue Sua Santità - alcuni istanti di riflessione, movendo da una semplice e quasi istintiva domanda: perché il Papa si è recato alla sede della parrocchia? che cosa ha portato?

La sua risposta è semplice e fondamentale al medesimo tempo. Essa viene formulata a commento delle prime frasi del Vangelo testé letto, nella Messa dello Spirito Santo, che suole celebrarsi in occasione della Visita Pastorale.

Sono due i doni principalmente che la Chiesa propone, offre a coloro che l’ascoltano. Con ciò essa risponde a una ancora più ampia richiesta assai frequente, anche da parte di chi è lontano dalla Chiesa o dalla Chiesa aspetta quel che essa non dà. La domanda rivela in modo caratteristico la mentalità moderna, la quale suol giudicare ed apprezzare ogni cosa a seconda della utilità che ne deriva. La Chiesa, la Religione, quali benefici ci offre? Questo l’interrogativo ricorrente. E poiché la risposta è sovente vaga, inesatta, si rimane dubbiosi e restii, increduli ed assenti.

Orbene, il Papa si è recato tra i carissimi figli per farli riflettere, e per imprimere in essi un ricordo incancellabile della sua visita. Subito Egli spiega l’entità e il valore del duplice dono. Si tratta della Parola di Dio, di Cristo, che poi diventa la Parola della Chiesa; e della Grazia, cioè il rapporto fra noi e Dio, e la vita spirituale che ne deriva.

La Parola di Gesù, fatta propria dalla Chiesa, serve come la lampada in mano a chi cammina nella notte e deve conoscere il sentiero e sapere il punto di arrivo, il perché si muove, quali i pericoli e gli ostacoli del percorso.

La Parola di Dio è luce e guida della nostra esistenza. Essa chiarisce e risolve i maggiori problemi proposti allo spirito umano. La Parola di Dio è una rivelazione. Noi, con le nostre sole facoltà, non avremmo mai potuto comprendere quel che il Signore ci insegna con amore infinito.

LA PAROLA DI DIO LUCE E GUIDA DELLA NOSTRA ESISTENZA

Su questo primo tema - quello che preoccupa tutte le menti umane, e tante volte le stanca o le confonde, spesso invece le sublima - è affannosa la ricerca odierna. Si tratta di Dio, lo splendore del nostro pensiero e della nostra vita, che molti ignorano o respingono, ed altri, pur conoscendolo, lo considerano non poche volte con incertezza; non riescono a definirne la sublime realtà, la prima, il principio di tutte le altre; mentre pure fra i credenti v’è chi del Signore teme l’ira ed il castigo piuttosto che il conforto e la clemenza.

Gesù è venuto e ci ha insegnato un nome semplicissimo, desunto dalla nostra esperienza umana, ma elevato a vertici senza confine. Iddio lo chiamerai Padre. E cioè riconoscerai in Lui la sorgente della vita, dell’amore: Colui che veglia sopra di te, Colui del quale non puoi fare a meno. La tua esistenza non ha senso, né possibilità di affermarsi, senza postulare la sua divina origine e senza dirigere i suoi passi verso il suo eterno fine.

Dio è il tuo Padre. Ciò vuol dire che un rapporto di amore è stabilito fra questo Principio dell’esistenza da cui tutti gli esseri derivano, e te stesso. Tu sei parente di Dio, figlio di Dio! Dovremmo qui commentare quale sia il conforto derivante alla, scienza, allo studio, al pensiero umano, quando abbiamo sopra di noi questo unico Sole a rischiarare il nostro orizzonte e a dare il senso alle cose, all’universo, alla vita, al tempo, a tutte le nostre vicende: all’amore, al dolore, alla morte. Sempre Dio è la luce, la spiegazione, il rifugio, il sollievo. Egli è l’oggetto, inconsapevolmente, forse, da parte nostra, del nostro amore.



AMORE FIDUCIOSO PER IL PADRE CELESTE

Dove andiamo? E che cosa cerchiamo? la felicità? Ma Dio è la felicità; la verità? ma Dio è la verità; l’esistenza? ma Dio è la vita. Tutto quanto il nostro cuore anela e vorrebbe raggiungere e conquistare in modo assoluto si riferisce e converge, dunque, a questo centro di tutte le nostre aspirazioni: Dio.

Gesù ci ha insegnato - occorre sempre tener presente la sublime realtà - a chiamare Iddio con l’appellativo di Padre. Grandissima cosa, che comporta un altro mirabile insegnamento. Che cosa è l’uomo? Chi siamo e in che consiste la nostra vita? Tutte le cose che avvengono, nella politica, nella società, negli interessi, ecc., si svolgono intorno a questo enigma della nostra esistenza, con quanto essa postula e attende. Anche qui la risposta è data dalla Parola del Signore. Iddio ci ha creati per farci giungere a conversare con Lui; per amarci ed essere da noi amato! per fissare un rapporto di amicizia, di gioia e di felicità.


COSTRUIRE SULLA FEDE ED AVANZARE

Tutto ciò è contenuto nell’insegnamento su Dio e sull’uomo. Pertanto, ogniqualvolta i fedeli sentono il richiamo del proprio Pastore a frequentare l’istruzione catechistica, ad ascoltare la sacra predicazione, superando ogni peso di noi e diffidenza, sappiano che si tratta di accogliere l’eccelso dono. Siano, quindi, attenti, premurosi, assetati della Parola del Signore: cerchino sempre di accoglierla bene, di possederla e compenetrarsene.

L’effetto che la Parola di Dio produce in noi si chiama la Fede. Io, cioè, accetto la Parola del Signore e ne vivo, mi fondo e so costruire su di essa; dunque io credo.

Credere vuol dire avere la fede. Questo il primo grande dono della Chiesa: la luce appunto che sempre rischiara e indica il giusto cammino: nella convinzione di procedere verso Dio e con Dio, non considerato solo quale giudice severo - lo è, infatti, e talvolta lo dimostra - ma Padre misericordioso e benigno, il quale dice all’uomo: ama il Signore come figlio, come creatura prediletta, come predestinato alla beatitudine eterna.


LA GRAZIA: IL SIGNORE IN NOI

Il secondo dono della Chiesa a quanti la seguono è la Grazia. Il Signore non soltanto è il nostro Maestro con il comunicarci la verità; ma ha pure deciso di stabilire una relazione, un rapporto vitale con noi. Secondo quanto abbiamo riletto nel Vangelo della Messa dello Spirito Santo: «Si quis diligit me, sermonem meum servabit, et Pater meus diliget eum, et ad eum veniemus, et mansionem apud eum faciemus» (
Jn 14,23), Egli stesso ha voluto abitare nelle nostre anime: fare delle nostre esistenze un tempio, un tabernacolo, un punto di arrivo del suo amore e della sua presenza.

Noi siamo i portatori di Cristo, di Dio, quando siamo nella sua Grazia. Essere in comunicazione con Lui vuol dire avere la vita, acquisire tutte le promesse ed i pegni di una felicità, che in nessuna maniera, in nessuna misura possiamo raggiungere in modo diverso o altrove.

Di qui l’esortazione del Vicario di Gesù Cristo: Figli carissimi, accogliete i doni che la Chiesa vi offre. Questi. doni, di cui il Papa ha ora parlato e che Egli stesso ha recato con Sé, la Parola e la Grazia del Signore, abbiateli cari; cercate di accoglierli, di farli vostri. Se volete che la vostra vita abbia un significato; e non sia mai afflitta dalle tenebre, né dalla disperazione, ricordate la necessità di questi doni. La Parola e la Grazia del Signore costituiscono il pane quotidiano del nostro pellegrinaggio terreno.


ACCETTARE LA CROCE PER LA FELICITÀ ETERNA

Soprattutto nel presente periodo che ci conduce alla Pasqua, a contatto con quei Misteri Pasquali da cui ci è pervenuta la luce e la salvezza, custodite con ogni cura questi tesori della Chiesa. La Verità, la Fede nella bontà, nell’amore di Dio, nel suo desiderio di unirsi a noi; la Grazia largitaci mediante i Santi Sacramenti pasquali: ecco la sintesi delle raccomandazioni odierne.

A voi lasciamo tutto ciò come ricordo dell’incontro: sicuri che il ministero del Papa sarà accolto e produrrà ottimi risultati. Se voi realmente pensate non alle parole, ma al loro significato, e lo fate vostro, senz’alcun dubbio avrete - Sua Santità lo conferma nel nome di Cristo - la soluzione dei vostri problemi, la letizia nei vostri cuori, la sicurezza nel vostro cammino, la evidenza in tutte le cose che devono essere a noi spiegate. Avrete qui, in terra, da portare la croce nella fedeltà al Signore; ma infrangibile sarà in voi la certezza che essa, con la Croce di Cristo, vi condurrà, insieme con quanti l’hanno bene accolta, alla felicità eterna. Così sia.







Martedì, 19 marzo 1968: SANTA MESSA NELLA FESTIVITÀ DI SAN GIUSEPPE

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La liturgia della parola ci obbliga, in questo momento, a sospendere il Rito e a concentrare la nostra attenzione sul grande Santo del giorno, Giuseppe, e a dedicare a lui un istante di intensa meditazione.

Questa elettissima figura ci appare al termine del periodo preparatorio della Redenzione e all’inizio della nuova èra: nel punto focale della storia: il più solenne, decisivo, ricco di grandi cose e di alti misteri.



LA REDENZIONE SI INIZIA NELLA PIÙ PROFONDA UMILTÀ

San Giuseppe ci si presenta nelle sembianze più inattese. Avremmo potuto supporre in lui un uomo potente, in atto di aprire la strada al Cristo arrivato nel mondo; o forse un profeta, un sapiente, un uomo di attività sacerdotali per accogliere il Figlio di Dio entrato nella generazione umana e nella conversazione nostra. Invece si tratta di quanto di più comune, modesto, umile si possa immaginare.

È bene che noi consideriamo il singolare aspetto della venuta di Cristo sulla terra. Egli ha disposto che il quadro privato, personale, per tale avvenimento, fosse di estrema semplicità.

Giuseppe doveva dare al Signore, diremo, il suo stato civile, cioè la sua inserzione nella società. E qui ancora un altro pensiero. Siccome Giuseppe apparteneva alla discendenza di Davide, si poteva supporre di trovarsi di fronte a chi avesse consuetudine con il trono, o emergesse nel fragore di qualche avvenimento guerresco, oppure nel dramma d’una contesa politica. Siamo, invece, sulle soglie d’una miserrima bottega artigiana di Nazareth. Ecco Giuseppe, il quale appartiene, sì, alla progenie di Davide, ma senza che da ciò derivi un titolo o motivo di gloria, bensì, si direbbe, un contrasto, per cui si trova livellato alla statura di tutti gli altri, senza rinomanza e senza storia.

Non solo: ma pur nella sua qualità di capo della famiglia umana in cui Gesù si è degnato vivere, nessun particolare il Vangelo ci ha dato di lui. Un uomo silenzioso, povero, ligio al dovere, pur con la sua regale ascendenza. Era giusto, questo l’unico attributo con cui lo indica il Vangelo: ma è sufficiente per darci il quadro sociale scelto da nostro Signore per Sé.

Potremmo quindi ignorare questa figura, non soffermarci dinanzi ad essa? No, affatto: poiché non capiremmo, in tal caso, la dottrina insegnata dal Divino Maestro: la Buona Novella sin dalla prima sua forma caratteristica, quella d’essere annunciata ai poveri, agli umili, a quanti hanno bisogno di essere consolati e redenti. Perciò il Vangelo delle Beatitudini comincia con questo introduttore, chiamato Giuseppe. Ci troviamo di fronte a un quadro incantevole, e che ciascuno di noi, se fosse un artista, potrebbe ideare solo in maniera inadeguata. Ma ecco: proprio Gesù ci presenta questo suo introduttore, questo suo custode e padre putativo, nelle forme le più umane, le meno solenni, quelle a tutti accessibili.



SAPER ASCOLTARE ED ESEGUIRE I PRECETTI DEL SIGNORE

Nondimeno, c’è uno speciale aspetto che merita di essere osservato e compreso. Questa sommessa vita, che si intreccia con quella del Cristo nascente e con quella beatissima della Vergine, ha qualche cosa di caratteristico, di molto bello, di misterioso.

Ricordiamo il brano di San Matteo testé letto: tre volte, nel Vangelo, si parla di colloqui d’un Angelo con Giuseppe nel sonno. Che cosa vuol dire? Significa che Giuseppe era guidato, consigliato nell’intimo dal messaggero celeste. Aveva un dettato della volontà di Dio che si anteponeva alle sue azioni: e quindi il suo comportamento ordinario era mosso da un arcano dialogo che indicava il da farsi: Giuseppe non temere; fa’ questo; parti; ritorna!

Che cosa allora scorgiamo nel nostro caro e modesto personaggio? Vediamo una stupenda docilità, una prontezza eccezionale d’obbedienza ed esecuzione. Egli non discute, non esita, non adduce diritti od aspirazioni. Lancia se stesso nell’ossequio alla parola a lui detta; sa che la sua vita si svolgerà come un dramma, che però si trasfigura ad un livello di purezza e sublimità straordinarie: ben al di sopra d’ogni attesa o calcolo umano. Giuseppe accetta il suo compito, perché gli è stato detto: «Non temere di prendere Maria quale tua sposa, poiché quel che è nato in lei è opera dello Spirito Santo».



I DOVERI DEL PROPRIO STATO E LE IMPRESE DI PERFEZIONE

E Giuseppe obbedisce. Più tardi gli sarà ingiunto: occorre partire, giacché il neonato Salvatore è in pericolo. Ed egli affronta un lungo viaggio, attraversando deserti infocati, senza mezzi e senza conoscenze, esule in paese straniero e pagano; sempre ligio e pronto alla voce del Signore che, in seguito, gli ordinerà di tornare.

Appena rientrato a Nazareth, vi ricompone la vita consueta, di riservato artigiano. Suo è l’ufficio di «educare» il Messia al lavoro, alle esperienze della vita. Lo custodirà e avrà, nientemeno, la sublime prerogativa di essere lui a guidare, dirigere, assistere il Redentore del mondo. E Gesù «erat subditus illis»: obbediva a Giuseppe ed a Maria!

La caratteristica adesione di San Giuseppe alla volontà di Dio è l’esempio sul quale dobbiamo oggi meditare.

Intendiamo, quindi, anzitutto riflettere che i grandi disegni di Dio, le provvide imprese che il Signore propone ai destini umani possono coesistere, adagiarsi sopra le condizioni più comuni della vita. Nessuno è escluso dal compiere, e a perfezione, il divino beneplacito. Anzi, ciascuno dovrebbe essere così attento alle voci del Cielo da porsi il quesito: sono io chiamato? In parole più ovvie: qual è la volontà di Dio sulla mia esistenza? Come devo dirigere l’impiego dei miei giorni, delle mie forze, dei miei talenti, per essere in corrispondenza con le disposizioni del Signore?

Sappiamo che il far coincidere la nostra volontà capricciosa, indocile, spesso errante, talvolta perfino ribelle; far coincidere questa piccola, ma pur sublime volontà e libertà con il volere di Dio, in una parola, il «fiat voluntas tua», è il segreto della grande vita. È l’innestare se stessi sopra i pensieri del Signore ed entrare nei piani della sua onniveggenza e misericordia, ed anche della sua magnanimità. Se vogliamo essere veramente in Dio e partecipare al Regno dei Cieli, questo punto di raccordo fra la volontà nostra e quella di Dio deve essere assolutamente studiato, specie negli anni, nei giorni, nei momenti in cui la nostra vita sceglie il suo stato, la sua direttiva, la sua mèta. Ci si deve convincere, allora, che una voce dal Cielo - interna o esterna, mediante alcune circostanze o la parola di qualche maestro - viene a farci conoscere l’interpretazione giusta ed elevata, che ognuno è obbligato a dare alla propria esistenza. Nessuna vita è banale, meschina, trascurabile, dimenticata. Per il fatto stesso che respiriamo e ci moviamo nel mondo, siamo dei predestinati a qualche cosa di grande: al Regno di Dio, ai suoi inviti, alla conversazione, alla convivenza e sublimazione con Lui, sino a diventare «consortes divinae naturae».



LA PERFETTA ARMONIA TRA VOLONTÀ DIVINA E LIBERTÀ UMANA

Come comportarsi per raggiungere così meraviglioso traguardo? Ce l’insegna Giuseppe, con il suo fedele e costante ascolto dell’Onnipotente.

Nelle cognizioni umane continuo è il progresso. Si diventa capaci ed abili a leggere nel creato, a fare calcoli i più complicati, ad acquisire innumerevoli scoperte: ma raramente affiora l’insegnamento sul come intuire e cogliere la volontà di Dio nei nostri confronti; i criteri fondamentali, almeno, con cui la legge dell’Altissimo si pronuncia circa la nostra esistenza. Orbene, tutto quanto è necessario, obbligato e immutabile in noi ci induce a riconoscere ed affermare: qui è la volontà di Dio. L’uno sarà infermo, l’altro povero, altri ancora si troverà nella tribolazione, in condizioni difficili. Allora si curva la fronte e si esclama in maniera convinta: tutto è disposto dal Signore! E di qui si avvia un reale colloquio con Lui. In più, c’è il possesso individuale della libertà. Chi sceglie da sé, deve essere in grado di esprimere personalmente le cose migliori. Ecco un altro aspetto della volontà di Dio. Il Signore desidera da noi che non siamo gente dimentica, aberrante, insensibile. Egli dispone che ognuno abbia una riserva di generosità nella propria coscienza, il desiderio delle cose grandi, difficili, anche, e sublimi. Possiamo nutrire tale desiderio? Lo dobbiamo: indirizzando, perciò, la nostra vita verso le più nobili mete, e ponendoci in tal modo sul cammino della completa rispondenza al Signore: fiduciosi, arditi, pronti ad affrontare il rischio delle grandi scelte.

Di conseguenza, lo stato in cui ciascuno viene a trovarsi mediante la fusione di circostanze, e intenti onesti con la volontà di Dio, accolta da quella umana, è cosa di immenso valore. Dunque, i doveri del proprio stato sono stabiliti dal manifestarsi della disposizione divina: chi bene li compie dà una grandezza incomparabile all’intera sua attività.

In ciò rivediamo l’esempio datoci da Giuseppe: da lui apprendiamo la ricerca illuminata, forte, generosa, della volontà del Signore sopra la nostra vita.



OLTRE L'ESEMPIO, LA PROVVIDA INTERCESSIONE

Si arriva, ora, a considerare un secondo benefico motivo di riflessione. Siccome tutto quanto noi pensiamo di grande, di buono, di bello, supera in ogni caso la nostra possibilità di esecuzione, ecco manifestarsi il bisogno di un aiuto, oltreché dell’esempio.

Giuseppe ci insegna non solo la fedeltà al paradigma della vita, fissato da Dio per i nostri passi, ma è altresì un elettissimo protettore per noi. Qui entriamo nel mistico campo del Regno di Dio. Giuseppe è stato il custode, l’economo, l’educatore, il capo della Famiglia in cui il Figlio di Dio ha voluto vivere sulla terra. È stato, in una parola, il protettore di Gesù. E la Chiesa, nella sua sapienza, ha concluso: se è stato il protettore del corpo, della vita fisica e storica di Cristo, in Cielo Giuseppe sarà certamente il protettore del Corpo Mistico di Cristo: cioè della Chiesa.

Oggi la Chiesa celebra appunto questa protezione del mirabile Operaio di Nazareth sulla umanità redenta.

Avviciniamoci anche noi, con devozione filiale, come gente di casa, alla porta dell’umile bottega di Nazareth e ciascuno preghi Giuseppe: dammi una mano, un sostegno; proteggi anche me. Non c’è una vita che non sia insidiata da molti pericoli, da tentazioni, debolezze, mancanze. Giuseppe, silenzioso e buono, fedele, mite, forte, invitto ci insegna come dobbiamo fare; e certamente un soccorso egli largisce con squisita bontà.

Perciò, tornando, ora, alla celebrazione del sacro Rito, chiederemo, per l’intercessione di questo carissimo Santo, che l’aiuto celeste non ci manchi nell’accettare il compimento della divina Volontà nelle nostre singole vite.

Ci dichiariamo - dice Sua Santità - vivamente partecipi alla vostra celebrazione, centenaria e cinquantenaria; nulla Ci piace più che il vedere il rigoglio dell’albero antico ‘ma sempre verdeggiante della Gioventù Maschile e quello sempre primaverile della Gioventù Femminile. Considerando l’intero panorama della Chiesa, ognor più acquistano risalto la vostra funzione, il vostro posto nella comunità ecclesiale, distinguendosi, i vostri gruppi, sia per la dignità - siete molto stimati ed onorati dalla Chiesa di Dio -, sia per la funzionalità - avete degli obblighi, avete delle missioni da compiere, potete fare una quantità di bene -, sia, ancora, per la fedeltà da voi custodita ad ottima formula organizzativa ed operativa.

E non è tutto: siete uniti, siete solidali con quanti vi hanno preceduto; siete una grande famiglia che copre tutta la nazione; e ciò è già un eccellente, splendido servizio, mediante una rete di saldi rapporti spirituali, la quale dà consistenza non solo alla Chiesa, ma a un intero popolo, il popolo italiano. Siamo lieti e fieri di rilevare tale comportamento della Gioventù Cattolica Maschile e Femminile.

Dopo il paterno saluto, così ricco di profondo compiacimento e viva speranza, una raccomandazione. Quella di ripensare e tradurre in pratica le belle cose che vi sono state dette durante il Convegno, specialmente dalle labbra del Signor Cardinale Pellegrino. Il Papa fa suo il discorso del Porporato; e dice ai giovani di rileggerlo, ed applicarlo con fervido impegno.

Quindi un’altra nota di apostolica sollecitudine: vi abbiamo sempre nel cuore, Figliuoli, preghiamo per voi, vi seguiamo; spesso parliamo di voi con i vostri dirigenti, e con la grande fiducia che voi sappiate davvero fare sul serio. Nella vostra militante operosità non si tratta più d’una preferenza, d’un diletto, d’un passatempo, di vicende occasionali, bensì d’argomento di primaria importanza, che si innesta nella causalità spirituale del momento, della storia, del popolo in cui ci troviamo. Proseguite nella convinta responsabilità! Siate realmente ligi e fedeli alla vostra insegna; cercate di rendere la vostra formula ognor più viva, moderna, efficiente, piena di opere molteplici, geniale anche in ulteriori iniziative. Cercate di essere, in una parola, felici e come inebriati della vostra appartenenza a queste due Associazioni gloriose; e sappiate che, come esse costituiscono una gloria per la Chiesa, così la Chiesa medesima vi tiene nel cuore, vi apprezza, vi benedice e confida che dall’opera e dalla collaborazione del laicato giovanile cattolico abbiano a sorgere mirabili novità per il tempo nostro.

Il cammino è arduo e la missione non sempre facile. Siete come avvolti da un dramma esterno. La vita odierna considerata nelle sue espressioni teoriche, nelle sue ideologie che si combattono l’una con l’altra, in tanta precarietà di lotte sociali e politiche, nel suo trasformismo di vario genere, soprattutto economico e morale, ha bisogno di anime generose come le vostre. Tutti hanno visto, in questi giorni, che cosa è la gioventù quando non ha ciò che voi, per grazia di Dio, possedete: la fede, la sapienza, la carità nel cuore. Cercate di essere degni di questo dono e di offrire testimonianza con la vostra letizia, con la vostra energia e con le vostre certezze cristiane. Iddio vi benedica!







B. Paolo VI Omelie 28268