B. Paolo VI Omelie 31270

Giovedì, 3 dicembre 1970: ORDINAZIONE DEL PRIMO VESCOVO NATO IN NUOVA GUINEA - SYDNEY

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Australia, Sydney



Cari figli e figlie,

La Nostra gioia nel trovarci in mezzo a voi, in quest’ultimo giorno della Nostra permanenza in Australia, è oggi ancor più viva per il fatto che la Provvidenza ci offre l’occasione di elevare alla dignita episcopale, e quindi di collaboratore diretto come successore degli Apostoli, un figlio delle terre di missione di questa immensa Oceania. Di ciò vogliate ringraziare con Noi il Signore Onnipotente!

Ma, nel contempo, quale magnifica occasione è questa per meditare sul nostro dovere missionario! Richiamiamo, mettendolo quasi sotto i nostri occhi, il grande insegnamento datoci da Gesù, la sera del Giovedì Santo, intorno alla carità fraterna. Egli lo chiama il «comandamento nuovo», come a dire il vertice del suo Vangelo. Non c’è nulla di più grande dell’amore fraterno - ci dice -, perché è dal suo esercizio che si distinguono in maniera eminente i suoi discepoli (Cfr.
Jn 13,34-35).

Se noi lasciamo che i nostri spiriti ed i nostri cuori si aprano a questa legge nuova, tutto diventa diverso, perché tutto riceve un’illuminazione fino ad allora sconosciuta: non soltanto la nostra vita spirituale ed i nostri contatti con i fratelli, ma tutta quanta la nostra attività, anche quella in apparenza più profana. L’amore è luce e forza, l’amore è comunicazione! Sollecitati da esso, gli Apostoli han saputo superare le frontiere della loro patria per andare fino ai confini dell’impero romano ed anche, di certo, più in là.

Il mandato missionario è sempre attuale: «Andate dunque, ammaestrate (cioè fate discepole) tutte le genti» (Mt 28,19). Nel corso dei secoli Gesù Cristo ripete a tutte le categorie di battezzati il suo imperativo di missione: «Come il Padre ha mandato me, così io mando voi» (Jn 20,21). Il nostro dovere missionario trae origine da questo imperativo: la sua sorgente è nell’amore misericordioso del Padre per tutta l’umanità, senza distinzione di persone. «È dunque per la medesima strada seguita dal Cristo stesso che deve procedere, sospinta dallo Spirito di Cristo, la Chiesa», e la Chiesa vuol dire tutti noi, uniti come un solo organismo che riceve il suo influsso vitale dal Signore Gesù (Ad gentes, AGD 5). Dio ha voluto aver bisogno degli uomini per diffondere il suo Vangelo, per dispensare la sua grazia, per costituire il suo Regno. Chi potrebbe affermare che tutto ciò non lo riguardi? Se varie sono le condizioni di vita e, per conseguenza, diverse le modalità di risposta, ogni membro della Chiesa è raggiunto da questo appello comune, poiché tutta la Chiesa è missionaria, perché l’attività missionaria - come ha ribadito con forza l’ultimo Concilio - è parte integrante della sua vocazione, e il dimenticarlo o l’eseguirlo con negligenza sarebbe da parte nostra un’infedeltà al nostro Maestro. Si tratta di un impulso fondamentale, di un dovere originario, che noi tutti dobbiamo assumerci, senza lasciar posto né a dubbi né a limitazioni.

È facile per Noi, nel corso di questa commovente cerimonia, durante la quale per la prima volta un cristiano della Nuova Guinea raggiunge la pienezza del Sacerdozio, parlarvi delle Missioni. Siamo andati di persona, nell’intermezzo tra il Nostro soggiorno nelle Filippine e la Nostra venuta in mezzo a voi, in quella zona immensa aperta all’azione missionaria e confinante con la vostra Australia. Distanze sconfinate, numero quasi incalcolabile di isole, disseminate sulla superficie dell’Oceano, popolazioni numerose e isolate che attendono l’annuncio della Buona Novella: quale appello ne giunge alle vostre porte, fratelli e sorelle di Australia! Levate gli occhi e contemplate questa distesa di messe, che attende i mietitori per la raccolta (Jn 4,35). È possibile che la vostra comunità, che ha avuto la grande fortuna di ricevere la grazia del Vangelo, che ha già risposto con fervore all’insegnamento dei suoi sacerdoti e che offre al mondo una chiara testimonianza di fede, di fedeltà alla dottrina e di generosità nel sostenere le opere missionarie, non sia in pari tempo una terra di missionari? Giovani uomini e donne che ci ascoltate, non sentite l’appello che viene dal Signore e vi sospinge verso il largo, al servizio dei più poveri? Genitori così degni di essere additati in esempio per le tante virtù domestiche, non vorrete condividere ciò che avete ricevuto di più prezioso, il dono della fede, lasciando ai vostri figli di consacrarsi al proseguimento della missione stessa di Gesù Cristo? Sacerdoti delle parrocchie, religiosi e religiose a servizio delle vostre numerose scuole e collegi nell’ambito del vostro grande Paese, non vorrete presentare come una magnifica testimonianza della vita cristiana l’arruolamento nel pacifico esercito dei missionari? È il Papa che di questo vi prega, e vorrebbe ricavare dall’incontro tanto consolante con voi la speranza di una «leva di volontari» per l’opera divina dell’evangelizzazione, la quale risponde così intimamente alle aspirazioni degli uomini verso la pace, la verità, l’amore fraterno (Cfr. Ad gentes, AGD 8), in quanto rivela ad essi Colui che è «la via, la verità e la vita» (Jn 14,6 Jn 11,25).

Voglia Iddio ascoltarci, e ricolmare di grazie le anime vostre, arricchendole con la comunicazione del suo Amore!



Giovedì, 3 dicembre 1970: SANTA MESSA ALLO «STADIUM» DI DJAKARTA

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Indonesia, Djakarta


Cari Figli e Figlie,

È grande per il Papa la gioia di trovarsi in mezzo a voi, e di poter unire la sua preghiera alla vostra nel rendere grazie a Dio.

Celebrando questo rito, il più sacro, il più religioso e al tempo stesso il più comunitario, il più sociale e il più fraterno, qual è il santo Sacrificio della Messa, Noi vorremmo rispondere a una questione che deve sorgere dal fondo del vostro cuore: perché il Papa è venuto da tanto lontano sino a noi? Qual è lo scopo del suo viaggio? Persegue un interesse materiale, o ricerca un successo di prestigio?

La ragione delIa Nostra venuta, eccola: spinti dallo stesso motivo che mosse un tempo i vostri missionari, animati dalla stessa convinzione della vostra comunità cattolica d’oggi, Noi crediamo con tutta la forza del Nostro spirito che esiste nell’umanità un bisogno supremo, primario, insostituibile, che non può essere soddisfatto se non in Gesù Cristo, primogenito tra gli uomini, capo dell’umanità nuova, nel quale ciascuno realizza la sua pienezza, perché «solamente nel mistero del Verbo incarnato si rischiara veramente il mistero dell’uomo» (Gaudium et spes,
GS 22).

Benché Figlio di Dio, Gesù Cristo ha voluto, per riscattarci, farsi uno di noi; egli ha condiviso la nosrra condizione umana, inserendosi nel mondo del suo tempo, parlando la lingua della sua provincia, attingendo dalla vita locale gli esempi diretti a illustrare il suo insegnamento di giustizia, di verità, di speranza e di carità. La sua dottrina, sparsa oggi per il mondo, si adatta nella sua espressione a tutte le lingue, a tutte le tradizioni e culture. Nessun libro è stato tradotto in tante lingue e dialetti quanto il Vangelo! Nessuna preghiera è stata recitata in tante favelle quanto il «Padre nostro», insegnato da Gesù stesso.

Il cristiano quindi non è uno straniero in mezzo ai suoi; egli condivide con loro tutte le oneste usanze, coltiva l’amore della sua patria come buon cittadino. E tuttavia professa una fede cattolica, quella stessa, cioè, che professa l’africano, l’americano, l’europeo. Come è possibile questo? Perché l’uomo della storia che si chiamava Gesù di Nazareth, era al tempo stesso il Figlio di Dio; perché l’uomo, come siamo noi, creato da Dio, è stato creato per Iddio e nel suo stesso essere è attratto da Colui che l’ha chiamato alla vita. Si tratta di un elemento umano talmente personale ed essenziale, che chi respinge dalla sua vita Dio rischia subito di respingere anche i suoi simili come suoi fratelli.

Gesù Cristo viene nella nostra vita in risposta a quei germi di invocazione, posti da Dio nel cuore di ciascuno (Cfr. Ad gentes, AGD 11). La sua parola - che è la rivelazione del Dio amore - e la sua grazia - che è la comunicazione della vita stessa di Dio mediante il suo Santo Spirito e nei sacramenti - costruiscono la comunità del Popolo di Dio, che si chiama la Chiesa, unita da un solo battesimo, da un’unica fede in un solo Signore e vivente per un solo «Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera in tutti ed è in tutti» (Cfr. Ep 4,5-6).

E qual è la nostra risposta, di noi membri di questo popolo santo? Corrispondere alla grazia di Dio con la fedeltà alla Parola che ci salva, con un comportamento da uomini nuovi. Alla santità infinita di Dio, che ci è comunicata, risponde la nostra santità limitata, che ha per modello quella di Gesù Cristo. Allora tutto è trasformato e illuminato: la vita delle persone, la vita delle famiglie, l’uso dei beni di questo mondo, i nostri rapporti con gli altri, la vita intera della società, perché è tutto l’uomo che Cristo libera, eleva e salva.

Ecco, cari Figli e Figlie, quel che Noi siamo venuti ad annunziarvi: Gesù Cristo. Egli è il nostro Salvatore, e nello stesso tempo il nostro Maestro: egli è «la via, la verità e la vita» (Jn 14,6) e «chi lo segue non cammina nelle tenebre» (Cfr. Jn 8,12). Questo è il ricordo, che Noi vorremmo scolpire nelle vostre anime, per sempre!





Venerdì 4 dicembre 1970: SANTA MESSA NELLA «VALLE FELICE» DI HONG KONG

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Hong Kong, «Valle Felice»

Figli e Fratelli carissimi!

È con gioia che abbiamo accettato il cortese invito rivoltoci dal vostro zelante pastore, il Nostro fratello vescovo Hsu.

Ci piace prendere l’occasione del viaggio apostolico, che ci ha condotto in Asia e Australia per incontrarci con le conferenze episcopali del luogo, per fare una breve visita alla più grande diocesi cinese del mondo. Siamo molto lieti di essere con voi, cari figli e figlie di Hong Kong. Noi vogliamo ringraziarvi personalmente per l’affezione e la devozione che avete manifestato alla Santa Sede in molte e diverse maniere; vogliamo congratularci con voi per le molteplici realizzazioni della vostra così efficiente comunità cattolica: vogliamo incoraggiarvi a perseverare fermamente nella fede del vostro Battesimo e della vostra Cresima, ed esortarvi ad un sempre maggiore impegno nel ricercare i mezzi più adatti per rendere il messaggio cristiano di amore più comprensibile nel mondo nel quale vivete; in tal modo voi contribuirete effettivamente a dimostrare a tutti i vostri fratelli e sorelle la perenne giovinezza e la perenne capacità rinnovatrice del Vangelo di Cristo e così dare loro una speranza per costruire nell’amore una società più fraterna. Noi siamo ora in preghiera. Che ciascuno di noi abbia la coscienza del duplice rapporto che questa preghiera, la nostra Messa, stabilisce per le nostre anime. Noi siamo in rapporto con Cristo, noi siamo in rapporto con gli uomini nostri fratelli.

Sì, noi, riuniti qui nel nome di Cristo, noi siamo con Lui. Anzi Lui è con noi. Ce lo ha Lui stesso assicurato: dovunque sarete radunati nel mio nome, Egli ha detto, Io sarò in mezzo a voi (Cfr.
Mt 18,20). Inoltre alla nostra umile persona è affidato il ministero di rappresentare Lui, Gesù Cristo, unico Capo, ma ora invisibile della Chiesa (Cfr. S. TH., III 8,1), sommo «Pastore e Vescovo» delle nostre anime (Cfr. 1P 2,25); e Noi siamo lieti che questo Nostro ufficio di suo Vicario renda in questo momento più vivo il senso della presenza di Cristo in questa sacra assemblea, più operante la sua divina virtù, più immediata la sua spirituale consolazione. Ma ancor più realistico e mistico diventerà tra poco il rito, che stiamo celebrando, quando esso diventerà la cena sacrificale, da Cristo stesso istituita, per ricordare e rinnovare sacramentalmente la sua passione redentrice, ed Egli stesso si darà a noi come cibo di vita eterna.

Fratelli, diamo tutti insieme a questa celebrazione la pienezza di significato, che essa contiene, e procuriamo di aderirvi, tutti e ciascuno, con la più intensa adesione dei nostri spiriti, ed a perenne e riassuntivo ricordo di questo straordinario e felice momento riserviamogli la nostra umile, ferma, totale professione di fede. Diremo tra poco: mistero di fede!

Questo è il primo rapporto che questa nostra azione liturgica deve mettere in attuale e perenne esercizio: la fede. Questa nostra fede qui Noi a tutti vi annunciamo e vi confermiamo.

Vi è un secondo rapporto, voi lo sapete, messo in azione dalla celebrazione che stiamo compiendo, prima nelle nostre coscienze, nei nostri cuori, e poi nella nostra vita esteriore.

L’Eucaristia è un segno, è un vincolo di unità (Cfr. S. TH., III 73,2-3). È un sacramento di comunione. Nell’atto stesso in cui l’Eucaristia ci mette in comunione reale con Cristo, esso ci mette in comunione spirituale, mistica, morale e sociale con quanti si alimentano dello stesso pane (Cfr. 1Co 10,17). È il sacramento dell’unità ecclesiastica. È il supremo principio coesivo della comunità dei fedeli. È il sacramento che contiene il Corpo reale di Cristo e che tende a produrre il Corpo mistico di Cristo, che è la Chiesa.

Fermiamoci qui, e concludiamo: la Chiesa è dunque un effetto unitario dell’amore di Cristo per noi, e può essa stessa essere considerata un segno operante, un sacramento di unità e di amore. Amare è la sua missione. Ora, mentre diciamo queste semplici e sublimi parole, noi abbiamo d’intorno a noi, quasi lo sentiamo, tutto il popolo Cinese, dovunque esso si trovi.

Viene, per la prima volta nella storia, quest’umile apostolo di Cristo, che Noi siamo, a questa estrema terra orientale; e che cosa dice? e perché viene? Per dire una sola parola: amore. Cristo è anche per la Cina un Maestro, un Pastore, un Redentore amoroso. La Chiesa non può tacere questa buona parola; amore, che resterà.





Venerdì, 4 dicembre 1970: SANTA MESSA ALL'AEROPORTO DI COLOMBO

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Ceylon, Colombo


Pacem relinguo vobis; pacem meam do vobis!

Siano rese grazie alla paterna Provvidenza divina ed a tutte le Autorità civili e religiose, le quali spinte dalla cortesia verso di Noi e dalla sollecitudine di venire incontro ai vostri desideri, ci hanno reso possibile di partecipare oggi, insieme con voi, a questa celebrazione eucaristica sulla diletta e sacra terra di Lanka.

In questa felice occasione, lo speciale messaggio che Noi indirizziamo alla vostra nobile Nazione è quello della fratellanza. Sì, voi siete fratelli e sorelle tra voi, figli d’una sola e medesima madrepatria: Lanka. Fate che la fratellanza vi stringa insieme come membri di un’unica famiglia nella vostra vita sociale, economica e politica, senza nessuna distinzione di casta, di credo, di colore e di lingua.

Sostenete l’un l’altro pesi, trepidazioni, dolori e gioie. In particolare, sappiate distribuire in modo equanime le risorse materiali della vostra terra, così riccamente dotata dalla natura. Esse vi sono state date per il conveniente benessere di tutti e di ciascuno. Per raggiungere questo scopo, occorre l’interessamento non solo dello Stato ma di ogni singolo cittadino. Da questa unità fraterna dipenderà la vostra prosperità, la vostra pace interna ed esterna, la vostra felicità. Che il Signore, nella sua bontà, conceda a voi tutte queste grazie: è quanto Noi ardentemente desideriamo ed a lui chiediamo nelle Nostre preghiere per voi.

Non saremo fraintesi, nessuno se ne avrà a male, se in questo atto supremo e caratteristico della nostra religione, Noi ci rivolgiamo ora a voi, partecipi della nostra Fede Cattolica, per affermare che siamo una sola cosa noi, noi che ci nutriamo di questo unico Pane dell’Altare, noi che nel sangue dell’Agnello siamo stati riconciliati col Padre e tra noi, per formare non solo un unico popolo di fede e di profezia, ma l’autentica famiglia dell’amore cristiano.

Voi ci chiamate «Santo Padre», nome dolce e suggestivo. Noi lo portiamo come Vicario di Gesù Cristo, nel suo Nome. Portare questo nome senza sottrarci alle sue responsabilità, attestare questo nome stupendo, affrontando e compiendo, senza indietreggiare, i doveri che esso impone, costituisce il Nostro servizio per voi e per l’immensa famiglia cattolica.

Ci conforta tuttavia il pensiero che nei nostri limiti personali ci sono anche altri a portare questo nome: essi ne condividono con Noi la responsabilità e ne adempiono i gravi impegni: sono i vostri Vescovi e i vostri cari sacerdoti, che dei Vescovi sono il prolungamento personale e sacramentale.

Siamo lieti di vedere questa sera intorno all’Altare e di porgere il Nostro affettuoso saluto al Nostro Fratello e vostro Arcivescovo, il Cardinale Tommaso Cooray, agli altri Nostri Fratelli nell’episcopato e ai collaboratori nel sacerdozio.

Con loro, questa sera, da questo altare, in piena comunione delle responsabilità dell’ufficio pastorale, Noi proclamiamo di essere una sola cosa con voi tutti, Religiosi e Laici, membri con Noi, del Mistico Corpo di Cristo.

Un continuo richiamo alla nostra unità, la garanzia dell’intima comunione tra noi e di ognuno di noi con Cristo Gesù non risiede forse, per disposizione divina, in una Madre, la Madre Immacolata di Cristo Salvatore, Maria? La parola Madre è l’invocazione sempre dolce, sempre nuova, che trova uniti i membri d’una famiglia. Maria è Madre celeste di quest’Isola diletta.

A Lei, il Vicario del suo Divin Figlio dal profondo del cuore, insieme con le genti di Lanka, desidera oggi raccomandare i grandi problemi del mondo, ed in modo speciale invoca la sua materna protezione sulla grande famiglia dei Cristiani.

La Nostra ultima parola è pace. Pace tra voi nell’ambito della Famiglia Cattolica. Conservate la pace e per mezzo vostro sia essa diffusa da gruppo a gruppo, in cerchi che si allargano sempre più, fino a raggiungere tutta l’Isola, così che Lanka diventi un simbolo di pace da un capo all’altro dell’Asia, nel teatro afro-eurasiatico dell’Oceano Indiano, fino agli estremi confini del mondo e dell’universo. Pace «Pax Christ » a tutti voi. Questa è la parola che Noi vi diciamo nel suo Nome, ed è questa la parola che Noi vi lasciamo con la sua Benedizione.




OMELIE 1971



1° gennaio 1971: QUARTA GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

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Perché siamo venuti qui? Il primo dell'anno è il giorno degli auguri e a tutti porgiamo i Nostri auguri affettuosi e sinceri. Il Papa pregherà quest'oggi dicendo la Messa per ognuno di voi. Sapete che Noi abbiamo da qualche anno dedicato il primo gennaio, il primo giorno del calendario civile, alla celebrazione della "Giornata della Pace". Diciamo noi, noi cattolici, noi credenti, ma vogliamo comprendere in questa finalità, che rivolge il pensiero e l'auspicio per la pace agli uomini di buona volontà, tutti quelli che amano la pace nel mondo; e sappiamo davvero che questo Nostro invito va al di là di ogni frontiera e questo pensiero si dirige al mondo intero.

Noi abbiamo rivolto una lettera, una lettera ufficiale, a tutti i governanti e a tutti coloro che presiedono alle sorti delle nazioni, a cui ci è possibile rivolgere la Nostra parola. Così abbiamo invitato a celebrare la "Giornata della Pace" il vertice, diciamo, le autorità che presiedono le sorti dei popoli, e i responsabili, quelli che hanno il dovere di promuovere la pace. I Capi delle nazioni sono quelli che più degli altri hanno l'obbligo di promuovere i rapporti tranquilli, concordi e pacifici dei popoli, sono essi a decidere le sorti delle varie nazioni, ad equilibrarne gli interessi con responsabilità, e sono perciò i primi ai quali Noi abbiamo rivolto il Nostro pensiero e il Nostro saluto pieno di deferenza e rispetto, ma anche pieno di invocazione.

Mettiamoci tutti d'accordo, cerchiamo di promuovere la pace nel mondo. Perché il mondo deve essere turbato da guerre che tendono ad uccidere, a ferire, a distruggere, a far soffrire, a sopraffare gli altri costringendoli a rapporti di forza, violenza, sangue, strage, anziché di giusto diritto?

Questo non va. Questa non è civiltà. Adesso che siamo così progrediti, così coscienti, che abbiamo tanti mezzi per trattare i mutui rapporti dei popoli, la guerra deve essere abolita, deve essere proscritta dai costumi e dalle abitudini delle nazioni. Dobbiamo regolare altrimenti gli interessi dei popoli e delle genti, con trattative, difendendo in altra maniera la giustizia, il buon diritto, l'interesse legittimo; non col sangue, non con la forza, che poi si traduce quasi sempre nella ingiustizia.

Ma abbiamo guardato quest'anno anche all'altro capo delle sorti dei popoli: abbiamo salutato il vertice, diciamo, invitando alla pace, e adesso salutiamo il popolo, voi, che qui simbolicamente rappresentate tutto il mondo, non solo questa terra, ma tutte le genti che desiderano davvero la civiltà pacifica e concorde tra gli uomini. E se coloro che vi guidano hanno il dovere di promuovere la pace, voi, popolo, avete il diritto di essere amministrati e condotti e guidati in maniera tale che non sia turbata la vostra sorte, la vostra tranquillità e la stessa vostra vita.

Voi non avete facoltà di decisione diretta sugli interessi supremi delle nazioni, ma avete il legittimo e sacrosanto diritto di pretendere che i capi conducano le cose in maniera che voi non abbiate a soffrire, non abbiate ad essere colpiti dalle armi terribili a disposizione di chi muove la guerra, senza neanche sapere forse perché, senza possibilità di difesa. Ed è il diritto del popolo che oggi celebriamo nella "Giornata della Pace".

Un ricordo si affaccia alla Nostra memoria. Fu quando avemmo la sorte di accompagnare il Nostro venerato e grande Predecessore Pio XII in quella sortita che fece, se ricordiamo bene, il 13 agosto 1943 (la seconda volta che uscì dal Vaticano per i bombardamenti che cominciarono a colpire anche Roma) proprio passando qui vicino a Porta Maggiore, al ritorno verso i quartieri di San Giovanni. C'era un gruppo di giovani, folli di dolore e disperazione perché il bombardamento era appena avvenuto: case diroccate, morti, feriti, uno spavento collettivo, una psicosi, la gente che sembrava quasi impazzita. Uno di questi giovani correva dietro alla vettura del Papa. Lo ricordo, lo vedo ancora, alzare le braccia disperato, gridando: "Santo Padre, meglio - assurda idea, ma così disse - meglio la schiavitù che la guerra, ci liberi dalla guerra, ci liberi dalla guerra".

Era il grido che nasce appunto dalle classi popolari, che non sono al corrente delle grandi questioni che decidono della sorte delle nazioni: "No, no la guerra. Che abbiamo fatto noi di male, che c'entriamo noi e perché dobbiamo essere colpiti in una maniera così spietata, crudele, ingiusta e cieca?".

L'irrazionalità della guerra ci apparve allora con una voce e con una scena simbolica che non abbiamo più dimenticato. Ma Noi abbiamo anche un'altra intenzione: non è soltanto la pace per il popolo che Noi vogliamo oggi celebrare. Il Nostro pensiero va oltre. La pace deve sorgere dal popolo, da voi; voi dovete essere i promotori della pace, Voi intanto, se siete cristiani, avete sentito adesso leggere il testo evangelico e sapete che ogni cristiano deve essere un pacifico: non un uomo tranquillo, indolente, che non si incarica di nulla, ma un promotore della pace, un fautore dei rapporti pacifici tra gli uomini. Beati i pacifici, beati cioè coloro che si fanno apostoli della pace, perché saranno chiamati figli di Dio!

Voi che siete figli di Dio dovete essere tutti amorosi promotori della pace. Sentiamo la vostra interrogazione silenziosa: "Noi? Ma come facciamo noi a promuovere la pace? Che mezzi abbiamo noi per far valere questo nostro desiderio, questa nostra aspirazione?". Rispondiamo. Primo: siamo in democrazia. Cosa vuol dire democrazia? Democrazia vuol dire che è il popolo a dirigere, che il potere nasce dal numero, dalla quantità, dalla popolazione qual è.

Se noi siamo coscienti di questo progresso sociale che il nostro tempo ha maturato e che va diffondendosi per tutta la terra, noi dobbiamo dare alla democrazia questa voce prevalente che si impone. La democrazia "non" vuole la guerra, il popolo" non" vuole che le masse si abbiano a misurare le une contro le altre per uccidere. Deve nascere quindi da questa formazione, da questa mentalità politica di popolo, della massa, della generalità della popolazione l'idea, un'idea dominante: non deve esserci più la guerra nel mondo.

Ma c'è poi anche un'altra via, che vi raccomandiamo. Dobbiamo educarci, dobbiamo formarci, dobbiamo rifare la nostra mentalità e la nostra psicologia. Siete voi disposti realmente ad abolire i rapporti di lotta, di odio, di violenza fra gli uomini? Siete disposti davvero ad essere della gente che promuove la pace e vuole che gli interessi diversi, alcune volte contrastanti, non debbano essere trattati né con l'odio, né con la lotta, né con la forza della violenza e del numero?

Ecco, noi dobbiamo educarci a pensare e a volere così. E guardate che sotto questo punto di vista siamo ancora in principio. Perché? Perché siamo da tanto tempo intossicati dal pensiero che soltanto con l'odio, soltanto con la violenza, soltanto per le vie di atto si riesce ad ottenere qualche cosa. Se non si va verso gli atti estremi non si ottiene nulla. Questa è una mentalità che deve essere superata.

Purtroppo sarà nata da un'esperienza, e cioè dal fatto che esistono classi egoiste, classi che vogliono essere immobili, che posseggono e non danno, che vogliono usare della loro forza e della loro posizione per sfruttare o almeno per utilizzare gli altri uomini a proprio vantaggio. Anche questo non è né democrazia né buona socialità. Non è la carità che il Signore ci ha insegnato.

Il Signore ci ha predicato una grande verità: voi tutti siete fratelli. L'abbiamo questa idea della fratellanza universale? Sì e no. Lo diciamo tante volte pensando che sia una bella cosa, ma utopistica, cioè non realizzabile, un bel sogno, ma non pratico, che nella realtà delle cose non trova applicazione. Ed ecco che noi dobbiamo persuadere noi stessi, prima che gli altri, che la fratellanza deve essere la legge, il principio, il criterio dominante del rapporto tra gli uomini.

Dobbiamo diventare, se non lo siamo ancora, fratelli, e abituarci - il Vangelo da tanti secoli ce lo dichiara, ma ci trova quasi refrattari alla lezione - a vedere in un altro volto umano quasi lo specchio del nostro, a vedere un altro noi stessi negli altri. Il Signore ha detto: "Amatevi gli uni gli altri, amatevi come voi stessi". Cioè: dobbiamo trasferire anche negli altri quel sentimento di personalità che proprio ci definisce, il nostro io; comprendere noi stessi negli altri, allargare, universalizzare la nostra personalità in modo che gli altri siano trattati come noi stessi vogliamo essere trattati.

Parola di Gesù. E cosa grande e difficile, a cui dobbiamo educarci e per cui forse dovremo celebrare tante belle altre "giornate della pace". Ma questa è la linea! Questa è la grande politica umana e cristiana del mondo! Dobbiamo abituarci a vedere negli uomini non degli antagonisti, non dei nemici, non dei rivali, non dei concorrenti, dei fratelli.

Questo toglie forse a noi la forza di difendere i nostri interessi?

No. Dobbiamo difendere gli interessi nostri in maniera diversa che con l'odio, con la violenza e con la sopraffazione. Dobbiamo trattare su un piano elevato che si chiama ragione, su un piano ancora superiore che si chiama carità. Dobbiamo voler bene a tutti, anche a quelli che ci sono avversari, anche a quelli che ci fossero antipatici, che ci fossero nemici. Dobbiamo avere questa immensa forza nuova di umanità. È la lezione del Vangelo. Figli e fratelli carissimi, abbiamo noi la forza del perdono?

Sappiamo davvero far diventare la nostra anima così forte, così energica da cedere davanti alla cattiveria altrui? Non l'abbiamo forse ancora. La dobbiamo acquistare. E quantunque tutti i giorni diciamo al Signore: "Padre nostro, rimetti a noi i nostri debiti 'come' - attenti a quel come! - 'come' noi li rimettiamo ai nostri debitori", questa equazione fra i debiti che noi vogliamo avere condonati da Dio e quelli che noi dobbiamo condonare agli altri, tante volte non c'è!

Pretendiamo che Dio, sì, ci perdoni, abbia misericordia di noi, ci benedica, e noi "non" benediciamo, "non" perdoniamo agli altri. Bisogna riuscire ad avere questa forza d'animo. La pace non è una debolezza, non è una viltà, non è una rinunzia passiva alle proprie aspirazioni, ai propri interessi davanti agli altri. È una difesa legittima, misurata, ragionata delle aspirazioni. Ce ne sono ancora tante, tante! Per il nostro popolo quante attese vi sono ancora, e belle e grandi; tutti dobbiamo lavorare perché siano soddisfatte. Ma per ottenerle dobbiamo organizzare la nostra società, la nostra democrazia sull'amore, sulla carità, sui principi del Vangelo e anche su quelli del diritto naturale, che ci dice appunto essere gli uomini simili gli uni agli altri e avere tutti parità di diritti e parità di doveri.

Questo vi ricordiamo. E vedete che la predica diventa difficile e diventa quasi impossibile ad effettuarsi, perché domanda molto. Ma cominciamo dal nostro cuore, a renderlo buono, forte, misericordioso, capace di vedere i bisogni e le miserie altrui, capace di soccorrere gli altri, capace di dare la mano a chi è più debole, a chi è caduto, con senso di fraternità e di misericordia. Vedrete, allora, che le cose miglioreranno e un giorno la pace, in nome di Cristo e in nome della civiltà, trionferà.






Martedì, 2 febbraio 1971: CERIMONIA DI OFFERTA DEI CERI

20271 Solennità della Presentazione di Gesù al Tempio



La festa che oggi celebriamo, ed i riti in cui essa si esprime, presentano aspetti concettuali diversi, tra i quali ci piace ora scegliere per nostra meditazione e per nostra edificazione l’aspetto di oblazione.

Noi riscontriamo facilmente questo aspetto nel fatto evangelico commemorato: Gesù, dopo quaranta giorni dalla sua nascita, è portato al tempio in Gerusalemme da Maria e da Giuseppe «per presentarlo al Signore» (
Lc 2,22). È una prescrizione legale, che si compie a riguardo di Gesù, come per ogni altro primogenito, in riconoscimento dei diritti sovrani di Dio; l’oblazione assumeva significato di sacrificio, dal cui compimento il neonato era riscattato mediante una ben più modesta offerta d’un paio di tortore, o di colombi, nella quale tuttavia l’idea di oblazione era significata. L’idea medesima sopravvive nel presente rito commemorativo di quel fatto evangelico: allora Gesù era stato riconosciuto Messia; ed il Messia è proclamato dal vecchio Simeone, invaso dal vaticinio del profeta Isaia circa l’atteso Salvatore, «luce dei popoli» (Cfr. Is 42,6 Is 49,6). Cristo è la luce del mondo. Immagine più felice, più alta, più universale è difficile attribuire al Figlio di Dio fatto uomo; essa lo dimostra, lo qualifica, lo esalta e lo presenta al mondo. L’evangelista Giovanni, come ben sappiamo, la inserisce nel prologo del suo vangelo: «la luce splende nelle tenebre» (Jn 1,5-9). Gesù la farà propria, come una delle proprie definizioni abbaglianti: «Io sono la luce del mondo» (Jn 8,12; e Jn 12,46). Ed ecco che il cero, simbolo di Cristo-luce, prende nelle vostre mani valore di offerta, espressiva di quella che fu fatta del Bambino Gesù a Dio Signore e altresì di quella che ogni offerente vuol fare di sé e dei suoi allo stesso Iddio, Signore e Padre della nostra vita. L’offerta del cero vuole così esprimere l’oblazione dell’offerente al Signore. Vuole essere il riconoscimento del suo dominio primario sopra di noi e della nostra dipendenza di creature e di figli da Lui. Non svolgeremo discorso su questo atto fondamentale della religione, la quale essenzialmente consiste nel professare tale dipendenza, tale rapporto che classifica la nostra vita nell’ordine ontologico, e che è alla radice del nostro sistema di pensare e di agire. Vogliamo soltanto notare che questo riconoscimento religioso acquista grande importanza specialmente ai nostri giorni, nei quali l’oblio della nostra derivazione dalla Causa causarum sembra diventare abitudine mentale comune all’uomo moderno, anzi sembra costituire obbligo per la sua acquisita maturità e titolo di fierezza per dargli coscienza di emancipazione e di autosufficienza. Noi riteniamo oggi come ieri, anzi oggi più di ieri per la maggiore conoscenza che noi abbiamo delle ricchezze meravigliose di un universo impari a giustificare la propria esistenza, che la negazione di Dio è negazione della suprema Realtà, è fondamentalmente irrazionale e perciò radicalmente inumana; è cecità, con le conseguenze ch’essa porta con sé nella ansiosa e ormai disperata ricerca delle vie giuste e diritte per il cammino umano. L’affermazione religiosa perciò acquista per noi valore di sapienza che dà al mondo e alla vita un significato, misterioso sì, ma non oscuro, e che conferisce all’uomo questo umile, ma preziosissimo potere di pregare e di sperare.

Completiamo la riflessione collocandola nell’analisi dell’atto compiuto, che abbiamo definito oblazione. Cosa è oblazione? È offerta, che riconosce non solo un diritto divino, ma che vuole altresì riconoscere un amore divino verso di noi; e vuole rispondervi, come può, ma con analogo gesto di amore. È un atto riflesso, che assume significato di risposta. Un piano divino di amore ci circonda; da esso ogni beneficio ci è venuto; quanto noi siamo è un debito, è un dono di Colui «che per primo ci amò» (1Jn 4,10-19). La nostra oblazione significa innanzi tutto che ci siamo accorti di questo amore primigenio, che abbiamo avvertito il senso interrogativo ch’esso racchiude, abbiamo capito che sopra di noi si libra un’attesa divina, che mette alla prova la nostra libertà, un invito a cui bisogna dare riscontro, un riscontro dal quale dipende il nostro destino. Nasce di qui il nostro «fiat», il nostro sì, religioso e cristiano.

L’oblazione è segno della nostra coscienza cristiana; e qualche cosa di più: essa vuol essere accettazione, conferma, adesione volontariamente reduplicata. La vita cristiana trova perciò nell’oblazione, cioè nell’offerta cosciente e volontaria dell’anima alla vocazione dell’amore di Dio, la sua prima ed essenziale espressione; e quando l’oblazione si fa totale e perpetua genera una condizione dell’esistenza, un genere di interpretazione cristiana, uno stato di comportamento spirituale e morale, che chiamiamo vita religiosa, la risposta cioè totale all’ipotesi presentata da Cristo ai suoi seguaci più logici e più generosi: «Se tu vuoi essere perfetto . . .» (Mt 19,21).

Questo comporta un’associazione non solo ideale, ma reale fra l’oblazione e il sacrificio. L’offerta diventa vittima. Così per Cristo (Cfr. Is. Is 53,7); così nella Messa: all’offertorio succede la immolazione sacrificale. Così per noi. La nostra offerta del cero, cioè la nostra oblazione di fede e di amore, conclude ad una disponibilità di effettiva accettazione della volontà divina, del servizio che nella Chiesa ci è assegnato, delle avversità che possono derivare dalla nostra adesione. E allora il gesto che voi, Fratelli e Figli carissimi, rinnovate diventa un atto molto impegnativo e molto bello. Noi lo accogliamo come un segno di devozione filiale e gentile, sì, ma altresì come un atto di fortezza e di promessa. Esso ci apre davanti la visione di questa Roma cattolica come illuminata dalle molte e vive fiamme della vostra operosa fedeltà; e ciò ci riempie di consolazione e di gioia.

Ci fa ricordare una scena commovente e bellissima del Nostro recente viaggio nell’Estremo Oriente, la scena della nostra Messa notturna nello stadio di Giacarta. Fu così: all’inizio della Messa venne davanti a Noi un ministro dell’altare, e ci pregò di accendere un cero; ciò che subito facemmo. Questo cero acceso fu portato a dare fiamma di luce ad altri ceri predisposti e portati da altri ministri, i quali si portarono ai vari reparti dello stadio, dove erano i fedeli, muniti ciascuno d’una propria candela, che dall’una all’altra propagarono nell’immensa folla dei presenti l’accensione dei ceri. Avvenne che tutto lo stadio era come una costellazione di piccoli lumi. Al momento dell’elevazione tutti i fari che illuminavano lo stadio, eccetto quello sopra l’altare, furono spenti, così che l’altare nell’oscurità della notte apparve circondato da una ghirlanda di tremule fiammelle, come da una fascia scintillante di stelle vive; ogni fedele una luce intorno all’altare di Cristo. Uno spettacolo meraviglioso; ma ancor più: una scena vera e simbolica insieme; ogni fedele una fiamma, offerta a Cristo, luce delle anime, luce del mondo.

La scena, sotto lo sguardo della Madonna della Candelora, pare a Noi, si ripete oggi spiritualmente qui d’intorno, a Noi portando i lumi delle vostre singole oblazioni; a ciascuno di voi recando nel nome di Cristo la Nostra Benedizione.






B. Paolo VI Omelie 31270