B. Paolo VI Omelie 10169

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Signori Cardinali!

Signori dell’Urbe! dove la Pax Romana, cioè quella che vuol significare civiltà e universalità, conserva i suoi ideali trofei! Signori del Mondo! ai quali giungerà forse l’eco di questa Nostra parola! per vostro tramite, sempre rapido e sicuro, Signori Diplomatici, che qui rappresentate i Governi dei Popoli! Gli arbitri della pace!

E voi, cittadini della società moderna, per i quali la pace è maggiormente questione di vita, o di morte!

Voi, uomini di Chiesa, che della pace di Cristo custodite e proclamate il messaggio; voi specialmente, Figli di San Francesco, che in questa chiesa fate del suo non spento saluto «Pax et bonum» il vostro emblema perenne! Voi, Figli carissimi della Nostra Commissione «Iustitia et Pax»!

E finalmente voi, fanciulli che assistete a questa preghiera pensando all’effigie, celebrata qui in «Ara Coeli», del Bambino Gesù, per la cui nascita, a Bethleem, risuonò fra cielo e terra, col grido di gloria a Dio, l’annunzio della pace in terra agli uomini da Lui benvoluti!

Tutti Noi vi invitiamo a celebrare insieme, oggi, primo giorno del nuovo anno 1969, la «Giornata della Pace», come quella che vuole incominciare bene, nell’invocazione, nell’augurio, nel proposito della pace, il nuovo corso del tempo, e che vuole congiungere in uno stesso pensiero la pace e l’anno che viene, la pace e la speranza, la pace e la conversazione umana, la pace e la serenità domestica, la pace e l’equilibrio sociale, la pace e il benessere, la pace e il progresso, la pace e la buona coscienza, la pace e la grazia di Dio.

Come mai questo nome «pace» può abbinarsi a tante manifestazioni della vita, e può esigere da noi una così prevalente considerazione?

Lo sappiamo tutti: perché la pace è l’armonia delle cose; e noi moderni che abbiamo sempre più cognizione e possesso di tante cose, non possiamo goderne, se esse non sono coordinate come si conviene; la pace è la condizione ed il risultato dell’ordine.

Chi non ricorda la celebre definizione di Sant’Agostino: tranquillitas ordinis? la tranquillità (e non per questo immobile, statica) dell’ordine (cfr. De civ. Dei, 19, 13 ; P.L. 41, 640). E poi perché la pace, quella vera, è l’espressione della giustizia: opus iustitiae pax (
Is 32,17).

La pace oggi è un’esigenza tanto più sentita quanto più noi facciamo attenzione ai rapporti primari e vitali del mondo umano, i rapporti con Dio, con Cristo, con la Chiesa, con gli uomini; chiamiamoli rapporti teologici, perché ci sono noti nel disegno misterioso e profondo della rivelazione; così avvertiamo il bisogno morale, psicologico, personale di avere «la coscienza in pace», cioè l’esperienza interiore, pacifica e non tumultuosa e disperata del nostro essere, delle nostre facoltà; e sempre più ci accorgiamo che è ormai tempo di sciogliere la dialettica delle condizioni sociali da una fase di lotta e di egoismi e bisogni contrastanti in una nuova fase di libera ed equa coordinazione di funzioni complementari, di partecipazione a responsabilità e a vantaggi comuni, e di fratellanza collaboratrice e concorde; e finalmente tutti desideriamo che i conflitti ancor oggi operanti (il pensiero corre al Vietnam, all’Africa, alla Palestina ed ogni altro conflitto fra i Popoli, fra le Nazioni, fra gli Stati, fra i nuovi Organismi internazionali e supernazionali), abbiano a risolversi non già con prove di forza brutale e micidiale, cieca e rovinosa, o con imposizioni oppressive, ma con procedimenti razionali, che sappiano tutelare il diritto, l’interesse, l’onore delle collettività umane, con equilibrio, con temperanza, con equanimità, forse non senza qualche vicendevole sacrificio, ma senza sacrificio di vite umane, spesso ignare e innocenti dei motivi dei contrasti in questione, e senza sperpero di energie e di mezzi, quando ancora la maggior parte dell’umanità manca d’una equa sufficienza di vita.

Così l’idea di pace trova la sua più comune applicazione all’ordine fra gli Stati, cioè alla sua suprema espressione civile e politica, quella che maggiormente riguarda la convivenza, l’armonia, la collaborazione, la complementarietà, la solidarietà dei Popoli: la pace acquista ,oggi un senso universale, ambisce ad abbracciare l’intera umanità; e ogni violazione locale e parziale al suo civile dominio ferisce il mondo nella sua sensibilità generale, perché ormai la pace vuol essere l’anima del mondo, incamminato verso la sua organica e vivente unificazione.

I conflitti tuttora aperti in alcuni punti della terra, e i recenti episodi di violenza di guerriglia, di terrorismo, di rappresaglia diffondono una dolorosa vibrazione in tutto il corpo dell’umanità; e Dio voglia che questa vibrazione abbia una sua larga e salutare resipiscenza e rinsaldi il senso della solidarietà e della pace fra gli uomini; e non scuota piuttosto la fiducia, che il mondo civile va guadagnando, nel superamento della necessità della violenza e della concezione barbara della guerra utile e risolutiva delle umane vertenze.

Questa considerazione ne suggerirebbe molte altre di facile evidenza: la pace è necessaria, la pace è difficile, la pace è fragile, la pace è progressiva, la pace è bene comune, la pace è interesse generale, e, come dicevamo nel Nostro messaggio per la «Giornata», che stiamo celebrando, la pace è doverosa. Ed altre considerazioni possono essere derivate dalle precedenti; come quella che classifica le differenti forme della pace: quella, ad esempio, della distanza e perciò dell’indifferenza e della separazione di rapporti e di interessi, oggi difficilmente concepibile, quella della tregua precaria delle contese; quella dell’equilibrio delle forze pronte a misurarsi nell’offesa o nella difesa; quella delle alleanze particolari, dei blocchi; quella del terrore nella previsione di terribili conflagrazioni; tutte forme imperfette di pace, prive di comuni superiori principi, le quali ci dimostrano come l’idea, anzi la realtà della pace non è statica, ma dinamica; non vuole impigrire e addormentare individui e comunità, ma vuol essere attiva e rivolgersi progressivamente all’enucleazione dei principi umani e giuridici, sui quali la pace deve fondarsi, vuole esprimersi in un graduale disarmo e in servizi di comune vantaggio, e vuole consolidarsi in istituzioni internazionali e supernazionali, sempre meglio idonee a prevenire, a contenere, a risolvere le contese sempre insorgenti nell’umano consorzio. La pace è in fieri, è progressiva; ha la sua storia. Pace e storia dovrebbero finalmente identificarsi.

Ciascuno vede come questa concezione sia al tempo stesso logica ed ardua; naturale e ancora lontana; bella e troppo bella per gli uomini che ancora noi siamo: egoisti, violenti, particolaristi, e spesso costretti a difenderci non con mezzi pacifici, ma con quelli imposti dalla legittima difesa, e come siamo ancora oggi tentati .Il credere che eroismo e violenza si equivalgano, mentre dovrebbe essere nostro studio veggente, specialmente nel dramma contemporaneo della vita giovanile, di distinguere l’uno dall’altra; vi è un eroismo, vi è un coraggio, vi è un martirio, vi è un sacrificio di uomo forte e grande, «ribelle per amore», che non mira all’altrui offesa e rifugge da intenzionale violenza. Questi fuggevoli accenni ci conducono al pensiero che quest’anno caratterizza la «Giornata della Pace», pensiero che fa parte di una concezione molto larga sui presupposti della pace stessa. La pace non è un fiore spontaneo della nostra arida terra, priva di amore e intrisa di sangue. La pace è frutto d’una trasformazione morale dell’umanità. Esige una coltivazione concettuale, etica, psicologica, pedagogica, giuridica. Non si improvvisa una pace vera, non si mantiene una pace imposta dall’oppressione, o dal timore, o da ordinamenti giuridici iniqui e non più ammissibili. La pace dev’essere umana, perciò libera, giusta, felice., Ed ecco allora che siamo indotti a cercare le radici, donde la pace deriva. E una di queste radici è quella che il mondo ha glorificato nell’anno testé concluso: la proclamazione dei diritti dell’uomo; una proclamazione, alla quale noi dobbiamo fare eco per l’anno che oggi inauguriamo. Diciamo dunque: il riconoscimento dei diritti dell’uomo segna un sentiero, che conduce alla pace. Potremmo enunciare questo tema anche in sentenza reciproca; e cioè: il riconoscimento dei diritti dell’uomo conduce alla pace; come, a sua volta, la pace favorisce tale riconoscimento. In ogni modo: uomo e pace sono termini correlativi; sono realtà che vicendevolmente si reclamano e si integrano.

Qui il discorso porterebbe a dimostrare questa relazione; ma, in questa sede, l’intuizione a tutti comune vale per dimostrazione; e vale per ricordare come quella famosa proclamazione dei diritti dell’uomo attenda ancora una sua completa applicazione: non deve essere un principio astratto, un vano conato, una velleità ipocrita. Vi sono ancora fenomeni nel mondo contemporaneo, che denunciano l’inadempienza di non piccola parte dei diritti, di cui l’uomo oggi dovrebbe godere. Leggendo il preambolo della famosa Dichiarazione: «. . . il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti eguali e inalienabili costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo», possiamo noi dire che questa dignità dell’uomo, d’ogni singolo uomo e d’ogni legittimo gruppo umano, è veramente ammessa nell’estimazione comune, nella legislazione universale e, ciò che più conta, nell’applicazione pratica della umanità odierna? La libertà religiosa è effettiva e dappertutto vigente? Il diritto al lavoro e del lavoro è realmente in atto? L’eguaglianza dei cittadini, la sufficienza per vivere, la difesa dei deboli, la diffusione della cultura di base e professionale, e così via, sono diritti veramente vigenti, o sono ancora contraddetti e dimenticati? L’evoluzione dell’uomo verso la sua pienezza è tuttora bisognosa di enorme sviluppo; e finché questo sviluppo non avrà raggiunto la sua sufficiente misura, pace vera non avremo nel mondo. Noi osiamo ripetere ciò che altrove abbiamo affermato: lo sviluppo dei Popoli è oggi il nuovo nome della Pace.

E lo ripetiamo davanti a questi fanciulli, che abbiamo voluto presenti a questa celebrazione, quasi simbolo dell’uomo che ha bisogno ancora di mille cure, d’immenso amore ed è soggetto di tutti i diritti ancora prima d’esserlo dei rispettivi doveri. Lo ripetiamo durante questo rito, che rinnova fra noi la presenza di Cristo, il Figlio dell’uomo per eccellenza, che sollevò gli uomini al livello della figliolanza adottiva di figli di Dio, e c’insegnò come si può giungere al riconoscimento effettivo, ordinato, rigeneratore degli umani diritti, specialmente là, dove sono più umiliati, offesi e bisognosi, con la carità, l’amore cioè pervaso della grazia dello Spirito. Ci sovvengono allora le parole scultoree di S. Agostino: (Pacem) «hoc est habere, quod amare; avere la pace significa amare (Sermo 357; P.L. 39, 1582). E con questi sentimenti esprimiamo a voi tutti qui presenti, che religiosamente e nobilmente li condividete, esprimiamo a Roma, esprimiamo al mondo il Nostro augurio per l’anno nuovo, affinché sia anno di pace, con la Nostra Benedizione Apostolica.





Lunedì, 6 gennaio 1969: ORDINAZIONE EPISCOPALE A DODICI PRESULI DI QUATTRO CONTINENTI

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Solennità dell'Epifania di Nostro Signore Gesù Cristo



IL DONO, LA LUCE, LA VITA DELLA RIVELAZIONE

Fratelli veneratissimi, Figli dilettissimi!

Oggi la Chiesa celebra il mistero dell’Epifania, il divino disegno secondo il quale «piacque a Dio nella sua bontà e nella sua sapienza di rivelare Se stesso e manifestare il mistero della sua volontà (
Ep 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ep 2,18 2P 1,1). Con questa rivelazione infatti Dio invisibile (cfr. Col 1,15 1Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Ex 33,11 Jn 15,14-15), e s’intrattiene con essi (cfr. (Cost. Dei Verbum, DV 2). È la festa della Rivelazione. È la festa Bav. 3, 38) per invitarli e per ammetterli alla comunione con Sé» della manifestazione di Dio, in un ordine nuovo, diverso e superiore, non contrario a quello della sua conoscibilità razionale nel quadro della natura; una manifestazione, che apre a noi in qualche misura, ma immensamente ricca e ineffabile, una visione superiore delle verità divine in se stesse, del piano divino a nostro riguardo e perciò circa la verità del nostro essere e della nostra salvezza, e inaugura un rapporto meraviglioso, soprannaturale, fra Dio e l’uomo, stabilisce fin d’ora una relazione vitale, una religione vera, una comunione fra la Realtà vivente e trascendente della Divinità e le nostre singole persone, anzi con l’umanità che accoglie il dono, la luce, la vita di questa Rivelazione. Questo disegno si compie in Gesù Cristo, e si comunica a noi mediante la nostra accettazione, cioè la fede, per effondersi poi con quella corrente derivante dallo Spirito Santo, alla quale diamo il nome di carità, di grazia, e facendo dei credenti, così rigenerati e favoriti, un corpo solo in Cristo, la Chiesa.

La Rivelazione, questa luce celeste, ha un suo momento multiforme, ma preciso nel tempo, nella storia, nella realtà umana, sociale e visibile; momento, come dicevamo, che irradia la sua pienezza in Cristo; ma, dopo di Lui e per disposizione di Lui, giunge a noi attraverso una trasmissione, una tradizione; attraverso cioè un ministero umano, veicolo della Rivelazione, un magistero: gli Apostoli, i quali alla mediazione unica e originaria di Cristo, coordinano la loro mediazione, subalterna e strumentale, ma indispensabile, come canale, alimentato dal carisma della loro elezione, fatta da Cristo stesso (Jn 6,70 Jn 15,16), e della loro funzione istituzionale e permanente (Mt 28,19 Lc 10,16); carisma, non procedente dalla «communio fidelium», ma rivolto alla sua edificazione. Gli Apostoli con uomini della loro cerchia, misero in iscritto l’annunzio della salvezza; e poi, «affinché il Vangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, lasciarono come loro successori i Vescovi, ad essi affidando il loro proprio posto di maestri» (come, facendosi voce della tradizione, insegna S. IRENEO, Adv. Haer. 111, 3, 1; P.G. 7, 848; Cost. Dei Verbum, DV 7).


RAPPRESENTANTI QUALIFICATI DI CRISTO: MINISTRI DELLE SUE POTESTÀ

Ed eccoci allora logicamente e beatamente condotti a considerare in voi, Fratelli venerati e diletti, che oggi abbiamo assunti all’ordine dell’Episcopato e aggregati al Collegio episcopale, il mistero dell’Epifania, il disegno del!a Rivelazione. Voi siete eredi di questo tesoro di verità rivelate, voi siete custodi del «deposito» (1Tm 6,20), voi siete rappresentanti qualificati di Cristo, voi siete i ministri delle sue potestà magistrali, sacerdotali, pastorali; e rispetto alla Chiesa vi rappresentate nella forma autentica e più piena il Signore; «là dove appare il Vescovo, ivi si raduni la comunità (voce di S. Ignazio d’Antiochia, Smyrn. 8, 2), in tal maniera che dove è Cristo Gesù, là è la Chiesa cattolica D; voi ne siete i prepositi, e in quanto tali i responsabili, e a titolo così pieno, e così esigente che la carità abbia nel Vescovo la sua espressione evangelica più perfetta e lo qualifichi come colui che pone tutta la sua vita a immedesimarsi nell’amore che dona se stesso (cfr. Jn 15,13) e che fa della sequela di Cristo la norma saliente e determinante della sua esistenza (cfr. Jn 21,19 Jn 21,22).

Voi siete perciò, come nessuno più di’ voi lo è, votati al servizio della Chiesa: è questa l’idea ricorrente nella Tradizione in ogni discorso sull’Episcopato; fra le tante voci ricordiamone una, quella di Origene, che del Vescovo afferma: «Qui vocatur . . . ad episcopatum non ad principatum vocatur, sed ad servitutem totius Ecclesiae» (In Is. hom. VI, 1; P.G. 13, 239). S. Agostino non finirà di ripetere: «Vobis non tam praeesse, sed prodesse delectet» (Serm. 140, 1; P.L. 38, 1484).


L'EFFUSIONE DELLO SPIRITO SANTO SUGLI APOSTOLI DI OGNI TEMPO

Ma per tornare al pensiero che ora occupa, con la liturgia odierna, il nostro spirito, dovremo ricordare il rapporto molteplice che intercorre fra l’Apostolo, e con lui chi gli è successore, e la divina rivelazione. Nessuno più di lui la riceve, l’ascolta, la medita, la fa propria; le parole di Gesù nei discorsi dell’ultima cena ce lo insegnano e ce lo ripetono (Jn 15,14; ecc.; Mc 4,11): voi siete i discepoli per eccellenza della rivelazione. E nessuno più di voi è custode di questo retaggio di divina verità, custode nella sua fedele testualità (1Tm 6,20) e custode nella sua pratica attuazione (Lc 11,28 Jn 14,15 Lc 21,23). E a voi, più che ad ogni altro nella Chiesa di Dio, è promessa l’effusione dello Spirito Santo, che dona l’intelligenza e apre le profondità della rivelazione (Jn 14,26 Jn 15,26). E da ascoltatori privilegiati, maestri della divina dottrina voi siete fatti: il magistero è una delle potestà maggiori e specifiche affidate da Cristo ai suoi Apostoli e a coloro che ad essi succederanno nella diffusione del messaggio di verità e di salvezza, quale appunto è il Vangelo (Mt 28,20). E con il magistero la testimonianza. La dottrina della fede non s’impone per se stessa, quasi che annunciata, come le verità d’ordine razionale, possa essere accolta e diffusa per una sua intrinseca evidenza; essa si fonda sulla parola di Dio e di Cristo e di chi ne è fedele testimonio (cfr. Lc 24,48 Ac 1,8 etc.; Ac 10,39), autorevole e decisivo (cfr. Ga 1,8 Cost. Dei Verbum, DV 10 Denz.-Sch. DS 3884 DS 3887 / DS 2313-2315). E, con la testimonianza, il pericolo, il rischio, la scelta della divina verità a scapito, se occorre, della propria vita (cfr. Jn 16,2 He 10,20 ss.; He 11,1 ss.).


SEGUACI, IMITATORI, IMMAGINI VIVENTI DEL SIGNORE

Siete diventati con Noi, con tutto l’Episcopato cattolico, Fratelli carissimi, ministri e testimoni di Cristo (cfr. Ac 26,16), i difensori del Vangelo (Ph 1,16), segregati per servire al Vangelo (Rm 1,1), i confessori del Vangelo (cfr. Rm 1,16). La Parola di Dio così deve compenetrare la nostra vita da stabilire un rapporto vivo di parentela spirituale con Cristo (Lc 11,28); noi i discepoli, noi i seguaci, noi gli imitatori, noi le immagini viventi del Signore (cfr. 1Co 4,16 1Co 11,1 1P 5,3); noi dobbiamo, in certo modo, personificare, incarnare nella nostra umile vita il Verbo di Dio, affinché la sua rivelazione, mediante il nostro ministero e il nostro esempio, continui a risplendere nella Chiesa di Dio e nel mondo. È una sorte grande la nostra, una sorte grave: noi siamo, ha detto Gesù, la luce del mondo (Mt 5,14); non può, non deve spegnersi questa luce. Questo C il significato, questo il valore dell’attò sacramentale, ora compiuto nelle vostre persone: abbiamo fatto di voi una fiamma ardente della verità e della carità del Maestro: oh! possiate bruciare sempre e consumarvi così ardendo e diffondendo il lume pasquale di Cristo.


FEDE PURA E INTEGRA FEDELTÀ COERENTE E GRANDIOSA

Non vi diremo altro sul mistero celebrato e compiuto: voi del resto, tutto già conoscete. Ma voi accetterete alcune esortazioni che Noi, a cui è toccato l’onore, l’ufficio, di generarvi all’Episcopato (cfr. 1Co 4,15), portiamo nel cuore non solo per vostra, ma ancor più per Nostra edificazione, affinché a tanto favore divino risponda quanto più degnamente possibile la nostra riconoscenza, la nostra accettazione.

Noi innanzi tutto pensiamo che il primo nostro atteggiamento verso la nostra vocazione episcopale sia la fede, come nei Magi, come in ogni credente, una fede pura e integra verso la verità rivelata; una fedeltà coerente e grandiosa verso i doveri ch’essa comporta. Non è atteggiamento originale questo, perché riguarda ogni cristiano, ma in noi Maestri, in noi Pastori, in noi Vescovi questo atteggiamento dev’essere perfetto ed esemplare. Se mai l’ortodossia deve caratterizzare un membro della Chiesa, da noi per primi, da noi sopra tutti l’ortodossia dev’essere chiaramente e fortemente professata. Oggi, come ognuno vede, l’ortodossia, cioè la purezza della dottrina, non sembra essere al primo posto nella psicologia dei cristiani; quante cose, quante verità sono messe in questione ed in dubbio; quanta libertà si rivendica nei confronti col patrimonio autentico della dottrina cattolica, non solo per studiarlo nelle sue ricchezze, per approfondirlo e per meglio spiegarlo agli uomini del nostro tempo, ma talora per sottoporlo a quel relativismo, in cui il pensiero profano sperimenta la sua precarietà e in cui cerca la sua nuova espressione, ovvero per adattarlo e quasi per commisurarlo al gusto moderno e alla capacità recettiva della mentalità corrente. Fratelli, siamo fedeli, ed abbiamo fiducia che nella misura stessa della nostra fedeltà al dogma cattolico, non l’aridità del nostro insegnamento, non la sordità della presente generazione mortificheranno la nostra parola, ma la sua fecondità, la sua vivacità, la sua capacità di penetrare troveranno la loro insita e prodigiosa virtù (cfr. He 4,12 2Co 10,5).



LA VOCAZIONE DI TUTTI I POPOLI E DI TUTTE LE ANIME

Ce que Nous avons dit sur la jalouse observance de l’orthodoxie doctrinale, n’est pas en contradiction avec l’anxiété pastorale ni avec l’habileté didactique soucieuses de communiquer aux hommes de notre temps le message de la révélation sous une forme et dans un langage qui le rendent plus acceptable, dans une certaine mesure plus compréhensible, et en tout cas béatifiant.

Aujourd’hui le mystère de l’Epiphanie, c’est-à-dire de la révélation chrétienne, demande à être considéré par les hommes comme la vraie et la plus haute vocation de l’humanité, vocation de tous les peuples et de toutes les âmes. Tous et chacun de ces peuples et de ces âmes doivent savoir découvrir en eux-mêmes de secrètes et profondes prédispositions à La foi chrétienne: ils doivent reconnaître dans la foi chrétienne l’interprétation sublime de ces prédispositions, c’est-à-dire de leur façon caractéristique d’incarner une humanité «capable de Dieu»; ils doivent y trouver l’appel à la plénitude de vie que seul le christianisme peut leur offrir dans une expression toujours nouvelle et moderne. Rappelons-nous Saint Paul: «Je me dois - disait-il - aux Grecs et aux Barbares, aux savants et aux ignorants» (Rm 1,14).


«EGO ELEGI VOS ET POSUI VOS UT EATIS ET FRUCTUM AFFERATIS»

In this way Brothers, the Word whose guardians we are, will become apostolic, that is to say, will be spread abroad, and will become missionary. This demand belongs to Revelation as its own. The feast we are celebrating, the Epiphany, teaches us that it is God’s Plan that the Christian calling and the economy of salvation should be universal. It is also a demand that will become an active power in him who has the singular destiny to be chosen for the teaching office and ministry of the gospel, in the superior grade of that election, the election to the episcopate. «I chose you», says the Lord, «and I commissioned you to go out and to bear fruit» (Jn 15,16). It is part of God’s intention for Revelation that it should shine in the darkness of the world, not only without any preconceived discrimination, but with the widest diffusion possible. But this diffusion demands a service entrusted to men commissioned for it.. Revealed truth demands a qualified doctrinal ministry (cfr. Rm 10,14 ss.); it demands brothers; it demands pastors; it demands teachers who will carry the gospel message of salvation to men; it demands apostles; it demands bishops. You have been entrusted with this service of the truth and for the faith: a service that makes responsible before God, Christ, the Church, and the world, him to whom it has been committed. «It is a duty which has been laid on me», cries St Paul, «I should be punished if I dit not preach the gospel»! It demands zeal, courage, the spirit of initiative, the daring of preaching: «Tough you be of slight voice and tardy tongue, give yourself to the word of God» (ORIGEN, ibid.).


LE MIRABILI CARATTERISTICHE DEL BUON PASTORE

Este deber episcopal, esto es, él de anunciar el mensaje de la revelación divina, es muy grave y hasta puede parecer superior a nuestras fuerzas. Pero, he aquí que otra actitud completa la sicología moral del heraldo del Evangelio. Si la fortaleza es una virtud característica del Obispo - especialmente en este tiempo lleno de dificultades para el ejercicio autorizado del ministerio, hoy frecuentemente contestado, y del magisterio, también hoy frecuentemente extenuado por la crítica, por la duda, por el arbitrio doctrinal - el Pastor bueno no debe temer. Tendrá que perfeccionar con sensibilidad sicológica (cfr. Mt 11,16 Jn 2,25), con mansedumbre humilde (cfr. Mt 11,29), con espíritu de sacrificio (cfr. Jn 10,15 2Co 12,15), su arte de guiar a los hombres, hijos y hermanos, y de hacerles amar esa obediencia en cuya esfera se desarrolla toda la economía de la redención (cfr. Ph 2,8 He 13,7 He 13,17); pero no deberá temer. El Obispo no está solo; Cristo está con él (Jn 14,9 Mt 28,20). Lo asiste un carisma del Espíritu (Mt 10,20 Jn 15,18 ss.). Ejercicio habitual del dominio de sí mismo y de la conciencia de la realidad espiritual, en la que ha sido llamado a vivir, será él de la confianza en el Señor, él del abandono a su voluntad y a su providencia (cfr. Lc 22,35). Nós, al terminar estas palabras, recordaremos a vosotros, Hermanos, a Nos mismo y también a cuantos Nos escuchan, la advertencia de Jesús: «In mundo pressuram habebitis, sed confidite, Ego vici mundum» (Jn 16,33).


L'AUTENTICITÀ DELLA NOSTRA TESTIMONIANZA PER CRISTO

Come conclude questo Nostro discorso?

Conclude con la riconferma della funzione del Vescovo in ordine alla tutela e alla diffusione del messaggio della rivelazione. Cercando di riconoscere come voluta da Cristo tale funzione, noi ringrazieremo Iddio «qui dedit potestatem talem hominibus» (Mt 9,8). Noi la onoreremo ravvisando come essa sia necessaria e benefica, essendo ministero di verità e di carità, indispensabile per il nostro cammino sulla via della salvezza. Noi Vescovi, che di tale ufficio siamo investiti, tutto faremo per esercitarlo nell’umiltà del servizio, nella fedeltà dell’interpretazione, nella virtù propria della Parola di Dio. E diffondendo questa divina Parola in mezzo al Popolo di Dio, procureremo d’ottenere da lui la docilità dell’ascoltazione ed il conforto che da lui stesso, favorito dal «sensus fidei», può venire alla nostra missione. Non baderemo alla sorte, che dalla nostra predicazione può derivare, felice o pericolosa che sia (cfr. 2Tm 2,9 2Tm 40 2Tm 15,20-21); baderemo soltanto all’autenticità della nostra testimonianza, «ut non evacuetur crux Christi» (1Co 1,1 1Co 1,7). «A lui la gloria e la potenza per i secoli dei secoli. Amen» (Ap 1,6).





Lunedì, 3 febbraio 1969: CERIMONIA DI OFFERTA DEI CERI

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Festa della Presentazione di Gesù al Tempio


Figli carissimi!

Prendiamo visione con affettuoso interesse della scena che Ci offre la vostra presenza: ecco davanti a Noi la Nostra Roma ecclesiastica: sono qui i rappresentanti del clero diocesano e religioso dell’Urbe; quelli cioè dei Capitoli delle Basiliche patriarcali e delle altre Basiliche minori e delle Collegiate, quelli delle Parrocchie, delle Accademie, degli Istituti e dei Collegi ecclesiastici, dei Seminari, delle Università pontificie delle Case generalizie delle Famiglie religiose maschili residenti a Roma, quelli delle Confraternite e di altre storiche istituzioni: come l’Ordine di Malta e del Santo Sepolcro, e di altre molte; non mancano anche alcune rappresentanze dell’innumerevole schiera delle Religiose e delle opere e associazioni del Laicato cattolico. Una grande comunità ecclesiale, come soltanto Roma ha la fortuna di possedere e la missione di ospitare, che documenta col numero, con la varietà, con le sue derivazioni storiche e canoniche, ma soprattutto con l’unità della sua fede, con la carità della sua coesione, con le finalità della sua esistenza, che qui la Chiesa di Cristo è una ed è cattolica; ed è viva.

Non è quadro nuovo quello che Noi abbiamo l’occasione di vedere raccolto d’intorno a Noi; ma è sempre un quadro che Noi contempliamo, non già per vana compiacenza, ma per amorosa e doverosa attenzione al prodigio storico, spirituale e profetico ch’esso pone davanti al Nostro spirito, quasi a darCi segno di un’economia divina, qui visibile, qui in via di svolgimento per virtù dello Spirito Santo e per buon volere di anime forti e pie, qui garante d’una imperitura promessa di Cristo, qui ammonitrice delle nostre responsabilità, qui invitante a perseguire con fiducia, non fondata sulle nostre forze, la non mai finita nel tempo edificazione della Chiesa di Dio.


IL SIGNIFICATO SPIRITUALE ED ECCLESIALE DELL’OFFERTA

Ringraziamo il Signore che Ci offre questa incomparabile consolazione: e siamo riconoscenti a voi, a voi tutti, carissimi Figli, che, per sua grazia, Ce la procurate.

Noi pensiamo che voi pure, quanti siete presenti a questa annuale cerimonia, ne sappiate ammirare non tanto la sua scena esteriore, quanto il suo spirituale ed ecclesiale significato, e che anche voi ne abbiate interiore godimento.

Quale significato? La festa liturgica, che dà motivo alla cerimonia stessa, non uno solo, ma parecchi significati e pieni tutti di dottrina e di morali precetti offrirebbe alla nostra meditazione; ma ora fermiamo l’attenzione sopra uno solo, quello che Ci sembra reso più evidente dall’atto che voi siete accorsi qua per compiere, Nomi presenti.

Quale atto? L’oblazione dei ceri. Ogni cero è simbolo d’una oblazione; ogni oblazione vuol essere segno d’un sentimento, professione d’un proposito da parte di ciascuno di voi e da parte dell’ente ecclesiastico rappresentato, che così la compie e la esprime. Com’è bella, com’è densa di senso e di valore una oblazione, quale voi state facendo! Voi ravvivate ora in voi stessi la coscienza del vincolo indelebile che a Cristo vi unisce e vi fa membra viventi del suo Corpo mistico; la maggior parte di voi, ecclesiastici e religiosi, ha rafforzato tale vincolo con un atto, sacramentale o canonico, di consacrazione al Signore, qualificato da alcuni caratteri superlativi: di decisivo, di totale, di unico, di definitivo . . . che vogliono dire quanto di più libero, di più profondo, e di più personale, staremmo quasi per dire di più carismatico, può concepire il cuore umano, il dono d’amore assoluto, quasi a rispondere in misura meno sproporzionata ed in maniera meno indegna alla scoperta del dono d’amore infinitamente gratuito ed eroico, fatto a noi da Cristo: «Dilexit me, et tradidit semetipsum pro me» (
Ga 2,20). L’oblazione è un’espressione dello stato d’unione vitale a Cristo, è una professione di fedeltà alla sua Parola e alla sua sequela, è la rinuncia al proprio egoismo, è il superamento della concezione idolatra della propria sovrana personalità, P l’adesione al servizio umile ed effettivo di Cristo. Voi certo avete continuamente nel cuore questo senso vincolante e liberatore della vostra dipendenza da Lui, in un certo senso pi6 preziosa della stessa vita naturale: adesso, con l’atto che state compiendo, voi lo manifestate, lo confermate, lo vivete. Questo è il significato dell’offerta del ‘cero, che depositate nelle Nostre mani, in onore della Madre di Cristo.

E sono codeste due circostanze di grande rilievo.


OBBEDIENZA ALLA POTESTÀ DEL MANDATO PONTIFICIO E PASTORALE DEL PAPA

Perché portate a Noi il simbolo della vostra dedizione a Cristo? Si perpetua forse in questo rito un superstite residuo di soggezione feudale? È la consuetudine secolare di rendere onore all’antico principato temporale del Papa, che suggerisce inconsciamente la ripetizione del gesto tradizionale? No, certo. Non vogliamo guardare indietro nelle memorie storiche per renderci ragione di esso; guardiamo al presente, e guardiamo non soltanto all’ambito circoscritto di questa cerimonia, ma altresì al mondo, ecclesiastico e profano, del nostro tempo. Voi Ci portate il vostro omaggio, che, dicevamo, simboleggia la vostra oblazione a Cristo Signore, perché con la fede, che vede trasfigurata la Nostra meschina e indegna persona umana in quella di Vicario di Cristo, voi volete aggiungere al valore spirituale della vostra offerta quello sociale, esteriore, visibile ed esemplare, quello che la riconosce nella sua autenticità ecclesiale, quello che le conferisce il merito d’inserirsi nella comunione di fede e di carità propria della Chiesa, quello che attesta il vostro riconoscimento e la vostra obbedienza alla potestà del Nostro ufficio pontificale e pastorale, quale da Cristo istituito e suffragato dalla sua misteriosa assistenza. Vi diremo che un tale omaggio Ci torna oggi particolarmente gradito, oh! non già per un qualsiasi Nostro vantaggio, ma per il conforto e per l’aiuto ch’esso reca al Nostro ministero, al bene cioè della Chiesa romana e cattolica, che il Signore ha voluto affidare alle Nostre cure, le quali, umanamente parlando, hanno precisamente bisogno di codesta spontanea e cordiale corrispondenza per essere salutari ed efficaci. Come Noi, pastori del gregge di Cristo, potremmo essere indifferenti a tale corrispondenza? Come Noi, incaricati del magistero del suo Vangelo, non Ci dovremo dire incoraggiati di saperci circondati da figli attenti ed ossequienti all’insegnamento, che in nome di Cristo dobbiamo annunciare? Come Noi, apostoli del messaggio della fede e della salvezza, non dovremo dirci felici che Tu, o Chiesa di Roma, sei vicina, sei pronta a far comprendere, a sostenere, e a dilatare la Nostra faticosa opera di evangelizzazione nella società contemporanea?


ONORARE LA MADONNA PER MEGLIO CAPIRE IL MISTERO DELLA CHIESA

Ecco: parli ancora il simbolo dei ceri da voi portati. Sapete quale uso Noi ne faremo? Noi invieremo questi ceri ai Nostri Fratelli Vescovi dell’America Latina, molti dei quali personalmente, e tutti spiritualmente, abbiamo, nell’agosto scorso, incontrati in occasione del Nostro viaggio a Bogotà, per la celebrazione del Congresso Eucaristico Internazionale e della Conferenza Episcopale colà inaugurata; e pregheremo ciascuno di quei venerati Fratelli di accendere uno dei vostri ceri, quello rispettivamente destinatogli, nella grande Liturgia pasquale, così che, per merito vostro e per Nostro invito, il Lumen Christi della Risurrezione risplenda in tutte le Cattedrali di quel Continente.

E l’altra circostanza, che Ci piace rilevare, è l’intenzione che ispira la vostra offerta dei ceri; quella, dicevamo, di onorare la benedetta Madre di Cristo. È così ricordata e celebrata una delle prime feste mariane nella Chiesa di Roma (cfr. DUCHESNE, Liber Pont. 1, p. 376,43; RADÓ, Ench. lit. 11,1140); ed è ancor oggi tributato a Maria Santissima, nella fedeltà alla tradizione e all’educazione cattolica, e nello spirito del Concilio, quel culto a Lei dovuto, per il posto unico, ineffabile ed umano, ch’Ella ebbe, ed ha tuttora, nell’economia della salvezza (cfr. Lumen gentium, LG 55, SS.), e da Lei riverberato sul Figlio divino. Vicino a Lei, Ci sembra d’essere introdotti nell’intimità di Gesù, d’essere sorretti dal di Lei incomparabile esempio di fede, di carità, di perfezione evangelica, di meglio capire in Lei il mistero della Chiesa, di cui Maria è il sublime modello della fecondità nello Spirito Santo: «Caput vestrum peperit Maria, vos Ecclesia», esclama con la consueta incisività S. Agostino (Serm. 191: P.L. 38, 1012); così che, ancora una volta, compiendo questo rito mariano, ci sentiamo confortati a sperare che l’oblazione della nostra vita a Cristo Signore sarà accolta e custodita, e siamo invitati a gustare quel genuino «senso della Chiesa», che ci deve tutti guidare e corroborare nelle presenti, non facili vicissitudini.

Così sia, Figli carissimi, per tutti voi e per quanti voi rappresentate, con la Nostra Apostolica Benedizione.






B. Paolo VI Omelie 10169