B. Paolo VI Omelie 28468

28 aprile 1968: CELEBRAZIONE DELLA DOMENICA DEL «BUON PASTORE»

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RIPENSARE LA PERSONA LA FIGURA DI CRISTO

Sua Santità, dopo aver annunciato che, al termine del Divin Sacrificio, Egli saluterà i vari pellegrinaggi, intende adesso proporre una speciale riflessione.

Lasciamo - Egli dice - che la nostra anima si raccolga sulle parole del Vangelo ora ascoltate, e che tutto il nostro spirito si apra per coglierne un aspetto, che possa essere per noi di spirituale nutrimento durante la celebrazione dei santi Misteri.

Il Vangelo della seconda domenica dopo la Pasqua ci ripropone il celebre brano del Buon Pastore. Esso sembra quasi rispondere, nella scelta fattane per l’odierna liturgia, a una necessità psicologica, come quella - per usare un paragone ovvio - di chi ha perduto la presenza fisica di persona cara.

Quando uno dei nostri con la morte ci lascia, che cosa si fa? Lo si rievoca intensamente. Il Vangelo odierno induce a un ripensamento della Persona, della figura, della missione di Cristo. Guardiamo quanto è avvenuto. Gesù ha concluso la sua vita temporale con la Croce e ne ha inaugurata un’altra con la Risurrezione; e noi, che siamo rimasti estasiati da questo avvenimento, che tanto ci consola eppur tanto ci supera, della vittoria sulla morte, e ci ritroviamo, però, quasi abbandonati e nella solitudine, torniamo col pensiero a Chi ci è presentato dal Vangelo nelle sue forme umane e sensibili; e ci chiediamo: com’era? quale il suo volto? e il suo aspetto?

E qui è necessario subito evitare uno scoglio assai in voga ai giorni nostri: quello definito «mitizzazione»: un rifacimento, cioè, artificioso e fantastico della figura di Cristo.



«MITE ED UMILE DI CUORE»

Noi abbiamo ottime ragioni per non commettere questo errore. Anzitutto perché il ricordo di Lui nell’odierno tratto evangelico è realistico, umile, spoglio di qualsiasi amplificazione, ed ha, intero, il sigillo della fedele realtà. Inoltre, perché rimaniamo coerenti e fedeli alla parola stessa di Gesù. È Lui a indicare e definire la sua missione: il Buon Pastore. Due volte si è chiamato così; e noi ci atteniamo esattamente a questa definizione che Egli si compiacque dare di Sé e ci consegnò, quasi dichiarando: pensatemi così: Io sono il Buon Pastore. Ha voluto perciò consegnare alla nostra anima, alla nostra memoria, al nostro raziocinio, questa sua definizione. E con tale evidenza che la prima e più antica iconografia cristiana, come si sa, ci presenta proprio l’immagine agreste, semplice, paesana del pastore che porta sulle spalle una delle sue pecorelle.

Il Buon Pastore è Gesù. Adesso si tratta di capire, giacché non basta guardare l’immagine della persona scomparsa, non è sufficiente una rievocazione sensibile, ma occorre comprendere, penetrare quel ch’è rivelato da tali sembianze. Era così Gesù? È proprio Lui che ha voluto essere in tal modo, da Buon Pastore, ricordato e celebrato? Di ciò, infatti, si tratta, e dei caratteri salienti che così delineano Gesù. Ebbene, il Vangelo ce ne informa con parole assolutamente semplici; e, come sempre, con insegnamenti profondi, abissali, che quasi danno le vertigini e fiaccano il nostro potere di comprensione. Nondimeno, siamo invitati dallo ste.sso Signore - e la liturgia della Chiesa ripete il richiamo - a pensarlo così: una figura estremamente amabile, dolce, vicina; e noi possiamo attribuire soltanto al Signore l’esprimersi con bontà infinita.

Ecco, poi, riaffiorare nella nostra memoria altre parole che Gesù ha detto di Sé: Imparate da me, che sono mite ed umile di cuore. La sua bontà, anche qui, si definisce con eloquio, con virtù che prodigiosamente fanno discendere sino a ognuno di noi il Salvatore del mondo, il Figlio di Dio fatto Uomo, Gesù, centro dell’umanità.

Presentandosi in tale aspetto, Egli ripete l’invito del Pastore; disegna, cioè, un rapporto che sa di tenerezza e di prodigio. Conosce le sue pecorelle, e le chiama per nome. Poiché noi siamo del gregge suo, è agevole la possibilità di corrispondenza, che antecede il nostro stesso ricorso a Lui. Siamo chiamati uno ad uno. Egli ci conosce e ci nomina, si avvicina a ciascuno di noi e desidera farci pervenire ad una relazione affettuosa, filiale con Lui. La bontà del Signore si palesa qui in maniera sublime, ineffabile. La devozione che la fede, la pietà cristiana tributerà al Salvatore, arriverà con slancio - non solo momentaneo, ma capace di sondare le meraviglie di tanta dilézione - a penetrare nel cuore: e la Chiesa ci presenterà il Cuore di Cristo perché abbiamo a conoscerlo, adorarlo, invocarlo. La devozione al Sacro Cuore di Gesù ben può attribuirsi alla sorgente evangelica oggi rievocata: «Io sono il Buon Pastore».



IL BUON PASTORE DÀ LA VITA PER IL SUO GREGGE

V’è, poi, un tratto che corregge una delle più comuni ed inesatte interpretazioni della bontà. Noi siamo abituati ad associare il concetto di bontà a quello di debolezza, di non resistenza; a ritenerla incapace di atti forti ed eroici, di manifestazioni in cui trionfino la maestà e la fortezza.

Nella figura di Gesù, semplice e complessa insieme, le qualità, le doti che si direbbero opposte, trovano, invece, una sintesi meravigliosa. Gesù è dolce e forte; semplice e grandioso; umile e a tutti accessibile; una sommità inattingibile di fortezza d’animo, che nessuno potrà giammai eguagliare. Nondimeno, Egli stesso ci introduce in questa sua psicologia, nella penetrazione, diremmo, del suo temperamento, della sua mirabile realtà.

Il Buon Pastore dà la vita per le sue pecorelle, per il suo gregge. È come dire: l’immagine della bontà si congiunge a quella d’un eroismo che si dona, si sacrifica, s’immola, per cui tale bontà si congiunge ad altezze e visioni dell’atto redentore, talmente elevate da lasciarci sorpresi e attoniti.

Dobbiamo avvicinarci a Gesù, così presentato dal Vangelo, e dobbiamo chiederci se davvero noi cristiani portiamo bene questo nome, se cioè abbiamo un esatto concetto del nostro Divin Salvatore. Certo: molte Vite sono state scritte di Lui; un diffuso catechismo lo concerne e lo presenta; e tante pagine del Vangelo ci sono familiari. Ma una sintesi, come dire?, fotografica, completa, di Lui, la possediamo? Abbiamo un giusto concetto di quel che Egli è stato? Orbene, la cara immagine evangelica e quasi arcadica, offertaci dallo stesso Divino Maestro, lascia riposare, in un incanto di amore, il nostro spirito, e lo dirige e l’aiuta nella ricerca di Dio.



TUTTI EGLI CI CONOSCE E CI CHIAMA

Che fa Gesù per attirarci e conquiderci in modo tanto sicuro? Egli ci conosce. Si pensi, quindi, quale prodigio ciò rappresenti. Siamo noti, chiamati uno ad uno, per nome, da Cristo: e in una forma completa, totale, cioè nel nostro essere, nella nostra persona, nei doni da Lui prodigatici, nei nostri desideri, nei nostri destini. Sono inseriti in questo Libro, che contiene le pagine della infinita bontà. Tutti siamo iscritti nell’elenco dei suoi: ciascuno può trovare se stesso nel Cuore di Cristo. Quale stupenda bellezza quella di rispecchiarsi in Gesù e di indovinare come Egli ci conosce! San Paolo lascia vedere tale stupenda realtà come una delle cose future: «Nunc cognosco ex parte; tunc autem cognoscam sicut et cognitus sum» (
1Co 13,12). Ora conosco in parte; allora poi conoscerò in quel modo stesso ond’io pure sono stato conosciuto. Ma già fin d’ora qualche cosa possiamo percepire, e così diventiamo un po’ diversi dalla ordinaria statura di uomini orgogliosi, o indifferenti o anche talvolta cattivi. Davanti a Gesù, che si denomina Buon Pastore, ci conosce e ci chiama per nome, vuole avvicinarci e ci guida assicurando di condurci ai pascoli della vera vita e agli alimenti necessari, oh come diventiamo un po’ migliori anche noi e come sentiamo, per via di amore e di elezione, l’energia nuova, divina, sostituire la nostra umana e tanto ribelle psicologia! In una parola, il divenire perfetti cristiani.

E ancora un’ulteriore nota che concerne e definisce il Buon Pastore. Gesù ha sofferto, è morto per noi. Il Buon Pastore ha dato la sua vita per salvare la nostra. Se qualcuno di noi ha avuto la sorte d’essere stato, in qualche pericolosa circostanza, liberato da una malattia, o d’essere risparmiato da una disgrazia per intervento e merito di qualcuno, che ha agito con disinteresse, persino con sacrificio, certamente avverte insopprimibile, perenne, il vincolo della gratitudine verso il benefattore. Adunque, per il Signore Gesù dobbiamo avere, e a titoli superlativi, l’atteggiamento, l’obbligo di una riconoscenza senza fine. Questa attitudine di ringraziamento illimitato dobbiamo sentirla verso Gesù. Egli ci ha salvato offrendo la sua vita per noi, dandola coscientemente, con inenarrabili sofferenze, mentre - lo dicono i Padri - Egli poteva dare la sua vita in una maniera più semplice e meno tormentosa. Ha voluto, invece, conferire al suo Sacrificio una evidenza dolorosa fino allo spasimo; ha voluto imprimere nelle nostre anime l’immagine sanguinante delle sue membra straziate per noi!


HA DATO LA VITA PER NOI TRA INDICIBILI SOFFERENZE

Allora, la più bella definizione che troviamo nel Vangelo è quella che il Precursore Giovanni diede di Lui: Ecco l’Agnello di Dio, ecco Colui che toglie i peccati del mondo. Gesù è la vittima: Colui che paga per gli altri ed ha pagato per noi; si è sacrificato e immolato per noi. Ha stretto una reale parentela di obbligazione verso di noi appunto perché ha sostituito ai nostri debiti la sua ricchezza; ed ha soddisfatto per la nostra miseria; ha riparato la nostra rovina. Il mistero della salvezza, che è il mistero d’una donazione divina, al posto dei nostri moltissimi doveri e debiti, dovrebbe, nuovo motivo di fervore, sigillare la figura di Cristo nei nostri cuori; e suscitare in noi piena e sentita corrispondenza.

Nel Vangelo, quando si accenna ai rapporti tra il Figlio di Dio e i suoi discepoli, c’è sempre, da parte loro, qualche cosa di manchevole, dubbio, instabilità e insufficienza. Solo dopo la morte di Cristo e il suo Sacrificio, essi hanno a Lui ripensato come al Pastore che dà la vita per le sue pecorelle. Si è accesa, così, nel loro animo, la fiamma di adesione, entusiasmo, fedeltà; di quell’amore e dono di sé che il Signore domanda appunto a tutti i suoi seguaci.



PIENA GENEROSA E COSTANTE SIA LA NOSTRA RISPOSTA

Oggi è la «Giornata delle Vocazioni». Come è felicemente scelta in coincidenza con il tratto del Vangelo ora rimeditato!

Dovremmo sentirci un po’ tutti chiamati per nome; è necessario vedere in Gesù la guida dei nostri destini, dell’intera nostra vita; dobbiamo tutti rincorrerlo per dirgli: grazie: anch’io farò qualche cosa; la mia vita è tua, come la tua vita è stata ed è mia.

Il nuovo rapporto di amore, che unisce l’umanità a Cristo è stato definito come il connubio, lo sposalizio tra l’umanità e Cristo. Perciò la Chiesa, cioè l’umanità che segue Cristo, è chiamata la Sposa del Signore. Il che vuol dire una risposta: amore per amore; e quello che noi appartenenti alla Chiesa dobbiamo essere: i clienti della bontà di Dio, di Cristo. Indica, inoltre, la capacità nostra di superare e vincere timidezze, ignoranze, dubbi, per stabilire con Lui rapporti diretti d’interiore conversazione e di segreto, indissolubile amore.

Questa, o figliuoli - conclude il Santo Padre - la meditazione per oggi e per sempre. Non dovrà mai aver fine. Pensate alle parole del Signore, che dice di Sé: Io sono il Buon Pastore. Con quale infinita carità Egli le ripete a ciascuno di noi e le convalida con le altre: guarda che il Buon Pastore ha dato per te la sua vita! E tu? E tu? Figliuoli a voi la risposta.



PELLEGRINAGGIO DELL’ARCIDIOCESI DI GENOVA

Dopo la celebrazione dei santi Misteri Ci sentiamo in dovere di rivolgere un breve saluto ai Nostri visitatori, ai quali meglio si conviene il nome di Pellegrini, perché vengono a Roma espressamente per motivi religiosi, ed il nome di Fedeli, che non mai come in questa circostanza li qualifica e li onora, perché essi qua sono giunti mossi dal proposito di rinnovare la loro professione di Fede, in quest’anno dedicato appunto alla Fede, in memoria ed in onore dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, corifei della Fede, dei quali celebriamo l’anno centenario del loro martirio.

Ed ecco fra questi Pellegrini Fedeli il gruppo numeroso e cospicuo, al quale va per primo il Nostro saluto, quello di Genova. Salve, diremo, a Genova cattolica, che qui si attesta in forma magnifica e altamente significativa. Si tratta d’un Pellegrinaggio di ben 3.500 partecipanti, guidati e rappresentati dal loro illustre e veneratissimo signor Cardinale Giuseppe Siri Arcivescovo di codesta storica, insigne, fiorente ed a Noi carissima Chiesa metropolitana della Liguria. Al dotto e zelante Pastore, che Noi abbiamo la sorte di conoscere da lunghi anni, porgiamo il Nostro riverente e cordiale «benvenuto»; a lui il Nostro riconoscimento per la sua dottrina teologica, per l’opera prestata durante non brevi e non facili anni all’intero Episcopato Italiano, per quella che tuttora presta come Presidente delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani e di Consulente dell’Unione Cristiana dei Dirigenti e Imprenditori Italiani, per lo zelo e la dottrina con cui attende alla cura pastorale dell’Arcidiocesi genovese. E con lui salutiamo il suo Clero, di cui conosciamo, in esponenti d’alto valore, la fedeltà, l’attività, la saggezza, il fervore; e col Clero, i Religiosi e le Religiose partecipanti a questa spedizione spirituale e quelli che nella Città e nell’Arcidiocesi diffondono esempi di santità, di carità, d’apostolato. Notiamo con particolare interesse le rappresentanze della vita cattolica, alle quali vorremmo poter dare conforto di perseverante e generosa milizia morale e spirituale, quale i tempi richiedono. A tutti i buoni e cari Genovesi presenti e a tutti i loro cari, ch’essi portano nel cuore, un affettuoso e corroborante saluto, nel Signore. Né alla fine possiamo dimenticare le Autorità e le Personalità civili della Città, che con. esemplare senso di spirituale solidarietà hanno voluto associarsi a questo Pellegrinaggio: per le loro Persone, per i gravi uffici loro affidati, per l’onore e per la prosperità di Genova, Noi esprimiamo loro i Nostri migliori voti ed invochiamo la divina assistenza su di esse e sulla comunità civile, che esse qui, con tanta Nostra compiacenza, degnamente rappresentano.

Questi saluti non dicono quanto la presenza qualificata di Genova mette nel Nostro cuore. Avremmo molte molte cose da dire ai Genovesi, anche tacendo i ricordi personali che Ci legano alla bellissima ed attivissima Città; ma Ci limitiamo a due soli brevi accenni, che Ci sembrerebbe deplorevole omissione tacere. Il primo accenno è alla vostra tradizione cattolica, o Genovesi! Sarebbe tema di meditazione assai lunga, se la volessimo passare nella rassegna degli avvenimenti secolari e delle grandi figure, che dànno alla storia della Città la sua impronta gloriosa e caratteristica. I nomi di quattro Papi genovesi vengono qui spontaneamente alla memoria: Innocenzo IV († 1254), Adriano V († 1276), entrambi della Famiglia Fieschi, Innocenzo VIII († 1492), Cybo, e finalmente a noi vicino e da Noi stessi conosciuto (chi non lo ricorda?), Papa Benedetto XV († 1922), della Famiglia Della Chiesa. Vengono i nomi dei vostri Santi, ed uno per tutti celebrato nel duplice campo della mistica e della carità, Caterinetta, cioè S. Caterina Fieschi Adorno; vengono quelli delle vostre grandi istituzioni benefiche, che ancora illustrano la città come fra quelle che hanno saputo organizzare opere ospedaliere e di assistenza con maggiore intelligenza dei bisogni dei poveri e dei sofferenti e con maggiore generosità. Dovremmo ricordare alcune grandi figure di Arcivescovi e di ecclesiastici (p. Semeria, ad esempio, genovese d’adozione) e anche di Laici (come Camillo Corsanego), specialmente in quest’ultimo periodo della vostra storia religiosa e sociale. E non dovremmo dimenticare che Genova, città marinara, fu ai suoi tempi città missionaria; l’Oriente ne porta ancora le tracce, e il lontano Occidente non può contestare la paternità d’uomo di fede, che si chiama Cristoforo Colombo. Questo per dire che la professione di fede, che voi oggi venite ad esprimere nel centro della cattolicità, è un atto di coerenza storica e spirituale che deve definire davanti alle vostre coscienze e alla vostra comunità cittadina ciò che voi foste, ciò che siete e che sarete: cristiani e cattolici, Genovesi per i quali l’adesione alla santa Chiesa apostolica e romana è ragione di impegno storico e morale e principio di quelle virtù morali e religiose, che resero grande il vostro passato e devono rendere non meno grande, se pur tanto diverso, il vostro avvenire.

E il presagio sull’avvenire pone un altro accenno a questione vitale per il vostro Popolo; non è questione che vi riguardi esclusivamente, ma maggiormente forse che molte altre Città; la questione cioè della fusione della tradizione con i radicali mutamenti della società moderna rispetto all’antica ed anche solo a quella che la precede di pochi anni; mutamenti prodotti principalmente dagli sviluppi industriali, che cambiano non solo l’aspetto esteriore del vostro panorama, ma quelli altresì interiori della vita, del pensiero, del costume. Ebbene cotesto Pellegrinaggio già dimostra che, per quanto difficili possano essere le questioni di tale fusione, essa impossibile non è. Anzi la vostra presenza romana intravede che proprio una fede cosciente, istruita, sincera nella vitalità del Vangelo, di cui la Chiesa è custode e maestra, lungi dall’essere eterogenea alle esigenze della vita moderna, può esserne il fermento propulsore ed il farmaco preventivo per le sue facili e pericolose decadenze.

Lode perciò a Genova credente ed operante. Il nostro plauso è il Nostro voto per l’avvenire grande e buono della Città che l’Immacolata, Giovanni Battista e Lorenzo tengono sotto la loro vivificante protezione.

Saluto alle altre Diocesi

Alcune altre Diocesi sono ufficialmente presenti a questo felicissimo incontro spirituale; meriterebbero anch’esse un panegirico; Ci dobbiamo accontentare della semplice menzione, ch’è però quella della memoria più affettuosa e fedele. Qui è la Diocesi di Cremona, e vi è pure quella di Lodi; due Diocesi suffraganee dell’Arcidiocesi di Milano, e che perciò Noi avemmo occasione di conoscere, di visitare, di ammirare, specialmente nello zelo pastorale dei loro degnissimi e carissimi Vescovi: Mons. Bolognini di Cremona, e Mons. Benedetti di Lodi. Ogni Nostro miglior voto è per loro, e una speciale benedizione lo sancirà.

Abbiamo gruppi di altre Diocesi, i nomi delle quali commuovono il Nostro spirito. Come: Trento, Chiavari, Benevento, Albano, Padova, Vicenza. A tutte il più cordiale saluto in nostro Signore. Ma andiamo con ordine.

Un gruppo che non possiamo lasciare senza una particolare menzione è quello delle Donne di Azione Cattolica della Diocesi di Brescia, la Nostra patria naturale e spirituale d’origine. Conosciamo lo spirito che anima questo gruppo di Donne piissime e fedelissime; e ne diremo anche la ragione: Nostra Madre appartenne a questa Unione di Donne Cattoliche, e vi dedicò, nell’ultimo periodo della sua vita, le cure più assidue, con molta Nostra edificazione e, vogliamo credere, con buon profitto dell’Unione stessa, la quale sembra darne prova anche con questo Pellegrinaggio. A queste Figlie in Cristo carissime, ed a tutte le loro socie di fede e di cattolica attività il Nostro plauso cordiale e la Nostra Benedizione.





Mercoledì, 1° maggio 1968: SOLENNITÀ DI SAN GIUSEPPE ARTIGIANO E FESTA DEL LAVORO

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L'AZIONE MATERNA E REDENTRICE DELLA CHIESA

Diletti Figli e Figlie!

Eccoci a celebrare insieme il primo maggio, la festa del lavoro. È una festa nuova, che ha trovato posto nel calendario religioso in questi ultimi tempi; ed è chiaro che la Chiesa, introducendola nella serie delle sue sacre celebrazioni, manifesta un’intenzione redentrice, quasi un desiderio di ricupero, e certamente uno scopo santificatore. S’era prodotto un distacco in questi ultimi secoli fra la psicologia del lavoro e quella religiosa, un distacco che ha avuto grandi ripercussioni sociali, e che ancora tiene lontane dalla fede tante folle di uomini e di donne, che fanno del lavoro non solo la loro professione, ma altresì la loro qualifica spirituale, l’espressione della loro suprema concezione della vita, in opposizione a quella cristiana. È questo uno dei più grandi malintesi della società moderna, e che tutti oramai dovrebbero sapere risolvere da sé, non solo a lode della verità, ma a tutto vantaggio altresì del lavoro stesso e dei lavoratori, che della fatica e dell’attività produttiva portano nella loro vita l’impronta distintiva.


IL LAVORO COME OGNI ONESTA ATTIVITÀ UMANA È SACRO

Infatti, per ciò che riguarda il lavoro, il pensiero cristiano, e per esso la Chiesa, lo considera come espressione delle facoltà umane, e non soltanto di quelle fisiche, ma altresì di quelle spirituali, che imprimono nell’opera manuale il segno della personalità umana, e perciò il suo progresso, la sua perfezione, e alla fine la sua utilità economica e sociale. Il lavoro è l’esplicazione normale delle facoltà umane, fisiche, morali, spirituali! e riveste perciò la dignità, il talento, il genio perfettivo e produttivo dell’uomo. Ne esplica la sua fondamentale pedagogia, ne segna la statura del suo sviluppo. Obbedisce al disegno primigenio di Dio creatore, che volle l’uomo esploratore, conquistatore, dominatore della terra, dei suoi tesori, delle sue energie, dei suoi secreti. Non è perciò il lavoro, di per sé, un castigo, una decadenza, un giogo di schiavo, come lo consideravano gli antichi, anche i migliori; ma è l’espressione del naturale bisogno dell’uomo di esercitare le sue forze e di misurarle con le difficoltà delle cose, per ridurle al suo servizio; è l’esplicazione libera e cosciente delle facoltà umane, delle mani dell’uomo guidate dalla sua intelligenza. È nobile perciò il lavoro, e, come ogni onesta attività umana, è sacro.


ASSICURARE AL LAVORO UNA SUA GIUSTIZIA CHE GLI RENDA UN VOLTO UMANO FORTE LIBERO E LIETO

Qui, fra le tante, due interrogazioni fermano il facile corso di questi pensieri. E cioè: che cosa dobbiamo dire del lavoro quando esso è pesante, oppressivo, inetto a raggiungere il suo primo risultato, il pane, la sufficienza economica per la vita? quando serve ad accrescere l’altrui ricchezza con lo stento e la miseria propria? quando si manifesta indice, e quasi suggello d’insuperabili e intollerabili sperequazioni economiche e sociali? La risposta teorica è facile, anche se nella pratica è spesso assai difficile; ma è risposta forte della sofferenza umana, una forza alla fine vittoriosa: bisogna rivendicare al lavoro condizioni migliori, progressivamente migliori; bisogna assicurare al lavoro una sua giustizia, che cambi al lavoro il suo volto dolorante e umiliato, e gli renda un volto veramente umano, forte, libero, lieto, irradiato dalla conquista dei beni non solo economici, sufficienti ad una vita degna e sana, ma altresì dei beni superiori della cultura, del ristoro, della legittima gioia di vivere e della speranza cristiana.


OCCORRE PERVENIRE AD UN ORDINE GIUSTO PER TUTTI E ALLA VISIONE CRISTIANA DELLA SOCIETÀ

Molto è già stato fatto in questo senso, ma altro resta ancora da fare. Le grandi encicliche pontificie hanno alzato voce alta e grave a tale riguardo; e così quella dei Pastori e dei Maestri e degli Esponenti del Laicato cattolico. Noi oggi ricordiamo queste magistrali parole, come quelle in cui risuona l’eco dei nostri testi liturgici. La Chiesa così onora il lavoro, e cammina anch’essa, non certo alla retroguardia, sulla via maestra della civiltà del vostro tempo.

L’altra questione, che sorge spontanea parlando del lavoro, è quella relativa alla nuova forma, che ha assunto il lavoro moderno, la forma industriale, quella delle macchine, quella della produzione massiccia, quella che ha trasformato la nostra società, marcando la distinzione e l’opposizione delle classi sociali. Che cosa diremo? si è tanto detto, scritto, operato su questo tema, che non vorremmo apparire semplicisti nelle Nostre risposte. Ma voi conoscete l’elementare semplicità di questo Nostro colloquio. La prima risposta è questa: la Chiesa ammira e incoraggia questa potente espressione del lavoro moderno: perché mira a moltiplicare i beni economici in modo che tutti ne possano, in sufficiente misura, godere; e perché, potenziato dalla macchina, il lavoro è diventato meno gravoso sulle spalle dell’uomo (cfr. Danusso). Potremmo anche dire: perché, organizzato com’è, il lavoro moderno produce nuovi rapporti sociali, nuova solidarietà, nuova amicizia fra chi vi attende, fra i lavoratori specialmente; e ciò è un bene, se davvero la solidarietà dell’amore li unisce e conferisce alla società un tessuto di rapporti umani più compatti e più coscienti, cioè li associa nella confluenza dapprima delle categorie proprie alle indispensabili divisioni funzionali del lavoro compresso e organizzato da compiere, e poi della tutela dei comuni interessi; ma insieme li forma alla concezione organica della società, che non deve risultare dall’urto di contrastanti e irriducibili avidità, ma dall’armonia dialettica della collaborazione ad un ordine giusto per tutti e della partecipazione ad un bene comune razionalmente distribuito. Speranza questa ancora in gran parte, ma anche realtà, che va maturandosi là dove la visione cristiana della società e il concetto sacro della persona umana, quale soltanto il Vangelo può alla fine definire e difendere, guadagnano la mentalità del moderno progresso.



NEL NOME DEL FABBRO DI NAZARETH «SALUTIAMO E BENEDICIAMO TUTTI I LAVORATORI»

Quante cose avremmo ancora da dire! ma questa risulta quasi da sé: la religione sta alla radice e sta al vertice del processo che fa grandeggiare sia il concetto, che la realtà del lavoro. Essa ha una sua dottrina anche per l’aspetto di fatica e di pena, che il lavoro non perde mai, e ricordandone l’infelice origine (cfr. Gen. 3, 19), ne rammenta il felice e sublime epilogo, il suo valore redentivo (cfr. Matt. 5, 6); e quasi l’insegnamento non bastasse a persuaderci dell’onore e dell’amore che al lavoro umano noi dobbiamo, essa, la nostra religione, un esempio e un protettore oggi ci offre, l’umile e grande San Giuseppe, maestro d’opera a quel Cristo dalle cui mani divine l’opera della creazione e della redenzione sortì. Veneriamo Giuseppe, il fabbro di Nazareth; e nel suo nome salutiamo e benediciamo oggi tutti i Lavoratori.

E siccome, in un modo o in un altro, tali siete voi tutti, di cuore tutti vi benediciamo.



Domenica, 26 maggio 1968: SOLENNE CELEBRAZIONE IN PREPARAZIONE ALLA PENTECOSTE

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Prima di concedere alcuni istanti ai saluti da scambiare, il Santo Padre afferma che occorre concentrare la nostra attenzione, in devoto raccoglimento, sulla parola del Vangelo, su ciò che il Signore ci propone da meditare, attraverso il ministero della Chiesa, cercando di raccogliere qualche cosa delle sante, profonde e stupende espressioni che la lettura del Libro sacro oggi ci offre.



LA TESTIMONIANZA DEL DIVINO PARACLITO

Come sapete - spiega Sua Santità - il brano testé letto appartiene agli ampi discorsi, alle aperture d’animo, alle confidenze supreme che Nostro Signore Gesù Cristo, nella notte ultima della sua vita mortale e prima di essere abbandonato alla dolorosissima Passione, volle lasciare quasi testamento spirituale ai suoi discepoli, rimasti in undici dopo la partenza, dal Cenacolo, di Giuda il traditore.

Gesù lascia dunque che il suo Cuore si dischiuda a prodigiose rivelazioni, dettate da un mirabile pensiero conduttore nel Sermone dopo la Cena.

Anzitutto la realtà: il Signore lascia i suoi. Come li lascia? Soli, orfani, poveri e senza più alcuna comunicazione con Lui? Egli non sarà più presente in mezzo a loro? Non parlerà più; non avrà ulteriore influsso sulle loro anime?

Ebbene, il Divino Maestro rivela una nuova maniera di comunicare con i suoi eletti; anzi, un nuovo mistero della divina presenza fra gli uomini. Annuncia l’invio del Paraclito, cioè dell’Assistente, del Consolatore, dell’Avvocato: lo Spirito Santo, la terza Persona della Santissima Trinità. Lo Spirito Santo sarà mandato dal Padre e dal Figlio - come ricanteremo tra breve nel Credo: Qui ex Patre Filioque procedit - e sarà inviato da Gesù per mantenere nei discepoli non solo il ricordo, ma la presenza, l’azione, la grazia sua, la nuova vita che Egli infonderà in coloro che gli sono fedeli e saranno i suoi apostoli; e, dopo di loro, all’immensa schiera dell’umanità credente e per tutti i secoli che seguiranno a quell’altissimo avvenimento.

Noi stessi siamo i destinatari della promessa del Signore. Essa ci ripete: vi manderò lo Spirito, il Consolatore; e lo Spirito Santo renderà testimonianza di Me; - si noti bene questa parola - e quindi voi, a vostra volta, renderete tale testimonianza agli altri.



IL DONO SOPRANNATURALE DELLA FEDE

Proprio su questo punto basilare il Santo Padre desidera intrattenere brevemente il suo uditorio, giacché, esattamente su quella promessa si fonda l’economia, l’ordine, che Iddio ha decretato per la religione e per la società da lui istituita.

Che vuol dire testimonianza? Significa la trasmissione di una verità in chi, ricevendola, non può direttamente esaminarla e conoscerla. La deve accogliere sulla parola, cioè per fiducia. Siamo, così, all’insegnamento sacrosanto del catechismo: bisogna credere. La nostra vita religiosa è stabilita sulla fede, cioè sull’accettazione di una testimonianza.

La stessa parola ha, poi, oltreché diversi significati, molte applicazioni. Il Signore, nel tratto del Vangelo che abbiamo letto, ne prospetta due principali. La prima è quella interiore, che i discepoli i seguaci, i fedeli di Gesù, cioè, - e tra essi, per divina -elezione, noi siamo - possono ricevere in una maniera imponderabile ma reale e, sotto certi aspetti, tangibile, nel proprio intimo. Siffatta prima testimonianza ci dice: guarda che Cristo era ed è veramente l'Inviato da Dio: è il Figlio di Dio. Abbiamo dunque la certezza di poterci fidare di Cristo, del suo Vangelo, delle sue opere, dei suoi precetti e di tutto quanto scaturisce dalla sua apparizione nel mondo.

Questa certezza interiore potremmo forse darcela da noi, ad esempio studiando bene il Vangelo, la religione, il catechismo; oppure ascoltando conferenze e lezioni, come fanno tanti studiosi e docenti per le discipline umane? No, di certo. Pur conoscendo mille cose su Gesù, la sua vita, la sua apparizione nella storia, i tanti episodi ad essa inerenti, le varie circostanze del suo passaggio sulla terra, rinomati luminari della scienza hanno scritto opere voluminose, e tuttavia sono rimasti increduli, ciechi, sordi ed inerti davanti a questa apparizione straordinaria, unica e - lo dicono anch’essi - superiore a tutte le manifestazioni umane. Quale la ragione di tale fenomeno negativo? Essi non posseggono quella adesione vitale che noi chiamiamo la fede e che porta, nientemeno, dentro il nostro spirito Gesù medesimo: «. . . Christum habitare per fidem in cordibus vestris» (
Ep 3,17), come scrive San Paolo: Cristo abita, mediante la fede, nei nostri cuori.



UN ALTO E INCOMPARABILE DOVERE DEL CRISTIANO

È, dunque, necessaria questa testimonianza dello Spirito: la grazia della fede. Bisogna che il Signore immetta nelle nostre anime luce nuova, capacità di pensiero, disposizione di animo, certezza ineffabile, gioia di accettare la sua parola e il suo messaggio, in modo da renderci sicuri, beati, completamente suoi, fino ad anticiparci, in qualche maniera, il possesso che, un giorno, avremo di Lui; l’incontro, che sarà allora visibile e pieno, con Dio, nei rapporti vitali e sublimi che a Lui ci uniscono. Intanto però - è bene ripeterlo - la grazia del Signore deve sempre alimentare in noi la letizia autentica della fede: beati quelli che avranno creduto!

Oltre alla prima, esiste una seconda testimonianza, non eguale, ma analogica, diciamo: la trasmissione, da parte nostra, agli altri della verità di fede che il Signore ci ha, per sua grazia e bontà, largita. Tale comunicazione, che si attua in varie forme, quali l’apostolato, la missione, con inesauribili attività, della Chiesa, è definita da Gesù, anch’essa, testimonianza, che noi renderemo al di fuori di noi, in vantaggio del prossimo. Se la prima è interna, questa seconda testimonianza è sociale. Dobbiamo propagarla tra tutti i nostri fratelli, nel mondo che ci circonda, fra quanti aspettano conforto dalla nostra parola, recandola specialmente a coloro che ci stanno a guardare, chiedendo se sappiamo diffondere la verità e se riusciamo a viverla.

Prospettate così le due diverse e conseguenti testimonianze, sorge per noi una domanda: come faremo per conseguirle ed attuarle; come ottenere questo dono, posto al di sopra di tutti gli strumenti della scienza, dello studio e di ogni ricerca intellettuale? Come possiamo acquisire dal Cielo questa luce che aumenta il nostro potere comprensivo e ci dà la certezza di credere senza avere gli argomenti palesi, visibili e tangibili della nostra ordinaria conoscenza naturale?

Il Signore ci viene incontro con la sua promessa: Io vi manderò lo Spirito, il Consolatore, Colui che vi parla nell’intimo dell’essere. Io vi manderò lo Spirito Santo. Si tratta, è ovvio, d’un mistero insondabile. Ci basterà sapere ch’esso esiste ed opera in salvezza e in santificazione.

Figliuoli carissimi - dichiara con ardente zelo il Santo Padre - sicuramente voi possedete tanto tesoro. Se Noi vi chiedessimo: credete in Gesù Cristo?, siamo sicuri che tutti risponderete ad una voce: sì. Orbene, chi rende possibile tale affermazione, chi vi dà forza interiore per aderire alla verità che, or sono venti secoli, è stata annunciata al mondo e che noi accettiamo oggi come se fosse presentata nel nostro tempo e nelle circostanze della vita odierna? È il soffio, il sospiro, l’alito di Dio: esso viene a respirare dentro di noi. È lo, Spirito Santo a confortarci, a illuminarci con una chiarezza che non è temeraria, né ci lascia nel dubbio e quasi nel rischio di poggiare la nostra personalità sopra elementi non stabili o insufficienti. No. È, invece, una certezza che ci rende tranquilli, gioiosi, sicuri. Credo in Te, o Signore!; aggiungendo con Pietro, sul cui Sepolcro glorioso ci troviamo: Tu solo, o Signore, hai parole di vita eterna. Io credo che Tu sei il Cristo, Figlio del Dio vivo!



«VENI, LUMEN CORDIUM!»

Sentiamo vivissima in noi tale fede, possiamo quindi comunicarla.

Come pratica conseguenza, di fronte ad una realtà essenziale per noi, che cosa, in pratica, dobbiamo compiere? Anzitutto essere devoti dello Spirito Santo; essere meno indegni di riceverlo, quando e dove la sua luce, la sua parola arcana, interiore, dolce, persuasiva può farsi presente. Perciò la nostra anima deve essere ricettiva, aperta.

Prendiamo un paragone dal mondo profano. Nella sviluppata tecnica moderna, siamo circondati da miriadi di voci delle stazioni radio, che emettono i loro programmi e li fanno circolare intorno a noi. Chi riesce a prendere, ad ascoltare quello esatto e voluto? Senza dubbio colui che possiede il mezzo adeguato e lo pone nella fase corrispondente alla preferita, tra le voci disparate, spesso opposte, che egli deve ascoltare.

Analogamente dobbiamo agire nei riguardi della nostra anima: dobbiamo disporla sull’onda giusta per un perfetto ascolto dello Spirito Santo. Dobbiamo essere adatti e preparati a raccogliere la voce di Dio, che vuole parlare dentro di noi. Prima condizione per ottenere ciò è il conservare l’anima pura, sempre pronta a capire il divino eloquio. Un bravissimo professore di università - il Santo Padre aggiunge questo ricordo - così ammoniva un giovane che iniziava gli studi superiori: Bada, figliuolo, di essere in ogni momento puro, attento, buono. Giacché se un giorno il Signore ti volesse chiamare e parlare, se volesse entrare in comunicazione con te, non accada che, in quell’ora, tu ti trovi nell’impossibilità di apprendere e di far tua la voce del Divino Maestro che batte alla porta del tuo cuore.



ASCOLTARE E DIFFONDERE LA VOCE DEL SIGNORE

È ovvio che, se saremo onesti, puri, fedeli, il Signore si farà sentire, non fosse altro che col darci la gratuita fortuna, di cui non apprezzeremo mai abbastanza il valore, di professare la fede, di possedere il mondo celeste, a noi dato mediante la comunicazione della parola di Cristo, divenuta in noi persuasiva, vibrante, conquistatrice.

Siamo devoti dello Spirito Santo! In questi giorni si svolge la novena che ci prepara alla sua festa, la solennità della Pentecoste. Cerchiamo di disporre le nostre anime perché siano davvero meno indegne di accogliere la voce del Signore.

E ai carissimi sofferenti - aggiunge Paolo VI -, a quanti assistono i diletti ammalati, ed agli altri ascoltatori Egli riconferma: fra tutte le esperienze che la vita umana può avere, la più bella, la più gioiosa, la più ricca di promesse e consolazione è proprio quella di possedere lo Spirito di Dio, la sua Grazia, l’infusione della sua energia vitale, la quale non si spegnerà col nostro declino mortale, ma ci garantisce sin d’ora il possesso eterno, e, nel fulgore di piena luce, la realtà e la gloria di Dio.

Essere devoti dello Spirito Santo; apprendere la sua testimonianza per divenire capaci di trasmetterla, come ci è insegnato, anche agli altri fratelli: ecco l’invito finale del Padre delle anime a ricordo d’un eletto incontro spirituale; mentre Egli implora da Dio di volerlo rendere per tutti pieno di consolazioni e di indistruttibile vigore.



PARTECIPI DEL MISTERO DELLA CROCE E DELLA REDENZIONE

Riserviamo il Nostro primo saluto, fra i componenti di questa grande e varia assemblea convenuta intorno all’altare di San Pietro, alla numerosa e commovente schiera dei «Volontari della Sofferenza», a questa tanto singolare e mirabile associazione di fedeli segnati dal dolore e contrassegnati dall’amore. Vi salutiamo, figli carissimi, infermi e pazienti che Ci circondate e che Ci rappresentate i tanti vostri colleghi materialmente assenti, ma spiritualmente presenti a questo singolare e spirituale raduno; vi salutiamo con la considerazione, con la predilezione, con la compassione che le vostre pene meritano da parte Nostra, ministri come siamo e rappresentanti di quel Gesù, a cui fu misterioso destino e gloria incomparabile essere chiamato «l’uomo dei dolori ed esperto nella sofferenza» (Is 53,3); vi salutiamo ad uno ad uno, rammaricati di non poterci appressare a ciascuno di voi, a causa del vostro numero e della misura -del tempo a Noi concessa per questo incontro, ma tanto fortunati di avervi e di sentirvi a Noi vicini, di pregare con voi, di consolarvi per quanto Ci è possibile, di benedirvi tutti con pienezza di cuore. Cari, cari Nostri malati, doppiamente fratelli per la carità che a tutti dobbiamo e per il titolo particolare che obbliga il Nostro spirituale ufficio a considerarvi più degli altri partecipi del mistero della Croce e della Redenzione; cari Nostri figli, a cui il dolore conferisce una dignità che vi merita la preferenza della Nostra carità, della Nostra affezione, della Nostra comunione; cari tesori della santa Chiesa, che voi beneficiate con il vostro esempio di pazienza e di pietà, che voi consolate con il dono delle vostre sofferenze, che voi edificate con la vostra unione a Cristo crocifisso; cari pellegrini nel duro cammino verso il Cielo, non con passo più lento e più stanco, quale farebbe supporre il vostro stato d’infermità fisica, ma con passo più spedito ed esemplare sul sentiero erto ed aspro, che al cielo conduce. Siate tutti da Noi salutati, nel nome del Signore e come da Lui da Noi benedetti.


IL VALORE POSITIVO DEL DOLORE CRISTIANO

Noi vi dovremmo un lungo ed originale discorso: quello che una penetrante riflessione della vita cristiana suggerisce alla considerazione del dolore umano, specialmente se questo dolore, come il vostro, non è più respinto come un assurdo nemico della nostra vita, ma stranamente, eroicamente accolto come un fattore di perfezionamento morale e come un valore di mistico significato. Per il fatto che vi intitolate «Volontari della sofferenza», voi questo discorso non solo già conoscete, ma vivete; e siamo così dispensati dal dirvi quanto sul tema che voi offrite alla considerazione di quanti vi incontrano e vi assistono, sarebbe, se non facile dire, doveroso almeno ricordare. «Volontari della sofferenza»! Questa è espressione sovrabbondante di significati! Pare a Noi che essa concluda una lunga e non a tutti ovvia meditazione sul valore positivo del dolore cristiano. Dobbiamo Noi ricordarvi la parentela che il dolore cristiano stringe fra il paziente e l’Agnello di Dio, Gesù Cristo, che proprio mediante il dolore, e quale dolore quello della sua Passione, «ha cancellato il peccato del mondo» (Jn 1,29) e che associa il paziente stesso a quel misterioso complemento, che, come dice l’apostolo, «manca alle sofferenze di Cristo» (cfr. Col 1,24)? Voi certo avrete percorso questo cammino della Croce più e più volte (ne abbiamo udito Noi stessi i canti del vostro pio esercizio compiuto ieri sera sulla Piazza San Pietro); e sapete quali siano le profondità di questa assimilazione a Cristo mediante l’accettazione e la sublimazione della sofferenza. E nulla diciamo della ricchezza ascetica ch’essa nasconde e svela alle anime valorose, che ne fanno esercizio di forza morale, di padronanza di sé, di espiazione delle proprie colpe. Nulla della bellezza che un’anima disposata a Cristo nel connubio della sua Passione può acquistare mediante l’ardenza e la trasparenza dell’amore provato dal fuoco del dolore forte e silenzioso; nulla della sapienza riservata a chi soffre sapendo ciò che l’umana saggezza assai difficilmente percepisce, non essere inutile la sofferenza e non essere degradato, ma esaltato uno stato di vita immolato al sacrificio e all’oblazione di sé ai segreti, dolorosi, ma sempre buoni e fecondi disegni della divina volontà.


APOSTOLI DI PACE NELLA SINCERITÀ GIUSTIZIA LIBERTÀ E FRATELLANZA

Voi le conoscete, figli carissimi, Volontari della sofferenza, queste umili, ma luminose verità; a Noi non resta che esortarvi a perseverare nel vostro esercizio di pazienza e di oblazione, e a fare dei vostri cuori doloranti, fisicamente e moralmente, dei silenziosi santuari di orazione e di bontà.

E tanto è il valore che Noi dobbiamo riconoscere a codeste condizioni di fisica infermità, trasformata in spirituale efficienza, che pensiamo Noi stessi di profittarne, chiedendo a voi, figli e figlie del dolore cristiano, di fare Noi stessi partecipi dei vostri meriti, affinché il Signore Ci renda meno indegni di quanto siamo del servizio ch’Egli Ci ha affidato, ed affinché i grandi bisogni della Chiesa e del mondo, i quali formano oggetto delle Nostre continue ed imploranti intenzioni, abbiano ad essere presenti parimente nelle vostre intenzioni ed ottengano il prodigioso suffragio della orante oblazione dei vostri santificati dolori. Voi potete ben pensare quanto pesino sul Nostro cuore le agitazioni, le lotte, le guerre, le competizioni, gli odi, che ora turbano la pace del mondo e sembrano renderla oggi più difficile e quasi non sinceramente desiderata. Pregate, Volontari della sofferenza, per la pace, per la vera pace, nella sincerità, nella giustizia, nella libertà e nella fratellanza.



ADESIONE ALLA CHIESA «MADRE E MAESTRA» DELLA NOSTRA SALVEZZA

Voi forse potete ciò che i potenti ed i saggi del mondo non riescono a conseguire. E poi per la Chiesa offrite al Signore le vostre pene : mentre tante energie nuove e buone la risvegliano e la ringiovaniscono, troppe inquietudini la scuotono e la turbano, perché il Nostro cuore non sia talvolta profondamente afflitto e attenda dal Signore ciò che tanti figli della Chiesa sembrano rifiutare a questa «Madre e Maestra» della nostra salvezza, vogliamo dire il senso dell’adesione alla verità, ch’ella ci custodisce e c’insegna, e la filiale gioia di seguirne i suoi precetti ed i suoi consigli: la fede e l’obbedienza hanno bisogno d’una reviviscenza in tanti figli della santa Chiesa, mentre essi sembrano talvolta farsi ingegnosi per ferire l’una e l’altra, dimenticando quali sacrosanti e vitali impegni ad essa ci leghino e quali esempi attendano i Fratelli cristiani da noi divisi per riaccostarsi fidenti alla gaudiosa ed unica comunione voluta da Cristo.

Volontari della sofferenza, ecco che Noi allarghiamo gli orizzonti della vostra visuale di generosità; non rifiutateci il vostro prezioso dono di preghiera e di sacrificio; Noi ne faremo tesoro davanti al Signore; e siamo sicuri che voi, voi stessi per primi, ne avrete merito e ricompensa. Possa la Nostra Benedizione Apostolica esserne pegno sicuro.

Un pensiero speciale vada a quanti promuovono ed assistono codesta provvida iniziativa, intesa a mettere in valore cristiano la sofferenza ed a tessere vincoli di unione organizzativa e spirituale ai Nostri malati; una menzione dobbiamo avere per lo zelante Nostro Mons. Luigi Novarese.

Speciale saluto di fede ai pellegrinaggi di Salerno e Benevento

Poi dobbiamo salutare altri cospicui Pellegrinaggi presenti. A tutti dovremmo rivolgere particolari sermoni. Alcuni gruppi non possono essere taciuti, anche se dobbiamo privarci del piacere di più lunga conversazione.

Come non salutare i quattromila Pellegrini di Salerno, la storica e gloriosa Arcidiocesi che tanti ricordi del passato e tante considerazioni sul presente sveglia nel Nostro spirito? Porgiamo almeno uno speciale e riverente saluto al degno Presule dell’Arcidiocesi, Mons. Demetrio Moscato, da Noi tanto venerato e da lungo tempo conosciuto nello zelo delle sue opere e nella bontà del suo spirito. Salerno Ci ricorda il tesoro ch’esso custodisce, secondo la tradizione: le reliquie dell’Evangelista San Matteo (tanto nomini nullum par elogium!), e quelle del celebre e santo Papa Ildebrando, San Gregorio VII, di cui ieri la Chiesa ha celebrato la festa, e che a Salerno morì, nel 1085, esule e oppresso dal dolore, esclamando le famose parole, a lui attribuite: «Dilexi iustitiam, odivi iniquitatem, propterea morior in exilio»: si direbbero parole d’un vinto; e aveva invece vinto la lotta per la libertà della Chiesa e per, il risveglio del suo costume. A Salerno il venerato Cardinale Schuster, già sofferente, compi, nel luglio del 1954, il suo ultimo viaggio, poco prima della sua santa morte.

Anche Salerno è erede e custode di grandi tradizioni storiche e religiose; Noi accogliendo il Pellegrinaggio Salernitano, che viene a professare la sua fede sulla tomba di San Pietro, non abbiamo migliore voto da esprimere alla gloriosa comunità diocesana ch’essa sappia non solo conservare il suo patrimonio di memorie cristiane, ma che le sappia fare rivivere in nuove e gloriose testimonianze di fede cattolica nelle nuove generazioni. Al venerato Arcivescovo, al nuovo Ausiliare Mons. Guerrino Grimaldi, alle Autorità civili, a tutti i Pellegrini ed all’intera Arcidiocesi il Nostro augurale saluto e la Nostra cordiale Benedizione.

E poi abbiamo Benevento!

Salute al suo Arcivescovo ed al suo Clero! Salute a tutti i tremila Pellegrini Beneventani. Anche la vostra presenza, cari figli di Benevento, tenta la Nostra memoria a celebrare la vostra storia, da quando «Male ventum» era il nome della vostra città cambiato, dopo la vittoria di Curio Dentato su Pirro, in quello, che poi rimase, perenne e buono auspicio di Benevento. Roma, Bisanzio, i Longobardi, i Normanni si contendono la vostra storia e quanto agitata e complessa. Poi quale lunga storia legata al Pontificato Romano! Non per nulla voi ricordate l’elogio di Paolo Diacono, che dice la Chiesa Beneventana «Provinciarum caput ditissima»! Il vostro Arco di Traiano, la famosa «porta aurea» e il monumento a Papa Benedetto XIII Orsini alla Chiesa della Minerva in Roma (1730) dicono quale immenso arco di storia si descrive sulla vostra Città. Ed anche a voi ricorderemo il dovere che deriva dalla storia, e che lo spirito rivoluzionario dei tempi moderni ci fa spesso dimenticare, quello di conoscere e conservare, come prezioso tesoro culturale e spirituale, il patrimonio della vostra storia e di renderlo vivo e fecondo per i tempi moderni, in coerenza di spirito e di sviluppo specialmente sul tronco d’una tradizione che non muore, quella della fede cattolica. Siete venuti a Roma per professare la fede, e siete venuti per rifornirvi di nuova fede: sappiate viverla! e non crediate ch’essa possa intralciare i nuovi sviluppi che l’età moderna promette; sappiate essere moderni ed ancorati nei valori eterni della vita cristiana. A tanto vi esorta la Nostra fiducia e la Nostra Benedizione.

Delegazioni di Como Gorizia Milano e Brescia

Dovremmo infine salutare Como, salutare Gorizia con i suoi Lavoratori Italiani e Sloveni. Care, gloriose Città, se il tempo Ci vieta di prolungare il Nostro discorso, sappiate che la vostra presenza Ci riempie di gaudio e di auguri, per voi qui presenti e- per quanti rappresentate ed amate. A Como, a Noi dilettissima come diocesi suffraganea della Nostra Milano, a Gorizia, la gloriosa città ch’è nel cuore di tutti gli Italiani, il Nostro speciale e benedicente saluto.





B. Paolo VI Omelie 28468