B. Paolo VI Omelie 60175

6 gennaio 1975: SOLENNITÀ DELL'EPIFANIA DEL SIGNORE

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Figli e Figlie, in Cristo tutti carissimi!

Ecco un giorno memorabile! Per la vostra vita : esso segna un momento, che conferma quelli decisivi della vostra vocazione, della vostra scelta ecclesiale, religiosa, missionaria negli anni venturi, che il Signore concederà al vostro pellegrinaggio nel tempo; un momento, che qualifica, cioè dà una forma, un aspetto, uno stile sia alla vostra spiritualità interiore, la vostra spiritualità missionaria, e sia alla vostra esteriore funzione professionale, nella quale sarà impegnato il vostro cuore, il vostro lavoro, la vostra dedizione al servizio della Chiesa: la vostra attività missionaria. Giorno memorabile: procuriamo di viverlo bene, con tutta l'intensità dei nostri animi, e con lo studio delle circostanze, che lo rendono singolare e degno poi di futura riflessione. Il punto focale, centrale cioè, dei nostri pensieri, adesso è quello dell'Epifania. Epifania significa manifestazione, apparizione, rivelazione. Epifania è un termine generico, astratto; esso acquista significato e valore dall'oggetto a cui si riferisce. Nel nostro caso sappiamo bene a chi 'ed a che cosa si riferisce; esso si riferisce alla manifestazione di Gesù Cristo in questa terra, al mondo, alla umanità (Cfr. S. AUGUSTINI Sermo 200; PL 38, 1029).

Di per sé questa parola è comprensiva di tutto il piano rivelatore di Dio. La famosa lettera agli Ebrei si apre appunto con una visione sintetica. Come si è manifestato Dio agli uomini? Multifariam, multisque modis: a più riprese, ed in molti modi (
He 1,1). Il meraviglioso spettacolo del panorama naturale, e possiamo aggiungere, tutto il campo della creazione, il regno delle scienze, l'esperienza delle cose, la cosmologia, a chi bene la osserva, a chi penetra con l'intelligenza e con la simpatia della nostra capacità di conoscere e di individuare la ragione profonda degli esseri, sono già forme di linguaggio, mediante le quali Dio, Principio creatore dell'universo, parla a chi lo sa ascoltare: parla di potenza, parla di sapienza, parla di bellezza, parla di mistero. Per quanto miope, per quanto insensibile, l'uomo si dimostri davanti allo scenario delle cose, minime e massime che siano, microbi o astri di smisurata grandezza, un Disegno, un Pensiero, una Parola emana dagli esseri esistenti; e un'esigenza logica fondamentale reclamerebbe da lui, dall'uomo, e tanto di più quanto meglio egli è istruito ed evoluto, un riconoscimento religioso, un'adorazione, un cantico delle creature.

Citiamo un Autore, iniziato a questo confronto dell'uomo moderno con l'esplorato mondo circostante; egli scrive: «l'arricchimento e il turbamento del pensiero religioso, nel nostro tempo, derivano senza dubbio dalla rivelazione che si apre, intorno a noi ed in noi, dalla grandezza e dall'unità del Mondo. Intorno a noi, le Scienze del Reale distendono smisuratamente gli abissi del tempo e dello spazio, palesano incessantemente dei vincoli nuovi fra elementi dell'universo» (PIERRE TEILHARD DE CHARDIN, Le milieu divin, p. 2). Procuriamo noi religiosi, noi credenti, di non perdere di vista questo primo schermo della rivelazione naturale di Dio, ma di tenerlo presente sullo sfondo della nostra panoramica conoscitiva e spirituale, per alimentare con genuine impressioni il nostro sentimento religioso e la nostra meraviglia esistenziale circa l'opera di Dio e circa la nostra stessa vita; e per essere in migliore condizione di valutare la nuova, la gratuita, la sbalorditiva, la misteriosa epifania, che Dio si è degnato di compiere nella scena umana, mediante l'Incarnazione e la successiva economia della salvezza.

Dalla piattaforma della rivelazione naturale noi potremo meglio apprezzare l'originalità eccezionale della comparsa del Verbo di Dio stesso, «per mezzo del quale tutto è stato fatto» (Jn 1,3), in un istante, in un angolo dell'opera sua, nel Vangelo. Il Verbo di Dio, Dio lui stesso, si è manifestato in aspetto umano. Egli ha abitato con noi. Meraviglia, delle meraviglie: Egli si è manifestato nelle sembianze più piccole e più umili, nel silenzio, nella povertà, bambino, poi giovane, poi artigiano, e finalmente Maestro e Profeta, capace di dominare miracolosamente le cose e le sofferenze umane, la morte stessa, e di presentarsi nella prospettiva preparata per secoli, quella del Messia, e più che Figlio dell'uomo, Figlio di Dio, l'Agnello espiatore di tutti i peccati umani presentati al suo riscatto, il Salvatore, il Risorto per il regno di Dio e per il secolo eterno.

Oh! Figli carissimi, voi conoscete questo grande e misterioso ciclo della rivelazione di Cristo, e sapete come messo investa tutta la terra, tutta la storia; e come la via, la verità, la vita, sia Lui, quel Gesù, di cui oggi noi, la Chiesa sua, celebriamo la manifestazione nel mondo. Avremo mai meditato abbastanza questa «storia sacra», questo disegno di Dio riguardo alla umanità, questo mistero di salvezza, da cui dipende ogni nostro destino? No, non mai abbastanza! Gli anni, tanto brevi e veloci della nostra esistenza terrena, non basterebbero a saziare il nostro studio, la nostra meditazione, la nostra contemplazione. E, sì, noi tutti non tralasceremo mai di prolungare questa indagine teologica e spirituale per tutta la durata della nostra vita. Essa sarà come la lampada accesa sul sentiero che si apre davanti. Ma ecco che una duplice conclusione, l'una e l'altra derivata dal mistero stesso dell'Epifania, si riflette, con chiarezza decisiva, sulla vostra vita vissuta. E di questa duplice conclusione, voi, Figlie e Figli carissimi, fate senz'altro programma della vostra vita.

La prima conclusione è la fede. Bisogna accettare in pieno la verità, la realtà dell'Epifania; vogliamo dire, della rivelazione di Dio, Padre e Creatore d'ogni cosa, mediante il Verbo, Figlio suo, Gesù Cristo, in virtù dello Spirito Santo, luce e forza delle anime battezzate, e fedeli a questa investitura della vita umana, associata per grazia a quella divina. Oggi è la festa del Credo. Di quel Credo, ch'è stato proclamato, come un'alleanza nuova, come una comunione vitale ineffabile, al momento del nostro battesimo. Dobbiamo oggi ripetere, con totale dedizione, con nuova convinzione, con incomparabile consolazione, il Credo, uno e cattolico, nostro e di tutti i fedeli al Cristo rivelato. Oh! noi sappiamo quale dramma relativo alla questione della Fede, dramma di ricerche, di controversie, di dubbi, di negazioni esista oggi in tanti spiriti e con un decisivo atto di fede sia non abolito, ma sia però superato. Siete missionari? E di quale missione, se non di quella della fede? È per la fede, che voi partite ed affrontate il mondo.

Diventate una gente speciale: in un mondo che sviluppa la sua scienza alla misura del proprio pensiero, voi misurate la vostra certezza sulla Parola di Dio, della quale la Chiesa, Madre e Maestra, garantisce l'autenticità. In un mondo, che sembra misurare la propria maturità razionale, in campo religioso specialmente, dalle incontentabili sottigliezze dei propri dubbi e dei propri sofismi, voi camminate diritti e sicuri, con mentalità, che chi non vi conosce potrà qualificare puramente elementare e popolare mentre essa attinge alla semplicità e alla lucidità della divina sapienza. Camminate con la logica della fede, diventata principio di pensiero e d'azione, come c'insegna S. Paolo: il giusto, cioè l'uomo buono, l'uomo autentico ex fide vivit (Rm 1,17 Ga 3,11), vive cioè traendo dalla fede i principii orientatori della propria vita.

La seconda conclusione programmatica della vostra vocazione è la necessità di Cristo, perché è Cristo; cioè perché emana da lui una attrazione obbligante a militare per la sua gloria. Chi lo ha incontrato, chi, in profondità un po' almeno, lo abbia conosciuto, chi abbia udito l'invito incantevole e avvincente della sua voce, non può non seguirlo; e lo segue con uno spirito di fiducia e di avventura, che fa del seguace un eroe, un apostolo, anche qui come enfaticamente, ma realisticamente, conclude San Paolo: fratres nostri apostoli ecclesiarum, gloria Christi (2Co 8,23), questi nostri fratelli sono Apostoli delle Chiese, gloria di Cristo! Necessità di Cristo per se stesso; Egli ben merita l'amore, il dono, il sacrificio della vita e simultanea deriva la necessità di Cristo per gli uomini, per tutti i fratelli della terra, perché Egli, ed Egli solo è il Salvatore (Ac 4,12), mentre l'annuncio della sua salvezza è condizionato all'azione apostolica, alla diffusione missionaria (Cfr. Rm 10,14 ss.). Voi, Missionari, personificate questa necessità di Cristo.

Oggi, come ieri. Se, infatti, da un lato, il Missionario cattolico dovrà riconoscere quanto vi è di vero e di santo anche nelle altre religioni (Cfr. Nostra Aetate, NAE 2) e, in particolare, i tesori di fede e di grazia, che le Chiese e le comunità cristiane, da noi pur troppo tuttora separate, ancora conservano ed alimentano, e se nel suo zelo apostolico egli dovrà astenersi da ogni sleale proselitismo, resta pur sempre vera la parola del recente Concilio ecumenico, che «solo per mezzo della Chiesa cattolica di Cristo, la quale è lo strumento generale della salvezza, si può ottenere ogni pienezza di mezzi salutari» (Unitatis Redintegratio, UR 3). Così dicendo, noi non facciamo . . . del trionfalismo. Noi cerchiamo, voi ben lo sapete, d'interpretare il sistema storico-sociale, cioè ecclesiale, che il Signore ha stabilito per la diffusione del Vangelo e per l'edificazione della sua Chiesa; e voi, Missionari, operai e collaboratori della Gerarchia apostolica, siete i cruciferi, i portatori della Croce, mandati nel mondo. Per questo vi sarà oggi consegnato, da noi benedetto, il Crocifisso: umile crocifisso, segno di pazienza e di confortante coraggio per voi; segno di fede, di liberazione e di gaudio a quanti voi avrete l'onorifico ministero di predicarlo e di portarlo.






25 gennaio 1975: SOLENNE CHIUSURA NELLA BASILICA DI S.PAOLO DELL'OTTAVARIO PER L'UNITÀ

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Fratelli!

La festività odierna, che ci fa celebrare ancor oggi, a distanza di secoli, la conversione di San Paolo, vera svolta decisiva nella storia della diffusione della fede cristiana e nella formazione organica della Chiesa nascente, è tema di meditazione e di preghiera troppo grande, e, per fortuna, a voi tutti ben noto, perché questa nostra breve e semplice parola osi tradurlo in linguaggio adeguato. La ricchezza stessa dei motivi ispiratori di alti pensieri, relativi a questo luogo privilegiato, ce ne fa ostacolo: parlare di San Paolo, in questa basilica! sopra la tomba di Lui, qualificato nella iscrizione, laconica ed eloquente ad un tempo, della lapide che ne custodisce le reliquie, semplicemente: «apostolo e martire»! e come potremmo tacere l'elogio di questo santuario, cui un monastero fiancheggia e custodisce, evocatore di tante memorie storiche e sante? e come sfuggire alle reminiscenze personali, che a questo sacro e complesso edificio, cordialmente ci uniscono? Non è dimenticanza il nostro silenzio, ma piuttosto atto contemplativo d'amorosa devozione; non senza qualche recente paterna afflizione.

Un altro tema, come voi sapete, si sovrappone al culto che oggi vogliamo rendere a San Paolo; tema che dal culto medesimo trae, ad onore dell'Apostolo stesso, ispirazione e conforto; è il tema della unità fra i Cristiani, unità vera e completa, quale, specialmente dopo il Concilio, andiamo meditando e cercando di ricomporre per comune letizia nella sua integrità. Ed anche su questo tema la legge della discrezione ci impone di accennarvi solamente; e lo facciamo limitandoci a confidare a voi i due sentimenti fondamentali che in ordine ad esso sono nel nostro animo, e che questo luogo benedetto rende in questo momento dominanti. Uno è un sentimento di tristezza, l'altro di speranza. Perché di tristezza? come può il pensiero della ricomposizione dell'unità fra tutti i seguaci di Cristo ispirare tale sentimento? Oh! la ragione è perfino troppo evidente. Ed è ragione molteplice.

Primo, perché questa unità ancora non è stata ricomposta. Il che riporta nel nostro spirito una ovvia e dolorosa memoria, la memoria storica. Cristo ha fondato un'unica Chiesa. San Paolo, ci ha lasciato quasi un suo impegno testamentario: «siate solleciti a conservare l'unità dello spirito nel vincolo della pace; un corpo solo, un solo spirito, come in unica speranza siete stati chiamati; uno è il Signore, una la fede, uno il battesimo; uno Iddio e padre di tutti . . . » (
Ep 4,3-6). Come abbiamo potuto dividerci in modo tanto grave, tanto molteplice, tanto duraturo? E come non soffrire per un tale stato di cose, che per tanti aspetti concreti dura tuttora? Noi cattolici abbiamo certamente in ciò la nostra parte di colpa, anche essa varia e diuturna; come non sentirne dolore e rimorso?

Secondo. Come superare le difficoltà per una riconciliazione? Altro motivo per la nostra riflessione. Noi vediamo gli ostacoli grandi, che sembrano insuperabili. Si tratta di uno stato di fatto grave, che perviene ad intaccare la stessa opera di Cristo. Il Concilio Vaticano II afferma con lucidità e fermezza che la divisione dei cristiani «danneggia la santissima causa della predicazione del Vangelo ad ogni creatura» (Unitatis Redintegratio, UR 1), danneggia così l'opera della riconciliazione di tutti gli uomini. La divisione fra i cristiani riesce pertanto a ledere e talvolta persino a mortificare la fecondità della predicazione cristiana, a far perdere di efficacia l'azione di riconciliazione con Dio che la Chiesa ha come missione di continuare fino alla fine dei tempi. Per questo nell'indire l'Anno Santo abbiamo creduto necessario far notare a tutti i fedeli del mondo cattolico che «la riconciliazione di tutti gli uomini con Dio, "nostro Padre", dipende infatti dal ristabilimento della comunione fra coloro che già hanno riconosciuto ed accolto nella fede Gesù Cristo come il Signore della misericordia, che libera gli uomini e li unisce nello Spirito di amore e di verità» (Apostolorum Limina, VII). Infatti, come possiamo testimoniare con coerenza che Dio ci ha riconciliati a Lui se non mostriamo anche che siamo riconciliati fra noi credenti e battezzati nel suo nome? Ed è anche per questo che ristabilire l'unità nella piena comunione ecclesiale è responsabilità ed impegno di tutta la Chiesa» (Cfr. Apostolorum Limina, VII; Unitatis Redintegratio, UR 5).

Terzo. In questi ultimi anni si sono fatti passi mirabili verso la riconciliazione in differenti direzioni; tutti lo sanno e lo vedono; e certamente tutti ne esultiamo. Ma per ora nessun passo è giunto alla meta! Il cuore, che ama, è sempre frettoloso; se la nostra fretta non è esaudita, l'amore stesso ci fa soffrire. Noi comprendiamo l'inadeguatezza dei nostri sforzi. Noi intravediamo le leggi della storia, che esigono un tempo più lungo delle nostre umane esistenze; ed è comprensibile che la lentezza delle conclusioni ci sembri vanificare desideri, tentativi, sforzi, preghiere. Accettiamo questa economia dei disegni divini, e ci proponiamo umilmente di perseverare. Ma anche la perseveranza non è sofferenza? Non è spiegabile un sentimento, che si consuma nell'attesa, di cui non si conosce la futura durata? L'ecumenismo è un'impresa estremamente difficile; essa non può semplificarsi a scapito della fede e del disegno di Cristo e di Dio circa la salvezza autentica dell'umanità. Non dice la Scrittura: Spes, quae differtur, affligit animam, la speranza differita affligge l'anima (Pr 13,12). Comprendete, Fratelli, pertanto la nostra tristezza; essa è l'espressione del nostro amore, del nostro desiderio, della nostra carità.

Ma un altro sentimento riempie della sua vivificante atmosfera l'animo nostro a riguardo dell'ecumenismo, di quello che tende realmente al ristabilimento dell'unità fra tutti i Cristiani; ed è la speranza. Non è la preghiera che alimenta la speranza? E non è San Paolo che ci assicura: spes autem non confundit, la speranza non delude? (Rm 5,5) Anche noi abbiamo voluto celebrare la settimana di preghiera per l'unità dei cristiani, particolarmente questa volta in coincidenza dell'Anno Santo. Avevamo infatti proclamato che la riconciliazione fra i Cristiani è uno degli scopi centrali di quest'anno di grazia (Cfr. Apostolorum Limina, VII). «Ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» (Ep 1,10). Questo tema proposto alla riflessione di tutti i cristiani per la settimana di preghiera per quest'anno concentra la nostra meditazione sul piano salvifico di Dio sugli uomini e sull'intero creato. Dio ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà per realizzarlo nella pienezza dei tempi. In Gesù Cristo, suo figlio diletto, abbiamo la redenzione, mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia (Cfr. Ep 1,7). «In lui piacque al Padre, che abitasse ogni pienezza e per lui fossero a sé riconciliate tutte le cose» (Col 1,19-20). Gesù Cristo è così la nostra vera riconciliazione, è la misericordia di Dio per gli uomini, è la nostra grande e vivente indulgenza. Egli ha compiuto la «purificazione dei peccati» (He 1,3) e ci ha messo in comunione con il Padre nello Spirito Santo.

Questo atto salvifico abbraccia non solo tutti gli uomini ma, in una visione che supera la dimensione umana, si estende a tutto il creato, all'universo intero, aprendoci le soglie di una creazione nuova con una umanità rinnovata, in pellegrinaggio verso «un nuovo cielo ed una nuova terra» (Ap 21,1). Questo ministero di riconciliazione Cristo lo continua attraverso la sua Chiesa, sacramento di salvezza. «Questo è il fine della Chiesa: con la diffusione del Regno di Cristo su tutta la terra a gloria di Dio Padre, rendere partecipi tutti gli uomini della salvezza operata dalla Redenzione e per mezzo di essi ordinare effettivamente il mondo intero a Cristo» (Apostolicam Actuositatem, AA 2). Ma oggi noi con voi ringraziamo il Signore che ci ha concesso di vedere che le relazioni tra i cristiani si intensificano e si approfondiscono. La ricerca della riconciliazione tra i cristiani, che è opera dello Spirito Santo ed espressione di quella «sapienza e pazienza "con cui il Signore" persegue il disegno della sua grazia verso noi peccatori» (Unitatis Redintegratio, UR 1), diventa sempre più un tema di crescente cura ed attenzione da parte della Chiesa Cattolica e delle altre Comunioni Cristiane. Con gioia costatiamo gli sforzi che dovunque si fanno per la riconciliazione, a cui sono impegnati i Vescovi, i teologi, i sacerdoti, i religiosi, i laici: a quest'opera, lo sappiamo, è sensibile anche quella eletta categoria di persone che nel silenzio della contemplazione matura nella preghiera e nella penitenza l'unione sempre più pura ed intima con Dio.

Con il Concilio noi siamo pienamente consapevoli che «questo santo proposito di riconciliare tutti i cristiani nell'unità della Chiesa di Cristo una ed unica, supera le forze e le doti umane» (Unitatis Redintegratio, UR 24). Per questo riprendiamo la nostra preghiera chiedendo al Signore di renderci più attenti alla sua parola ed obbedienti alla sua volontà per continuare la nostra opera con fiducia e dedizione, con perseveranza e coraggio, affinché ci conceda di poter dare con efficacia il nostro contributo alla riconciliazione fra tutti i cristiani, e alla riconciliazione di tutti gli uomini, affinché, come San Paolo ci esorta, «ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre» (Ph 2,11) Così sia.





2 febbraio 1975: FESTA DELLA PRESENTAZIONE DEL SIGNORE

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Venerati Fratelli e Sorelle in Cristo,

Figli tutti carissimi,

Una festa antica, che ha nel Vangelo ora ascoltato la sua lontana e sempre viva radice, una festa in cui Cristo figura protagonista nell'offerta che di Lui è fatta, Figlio dell'uomo al Padre celeste, ed in cui la Madonna, velata e splendente nel manto d'un rito biblico, quello della purificazione superflua alla sua divina maternità, ma irradiante la sua sublime verginità, appare per la prima volta nella storia ufficiale della liturgia romana (Cfr. DUCHESNE, Liber Pont. 1, 376), ci riunisce quest'oggi, in questo tempio grandioso e misterioso che, custode delle spoglie mortali dell'apostolo Pietro, glorifica il volto della Chiesa immortale: una, santa, cattolica ed apostolica, da Gesù Signore fondata sull'umile e debole discepolo, ma divenuto solida roccia, posto a fondamento centrale del nuovo Popolo di Dio (Cfr. Lumen Gentium,
LG 18 et 22), una festa antica, diciamo, si fa attuale in questa nostra celebrazione, che raccogliendo i vari motivi della sua preghiera, ne ricava, con le tradizionali espressioni, questa nuovissima, che aggiunge al fervore spirituale dell'Anno Santo un suo originale colore, e tramuta in vento pentecostale la tempesta stessa del tempo nostro non poco minacciante d'intorno a noi.

Mettiamo ordine nei nostri pensieri. La scena evangelica si ricomponga davanti al nostro spirito. Gesù bambino è portato al Tempio, anzi offerto a Dio, con un atto esplicito di riconoscimento del diritto divino sulla vita dell'uomo. La vita dell'uomo, del primogenito (Cfr. Ex 13,12 ss.), come suo simbolo, appartiene a Dio. La gerarchia religiosa delle cause e dei valori è nella natura delle cose; la religione è una esigenza ontologica, che nessun ateismo, nessun secolarismo può annullare; negare, dimenticare, trascurare l'uomo potrà, a suo torto e a suo danno; confutare essenzialmente, razionalmente, senza violenza al suo pensiero e al suo essere non gli è alla fine possibile; riconoscerla, la religione, al principio d'una concezione autentica, esistenziale delle cose e della vita, è necessità, è sapienza; il cristianesimo, senza farne una teocrazia politica, lo conferma. Dice ad esempio, San Paolo: «Nessuno inganni se stesso: . . . sì, tutte le cose sono vostre, ma voi siete di Cristo, e Cristo di Dio» (1Co 3,18 1Co 3,22-23). Non è forse così che voi, Religiosi e Religiose, voi tutti Fedeli, concepite la vita? Dio è il primo, Dio è tutto; l'atto primario, costituzionale della nostra esistenza è l'atto religioso, l'adorazione, l'ossequio, e noi beati che siamo invitati a fare della nostra religione una professione d'amore.

Gesù ci appare, fin dalla sua origine nel tempo, come l'interprete e l'esecutore della volontà del Padre. «Entrando nel mondo, leggiamo nella lettera agli Ebrei, . . . Io dissi: ecco, Io vengo, . . . per compiere, o Dio, la tua volontà!» (He 10,7); «mio cibo, Egli dirà nel Vangelo, consiste nel compiere la volontà di Colui che mi ha mandato» (Jn 4,34); «per questo Io sono disceso dal cielo, non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato» (Jn 6,38); tutta la vita di Cristo è dominata infatti da questo collegamento con la volontà divina, fino al Gethsemani, dove l'uomo Gesù tre volte dirà: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice (dell'imminente passione), ma però non ciò che voglio Io, ma come vuoi Tu» (Mt 26,39); così che l'epigrafe della sua esistenza temporale sarà riassunta da S. Paolo così: «Umiliò Se stesso, fattosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce» (Ph 2,8). Dalla semplice scena, quasi puramente episodica, della presentazione di Gesù bambino al Tempio, noi intravediamo per iscorcio il tragico dramma messianico che incombe su di Lui.

Noi riviviamo in questo momento non soltanto la memoria del fatto evangelico, ma il suo mistero redentore che si proietta sopra di noi, e da noi reclama la celebre adesione dell'Apostolo: anch'io «compio nella mia carne quello che manca alle sofferenze di Cristo» (Col 1,24). Difatti, Fratelli e Sorelle votate a Cristo, per voi questo rito propone una domanda, la cui risposta qualifica e impegna la vostra vita; la domanda della rinnovazione dei vostri voti religiosi. E da codesta risposta, a cui fa eco certamente quella che in cuor loro ripeteranno i Fedeli presenti, memori delle loro promesse battesimali, noi confidiamo che scaturisca, integra e nuova, totale e felice, la vostra offerta, unita a quella di Gesù: «Eccomi, manda me»! (Is 6,8) Grandeggia così con quello di Cristo il vostro destino. Volete? Osservate ancora. Maria è presente, nella memoria del rito a cui Ella, la purissima, l'immacolata, umilmente si uniformò, quello della purificazione prescritta dalla Legge mosaica (Lv 12,6), silenziosa custode del suo segreto prodigio: la divina maternità aveva lasciato intatta la sua verginità, dando a questa il privilegio d'essere di quella l'angelico santuario. Qui il fatto si fa mistero, e il mistero poesia, e la poesia amore, ineffabile amore. Non già un risultato sterile e vacuo; non sorte inumana, ma sovrumana quando la carne sia sacrificata allo spirito, e lo spirito sia inebriato d'amore più vivo, più forte, più assorbente di Dio, «contento ne' pensier contemplativi» (DANTE, La Divina Commedia, III, 21, 127).

E nell'incontro odierno con Maria, la Vergine Madre di Cristo, s'illumina nella nostra coscienza la scelta, libera e sovrana, del nostro celibato, della nostra verginità; anch'essa, nella sua ispiratrice origine, più carisma che virtù; possiamo dire con Cristo: «Non tutti comprendono questa parola, ma solo coloro a cui è concesso» (Mt 19,11). «Vi sono nell'uomo, insegna S. Tommaso, delle attitudini superiori, per le quali egli è mosso da un influsso divino», sono i «doni», i carismi, che lo guidano mediante un interiore istinto di ispirazione divina (Cfr. S. THOMAE Summa theologiae, I-II 68,1). È la vocazione! la vocazione alla verginità consacrata al celibato sacro, la quale vocazione, una volta compresa ed accolta, così alimenta d'amore lo spirito, che questo tanto ne è sovrabbondante da essere, con sacrificio, si ma un sacrificio facile e felice, affrancato dall'amore naturale, dalla passione sensibile e da fare della sua verginità una «inesauribile contemplazione» (Cfr. Ibid. I-II 152,1), una religiosa sazietà, sempre superiormente tesa e affamata, e capace, come nessun altro amore, di effondersi nel dono, nel servizio, nel sacrificio di sé per fratelli ignoti, e bisognosi appunto d'un ministero di carità che imiti, e, per quanto possibile, eguagli, quello di Cristo per gli uomini.

Questo più si vive, che non si esprima. Voi, Fratelli e Sorelle, a Cristo immolati, ben lo sapete. E se oggi qui siete convenuti per esprimere in preghiera ed in simboli questo superlativo programma di vita in Cristo, con l'espressione incisiva di San Paolo: «mihi vivere Christus est» la mia vita è Cristo (Ph 1,21), noi, noi stessi, invece che riceverlo, come di solito in questa occasione, dalle vostre mani, lo daremo a voi il cero benedetto, simbolo d'un'immolazione che consumandosi effonde luce d'intorno a sé. Lo daremo appunto per Onorare la vostra oblazione al Signore e alla sua Chiesa, per confermare la vostra gioiosa promessa, per accendere in voi quella carità, che nemmeno la morte può spegnere (Cfr. 1Co 13,13).

Con la nostra Apostolica Benedizione.




9 febbraio 1975: BEATIFICAZIONE DI MADRE MARIE-EUGÉNIE MILLERET

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Salute a Voi, Venerati Fratelli, diletti Figli e Figlie, che assiepate festanti questa Basilica in occasione della beatificazione di Madre Marie-Eugénie Milleret, Fondatrice delle Religiose dell'Assunzione. Prima di fissare lo sguardo in lei, nella sua figura e nel suo messaggio di palpitante attualità - come faremo subito, rivolgendoci in lingua francese a quanti oggi ci ascoltano - ci piace rilevare il valore tutto particolare di questo avvenimento. Abbiamo già celebrato, fin dal solenne inizio dell'Anno Santo, indimenticabili momenti di pienezza di vita ecclesiale; ma questa è la prima beatificazione del Giubileo, che non solo impreziosisce il coro felice delle sue celebrazioni esterne, quanto illumina il suo stesso significato essenziale, sostanziale, programmatico, quale l'abbiamo delineato a tutta la Chiesa: la riconciliazione, il rinnovamento, il primato dello spirituale, il fervore della carità, il dilatarsi dell'apostolato: «a tutti gli uomini di buona volontà - abbiamo scritto nella Bolla d'indizione - la Chiesa vuole indicare, col messaggio dell'Anno Santo, la dimensione verticale della vita che assicura il riferimento di tutte le aspirazioni ed esperienze ad un valore assoluto e veramente universale, senza del quale è vano sperare che l'umanità ritrovi un punto di unificazione, una garanzia di vera libertà» (Apostolorum Limina, I; AAS 66, 1974, p. 293). Ebbene, la figura che oggi proponiamo all'attenzione del mondo e alla venerazione della Chiesa è, come le altre che seguiranno, l'esemplificazione vivente di questo programma, arduo nelle sue esigenze severe ma eloquente nella sua efficacia, nella irradiazione dei suoi risultati sul piano sociale e umano. È l'immagine suadente che la santità - a cui tanto fortemente richiama l'Anno per antonomasia Santo - è non solo possibile a umane forze, ma reale, ma vera, ma presente in mezzo al mondo, nascosta, forte e benefica. Questa la grande, introduttiva lezione del rito che stiamo celebrando.

Il Santo Padre prosegue poi in francese.

...


12 febbraio 1975: PRIMA STAZIONE PENITENZIALE IN SAN PIETRO

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Eccoci Fratelli, ancora una volta, ed in circostanze speciali, quali sono quelle dell'Anno Santo, che stiamo celebrando, al principio della quaresima; in capite jeiunii, come dicevano i nostri antichi maestri di spirito. Nulla di nuovo; ma procuriamo di capire, e poi anche di fare. La pedagogia della Chiesa attribuisce grande importanza a questo periodo dell'anno liturgico. Quaresima è, si può dire, sinonimo di penitenza. La prima questione, che sorge negli animi, anche in quelli fedeli alla Chiesa, al suo spirito, ai suoi riti, si domanda se sia oggi giustificata la penitenza. Non è castigo la penitenza? non è tristezza, non è mortificazione, non è rinuncia, non è frustrazione? perché la religione cristiana deve presentarsi con questo aspetto, punto simpatico? come predicare all'uomo moderno, ch'è tutto teso alla conquista e al godimento della vita, una prassi penitenziale, che esula da ogni sua concezione, da ogni sua aspirazione, e, possiamo aggiungere, dalla sua pratica possibilità? chi può oggi digiunare, come la Chiesa fino a ieri prescriveva severamente di fare, e come, parzialmente almeno, ancora adesso, prescrive? Ai giovani specialmente, perché non presentare, fin da principio, la vita cristiana come una pienezza, una gioia, una felicità? Il cristianesimo, nella sua essenza, non è felicità? Non ha forse detto Gesù, proprio Gesù: «Io sono venuto affinché (gli uomini) abbiano la vita, e l'abbiano più abbondantemente»? (
Jn 10,10)

Un missionario, venuto in questi giorni a visitarci, ci diceva dei felici risultati d'una sua iniziativa, intitolata «l'apostolato della gioia»; non è questa un'autentica e sapiente interpretazione del Vangelo, il messaggio della buona novella? Così pure, e con altra voce, un autorevole Uomo di Chiesa si domandava recentemente se non sia oggi un errore, almeno di metodo, quello della tradizione ecclesiale di presentare l'adesione alla fede, e allo stile di vita ch'essa comporta, sotto condizione di pratiche ascetiche restrittive, di osservanze di norme di pensiero e di costume molto esigenti: perché non rendere facile e gradevole l'appartenenza alla Chiesa, allargando e spianando la via, che ne qualifica il cammino e ne assicura la mèta? Non saremmo noi colpevoli di rendere difficile e complicato l'incontro degli uomini del nostro tempo con la religione? Non sarebbe venuta l'ora di rendere dunque «permissiva», come oggi si dice, l'alleanza del mondo con la professione cristiana? il Concilio non ci ha elargito questa nuova concezione del cristianesimo contemporaneo? un cristianesimo facile, senza precetti esigenti e molesti, un cristianesimo moderno? e se questo vuole sopravvivere alle condizioni della vita contemporanea, non deve forse abolire i freni della sua vecchia concezione penitenziale?

Ragionamenti che contengono certamente una parte di verità; ma isolati dal disegno organico e completo della concezione cristiana sono incompleti, sono capziosi, e possono generare gravi errori; possono deformare e vanificare il Vangelo; il più grande di tutti gli errori di questo genere sarebbe quello di togliere la croce dal centro della fede e della vita cristiana. Ricordate la parola di S. Paolo: «che non sia resa vana la Croce di Cristo»! (1Co 1,17) vana nel suo mistero redentore, e vana nel suo insegnamento morale; infatti ricordiamo sempre: non solo Gesù porta la croce, ma anche i suoi seguaci con lui devono portarla: «se qualcuno vuol venire dietro a me, Egli disse, rinunzi a se stesso, prenda la sua croce, e mi segua» (Mt 16,24). E questo, perché?

S. Agostino, in un suo sermone circa l'utilità di fare penitenza, diceva: «quanto sia utile e necessaria la medicina della penitenza, assai facilmente lo comprendono gli uomini, che si ricordano d'essere uomini» (S. AUGUSTINI Serm. 351, 1; PL 39, 1535; et Serm. 352; ibid. 1539 ss). Ripetiamo: perché questo? perché l'uomo è un essere spiritualmente e moralmente malato; ha bisogno della medicina della penitenza, cioè ha bisogno di riparazione; lo sviluppo e il funzionamento delle sue facoltà naturali non sono regolari e ordinati; il suo comportamento, in seguito al peccato originale, è facilmente sbagliato; lasciato a se stesso, produce atti contrari al dovere e genera stati d'animo disordinati; occorrerà per l'uomo sano, per l'uomo «nuovo» secondo la concezione cristiana, una «conversione», cioè un cambiamento di spirito che chiamiamo penitenza, la quale predispone alla fede e alla grazia (Cfr. DENZ.-SCHÖN. DS 1525-1530), e esige da noi volontà, contrizione, sforzo, perseveranza; esige cioè una penitenza duplice, sacramentale e morale (Cfr. S. THOMAE Summa Theologiae, III 84,0-90).

Oggi la liturgia parla principalmente di quest'ultima, la penitenza morale, e la drammatizza con un rito assai espressivo, con la imposizione delle ceneri sul capo del cristiano, quasi per disilluderlo del valore unico e supremo della vita presente, in cui noi facilmente poniamo le nostre cure e le nostre speranze. È un errore fatale di calcolo il nostro, se noi poniamo la nostra fiducia nei beni propri dell'ordine temporale, la durata della nostra esistenza presente, il benessere economico e edonistico, la fiducia nella ricchezza più che nella virtù, il materialismo ideologico e pratico, che sembra comprendere e risolvere tutti i problemi personali, sociali e politici, verso i quali si vorrebbe da molti rivolgere con priorità prevalente la mentalità e l'attività dell'uomo finalmente edotto circa la vera, ma inesatta e incompleta, filosofia della vita. Non udiamo noi forse in questo momento la severa, ma sapiente parola di Cristo rivolta all'homo oeconomicus, che aveva posto tutti i suoi progetti e tutta la sua fortuna nell'«abbondanza dei beni posseduti», senza riflettere all'inanità dei suoi preventivi: «Stolto, questa notte stessa l'anima tua (cioè la tua esistenza temporale), ti sarà ridomandata (cioè dalla morte imprevista e improvvisa); e quanto hai preparato di chi sarà? così, aggiunge il Signore, è chi tesoreggia per sé, e non arricchisce presso Dio» (Lc 12,20-21).

Così che questa radicale svalutazione dei beni propri della concezione materialista della vita, propria della visione penitenziale della sapienza cristiana, non si risolve in un disperato pessimismo, ma in un orientamento finalistico superiore e migliore della nostra esistenza, il possesso finale, desiderato e meritato, della pienezza della nostra vita immortale nel Dio della suprema beatitudine. La mèta escatologica, cioè ultima ed ultra terrena, deve governare le mète temporali, nelle quali siamo impegnati; e ciò non solo a riguardo dei beni economici, ma d'ogni altro bene di questo nostro pellegrinaggio nel tempo. Siamo pellegrini, siamo di passaggio nella vicenda faticosa o fortunata che sia nel secolo del tempo; questa è la coscienza della penitenza, che non ci deprime nella ricerca della giustizia e dell'ordine del nostro mondo sperimentale, ma piuttosto ci stimola a compiervi la missione che gli è propria: «così conviene, dice il Signore, che noi adempiamo ogni giustizia» (Mt 3,15), ma con lo spirito libero e teso verso quel «regno di Dio», che solo vale la pena d'essere sopra ogni cosa desiderato e conquistato, e che i «Poveri di spirito» sanno a loro primi destinato. In quest'atmosfera di pensieri e di propositi c'introduce la quaresima, con la sua metánoia, cioè con la sua conversione. Accettiamola con fiducia e con coraggio; sappiamo dove ci guida: al mistero pasquale. Sia così, con la nostra Benedizione Apostolica.



22 febbraio 1975: SACRO RITO GIUBILARE DELLA CURIA ROMANA


B. Paolo VI Omelie 60175