B. Paolo VI Omelie 31570

Domenica, 31 maggio 1970: CANONIZAZIONE DEL BEATO GIOVANNI D’AVILA

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Venerati Fratelli e Figli carissimi!

Ringraziamo Iddio che, mediante questa esaltazione del Beato Giovanni d’Avila allo splendore della santità, offre alla Chiesa universale l’invito allo studio, all’imitazione, al culto, all’invocazione d’una grande figura di Sacerdote.

Lode sia all’Episcopato Spagnolo, che, non pago della proclamazione, fatta dal Nostro Predecessore di venerata memoria Pio XII, del titolo, attribuito all’apostolo dell’Andalusia, cioè al medesimo Beato Giovanni d’Avila, di Protettore speciale del Clero diocesano di Spagna, ha sollecitato da questa Sede Apostolica la sua canonizzazione, trovando, sia nella nostra Sacra Congregazione per le cause dei Santi, che nella nostra stessa persona, le migliori e meritate disposizioni ad atto celebrativo di tanta importanza. E voglia Iddio che questa elevazione del Beato Giovanni d’Avila nell’albo dei Santi, nella schiera gloriosa dei figli della Chiesa celeste, valga ad ottenere alla Chiesa pellegrinante in terra un intercessore nuovo e potente, un maestro di vita spirituale, provvido e sapiente; un rinnovatore esemplare di vita ecclesiastica e di costume cristiano.


TEMPO POST-CONCILIARE

E questo Nostro voto sembra esaudito dal raffronto storico dei tempi, nei quali visse ed operò il Santo, con i tempi nostri; raffronto di due periodi certamente molto diversi fra loro, i quali, per altro, presentano analogie non tanto nei fatti, quanto piuttosto in alcuni principi ispiratori, sia delle vicende umane di allora, sia di quelle presenti: risveglio, ad esempio, di energie vitali e crisi di idee, fenomeno questo proprio del Cinquecento e proprio del nostro secolo ventesimo; e tempo di riforme e di discussioni conciliari quello, come lo è questo che stiamo vivendo. E parimente sembra provvidenziale che sia rievocata ai nostri giorni la figura del Maestro Avila per i tratti caratteristici della sua vita sacerdotale, i quali conferiscono a questo Santo un pregio singolare e sempre apprezzato dal gusto contemporaneo, quello dell’attualità.

San Giovanni d’Avila è un Sacerdote, che per molti riguardi possiamo dire moderno, specialmente per la pluralità degli aspetti, che la sua vita offre alla nostra considerazione e perciò alla nostra imitazione. Non indarno egli è già stato offerto al Clero Spagnolo, come suo modello esemplare e celeste tutore. Noi pensiamo ch’egli può essere onorato come tipo polivalente da ogni Prete dei giorni nostri, nei quali, si dice, che il Sacerdozio stesso soffre d’una crisi profonda; una «crisi d’identità», quasi che sia la natura, ‘sia la missione del Sacerdote non abbiano ora motivi sufficienti per giustificare la loro presenza in una società, come la nostra, sconsacrata e secolarizzata. Ogni Prete, che dubitasse della propria vocazione, può avvicinare il nostro Santo ed avere una risposta rassicurante. Come ogni studioso, incline a ridurre la figura del Sacerdote entro gli schemi d’una sociologia profana ed utilitaria, guardando quella di Giovanni d’Avila, avrebbe di che modificare i suoi giudizi riduttivi e negativi circa la funzione del Sacerdote nel mondo moderno.


UN SEMPLICE PRETE

Giovanni è un uomo povero e modesto, di propria elezione. Non è nemmeno sostenuto dall’inserzione nei quadri operativi dell’ordinamento canonico; non è parroco, non è religioso; è un semplice prete, di scarsa salute e di più scarsa fortuna dopo i primi esperimenti del suo ministero: subisce subito la prova più amara che possa essere inflitta ad un apostolo fedele e fervoroso; quella d’un processo, con relativa detenzione, per sospetto d’eresia, come allora si usava. Egli non ha nemmeno la fortuna di potersi sostenere abbracciando un grande ideale avventuroso; voleva partire missionario per le terre americane, le «Indie» occidentali allora recentemente scoperte; ma non gliene è dato il permesso.

Ma Giovanni non dubita. Ha la coscienza della sua vocazione. Ha la fede nella sua elezione sacerdotale. Una introspezione psicologica della sua biografia ci porterebbe a individuare in questa certezza della sua «identità» sacerdotale la sorgente del suo impavido zelo, della sua fecondità apostolica, della sua sapienza di lucido riformatore della vita ecclesiastica e di squisito direttore di coscienze. San Giovanni d’Avila insegna almeno questo, e soprattutto questo al Clero del nostro tempo, di non dubitare dell’essere suo: Sacerdote di Cristo, ministro della Chiesa, guida ai fratelli.

Egli avverte profondamente ciò che oggi alcuni Sacerdoti e molti Alunni nei Seminari non comprendono più come un dovere corroborante e un titolo specifico alla qualificazione ministeriale nella Chiesa, la propria definizione – chiamiamola pure sociologica - desunta da quella che, come servo di Gesù Cristo, e come apostolo, San Paolo dava di sé: «Segregato per annunciare il Vangelo di Dio» (
Rm 1,1). Questa segregazione, questa specificazione, ch’è poi quella d’un organo distinto e indispensabile per il bene d’un intero corpo vivente (Cfr. 2Co 12,16 ss.), è oggi la prima nota del sacerdozio cattolico ad essere discussa e contestata anche da motivi, spesso per sé nobili e sotto certi aspetti ammissibili; ma quando essi tendono a togliere questa «segregazione», ad assimilare lo stato ecclesiastico a quello laico e profano, e a giustificare nell’eletto l’esperienza della vita mondana col pretesto ch’egli non dev’essere da meno d’ogni altro uomo, facilmente spingono l’eletto fuori dal suo cammino e fanno facilmente del prete un uomo qualunque, un sale senza sapore, un inabile al sacrificio interiore, e un destituito dalla potenza di giudizio, di parola e di esempio, proprio d’un forte, d’un puro, d’un libero seguace di Cristo. La parola tagliente ed esigente del Signore: «Chiunque, dopo aver messo la mano all’aratro, volge indietro lo sguardo, non è idoneo al regno di Dio» (Lc 9,62), era penetrata profondamente in questo singolare Sacerdote, che nella totalità del suo dono a Cristo ritrovò centuplicate le sue energie.


PREDICAZIONE RINNOVATRICE

La sua parola di predicatore divenne potente e risuonò rinnovatrice. San Giovanni d’Avila può essere ancor oggi maestro di predicazione, tanto più degno d’essere ascoltato e imitato quanto meno indulgente agli artifici oratori e letterari del suo tempo, e quanto più abbeverato di sapienza attinta alle fonti bibliche e patristiche. La sua personalità si manifesta e grandeggia nel ministero della predicazione. E, cosa apparentemente contraria a tale sforzo di parola pubblica ed esteriore, Avila conobbe l’esercizio della parola personale e interiore, propria del ministero del sacramento della penitenza e della direzione spirituale. E forse ancor più in questo ministero paziente e silenzioso, estremamente delicato e prudente, la personalità di lui eccelle su quella dell’oratore. Il nome di Giovanni d’Avila è legato alla sua opera più significativa, la celebre opera Audi, filia, ch’è libro di magistero interiore, pieno di religiosità, di esperienza cristiana, di umana bontà. Precede la Filotea, opera, in certo senso analoga, d’un altro Santo, Francesco di Sales, e tutta una letteratura di libri religiosi, che daranno profondità e sincerità alla formazione spirituale cattolica dal Tridentino fino ai nostri giorni. Anche in questo Avila è esemplare maestro.

E quante altre sue virtù potremmo ricordare a nostra edificazione! Avila fu scrittore fecondo. Aspetto anche questo che lo avvicina a noi mirabilmente e ci offre la sua conversazione, quella d’un Santo.

E poi l’azione. Un’azione varia e instancabile: corrispondenza, animazione di gruppi spirituali, di sacerdoti specialmente, conversione di anime grandi, come Luigi di Granada, suo discepolo e suo biografo, e quali i futuri Santi Giovanni di Dio e Francesco Borgia, amicizia con gli spiriti magni del suo tempo, quali Sant’Ignazio e Santa Teresa, fondazione di Collegi per il Clero e per la gioventù. Una grande figura davvero.


PRECURSORE E MILITE FEDELE

Pero donde nuestra atención querría detenerse particularmente es en la figura de reformador o, mejor, de innovador, que es reconocida a San Juan de Avila. Habiendo vivido en el período de transición, lleno de problemas, de discusiones y de controversias que precede al Concilio de Trento, e incluso durante y después del largo y grande Concilio el Santo no podía eximirse de tomar una postura frente a este gran acontecimiento. No pudo participar personalmente en él a causa de su precaria salud; pero es suyo un Memorial, bien conocido, titulado: Reformación del Estado Eclesiástico ( 1551) (seguido de un apéndice: Lo que se debe avisar a los Obispos), que el Arzobispo de Granada, Pedro Guerrero, hará suyo en el Concilio de Trento, con aplauso general. Del mismo modo, otros escritos como: Causas 31 remedios de las herejias (Memorial Segundo, 1561), demuestran con qué intensidad y con cuáles designios Juan de Avila participó en el histórico acontecimiento: del mismo claro diagnóstico de la gravedad de los males que afligían la Iglesia en aquel tiempo se trasluce la lealtad, el amor y la esperanza. Y cuando se dirige al Papa y a los Pastores de la Iglesia iqué sinceridad evangélica y devoción filial, qué fidelidad a la tradición y confianza en la constitución intrínseca y original de la Iglesia y qué importancia primordial reservada a la verdadera fe para curar los males y prever la renovación de la Iglesia misma!

«Juan de Avila ha sido, en cuestión de reforma, como en otros campos espirituales, un precursor; y el Concilio de Trento ha adoptado decisiones que él había preconizado mucho tiempo antes» (S. CHAKPRENET, p. 56). Pero no ha sido un crítico contestador, como hoy se dice. Ha sido un espíritu clarividente y ardiente, que a la denuncia de los males, a la sugerencia de remedios canónicos, ha añadido una escuela de intensa espiritualidad (el estudio de la Sagrada Escritura, la práctica de la oración mental, la imitación de Cristo y su traducción española del libro del mismo nombre, el culto de la Eucaristía, la devoción a la Santísima Virgen, la defensa del sacro celibato, el amor a la Iglesia aún cuando algún ministro de la misma fue demasiado severo con él . ..) y ha sido el primero en practicar las enseñanzas de su escuela.

Una gran figura, repetimos, también ella hija y gloria de la tierra de España, de la España católica, entrenada a vivir su fe dramáticamente, haciendo surgir del seno de sus tradiciones morales y espirituales, de tanto en tanto, en los momentos cruciales de su historia, el héroe, el sabio, el Santo.

Pueda este Santo, que Nós sentimos la alegría de exaltar ante la Iglesia, serle favorable intercesor de las gracias que ella parece necesitar hoy más: la firmeza en la verdadera fe, el auténtico amor a la Iglesia, la Santidad de su Clero, la fidelidad al Concilio, la imitación de Cristo tal como debe ser en los nuevos tiempos. Y pueda su figura profética, coronada hoy con la aureola de la santidad, derramar sobre el mundo la verdad, la caridad, la paz de Cristo.




Domenica, 21 giugno 1970: CANONIZZAZIONE DEI MARTIRI NICOLA TAVELIC, DEODATO DA RODEZ, STEFANO DA CUNEO E PIETRO DA NARBONNE

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Ecco riconosciuta la gloria della santità a Nicola Tavelic di Sebenico, in Croazia, ed ai suoi compagni Deodato «de Ruticinio», della Provincia di Aquitania, Pietro da Narbona, della Provincia di Provenza, e Stefano da Cuneo, della Provincia di Genova, tutti della Famiglia Religiosa dei Frati Minori di San Francesco; già venerato il primo col titolo di beato ( lSSl), e non meno competente agli altri suoi soci per averne condiviso la vocazione e l’eroica sorte del martirio, il 14 novembre dell’anno 1391 (al tempo di Papa Bonifacio IX, Tomacelli, durante lo scisma d’Occidente).


L’INNO PERENNE DI S. CIPRIANO

Vengono alle nostre labbra le parole di San Cipriano ai Martiri: «Esulto di letizia e di compiacenza, o fortissimi e beatissimi fratelli, riconoscendo la vostra fede e il vostro coraggio; la madre Chiesa è fiera di voi . . . Come cantare le vostre lodi, o fratelli valorosi? La forza del vostro animo e la perseveranza della vostra fede con quale elogio posso io celebrare?» (Ep. VIII; PL 4, 251-252).

Noi siamo particolarmente felici d’aver potuto proclamare la santità di questi martiri della fede, avendo così convalidato di fronte alla Chiesa intera il culto, che fino dal tempo della loro tragica e beata morte era a loro attribuito, a Nicola Tavelic in modo speciale, per merito dei suoi concittadini di Sebenico e dei suoi connazionali, dai quali fu sempre fedelmente conservata memoria di lui, e fu sempre circondata di pietà e di onore. È così compiuto un voto a lungo con tenace speranza nutrito.

Sono passati cinque secoli dal martirio di Nicola Tavelic e dei suoi soci. Sorge spontanea la domanda: come mai la Chiesa ha tanto tardato a canonizzare la loro eroica virtù? Lo studio delle circostanze mediante le quali fu consumato il loro martirio, fu tramandato il loro ricordo, fu autorizzato in pratica e in diritto il culto del beato Nicola, e fu ripreso l’esame della sua causa, può dare la risposta a questa ovvia questione; ma è studio complesso e che presenta un aspetto caratteristico, di non facile interpretazione. Narra la storia che Nicola Tavelic ed i suoi compagni furono martiri volontari, i quali, più che subire l’orrendo supplizio a loro inflitto, ad esso si esposero.

Siamo a Gerusalemme, al tempo dell’occupazione musulmana, in un periodo di relativa tregua, se allora i Francescani potevano risiedere nella città. I quattro Frati, protagonisti della tragica avventura missionaria, sono mossi da una duplice intenzione: quella di predicare la Fede cristiana confutando coraggiosamente, non certo forse cautamente e saggiamente, la religione di Maometto; e quella di sfidare e provocare il rischio del sacrificio della loro vita. È vero martirio? Già il grande dottore di questa materia, Papa Benedetto XIV, nella sua opera magistrale De servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione, si era posto il problema per risolverlo, in conformità alla dottrina consueta, in senso negativo: se il martirio è provocato intenzionalmente, non è vero martirio. Papa Lambertini, celebre per i suoi frizzi salaci, ci avverte che non bisogna stuzzicare il can che dorme (Cfr. BENEDETTO XIV, De servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione, lib. III, c. 17, 4).

Sorge allora una quantità di problemi. La tradizione storica della Chiesa non vanta forse altre figure di martiri volontari? Sant’Ignazio d’Antiochia, questa luminosissima figura di martire all’inizio del secondo secolo, non supplica forse i cristiani di Roma di non impedire il suo previsto martirio? Nessuna voce è più alta e lirica della sua, per perorare la sua immolazione. Io sono frumento di Dio, egli scrive con patetica veemenza, oh! ch’io sia macinato dai denti delle fiere, affinché io diventi pane puro di Cristo. «Lasciate che io sia imitatore della passione del mio Dio . . . ogni mio desiderio è ormai crocifisso . . .» (C. IV-V, etc.). Non ci ricorda poi il nostro Martirologio i nomi di Martiri, che spontaneamente si lanciano alla morte per causa degna di qualificarli tali? S. Apollonia ad esempio (9 febbraio); S. Pelagia, elogiata da S. Ambrogio (De Virg. III; 9 giugno) ecc. Vi è poi tutta una letteratura che esorta al martirio, da Tertulliano in poi.


MARTIRI VOLONTARI

Ma per il caso nostro abbiamo un testo, che forse è determinante per la spiegazione della psicologia di Tavelic e dei suoi compagni; ed è desunto dalla regola stessa di San Francesco. Vale la pena di citarlo. «I frati che, per amore di Cristo, vanno in missione fra gli infedeli, possono comportarsi in due diverse maniere. Una di queste consiste nel non mai mettersi a discutere con gli infedeli e nell’essere umilmente sottomessi a tutte le creature per (amor di) Dio (Cfr.
1P 11,13), dimostrando in tal modo d’essere cristiani. L’altra maniera è questa: quando i frati conosceranno che è volontà di Dio annunziare agli infedeli la parola divina, lo facciano, invitandoli a credere alla Santissima Trinità, a farsi battezzare e a divenire cristiani. Ma bisogna che i frati si ricordino sempre di aver consacrato se stessi e d’aver abbandonato i loro corpi a nostro Signor Gesù Cristo, e perciò devono, per amor suo, esporsi ai nemici visibili ed invisibili, perché dice il Signore: “Chi perderà la sua vita per me la salverà per la vita eterna”» (Regula I, c. XVI; Gli scritti di S. Francesco d’Assisi, Vicinelli pp. 102-103, Mondadori 1955; J. JORGENSEN, San Francesco d’Assisi, nuova ed. 1968, p. 321; e c. XII della Regula II). La prima maniera fu scelta da San Francesco stesso nel suo viaggio in Palestina nel 1219; sebbene lui pure «per la sete del martirio, nella presenza del Soldan superba, predicò Cristo» (DANTE, Par., XI, 100); la seconda quella dell’ardimentoso discepolo, S. Nicola Tavelic e dei suoi compagni. «I Frati Francescani - osserva il Relatore Generale della Sezione storica della nostra Sacra Congregazione per le cause dei Santi - che si recavano in Palestina nei secoli XIII-XV, vi giungevano . . . con una preparazione psicologica orientata verso il martirio, cioè verso la perfetta imitazione di Cristo, Il beato Nicola ed i suoi tre consoci, quando presero la loro eroica decisione, erano animati dallo stesso entusiasmo religioso del loro Fondatore e dei primi Martiri dell’Ordine messi a morte nel Marocco nel 1220 e 1227».


SPIRITUALITÀ FRANCESCANA

Vi è in tutta l’originaria spiritualità francescana una caratteristica aspirazione, quella della imitazione testuale del Signore, fino alle estreme conseguenze, anche quelle che non sono «de necessitate salutis» (Cfr. Summ. Theol., II-II 124,3); ora del Signore non si dice forse che «si offerse, perché Egli lo volle»? (Is 53,7) Lui medesimo non afferma: «. . . Io do la mia vita . . . Nessuno me la toglie, ma Io la do da me stesso . . .»? (Jn 10,17-18) È vero che «nessuno deve spontaneamente darsi la morte» (S. AUG., De civ. Dei, 1, 26; PL 41, 39), che «uno non deve dare ad altri occasione di agire ingiustamente» (Summ. Theol., ibid. II-II 124,1 ad 3); ma, come nota lo stesso Benedetto XIV, riferendosi al nostro caso, vi possono essere situazioni in cui, o per impulso dello Spirito Santo, o per altre speciali circostanze, l’araldo del Vangelo non ha altro modo per scuotere l’infedeltà che quello di fare del proprio sangue la voce d’una estrema testimonianza. Testimonianza indubbiamente paradossale, testimonianza d’urto, testimonianza vana, perché non subito accolta, ma sommamente preziosa, perché convalidata dal totale dono di sé; testimonianza che mette in suprema evidenza che cosa sia martirio. Esso dovrebbe essere subito, passivo; nel linguaggio agiografico si chiama passio; ma non è mai privo d’un’accettazione volontaria, attiva; che nel nostro caso prevale e perciò maggiormente risplende.

Martirio, come si sa, vuol dire testimonianza, cioè affermazione soggettiva e oggettiva della fede. Soggettiva, perché con essa il martire attesta la convinzione sua propria, che s’identifica con la sua stessa personalità, della certezza ch’egli possiede, e che non può in alcun modo tradire; e oggettiva, perché con tale affermazione il martire vuole annunciare Cristo, vuole provare che Cristo è la verità, e che questa verità vale più della propria vita; è al vertice di ciò che è, e di ciò che preme, di ciò che salva. Diventa così motivo di credibilità (Cfr. Denz-Sch., DS 2779). Acquista fecondità missionaria: Semen est sanguis christianorum (TERTULLIANO, Apologeticum, c. 50; PL 1).

Martirio, al tempo stesso, è una dimostrazione assoluta di amore. Gesù l’ha detto: «Non vi è amore maggiore di quello per cui uno offre la propria vita per coloro ch’egli ama» (Cfr. Jn 15,13); e perciò commenta l’Angelico che il martirio demonstrat perfectionem caritatis, attesta la perfezione della carità (Summ. Theol., II-II 124,3).

E perciò esso possiede in sommo grado l’elemento volontario dell’azione umana, il coraggio, la fortezza, l’eroismo, il sacrificio. Rappresenta l’aspetto drammatico e tragico del Vangelo: «Beati coloro che soffrono persecuzione per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,10).


LA MEMORIA DIVENTA ATTUALITÀ

San Nicola Tavelic e Compagni. Oggi noi ricordiamo. La memoria diviene attualità, Noi stiamo a guardare. La storia diventa maestra. Pone un confronto fra queste lontane figure di frati idealisti, imprudenti, ma esaltati da un amore positivo e trascinante verso Cristo e persuasi della necessità missionaria propria della fede: martiri; e la nostra mentalità moderna, che nasconde sotto un mantello di evoluto scetticismo, una comoda e transigente viltà, e che, priva di principii superiori ed interiori, trova logico il conformismo alle idee correnti, alla psicologia risultante da un’alienazione collettiva alla ricerca e al servizio dei soli beni temporali. Sorge in noi un certo sentimento di disagio: noi ci sentiamo al tempo stesso distanti da quei campioni della fede, ma insieme avvertiamo, per tante ragioni, che essi ci sono vicini. Essi non sono figure anacronistiche e per noi irreali: essi anzi troppo ci dicono, e quasi ci rimproverano la nostra incertezza, la nostra facile volubilità, il nostro relativismo, che talora preferisce alla fede la moda. Lontani e vicini essi sono pur nostri, e ci ammoniscono e ci esortano, a noi pare, con parole simili a quelle che Noi, non molti giorni or sono, proferimmo: bisogna avere il coraggio della verità! il coraggio cristiano.

Ed un secondo sentimento succede al primo con una domanda imbarazzante: ma allora dobbiamo inasprire i dissensi con la società che ci circonda, e aggredirla con polemiche e con contestazioni, che rompono i nostri rapporti col nostro tempo e che accrescono le difficoltà della nostra presenza apostolica nel mondo? È questo l’esempio che dobbiamo raccogliere da questi valorosi oggi canonizzati Santi? No; noi non crediamo. A ben leggere nella loro storia e soprattutto nei loro animi, noi vediamo che non è uno spirito d’inimicizia che li spinse al martirio, ma piuttosto di amore, di ingenuo amore, se volete, e di folle speranza; un calcolo sbagliato, ma sbagliato per desiderio di giovare e di condurre a salvamento spirituale quelli stessi che essi provocarono a infliggere loro la terribile repressione del martirio. Questo è importante. È importante per il mondo della nostra così detta civiltà occidentale; il Concilio ce lo insegna. Ed è importante anche per quel mondo islamico nel quale si svolse e si consumò la tragedia di S. Nicola Tavelic e dei suoi Compagni: essi non odiavano il mondo musulmano; anzi, a loro modo, lo amavano. E certo lo amano ancora, e quasi personificano nella loro storia l’anelito cristiano verso il mondo islamico stesso, che la storia dei nostri giorni ci fa sempre meglio conoscere, fortificando la speranza di migliori rapporti fra la Chiesa cattolica e l’Islam: non ci ha esortato il Concilio «a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, non che a difendere e a promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà»? (Nostra aetate, 3)

Sono sentimenti questi che ci inducono a celebrare il Signore nei nuovi Santi, a ispirare la nostra vita al loro esempio, a invocare per la Chiesa, per la Croazia, per i Paesi d’origine loro, per tutta la famiglia francescana, e per il mondo intero la loro celeste protezione.


Sabato, 15 agosto 1970: SOLENNITÀ DALL'ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA

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Dopo la lettura del brano evangelico che ricorda la visita della Madonna a Santa Elisabetta e riproduce il canto sublime del «Magnificat» sgorgato dal cuore di Maria nel felice incontro, il Santo Padre rivolge la sua Omelia ai fedeli.

Ad inizio del suo Discorso Paolo VI ricorda con commosse espressioni alcune persone che quest’anno non sono presenti, come in passato, all’ormai tradizionale convegno di preghiere con la popolazione di Castel Gandolfo. Tra esse in primo luogo, il compianto Cardinale Pizzarda, che per tanti anni fu provvido Vescovo della diocesi suburbicaria di Albano e l’Avv. Emilio Bonomelli che contribuì come direttore delle Ville Pontificie al progresso della cittadina laziale e, infine, l’ex parroco Don Sirio che svolge ora altrove il suo ministero sacerdotale. Il Papa sottolinea, quindi, con particolare compiacimento la presenza del Signor Cardinale Segretario di Stato; e rivolge, oltre che al Porporato, un affettuoso pensiero anche al Vescovo Diocesano, ai sacerdoti e religiosi presenti, ai rappresentanti delle varie comunità religiose residenti nella zona e infine al nuovo Parroco Don Di Cola, augurandogli buon lavoro e vive consolazioni nell’ufficio pastorale recentemente affidatogli e ringraziandolo, altresì, per l’indirizzo di omaggio che gli aveva rivolto prima dell’inizio della Messa, e nel quale ha rinnovato al Vicario di Cristo i filiali auguri della comunità parrocchiale per il 50° di Sacerdozio.

Dopo un cordiale saluto al Sindaco e alle autorità civili e militari della zona, il Santo Padre si sofferma sul significato della festa dell’Assunzione di Maria Santissima, una festa - Egli dice - che dà uno splendore tutto particolare ed altamente spirituale all’intera stagione estiva e che rappresenta un incontro della umanità intorno alla Madre di Dio; una solennità che si allarga, a tutte le chiese del mondo in una preghiera corale e universale elevata dall’immensa famiglia della Chiesa.

L’incontro di questo giorno - prosegue il Papa – avviene dinanzi alla Madonna, in una rievocazione liturgica attraverso la quale sembrerebbe che Maria si allontani, perché Ella ormai va in Cielo con l’anima e con il corpo, rendendosi così umanamente assente dalla terra e presente soltanto nel Paradiso. Ma il miracolo consiste proprio nel fatto che l’adempimento glorioso della sua sorte, cioè la sua resurrezione e l’assunzione in Cielo, anticipa la sorte finale per tutti noi. Ecco, infatti, che Maria può raffigurarsi anche come una grande lampada che si accende sopra l’umanità, effondendo su tutti gli uomini una luce sfolgorante e indefettibile.

Questa festa - spiega ancora Sua Santità - è la celebrazione di una Verità che gli occhi non vedono ma che l’animo cristiano, nella fede, riesce a raggiungere. Tra Maria e noi, in virtù di questa assunzione, si apre un rapporto tra i più singolari che costituisce la sostanza vera della celebrazione; un rapporto, cioè, tra la Madonna Assunta in Cielo e le nostre cose: dolori, interessi, speranze, e che non è, né può essere un rapporto immaginario, artificiale, ma vero e reale.

Il Santo Padre rileva che sull’argomento di questo rapporto il discorso si farebbe assai lungo se volessimo tessere tutta la rete di relazioni che passano tra la Madonna e noi. La Chiesa stessa ci presenta quest’oggi Maria in tutta la sua gloria, nel raggiungimento, cioè, della sua sorte finale: la gloria di cui essa gode eternamente nel Cielo.

Questa è una «festa di fede», e Maria porta tra noi la fede. Tutto ciò che la Vergine è viene, in questa occasione, visto o studiato nel suo insieme e pone dinanzi allo spirito cristiano, tra l’altro, una domanda essenziale, alla quale ciascuno può rispondere, - sia pure a suo modo - ed è questa: che cosa rappresenta la Madonna nella nostra vita, in una vita cioè che spesso si manifesta cieca, o almeno miope di fronte alle cose dello spirito? Non è difficile, infatti, rilevare che l’uomo, ormai si rende sempre più attento alle cose terrene e preferisce i fatti, i fenomeni che si vedono, che si toccano e che si trasformano in ricchezze di ordine temporale. E ciò anche in nome della cultura dei nostri giorni, che rende ciascun essere disattento alle cose spirituali.

La Madonna che noi oggi in particolar modo esaltiamo, ci dice, però, che noi dobbiamo guardare alla nostra vita con fede. Viene da chiedersi a titolo di ipotesi, che cosa sarebbe la famiglia umana, che cosa sarebbe la Chiesa se non ci fosse la Madonna; o se la nostra dimenticanza diventasse tale da cancellare la sua presenza nelle nostre anime, nelle nostre orazioni, nella nostra pietà, nei segni della devozione che ornano le nostre case e le nostre chiese. È semplice fare le deduzioni e più semplice ancora dare una risposta.

Se Maria non ci fosse, non ci sarebbe Cristo, perché Ella è stata il veicolo, la porta d’ingresso per la sua venuta nel mondo. È stata la Madre di Cristo; per disegno divino ha dato a tutti gli uomini Cristo che è loro fratello, Maria ha offerto alla generazione umana il Figlio di Dio per il supremo interesse e per il vero destino di tutti e di ciascuno, Cristo che è il sole. Se si spegnesse il sole che cosa sarebbe della terra? Una creazione incompleta e mancata dove regnerebbe l’infelicità. Ecco che viene Maria; ci offre Cristo che rimane tra noi, Dio e fratello, e abita con noi: per opera di Maria attua il piano della salvezza.

La celebrazione di questa Creatura privilegiata ci ricorda, dunque, una verità non sperimentata dai nostri sensi, ma reale e che il Signore ci ha dato per abituarci all’obbedienza alla sua voce, per elevarci a una vita spirituale e indurci alla scelta della salvezza.

E ancora: la festa dell’Assunzione, la visione e il beneficio di questa lampada accesa nel Cielo che è Maria, ci insegna che noi dobbiamo credere e, credendo, essere veramente felici. Quante volte incontriamo, specialmente tra i giovani, grandi difficoltà ad accettare il dono della Fede in un ordine di idee comunicate nella maniera che abbiamo detto, come un peso, come un giogo, come una cosa umiliante, antiquata, perfino puerile, come se questa Fede sia destinata agli spiriti deboli. Invece, noi oggi, accettando la Madonna e i misteri che s’intrecciano intorno a lei, accogliamo veramente tutta la gioia, tutto il senso di letizia e di esultanza che circonda la Fede. Perché Maria ci porta la promessa - contro ogni apparenza umana - di una vita sicuramente completa.

La celebrazione dell’Assunta ha questo valore e questo significato; ed è, perciò, una grande festa di fede; di adesione, cioè, a quanto il Cristianesimo ci insegna, a tutto ciò che la Chiesa ci offre e rende possibile e accessibile con il suo magistero. Una nota caratteristica della Madonna (e il Concilio ce lo ha ricordato) è proprio e soprattutto la Fede. Per questo Ella è stata salutata con le parole Beata quae credidisti; Ella ha avuto la somma virtù di accogliere la parola di Dio e di farla sua fin dall’inizio, pronunciando il suo «Fiat» per la quale parola Cristo si incarnò nel suo seno verginale. «Beato, dunque, dice il Signore, chi ascolta la mia parola e la segue!». Allora si rinnova, in certo qual modo, il miracolo della incarnazione di Dio dentro di noi, come avvenne per la Madonna.

Maria - conclude il Santo Padre - è sorgente di fede e nel suo nome ogni cristiano, ogni giusto deve vivere di fede, traendo da questa le leggi, i principi, i criteri, il modello della sua giornata terrena, facendo ciascuno di Maria la sua ispiratrice, l’annunciatrice della sua salvezza; Maria è il «Typus» sul quale - secondo la felice definizione di S. Ambrogio - va modellata e rinvigorita l’esistenza del cristiano, il quale così può davvero invocare la Vergine Assunta con le soavi parole del Salve Regina «vita, dulcedo et spes nostra».




Domenica, 27 settembre 1970: PROCLAMAZIONE DI SANTA TERESA D’AVILA DOTTORE DELLA CHIESA

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Noi abbiamo conferito, o meglio: Noi abbiamo riconosciuto il titolo di Dottore della Chiesa a Santa Teresa di Gesù.

Il solo fatto di proferire il nome di questa Santa, singolarissima e grandissima, in questo luogo e in questa circostanza, solleva nelle nostre anime un tumulto di pensieri: il primo sarebbe quello di rievocare la figura di Teresa: la vediamo apparire davanti a noi, come donna eccezionale, come religiosa, che, tutta velata di umiltà, di penitenza e di semplicità, irradia intorno a sé la fiamma della sua vitalità umana e della sua vivacità spirituale, e poi come riformatrice e fondatrice d’uno storico e insigne Ordine religioso, e scrittrice genialissima e feconda, maestra di vita spirituale, contemplativa incomparabile e indefessamente attiva; . . . com’è grande! com’è unica! com’è umana! com’è attraente questa figura! Prima di parlare d’altro saremmo tentati a parlare di lei, di questa Santa, sotto tanti aspetti interessantissima. Ma non attendete da Noi, in questo momento, che vi parliamo della persona e dell’opera di Teresa di Gesù: basterebbe la duplice bibliografia raccolta nel volume preparato con tanta cura dalla nostra Sacra Congregazione per le Cause dei Santi per scoraggiare chi volesse condensare in brevi parole l’immagine storica e biografica di questa Santa, che sembra straripare dai lineamenti descrittivi nei quali si vorrebbe contenere. Del resto, non è su di lei propriamente che noi vogliamo ora fissare, per un istante, la nostra attenzione. Ma è sull’atto che noi abbiamo compiuto testé; sul fatto che incidiamo nella storia della Chiesa e che affidiamo alla pietà e alla riflessione del Popolo di Dio, sul conferimento, dicevamo, del titolo dottorale a Teresa di Avila, a Santa Teresa di Gesù, la grande Carmelitana.


FULGORI DI SAPIENZA NELLA SANTITÀ

E il significato di questo atto è molto chiaro; un atto che intenzionalmente vuole essere luminoso, che potrebbe avere una sua simbolica immagine in una lampada accesa davanti all’umile e maestosa figura della Santa: luminoso per il fascio di raggi che la lampada del titolo dottorale proietta sopra di lei; e luminoso per un altro fascio di raggi, che questo stesso titolo dottorale proietta sopra di noi.

Sopra di lei, Teresa: la luce del titolo mette in evidenza indiscutibili valori che già le erano ampiamente riconosciuti: la santità della vita, innanzitutto, valore questo già ufficialmente proclamato, fin dal 12 marzo 1622 - Santa Teresa era morta trenta anni prima -, dal nostro Predecessore Gregorio XV, nella celebre canonizzazione, che, con la nostra Carmelitana, iscrisse nell’albo dei Santi Ignazio di Loiola, Francesco Saverio, Isidoro Agricola, tutti gloria della Spagna cattolica, e con loro Filippo Neri, fiorentino- romano quest’ultimo; e mette in evidenza altresì «l’eminenza della dottrina», in secondo luogo, ma questa specialmente (Cfr. PROSPERO LAMBERTINI, poi Papa Benedetto XIV, De Servorum Dei beatificatione, IV, 2, c. 11, n. 13).

La dottrina dunque di Santa Teresa d’Avila risplende dei carismi della verità, della conformità con la fede cattolica, dell’utilità per l’erudizione delle anime; e un altro possiamo particolarmente notare, il carisma della sapienza, che ci fa pensare all’aspetto più attraente e insieme più misterioso del dottorato di Santa Teresa, all’influsso cioè della divina ispirazione in questa prodigiosa e mistica scrittrice. Donde veniva a Teresa il tesoro della sua dottrina? Indubbiamente dalla sua intelligenza e dalla sua formazione culturale e spirituale, dalle sue letture, dalle conversazioni con grandi maestri di teologia e di spiritualità, da una sua singolare sensibilità, da una sua abituale ed intensa disciplina ascetica, dalla sua meditazione contemplativa, in una parola dalla sua corrispondenza alla grazia, accolta nell’anima straordinariamente ricca e preparata alla pratica e all’esperienza dell’orazione. Ma era soltanto questa la sorgente della sua «eminente dottrina?»? o non si devono riscontrare in Santa Teresa atti, fatti , stati, che non provengono da lei, ma che da lei sono subiti, che sono cioè così sofferti e passivi, mistici nel vero senso della parola, da doverli attribuire ad una azione straordinaria dello Spirito Santo? Siamo indubbiamente davanti ad un’anima nella quale l’iniziativa divina straordinaria si manifesta, e dalla quale essa è percepita e quindi descritta da Teresa, con un linguaggio letterario suo proprio, semplicemente, fedelmente, stupendamente.


CON TUTTE LE FORZE SALIRE A DIO

Qui le questioni si moltiplicano. L’originalità dell’azione mistica è fra i fenomeni psicologici più delicati e più complessi, nei quali molti fattori possono intervenire, e obbligare l’osservatore alle più severe cautele; ma nei quali le meraviglie dell’anima umana si manifestano in modo sorprendente, ed una fra tutte più comprensiva: l’amore, che celebra nella profondità del cuore le sue espressioni più varie e più piene; amore che dovremo chiamare alla fine connubio, perché esso è l’incontro dell’amore divino inondante che discende all’incontro con l’amore umano, che tende a salire con tutte le forze; è l’unione con Dio più intima e più forte che ad anima vivente in questa terra sia dato sperimentare; e che diventa luce, diventa sapienza; sapienza delle cose divine, sapienza delle cose umane.

Ed è di questi segreti che ci parla la dottrina di Teresa; sono i segreti dell’orazione. La sua dottrina è qui. Ella ha avuto il privilegio e il merito di conoscerli questi segreti per via di esperienza, vissuta nella santità d’una vita consacrata alla contemplazione e simultaneamente impegnata nell’azione, e di esperienza insieme patita e goduta nell’effusione di straordinari carismi spirituali. Teresa ha avuto l’arte di esporli questi medesimi segreti, tanto da classificarsi fra i sommi maestri della vita spirituale. Non indarno la statua, che colloca, come Fondatrice, la figura di Teresa in questa Basilica, reca l’iscrizione che ben definisce la Santa: Mater Spiritualium.

Era già ammessa, si può dire per consenso unanime, questa prerogativa di Santa Teresa, di essere madre, d’essere maestra delle persone spirituali. Una madre piena d’incantevole semplicità, una maestra piena di mirabile profondità. Il suffragio della tradizione dei Santi, dei Teologi, dei Fedeli, degli studiosi le era già assicurato; noi lo abbiamo ora convalidato, facendo in modo che, ornata di questo titolo magistrale, ella abbia una più autorevole missione da compiere, nella sua Famiglia religiosa e nella Chiesa orante e nel mondo, con un suo messaggio perenne e presente: il messaggio dell’orazione.


IL MESSAGGIO DELL’ORAZIONE

È questa la luce, resa oggi più viva e penetrante che il titolo di Dottore, conferito a Santa Teresa, riverbera sopra di noi. Il messaggio dell’orazione ! Viene a noi, figli della Chiesa, in un’ora segnata da un grande sforzo di riforma e di rinnovamento della preghiera liturgica; viene a noi, tentati dal grande rumore e dal grande impegno del mondo esteriore di cedere all’affanno della vita moderna e di perdere i veri tesori della nostra anima nella conquista dei seducenti tesori della terra. Viene a noi, figli del nostro tempo, mentre si va perdendo non solo il costume del colloquio con Dio, ma il senso del bisogno e del dovere di adorarlo e d’invocarlo. Viene a noi il messaggio della preghiera, canto e musica dello spirito imbevuto della grazia e aperto alla conversazione della fede, della speranza e della carità, mentre l’esplorazione psicanalitica scompone il fragile e complicato strumento che noi siamo, non più per trarne le voci dell’umanità dolorante e redenta, ma ascoltarne il torbido mormorio del suo subcosciente animale e le grida delle sue incomposte passioni e della sua angoscia disperata. Viene il messaggio sublime e semplice dell’orazione della sapiente Teresa, che ci esorta ad intendere «il grande bene che fa Dio ad un’anima, allorché la dispone a praticare con desiderio l’orazione mentale; . . . perché l’orazione mentale, a mio parere, altro non è che una maniera amichevole di trattare, nella quale ci troviamo molte volte a parlare, da solo a solo, con Colui che sappiamo che ci ama» (Vida, 8 , 4-5).

In sintesi, questo il messaggio per noi di Santa Teresa di Gesù, Dottore della Santa Chiesa: ascoltiamolo e facciamolo nostro. Dobbiamo aggiungere due rilievi che ci sembrano importanti. Il primo è quello che osserva come Santa Teresa d’Avila sia la prima donna a cui la Chiesa conferisce questo titolo di Dottore; e questo fatto non è senza il ricordo della severa parola di San Paolo: Mulieres in Ecclesiis taceant (
1Co 14,34): il che vuol dire, ancora oggi, come la donna non sia destinata ad avere nella Chiesa funzioni gerarchiche di magistero e di ministero. Sarebbe ora violato il precetto apostolico?

Possiamo rispondere con chiarezza: no. In realtà, non si tratta di un titolo che comporti funzioni gerarchiche di magistero, ma in pari tempo dobbiamo rilevare che ciò non significa in nessun modo una minore stima della sublime missione che la donna ha in mezzo al Popolo di Dio.

Al contrario, la donna, entrando a far parte della Chiesa con il Battesimo, partecipa del sacerdozio comune dei fedeli, che la abilita e le fa obbligo di «professare dinanzi agli uomini la fede ricevuta da Dio per mezzo della Chiesa» (Lumen gentium, Lumen gentium, LG 2,11). E in tale professione di fede tante donne sono arrivate alle cime più elevate, fino al punto che la loro parola e i loro scritti sono stati luce e guida dei loro fratelli. Luce alimentata ogni giorno nel contatto intimo con Dio, anche nelle forme più nobili dell’orazione mistica, per la quale San Francesco di Sales non esita a dire che posseggono una speciale capacità. Luce fatta vita in maniera sublime per il bene e il servizio degli uomini.


AL DI SOPRA DI OGNI OSTACOLO: SENTIRE CON LA CHIESA

Per questo il Concilio ha voluto riconoscere l’alta collaborazione con la grazia divina che le donne sono chiamate ad esercitare, per instaurare il Regno di Dio sulla terra, e nell’esaltare la grandezza della loro missione, non dubita di invitarle egualmente a cooperare «perché l’umanità non decada», per «riconciliare gli uomini con la vita», «per salvare la pace nel mondo» (VAT. II, Messaggio alle donne).

In secondo luogo, non vogliamo tralasciare il fatto che Santa Teresa era spagnola e a buon diritto la Spagna la considera una delle sue glorie più grandi. Nella sua personalità si apprezzano le caratteristiche della sua patria: la robustezza di spirito, la profondità dei sentimenti, la sincerità di cuore, l’amore alla Chiesa. La sua figura si colloca in un’epoca gloriosa di santi e di maestri che distinguono il loro tempo con lo sviluppo della spiritualità. Li ascolta con l’umiltà della discepola, mentre allo stesso tempo sa giudicarli con la perspicacia di una grande maestra di vita spirituale, e come tale questi la considerano.

D’altra parte, dentro e fuori delle frontiere patrie, si agitava violenta la tempesta della Riforma, opponendo tra di loro i figli della Chiesa. Ella per il suo amore alla verità e la sua intimità con il Maestro, ebbe ad affrontare amarezze e incomprensioni di ogni sorta e non sapeva dar pace al suo spirito dinanzi alla rottura dell’unità: «Ho sofferto molto - scrive - e come se io potessi qualcosa o fossi qualcosa piangevo con il Signore e lo supplicavo di rimediare tanto male» (Camino de perfección, c. 1, n. 2; BAC, 1962, 185).

Questo suo sentire con la Chiesa, provato nel dolore alla vista della dispersione delle forze, la condusse a reagire con tutto il suo forte spirito castigliano nell’ansia di edificare il regno di Dio; decise di penetrare nel mondo che la circondava con una visione riformatrice per imprimergli un senso, un’armonia, un’anima cristiana. A distanza di cinque secoli, Santa Teresa di Avila continua a lasciare le orme della sua missione spirituale, della nobiltà del suo cuore assetato di cattolicità, del suo amore spoglio di ogni affetto terreno per potersi dare totalmente alla Chiesa. Prima del suo ultimo respiro, ella poté ben dire, come riepilogo della sua vita: «Finalmente, sono figlia della Chiesa!».

In questa espressione, gradito presagio della gloria dei beati per Teresa di Gesù, vogliamo vedere l’eredità spirituale legata a tutta la Spagna. Vogliamo anche vedere un invito a tutti noi a farci eco della sua voce, a trasformarla in programma della nostra vita per poter ripetere con lei: siamo figli della Chiesa.

Con la Nostra Apostolica Benedizione.


GLORIA MIRABILE DELLA SPAGNA

Debemos añadir dos observaciones que Nos parecen importantes. En primer lugar hay que notar que Santa Teresa de Avila es la primera mujer a quien la Iglesia confiere el título de Doctora; y esto no sin recordar las severas palabras de San Pablo: «La mujeres cállense en las Iglesias» (1Co 14,34); lo cual quiere decir todavía hoy que la mujer no está destinada a tener en la Iglesia funciones jerárquicas de magisterio y de ministerio. ¿Se habrá violado entonces el precepto apostólico?

Podemos responder con claridad: no. Realmente no se trata de un título que comparte funciones jerárquicas de magisterio, pero a la vez debemos sefialar que este hecho no supone en ningun modo un menosprecio de la sublime misión de la mujer en el seno del Pueblo de Dios.

Por el contrario ella, al ser incorporada a la Iglesia por el Bautismo, participa de ese sacerdocio común de los fieles, que la capacita y la obliga a «confesar delante de los hombres la fe que recibió de Dios mediante la Iglesia» (Lumen gentium, Lumen gentium, LG 2,11). Y en esa confesión de la fe tantas mujeres han llegado a las cimas más elevadas, hasta el punto de que su palabra y sus escritos han sido luz y guía de sus hermanos. Luz alimentada cada día en el contacto íntimo con Dios, aún en las formas más elevadas de la oración mística, para la cual San Francisco de Sales llega a decir que poseen una especial capacidad. Luz hecha vida de manera sublime para el bien y el servicio de los hombres.

Por eso el Concilio ha querido reconocer la preciosa colaboración con la gracia divina que las mujeres están llamadas a ejercer, para instaurar el reino de Dios en la tierra, y al exaltar la grandeza de su misión, no duda en invitarlas igualmente a ayudar «a que la humanidad no decaiga», a «reconciliar a los hombres con la vida», «a salvar la paz del mundo» (VAT. II, Mensaje a las Mujeres).

En segundo lugar, no queremos pasar por alto el hecho de que Santa Teresa era española, y con razón España la considera una de sus grandes glorias. En su personalidad se aprecian los rasgos de su patria: la reciedumbre de espíritu, la profundidad de sentimientos, la sinceridad de alma, el amor a la Iglesia. Su figura se acentra en una época gloriosa de santos y de maestros que marcan su siglo con el florecimiento de la espiritualidad. Los escucha con la humildad de la discípula, a la vez que sabe juzgarlos con la perspicacia de una gran maestra de vida espiritual, y como tal la consideran ellos.

Por otra parte, dentro y fuera de las fronteras patrias, se agitaban violentos los aires de la Reforma, enfrentando entre sí a los hijos de la Iglesia. Ella por su amor a la verdad y por el trato íntimo con el Maestro, hubo de afrontar sinsabores e incomprensiones de toda índole y no sabía cómo dar paz a su espíritu ante la rotura de la unidad: «Fatiguéme mucho - escribe - y como si yo pudiera algo o fuera algo lloraba con el Señor y le suplicaba remediase tanto mal» (Camino de perfección, c. 1, n. 2; BAC, 1962, 185).

Este su sentir con la Iglesia, probado en dolor que dispersaba fuerzas, la llevó a reaccionar con toda la entereza de su espíritu castellano en un afán de edificar el reino de Dios; ella decidió penetrar en el mundo que la rodeaba con una visión reformadora para darle un sentido, una armonía, una alma cristiana.

A distancia de cinco siglos, Santa Teresa de Avila sigue marcando las huellas de su misión espiritual, de la nobleza de su corazón sediento de catolicidad, de su amor despojado de todo apego terreno para entregarse totalmente a la Iglesia. Bien pudo decir, antes de su último suspiro, como resumen de su vida: «En fin, soy hija de la Iglesia».

En esta expresión, presagio y gusto ya de la gloria de los bienaventurados para Teresa de Jesús, queremos adivinar la herencia espiritual por ella legada a España entera. Debemos ver asimismo una llamada dirigida a todos a hacernos eco de su voz, convirtiéndola en lema de nuestra vida para poder repetir con ella: iSomos hijos de la Iglesia!

Con Nuestra Bendición Apostólica.



Domenica, 3 ottobre 1970: PROCLAMAZIONE DI SANTA CATERINA DA SIENA DOTTORE DELLA CHIESA


B. Paolo VI Omelie 31570