B. Paolo VI Omelie 22275

22 febbraio 1975: SACRO RITO GIUBILARE DELLA CURIA ROMANA

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Fratelli! e Membri e Collaboratori della Curia Romana!

Ciascuno lo vede ciascuno lo sente: questo è un momento singolare, un momento bello. È ben raro che noi ci troviamo così riuniti, anche se sempre siamo uniti per un comune servizio. Oggi in una comune preghiera, in un comune atto penitenziale, in un'unica celebrazione eucaristica. Merita questo momento d'essere fissato nella memoria di ciascuno di noi. Merita che noi tutti gli riconosciamo il suo pieno significato, anche se questo oltrepassa la capacità espressiva della nostra parola. Pensiamo al luogo. Qui ora tutto ci parla, ed oggi con una voce che, anche se a noi ben nota, non può lasciarci indifferenti, o solo attenti alla maestà dell'incomparabile edificio. Qui è la tomba dell'apostolo Pietro, colui che il Signore volle fondamento e centro della sua Chiesa. Qui la successione del ministero universale e pastorale di lui attrae e fissa il nostro pensiero per la sua realtà storica, qualunque sia la fisionomia umana in cui essa si rispecchia; umile e misera, oggi, essa è vivente. Qui l'unità della fede e della comunione ecclesiale hanno un loro privilegiato domicilio sensibile, e sembrano in esso riposare ed esprimersi nello spazio architettonico aperto alla moltitudine dei fedeli, invitandoli ad una corale professione d'unanimità e di fratellanza. Qui finalmente la mole e la bellezza del monumentale trofeo, edificato sul sepolcro del primo Vescovo e Martire di questa Chiesa romana, sembrano innalzarsi perennemente in uno sforzo temerario di sfida ai secoli, mentre, a ben comprendere, altro non vogliono che lanciare nella storia un ponte dall'avvento primo di Cristo sulla terra verso l'altro suo avvento alla fine del mondo.

Ma noi, anche in questo quadro sacro e stupendo, in cui si respira il mistero del tempo, restiamo ora raccolti sopra noi stessi, e interroghiamo le nostre coscienze: chi siamo noi? e perché siamo qui? Noi siamo la Curia Romana, l'organo centrale e complesso dei dicasteri, dei tribunali e degli uffici, che coadiuvano il pastorale governo generale della Chiesa cattolica; e tanto basta per generare in noi tutti non già un senso di superiorità e di orgoglio nei confronti del Collegio Episcopale e della grande famiglia del Popolo di Dio, al quale noi pure apparteniamo, quanto piuttosto la coscienza duna assai grave e delicata funzione, che comporta responsabilità e fatiche tanto maggiori quanto più prossima è la sua derivazione dalle esigenze costituzionali del ministero apostolico, e quanto più fraterno e rivolto al bene totale della Chiesa ne vuole essere il suo provvido esercizio. Questo siamo. Ma la definizione di Curia Romana, in virtù della nostra personale ed associata presenza, assurge ora a quella di Sede Apostolica (Cfr. cann. 7 et 242), e conferisce a questa cerimonia giubilare un carattere di particolare importanza.

Ora questa nostra coscienza, che vogliamo chiarissima non soltanto nella sua definizione canonica, ma anche nel suo contenuto morale e spirituale, impone a ciascuno di noi un atto penitenziale conforme alla disciplina propria del giubileo, atto che possiamo chiamare di autocritica per verificare, nel segreto dei nostri cuori, se il nostro comportamento corrisponde all'ufficio che ci è affidato. Ci stimola a questo interiore confronto innanzi tutto la coerenza della nostra vita ecclesiale, e poi l'analisi, che tanto la Chiesa, quanto la società fanno sul nostro conto, con esigenza spesso non obiettiva e tanto più severa quanto più rappresentativa è questa nostra posizione, dalla quale dovrebbe sempre irradiare un'esemplarità ideale. Da chi porta il nome cristiano oggi più che mai molto si pretende, e tanto più se a tal nome si aggiunge l'appartenenza ad un ambiente di Chiesa, qual è la Sede Apostolica; e quanto ancora maggiore è l'esigenza dell'occhio altrui di riscontrare armonia, specialmente a Roma, fra il carattere sacerdotale o episcopale, di cui noi fossimo insigniti, e lo stile, sotto ogni aspetto, della nostra vita, la fedeltà ai nostri doveri religiosi, lo zelo del nostro ministero. Non è meraviglia: fu dapprima così, - e in quale misura! -, per nostro Signore, che fin dagli albori della sua infanzia fu definito dalla profezia di Simeone «segno di contraddizione» (
Lc 2,34); e quanto ciò si spiega per noi, che uomini quali siamo, eredi, sì, d'una lunga e gloriosa storia, ma in molti punti censurabile, e per di più imperfetti e peccatori noi stessi, non possiamo certo crederci invulnerabili alle contestazioni e alle polemiche della cronaca e della storia.

Due sentimenti spirituali perciò daranno senso e valore alla nostra celebrazione giubilare: un sentimento di sincera umiltà, che vuol dire verità su noi stessi, dichiarandoci per primi bisognosi della misericordia di Dio e di quell'indulgenza, che la Chiesa, facendoci credito sui meriti di Cristo Salvatore e Mediatore, e colmando i nostri debiti col tesoro della comunione dei Santi, concede in questo provvidenziale Giubileo. Umiltà, che tanto più deve riempire la nostra umana coscienza, e quella che le si ,associa della Curia Romana, quanto più grandi, gelose e divine sono le potestà, che il Datore delle chiavi pone nelle nostre mani, umili e tremanti, di pastori, di ministri, di servi del suo Regno. Umiltà, che, mentre ci fa obbligo d'implorare perdono per noi stessi, ci fa solleciti a concederlo a quanti degnamente ne accolgano il dono felice; e umiltà, che, mentre ispira il dialogo con i nostri Fratelli tuttora da noi separati, sorregge la nostra speranza d'una piena comunione nell'unico ovile di Cristo.

E l'altro sentimento? oh! Fratelli, il sentimento adeguato ad una circostanza come questa non può essere che la sommità della nostra vita spirituale, non può essere che l'esultanza interiore per una celebrazione straordinaria, come questa lo è, dell'amore-carità di Dio verso di noi! Nessuno dica che questa è pietà consueta, è verità antica, sempre ripetuta e quindi punto originale, fino ad acquistare semplice sapore devozionale che ne diluisce la capacità di suscitare meraviglia ed entusiasmi, come oggi noi vorremmo sperimentare vigorosamente. No: l'amore-carità, la dilezione di Dio verso di noi è il punto focale della rivelazione, cioè del sistema ontologico e teologico della nostra religione; esso è il cuore della nostra fede: credidimus caritati, noi abbiamo conosciuto e creduto all'amore-carità che Dio ha per noi (1Jn 4,16); e questa è sempre una scoperta originale per il nostro pensiero in cerca del vertice della verità: Dio ci ha amato! è qui la sorgente inesauribile della nostra emotività spirituale, ed è qui l'esigenza più impegnativa della nostra risposta alla vocazione cristiana; è di qui che nasce l'impulso più forte e più diretto al compimento del sommo mandato evangelico dell'amore: amore al Dio che ci ha amati fino a darci come vittima e salvatore, come maestro e come fratello il Figlio suo (Jn 3,16), e amore nostro, scintilla al confronto del sole e dal sole accesa e riverberata, amore nostro, diciamo a Dio e di riflesso al prossimo, dichiarato degno d'esserne amato come Cristo lo amò (Ibid. 13, 34; 15, 12).

La nostra religione, il nostro rapporto con Dio è questo, l'amore; un amore in cui Dio ha preso per primo l'iniziativa; prior dilexit nos (1Jn 4,19 Rm 5,10). Noi dobbiamo ritrovare noi stessi nell'espressione di questi sentimenti fondamentali, oggi, mentre quanti hanno avuto la fortuna di partecipare al ritiro quaresimale di questi giorni ne concludono qui, con i componenti della Curia Romana, l'intensità spirituale compiendo tutti insieme la cerimonia prescritta per la celebrazione del Giubileo. Sì, noi diciamo a Gesù Cristo, nostro Signore, noi abbiamo voluto accedere a questa tomba apostolica varcando le soglie aperte della Porta Santa, simbolo di una misericordia di cui intimamente sentiamo bisogno. Successori ed eredi del Pescatore di Galilea, vorremmo ripetere le sue spontanee e impetuose parole davanti al prodigio della pesca miracolosa, segno profetico della fecondità della missione apostolica ed ecclesiale: «Allontanati da me, Signore, perché sono uomo peccatore!» (Lc 5,8)

Noi sentiamo fino alla confusione la sproporzione fra la nostra vocazione e la missione nostra, entrambe immeritate, sublimi, tremende, ineffabili, divine, e l'esiguità della nostra persona, sia singola, che collettiva. Anzi, dobbiamo forse dire, con il Centurione del Vangelo, l'indegnità: Signore, io non sono degno! ... (Mt 8,8), sentendo l'imputazione oggi tanto diffusa e talvolta perfino aggressiva, dei motivi dell'avversione antipapale ed antiromana. Signore, noi qui non vogliamo né giustificarci né difenderci; solo ne faremo argomento di riflessione; e conforteremo i fratelli fedeli e noi stessi con le parole ancora dell'Apostolo Pietro: «Signore, a chi andremo noi? Tu solo hai parole di vita eterna!» (Jn 6,69); e invocheremo sopra di noi la ricchezza della tua inesauribile misericordia con l'affermazione che Tu stesso, o Cristo, ci infondi nel fragile cuore, ma ora reso pietra indefettibile: «Signore, Tu sai ogni cosa; Tu sai che io Ti amo!» (Jn 21,17). E una sola ambizione noi avremo, quella di meritare alle nostre persone, al nostro ufficio apostolico, a questa Chiesa Romana, il titolo, l'elogio stupendo del celebre martire Ignazio Teoforo d'Antiochia, d'essere cioè digna Deo digna decentia, digna beatiudine, digna laude, digne ordinata, digne casta et praesidens in caritate, prokatheméne tès, ágápes, presidente della carità (Pref. Litt .ad Rom.).

Questo, o Signore.



2 marzo 1975: CONVEGNO DI «GEN» GENERAZIONE NUOVA

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GIOVANI GEN!

Noi vi salutiamo!
Noi vi accogliamo col cuore aperto!
con grande gioia!
siate i benvenuti, in nome di Cristo!
come figli!
come fratelli!
come amici!

Noi siamo ora sulla tomba dell'Apostolo Pietro: l'Apostolo scelto dal Signore Gesù come base per costruirvi sopra la sua Chiesa, l'assemblea unica e universale dell'umanità nuova.

Per Gen questa è una tappa di arrivo; è una tappa di partenza! ascoltate la nostra voce amica per brevi momenti!

Ecco: Giovani Gen, membri e rappresentanti d'una generazione nuova, orientati verso una forma nuova per interpretare la vita:

- che cosa significa cotesto atteggiamento, cotesto movimento? Oh! voi già lo sapete bene!

- Ma facciamo insieme uno sforzo nuovo per comprendere; e diciamo: voi siete in cammino per una ricerca. Cercare è proprio della gioventù. Appena l'occhio della coscienza si apre sulla scena del mondo circostante, una inquietudine si sveglia nell'animo della gioventù: essa vuole conoscere, essa vuole soprattutto provare; essa vuole tentare.

Cercare, che cosa? Cercare, cercare!

Questa è una questione decisiva: cercare, che cosa?

Questa è una scelta fatale, che può decidere del vostro destino.

Cercare, che cosa? Voi, giovani di questo tempo, avete già una risposta negativa, e quasi ribelle nel vostro cuore: non vogliamo, voi dite, il mondo come esso ci si presenta davanti! fenomeno strano: un mondo, che vi offre i frutti più belli, più perfezionati, più godibili della civiltà contemporanea, non vi soddisfa, non vi piace, anche se con indifferente disinvoltura, voi profittate delle conquiste, delle comodità, delle meraviglie, che il progresso moderno mette a vostra disposizione. Un senso però di critica, di contestazione e perfino di nausea arresta la vostra ricerca in questa direzione. È una direzione che vi porta fuori da voi stessi, un'alienazione, perché in fondo, è una direzione materialista, edonista, egoista. Non soddisfa veramente l'anima, non risolve veramente i problemi essenziali e personali della vita. Sopra questa concezione della nostra esistenza, concezione oggi spesso dominante, filosofia dell'opinione pubblica, grava una domanda terribile, come una spada di Damocle: «Che cosa giova mai all'uomo guadagnare tutto il mondo, se poi perde l'anima sua» (
Mt 16,26). È la domanda di Cristo, che non vanifica i beni di questa terra tanto bella, ricca e feconda, ma ne classifica il valore, un valore inferiore a quello della vera vita, verso il quale si rivolge la vostra scelta. Quale e dove?

Voi avete fatto un'altra scelta. Per questo vi chiamate Gen, Generazione nuova. Una scelta, innanzi tutto, liberatrice. Liberatrice dal conformismo passivo, che guida tanta parte della gioventù del nostro tempo; conformismo alla dominazione del pensiero altrui, alle correnti di moda della cultura e del costume, al mimetismo di massa. Quanti giovani credono d'essere liberi perché si sono affrancati dalle abitudini e dall'autorità della vita familiare, senza accorgersi di cadere nella catena della soggezione dell'arbitrio d'un gruppo, d'una corrente sociale, d'una ribellione collettiva! Al fondo della vostra psicologia sta un atto personale e sovrano di libera determinazione. Questo è la prima ragione della vostra novità, della vostra forza, della vostra gioia. Quale determinazione? La scelta di Cristo. Come mai avete potuto scegliere Cristo, come ispiratore della vostra esistenza? Oh! questo è il vostro segreto, questa è la vostra storia individuale, questo è certamente il risultato d'un incontro, nel quale la vostra volontà, il vostro istinto vitale si è incontrato con Uno, non solo più forte di voi, ma con Uno che si è subito svelato con un fascino segreto di bellezza, di bontà, di vicinanza, di colloquio, al quale era supremamente ragionevole arrendersi, come ad incantesimo di irresistibile verità e d'incomparabile felicità.

Come fu? come fu? oh! ciascuno custodisca il suo segreto, e ciascuno lo ripensi dentro di sé, come una vocazione originale. Noi ora accenniamo appena ad alcune forme tipiche di questa rivelazione interiore di Cristo, che ci ha vinto facendo noi stessi vincitori. Vi fu, noi pensiamo, chi ripensò al Gesù della propria infanzia, abbandonato come ogni altra cosa apprezzata nella prima età; lo si credeva dimenticato, superato, lontano; e come mai, in un dato momento, la sua presenza, come quella d'un compagno di viaggio, fu avvertita vicina e parlante? «Chi segue me, non cammina nelle tenebre» (Jn 8,12), Egli diceva, proprio quando le tenebre crescevano sul cammino della vita. Vi fu chi mantenne nella sua memoria, o meglio nella sua cultura, il ricordo sbiadito di Cristo, come uno dei tanti uomini celebri dell'antichità e della storia; pensava a Lui come ad una statua, immobile e pietrificata del tempo passato; poi, - come fu? - guardando con qualche attenzione quella statua-fantasma, vide, con grande stupore e timore, che era viva, e si muoveva, e veniva verso di lui, e mormorava una semplice parola affascinante: «Sono Io, non abbiate paura!» (Mc 6,50).

E qualche altro, attratto dal dolore e dal bisogno umano, si curvò sul fratello povero e sofferente, o sul popolo oppresso e umiliato, e, ascoltandone il gemito, capì ch'esso saliva dalle profondità umane in cui Cristo si era sprofondato, e che la voce languente di Lui lo interpellava: «Dammi da bere» (Jn 4,7 Jn 19,28). Anche in questa umana sensibilità fraterna, - non è vero? -, una sovrumana vocazione ad essere Generazione nuova spesso s'è pronunciata. E quanti altri di voi per via di esempio, per armonia arcana fra parola e vita, per gioia nuova, quella della carità, la gioia gaudente nella verità (1Co 13,6), ha compreso l'invito, ha compiuto la scelta, ha sentito, nella testimonianza dello Spirito, la certezza interiore della propria vita nuova, soprannaturale (Rm 8,16). È così ch'è avvenuto l'incontro: Gesù Cristo ha incrociato i vostri passi; e per ciò oggi voi siete qui. Sì, l'incontro con Lui, Cristo Gesù. Ma chi è Cristo Gesù? Quale sconfinata domanda! Noi potremmo pensare che voi vi avete già dato risposta. Sì, certamente; se voi siete discepoli, anzi figli della Chiesa, voi sapete chi è il Signore, Gesù Cristo. Ma che cosa sapete di Lui? come sapete? Ma ascoltate ora questa nostra parola, che fa propria quella di San Paolo: «A me, che sono l'infimo fra tutti i santi è stata data questa grazia di recare ai popoli la buona novella della imperscrutabile ricchezza di Cristo . . . » (Ep 3,8).

Ebbene: primo, in Sé, Cristo è il verbo di Dio fatto uomo; Cristo, per noi, è il Salvatore dell'umanità. Due oceani: la divinità di Gesù Cristo, e la missione di Gesù Cristo nel mondo. Provate a risolvere in qualche adeguata espressione questo primo essenziale aspetto della sua Persona divina, vivente nell'infinita e trascendente natura del Verbo eterno di Dio, e vivente nell'uomo Gesù, nato da Maria Vergine per opera dello Spirito Santo; e poi questo secondo aspetto, la sua inserzione nel nostro cosmo, nella nostra storia, nel nostro destino, nella nostra vita, nella nostra intima conversazione (Cfr. Ba 3,38), . . . e sentirete scoppiare la capacità comprensiva della vostra mente in una estasi di sapienza, di verità e di mistero, che proverà ad allargarsi, senza pienamente saziarsi in tutte le dimensioni possibili, per effondersi poi nell'amore che sorpassa ogni scienza (Cfr. Ep 3,18-19). A noi pare che voi, Focolarini, avete affrontato questo duplice problema: Chi è Lui, Cristo? e Chi è Lui, Cristo, per noi? Ed ecco che il fuoco della luce, dell'entusiasmo, dell'azione, dell'amore, del dono di sé e della gioia si è acceso dentro di voi, e in una interiore pienezza nuova voi avete tutto compreso, Dio, voi stessi, la vostra vita, gli uomini, il nostro tempo, la direzione centrale da imprimere a tutta la vostra esistenza. Sì, questa è la soluzione, questa è la chiave, questa è la formula, antica ed eterna, e quando è scoperta, nuova. Voi l'avete intuita, e avete, a buon diritto, dato al vostro movimento la definizione di «Generazione nuova», Gen!

Dunque, carissima Gioventù Gen! Incontrare, conoscere, amare, seguire Cristo Gesù! Questo il vostro programma. Questa la sintesi della vostra spiritualità, che voi, celebrando il Giubileo dell'Anno Santo, volete riaffermare nelle vostre coscienze e tradurre nella vostra vita. Con due conclusioni. La prima: per condensare in un pensiero centrale e fecondo il segreto del vostro Movimento cercate d'avere sempre Gesù come Maestro. «Unico» ha detto Gesù stesso di Sé ai suoi discepoli, «unico è il vostro Maestro», Cristo (Mt 23,8). Abbiate il carisma di capire questa verità ! È la luce del pensiero e la lampada della vita. Gesù Maestro! E poi la seconda conclusione, che ascoltiamo parimente dalle labbra del Maestro Gesù: «Voi tutti siete fratelli» (Ibid.). Abbiate la saggezza e il coraggio di arrivare a questa conclusione, ch'è la radice della socialità cristiana. È spesso sconcertante osservare come molti, che si dicono seguaci del Vangelo, siano incapaci di dedurre dal Vangelo stesso una socialità fondata sull'amore. Temono forse, armati solo del Vangelo, d'essere deboli, astratti, inetti nella grande missione di rendere fratelli gli uomini; e pensano di trovare principii e forze supplementari andando a cercarne l'efficacia a scuole materialiste ed atee, che traggono dalla lotta di uomini contro uomini la loro logica e la loro energia. Sono codesti dei surrogati contraddittori per educare il mondo moderno ad una socialità giusta e fraterna.

Voi, Generazione nuova, siate fedeli e coerenti. Se avete scelto Cristo per vostro Maestro, fidatevi di lui e della Chiesa, che a voi lo conduce e lo presenta. Dimostrate con i fatti la forza realizzatrice della carità, dell'amore sociale, instaurato dal Maestro. Sarà un'esperienza, sì, nuova e generatrice d'un mondo più giusto e più buono. Sarà un'esperienza forte; domanderà resistenza, sacrificio, eroismo forse; domanderà che anche voi siate i robusti e volonterosi Cirenei, che offrono le proprie spalle per sostenere la Croce di Gesù. Sì, dovrete anche soffrire con Lui, come Lui, per Lui! Ma non temete, Gen! siate sicuri! avrete operato la vostra salvezza e quella del nostro mondo moderno. E sempre, come oggi, sarete buoni e felici!




7 marzo 1975: SANTA MESSA GIUBILARE DEI DIPENDENTI DEL VATICANO

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Fedeltà alla propria vocazione cristiana e coerente testimonianza dell'appartenenza alla Chiesa: questi i punti che il Santo Padre ha indicato come frutti spirituali fondamentali del Giubileo, parlando nel pomeriggio di ieri, dopo il Vangelo, ai dipendenti del Vaticano, convenuti insieme con i familiari nella Basilica di San Pietro per celebrare solennemente, in forma comunitaria, l'Anno Santo. Paolo VI manifesta anzitutto la sua gioia per lo speciale incontro, che ha dato la dimostrazione anche fisica dell'unione delle menti e dei cuori di quanti operano quotidianamente a contatto così stretto con la Sede Apostolica.

«Se la celebrazione del Giubileo non ci avesse procurato che la singolarità di questo incontro, noi dovremmo dircene felici e benedirne la memoria. Ecco: siamo insieme, come non mai. Noi lavoriamo insieme; noi apparteniamo a questo organismo, che nel linguaggio comune chiamiamo Vaticano; e quasi non ci conosciamo; ognuno compie l'opera che gli è affidata, senza che vi sia fra noi altro rapporto che quello professionale; abbiamo la vaga idea d'essere parte d'un tutto, ma questo, per lo più ci resta estraneo, ci resta ignoto; siamo come singoli artisti di un'orchestra; ciascuno esegue la propria parte, ma il senso del concerto sembra spesso che non ci riguardi; siamo singoli esecutori d'una nostra piccola nota, ma il risultato dell'armonia totale, a cui diamo il nostro concorso, spesso ci sfugge, spesso non ci interessa. In questo momento no; noi ci vediamo insieme, e, quasi sconosciuti gli uni agli altri, noi ci sentiamo insieme; una profonda unità ci unisce, un solo spirito ci dà il senso dell'animazione originale propria del nostro complesso sociale: noi preghiamo insieme! noi non siamo un semplice corpo di gente legata da rapporti esteriori; noi siamo, in questo momento, "un cuore solo e un'anima sola"(Cfr.
Ac 4,32)».

Sulla tomba di San Pietro e vicini al Papa - prosegue Paolo VI - sentiamo di essere fratelli, di avere uno spirito comune, sentimenti uguali e tutti concorrenti verso uno scopo, quello di celebrare bene il Santo Giubileo che la Chiesa ha annunciato per quest'anno al mondo. Il Santo Padre si sofferma poi ad illustrare il significato dell'Anno Santo, di una celebrazione così impegnativa. Ci chiama tutti e tutti ci vuole presenti non solo con un atto di ossequio esteriore, ma con un atto di adesione interiore. Ci vuole col cuore, ci vuole con lo spirito, ci vuole con l'anima. Perché il Giubileo? La risposta non avrebbe fine, perché tocca tanti lati di questa manifestazione che ci farebbero rincorrere le memorie del passato, ci farebbero studiare il momento presente della nostra vita religiosa, ci farebbero segnare il confronto fra noi e quelli che da noi sono distinti: non soltanto separati perché non appartengono a questa comunità, ma separati col cuore, con l'anima. Non siamo in una società che ci favorisce, che ci aiuta, che facilita l'adesione alla nostra professione religiosa. Siamo piuttosto invitati ad essere ciascuno un'anima, ciascuno un cuore, ciascuno un professionista della propria convinzione spirituale e religiosa, ciascuno un aderente convinto, volontario, disposto anche a combattere spiritualmente per la difesa di questa sua appartenenza.

Questo elemento non favorevole della società presente, che ci isola quasi, che ci distingue e ci rimprovera di essere collegati con una tradizione che l'opinione pubblica a volte dice superstite e in via di spegnersi, ci induce invece a una maggiore energia, a una maggiore convinzione, a un maggiore proposito. Il Giubileo deve essere per noi una revisione generale, religiosa della nostra adesione alla fede di Cristo e alla sua Chiesa. Se noi confrontiamo la nostra adesione con quella che dovrebbe essere, troviamo delle differenze. Abbiamo assorbito anche noi l'atmosfera del nostro tempo, e anche nel suo aspetto positivo, della ricchezza immensa delle sue manifestazioni: non c'è lato della vita, non c'è aspetto dell'attività dell'uomo che non abbia avuto nel mondo moderno un'espansione enorme, interessantissima. Il fascino di questa ricchezza della nostra civilizzazione ci incanta, ci attrae, ci suggerisce di fermarci senza cercare ancora, di limitarci alla vocazione che chiamiamo temporale, esteriore.

Siamo tentati di ritenere, osserva Paolo VI, che non ci sia bisogno di andare oltre questa realtà. Così, quello che è il lato più bello della vita moderna, costituisce nello stesso tempo il pericolo, la tentazione. Sembra che non ci sia il bisogno di cercare altre cose, specialmente quelle che superano la scena che abbiamo davanti, che non ci sia il bisogno di religione, cioè di cercare al di là nella trascendenza, che è poi misteriosa e inafferrabile. Nessuno, dice la stessa Scrittura, ha mai visto Iddio. Siamo tutti attratti dalla tentazione di una fermata nella peregrinazione del nostro cammino. Vorremmo che la vita presente fosse ferma e perenne; nessuno vorrebbe morire. La chiamata cristiana, la nostra vocazione religiosa resta quasi vanificata, da alcuni trascurata, da altri addirittura impugnata con una sottigliezza di ragionamenti che sembrano speciosamente validi e che ci tradiscono.

Fermiamoci: è questa la parola incantatrice, la parola che può essere traditrice - esclama il Papa -. Ma noi non cediamo a questa seduzione, a questa attrattiva immobilizzante e mortificante. Guarderemo di gustare la scena del mondo e di ammirarne le espansioni, le nuove espressioni, di usare bene delle sue conquiste e delle sue invenzioni, ma avremo un'anima così grande, così esigente, così prepotente che dirà: non basta. Sopra la manifestazione temporale c'è un'esigenza che vuole andare al di là. Siamo fatti non soltanto per tutto quello che è misurato, che è materiale, che si svolge sotto i nostri occhi, ma per qualcosa che trascende. Citando la frase di Sant'Agostino Fecisti nos Domine ad te inquietum est cor nostrum donec requiescat in te, il Papa aggiunge: non avremo mai pace nel nostro spirito finché non avremo fatto almeno lo sforzo, il tentativo ansioso, come un volo che va verso il cielo, di conquistare l'infinito. Dio è il mistero che riposa sopra i nostri destini. Il Signore ci ha così compaginati, ci ha dato l'intelligenza, il cuore, ci ha dato bisogni, dolori e speranze per stimolarci a camminare verso di lui. Tutto può essere scala che sale se noi non ci fermiamo; altrimenti siamo dei mancanti, dei disertori della nostra vera finalità.

Il Giubileo ci ricorda che dobbiamo orientare decisamente la nostra vita verso quello che abbiamo accettato e che non ci dobbiamo limitare a soddisfare con un'osservanza consuetudinaria. Se il navigante getta via la bussola, sembra che possa continuare a navigare ugualmente, anzi può sembrare che la nave vada anche più veloce, abbandonandosi ai venti che tirano. Sembra di essere liberi mentre si è obbligati proprio dalle tempeste che infuriano attorno. Così, nella nostra vita, è indispensabile la parola che orienta, il principio superiore che governa il nostro operare e dà un senso, una ragione, uno scopo, un valore, una trascendenza al nostro esistere. Dobbiamo avere una bussola che ci orienta verso quel porto che si chiama Dio. Nel Giubileo dobbiamo vedere una chiamata a un controllo, ad un'inchiesta su noi stessi, sulla nostra fedeltà, sulla nostra coerenza, sulla rispondenza della nostra vita alla nostra fede. Ciascuno di noi è manchevole. Ciascuno di noi deve confrontarsi con quello che proclama il Vangelo: Amerai Dio con tutte le tue forze, con tutto il tuo cuore, con tutto il tuo slancio, sarai in una tensione che deve superare le attrazioni anche buone, anche belle, anche legittime della vita presente. Siamo consapevoli delle nostre manchevolezze. Chi ha la coscienza più sensibile, e sono i santi, piange di più, si accusa di più, sente quasi un bisogno incontenibile di rimediare, di far penitenza, di riparare.

Sua Santità pone l'accento sull'importanza della contrizione, della revisione di vita, di una rettifica del proprio modo di pensare, di vivere. Dite io sono cristiano, provate a lasciar echeggiare nella vostra anima - Egli esorta - questa parola e sentirete grandeggiare il vostro spirito. Cristiano vuol dire che sono stato elevato al livello di figlio di Dio, sono diventato l'erede di un patrimonio infinito. Dio mi ha amato, per il fatto che mi ha dato la vita, il Battesimo, che mi ha messo nella Chiesa, mi ha circondato da tante circostanze che mi obbligavano a rispondere al suo amore. Siamo disposti a rispondere così? Questo è il Giubileo. Dobbiamo rettificare i nostri pensieri, la concezione della nostra vita. E ciò non per disprezzare o per svalutare quella che viviamo nel tempo e nelle nostre professioni profane. Anzi vogliamo infondere in esse un senso che le nobilita e le rende oneste. Vogliamo che siano illuminate e dirette dalla luce superiore che si chiama la fede. «Iustus ex fide vivit»: l'uomo perfetto, l'uomo buono vive di fede. Non soltanto «cum fide», ma «ex fide»: trae dalla fede vita, e non perché pratica qualcosa cui la sua appartenenza alla Chiesa lo obbliga, ma perché sente fluire dalla fede non soltanto un giogo che pesa, comandamenti difficili, i «no» dei dieci comandamenti, ma quello che è sostanziale nella vita religiosa, il torrente della bontà di Dio, l'amore che viene e l'energia di corrispondere ad esso, sente un'anticipata felicità di essere cristiano.

Siate fedeli, e non soltanto a parole, ma perché amate il Signore, perché volete vivere questa fede che anticipa nel tempo le promesse e i godimenti della vita eterna. Siate fedeli soprattutto nel vostro cuore, nella vostra convinzione. Rifate il focolare interiore dei vostri sentimenti religiosi. Abbiate il senso di Dio che accompagna le vostre azioni. Sentite che le esigenze della fede sono doni, sono inviti a un'espansione, a una pienezza di bontà che ci rende per quanto possibile in questa vita felici interiormente. Ed esteriormente date testimonianza. Non vergognatevi mai di essere figli della Chiesa al suo servizio, di dirvi cristiani. In famiglia portate amore, portate pazienza, portate gioia, fate vivere nella gioia, dite ai vostri figli che è bello essere cristiani, essere in pace con Dio, fare del bene agli altri. Abbiate preferenza per le opere buone. Che non passi giorno senza che abbiate fatto un'opera buona. Date l'esempio. L'esempio sia la vostra testimonianza che siete cristiani. Documentate con onestà, con rettitudine la vostra vita, con la semplicità dei vostri costumi, con la gentilezza dei vostri rapporti che cosa vuol dire avere un'educazione realmente cristiana. E traete questa ispirazione che diventa poesia, gioia, bellezza, pace, nella vita vissuta in questa terra così piena di travagli e di dolori. Siate cristiani anche nella vita esteriore e date testimonianza con la vostra esistenza che siete a Cristo, alla Chiesa fedeli.





19 marzo 1975: SOLENNITÀ DI SAN GIUSEPPE

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Onoriamo San Giuseppe, «lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo» (
Mt 1,16). Noi oggi lo onoreremo come colui che Iddio scelse per dare al Verbo di Dio, che si fa uomo, il nido, la genealogia storica, la casa, l'ambiente sociale, la professione, il custode, la parentela, in una parola, la famiglia, questa cellula primaria della società, comunità d'amore, liberamente costituita, indivisibile, esclusiva, perpetua, mediante la quale l'uomo e la donna si rivelano reciprocamente complementari, e destinati a trasmettere il dono naturale e divino della vita ad altri esseri umani, i loro figli. Gesù, Figlio di Dio, ha avuto una sua famiglia umana, per cui apparve e fu insieme Figlio dell'uomo; e con questa sua scelta ratificò, canonizzò, santificò questo nostro comune istituto generatore dell'esistenza umana, sopra il quale la nostra preghiera e la nostra meditazione antepone oggi la pia, la silenziosa, la esemplare figura di San Giuseppe.

Veramente noi dobbiamo fare subito un'osservazione fondamentale sopra questo Santo personaggio, destinato a fungere da padre legale, non naturale, di Gesù, la cui generazione umana avvenne in modo singolarissimo, prodigioso, per opera dello Spirito Santo, nel seno di Maria, la Vergine Madre di Dio, Gesù suo vero figlio, e solo ufficialmente, com'era creduto (Lc 3,33 Mc 6,3 Mt 13,55), «figlio del fabbro», Giuseppe. Qui si aprirebbe alla nostra considerazione la storia personale di lui, il suo dramma sentimentale, il suo «romanzo», che rasentò il crollo del suo amore, che con intuito privilegiato aveva scelto Maria, la «piena di grazia», cioè la più bella, la più amabile fra tutte le donne, come sua futura sposa, quando seppe ch'ella non era più sua; ella stava per diventare madre; ed egli ch'era uomo buono, «giusto» lo dice il Vangelo, capace cioè di sacrificare il suo amore all'ignoto destino della fidanzata, pensava di lasciarla senza fare clamore, sacrificando ciò che aveva di più caro nella vita, il suo amore per l'incomparabile Fanciulla.

Ma Giuseppe, anche lui, sebbene umile artigiano, era un privilegiato; aveva il carisma dei sogni rivelatori; ed uno, il primo registrato nel Vangelo, fu questo: «Giuseppe figlio di David, non abbi timore ad accogliere Maria come tua consorte, poiché quello che è nato in lei è opera dello Spirito Santo. Darà alla luce un figlio, e tu gli metterai nome Gesù; poiché Egli salverà il suo popolo dai loro peccati» (Mt 1,20-21); cioè sarà il Salvatore, sarà il Messia, «l'Emmanuele, che vuol dire il Dio con noi» (Ibid. 23). Giuseppe obbedì: felice, ed insieme generoso nel sacrificio umano che gli era chiesto. Egli sarà padre del nascituro non carne, sed caritate, scrive Sant'Agostino (S. AUGUSTINI Serm. 52, 20; PL 38, 351); marito, custode, testimonio, della immacolata verginità e insieme della divina maternità di Maria (Cfr. IDEM Serm. 225; PL 38, 1096). Situazione unica, miracolosa, che mette in evidenza la santità personale non solo della Madonna, ma insieme quella del modesto, ma sublime suo sposo, Giuseppe, il Santo che la Chiesa presenta, pur durante il tirocinio quaresimale, alla nostra festosa venerazione. Ed eccoci allora davanti alla «sacra Famiglia»!

Sì, care, carissime Famiglie cristiane, da noi oggi convocate a questa celebrazione, lieti di vedere che molti Pellegrini e Fedeli vi fanno corona. Sì, noi dobbiamo esprimere con fervore nuovo, con coscienza nuova il nostro culto a questo quadro, che il Vangelo ci pone davanti: Giuseppe, con Maria, e Gesù, bimbo, fanciullo, giovane con loro. Il quadro è tipico. Ogni Famiglia vi può essere rispecchiata. L'amore domestico, il più completo, il più bello secondo natura, irradia dall'umile scena evangelica, e subito si effonde in una luce nuova ed abbagliante: l'amore acquista splendore soprannaturale. La scena si trasforma: Cristo vi ha il sopravvento; le figure umane che gli sono vicine assumono la rappresentanza dell'umanità nuova, la Chiesa; Cristo è lo Sposo; Sposa è la Chiesa; il quadro del tempo si apre sul mistero dell'oltre-tempo; la storia del mondo si fa apocalittica, escatologica; beato chi ne sa fin d'ora intravedere la luce vivificante; la vita presente si trasfigura in quella futura ed eterna: la nostra casa, la nostra famiglia si farà paradiso.

Figli carissimi, ascoltateci. Accogliere come programma la vita cristiana diventa oggi un esercizio forte. L'abitudine tradizionale delle nostre case, ordinate, semplici ed austere, buone e felici, non regge più da se stessa. Il costume pubblico presidio delle virtù domestiche e sociali, è in via di mutamento, e, sotto certi aspetti, in via di dissoluzione. La legalità sembra, e non sempre è sufficiente alle esigenze della moralità. La famiglia è messa in discussione nelle sue leggi fondamentali: l'unità, l'esclusività, la perennità. Tocca a voi, Sposi cristiani; a voi, Famiglie benedette dal carisma sacramentale; a voi, fedeli d'una religione che ha nell'amore, nel vero amore evangelico la sua espressione più alta e più sacra, più generosa e più felice, a voi riscoprire la vostra vocazione e la vostra fortuna; a voi preservare il carattere incomparabilmente umano e spontaneamente religioso della famiglia cristiana; a voi rigenerare nei vostri figli e nella società il senso dello spirito che solleva al suo livello la carne. San Giuseppe vi insegni come. Noi oggi a tal fine insieme lo invocheremo.

Aux foyers ici présents, et à tous ceux qu'ils représentent, Nous adressons nos encouragements et nos voeux affectueux. Prenez courage, vivez dans l'espérance! Malgré toutes les difficultés que nous connaissons, l'amour fidèle, chaste et généreux que vous vous donnez entre époux, et le climat d'amour dont vous faites bénéficier vos enfants, ne sauraient demeurer stériles: ils viennent de l'amour de Dieu et vous y conduisent. L'Eglise et la société comptent sur le rayonnement de votre foyer. Priez le Seigneur, invoquez Marie et Joseph, pour que la force de Dieu et sa joie vous accompagnent toujours!

On this solemnity of Saint Joseph, patron of the universal Church, our thoughts go out to all Catholic families throughout the World. As you endeavour with God's grate to fulfil your destiny and live fully your lofty vocation as Christian husbands and wives and fathers and mothers, we send you the expression of our own paterna1 love and deep affection in the Lord. We pray that, in the realization ad acceptance of your dignity and of your sacramenta1 charism, you will find great strength, deep joy and unending love.

Unas palabras de saluto para todos vosotros, los componentes de los grupos familiares de lengua española, que participais en este atto liturgico. Que la espiritualidad del Año Santo os enseñe a cultivar con esmero las virtudes específicas que caracterizan a las familias cristianas. Defended el núcleo familiar contra toda insidia de disgregación y haced reinar en él la paz y el amor de Cristo.

Heute am Hochfest des heiligen Joseph ein Wort herzlicher Begrüssung an alle anwesenden Pilger aus den Ländern deutscher Sprache. Der heilige Joseph ist das erhabene Worbild für alle christlichen Familien durch seine tiefe, gesunde Frömmigkeit, durch seine Treue gegenüber dem ihm anvertrauten Gotteskind und zur allerseligsten Jungfrau Maria, durch sein unersch5tterliches Gottvertrauen in allen Prüfungen des Lebens. Liebe Sohne und Tochter! Habet allezeit ein grosses Vertrauen auf die mächtige Fürsprache des heiligen Joseph!






B. Paolo VI Omelie 22275