B. Paolo VI Omelie 16571

Domenica, 16 maggio 1971: 80° ANNIVERSARIO DELLA «RERUM NOVARUM»

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Il momento di religiosa riflessione, che la celebrazione del rito sacro a Noi concede, è innanzi tutto rivolto a definire lo scopo di questa solenne e semplice cerimonia.

Lo scopo, voi lo sapete, è commemorativo. Noi vogliamo cioè insieme ricordare un avvenimento, che ebbe a suo tempo ed in quello successivo grande importanza; vogliamo dire la pubblicazione da parte del Nostro sempre venerato e grande predecessore, Papa Leone XIII, di un documento ufficiale e di carattere universale, cioè di una Lettera Enciclica, riguardante le condizioni sociali di quel tempo, di ottanta anni fa, e più precisamente la «questione operaia», cioè il genere di vita economica, morale, sociale, riservato allora ai lavoratori, dopo il primo periodo dell’applicazione della macchina industriale nel campo del lavoro. Si moltiplicò la produzione e la ricchezza da un lato, si creò una moltitudine di lavoratori, poveri e soggetti, dall’altro; si delinearono in forma nuova le classi della società, divise ed opposte da enormi sperequazioni economiche; si polarizzò intorno a due termini, capitale e lavoro, questa paradossale situazione, l’associazione necessaria, cospirante ad un’opera comune, la produzione, e la dissociazione degli animi e degli interessi fino alla lotta sistematica fra coloro ch’erano impegnati nel fatto produttivo, creando così una società stretta allo stesso tempo ad una inevitabile collaborazione ed a un inevitabile conflitto. Il Papa vide allora due fenomeni salienti: vide che questo spontaneo statuto fondamentale della nuova società in via di formazione, uno statuto di lotta permanente e quindi di avversione congenita tra i membri d’uno stesso popolo, era sbagliato rispetto all’armonia, alla concordia, all’equilibrio, alla pace, che devono fare la sua vitalità e la sua felicità; e vide che questo stato di cose comportava per ciò stesso qualche radicale ingiustizia, e soprattutto non solo tollerava, ma spesso imponeva all’immensa classe dei lavoratori condizioni inumane di vita, incalcolabili disagi e sofferenze, disuguaglianze inique rispetto ai comuni diritti, una specie di condanna a un genere di vita umiliante e privo di libertà e di speranza.


PAROLA LIBERATRICE E PROFETICA

E perciò parlò. La Chiesa e il Papa stesso avevano già altre volte denunciato gli errori sociali, di idee specialmente, che venivano generando nei tempi nuovi, quelli appunto del lavoro industriale, gravi inconvenienti; ma quella volta la parola fu più forte, più chiara, più diretta; oggi possiamo dire fu liberatrice e profetica.

Ed ecco allora un secondo scopo di questa cerimonia; essa vuol essere non soltanto commemorativa, ma anche giustificativa. Perché il Papa parlò? Ne aveva il diritto? Ne aveva la competenza? sì, rispondiamo, perché ne aveva il dovere. Qui si tratterebbe di giustificare questo intervento della Chiesa e del Papa nelle questioni sociali, che sono di natura loro questioni temporali, questioni di questa terra, dalle quali sembra esulare la competenza di chi trae la sua ragion d’essere da Cristo, che dichiarò il suo regno non essere di questo mondo. Ma, a ben guardare, non si trattava per il Papa del regno di questo mondo, diciamo semplicemente della politica; si trattava degli uomini che compongono questo regno, si trattava dei criteri di sapienza e di giustizia che devono ispirarlo; e sotto questo aspetto la voce del Papa, che si faceva avvocato dei poveri, costretti a rimanere poveri nel processo generatore della nuova ricchezza, degli umili e degli sfruttati, non era altro che l’eco della voce di Cristo, il quale si è fatto centro di tutti coloro che sono tribolati ed oppressi per consolarli e per redimerli; della voce di Cristo che proclamò beati i poveri e gli affamati di giustizia, e che volle personificarsi in ogni essere umano, piccolo, debole, sofferente, disgraziato, assumendo sopra di sé il debito di una ricompensa smisurata per chiunque avesse avuto cuore e rimedio per ogni sorta di umana miseria.


DIRITTO-DOVERE FORTE ED URGENTE

Il che vuol dire un diritto-dovere del Papa, che rappresenta Cristo, della Chiesa tutta, ch’è pure il Corpo mistico di Cristo, anzi d’ogni autentico cristiano, dichiarato fratello d’ogni altro uomo, di occuparsi, di prodigarsi per il bene del prossimo; diritto-dovere tanto più forte ed urgente quanto più grave e pietosa è la condizione del prossimo nel bisogno.

E vuol dire ancora che la Chiesa, nei suoi ministri e nei suoi membri, è l’alleata per vocazione nativa dell’umanità indigente e paziente; perché la salvezza di tutti è la sua missione, e perché tutti hanno bisogno d’essere salvati; ma la sua preferenza è per chi ha bisogno, anche nel campo temporale, di essere aiutato e difeso. Il bisogno umano è il titolo primario del suo amore. Povera normalmente essa stessa, la Chiesa, amando e soffrendo insieme con gli affamati di pane e di giustizia, trova in qualche modo in se stessa la prodigiosa virtù di Gesù che moltiplicò i pani per la folla e svelò la dignità d’ogni vivente per misero e piccolo che questi fosse. E trova le parole gravi e talvolta minacciose, anche se sempre materne, per i ricchi e per i potenti, quando la indifferenza, l’egoismo, la prepotenza fanno loro dimenticare la fondamentale eguaglianza e l’universale fratellanza degli uomini, e consentono loro di confiscare a proprio esclusivo profitto i beni della terra, specialmente se questi sono frutto dell’altrui sudore e dell’altrui sacrificio.

Vi sarebbero molte cose da dire e da spiegare a questo riguardo circa la fedeltà o l’inadempienza degli uomini di Chiesa a questo riguardo; ma ora basta a noi raccogliere la testimonianza del grande documento, che da ottanta anni grida nella storia moderna questo messaggio di giustizia sociale e di umano dovere, e lo grida con perseveranza, con operosità, con amore, e lo fa echeggiare nelle pagine dell’ultimo Concilio, nel quale l’unica gloria terrena che la Chiesa rivendica a sé è quella di servire gli uomini, che essa sola, a bene osservare, con titolo inoppugnabile proclama fratelli.


LA CHIESA SEMPRE MADRE E MAESTRA DEI LAVORATORI

Notiamo così un altro scopo di questa commemorazione, ed è quello di continuare. Di continuare, diciamo, nell’affermazione della scuola sociale cattolica. La inesauribile fecondità dei principi. teologici, filosofici, antropologici, dai quali trae la sua sorgente e la validità del suo insegnamento, l’imperativo evangelico e storico della sua tradizione, la formidabile tempesta di teorie, di ideologie, di fatti sociali e politici dalla quale siamo avvolti e investiti, la persistenza, anzi la recrudescenza e l’insorgenza di gravi problemi sociali, e, non fosse altro, la ammissione del pluralismo delle opinioni e dei sistemi in vista della sempre dinamica formazione d’un progressivo ordine sociale, autorizzano la Chiesa e obbligano i suoi figli cattolici a interloquire con una loro propria dottrina sociale moderna, che alla luce di eterne e sempre vive verità sappia interpretare le esperienze dei tempi nuovi nel senso della difesa e della promozione dell’uomo incamminandolo verso i suoi veri destini temporali ed eterni.

Continuare. È ciò che Noi abbiamo, con ben più modesta parola, cercato di fare riascoltando quella che, or sono ottanta armi, Leone XIII annunciava alla Chiesa ed al mondo, mediante la Nostra Lettera Apostolica, ieri pubblicata e indirizzata al Card. Roy, Presidente del Consiglio dei Laici e della Commissione Pontificia per la Giustizia e la Pace, vale a dire a questi nuovi organi della Chiesa per la diffusione universale e apostolica della dottrina cattolica in materia sociale. Sono semplici pagine aperte alla vostra riflessione specialmente, cari Lavoratori cristiani, affinché abbiate qualche buona e meditata indicazione per il vostro cammino onesto e legittimo verso le nuove conquiste alle quali aspirate; affinché abbiate fiducia nella Chiesa non solo come guida che talvolta interviene nella disputa dei vostri problemi per preservarvi da facili e seducenti illusioni, o da pause di amarezza e di scoraggiamento, ma davvero, come Madre e Maestra, per sostenervi, per incitarvi, per difendervi, per rendervi capaci di conseguire conquiste di carattere economico, ma di carattere veramente umano, spirituale e religioso: e finalmente affinché non abbiate a credere né superato, né inefficiente, né bisognoso d’equivoche integrazioni il nome cristiano, che vi qualifica e vi onora. Fedeltà, fiducia, unione, sia questa la nostra celebrazione della «Rerum novarum», nel progresso dell’opera e nella letizia della speranza.




Giovedì, 10 giugno 1971: SOLENNITÀ DEL SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO

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Salute a voi tutti, Fratelli e Figli carissimi!

A Voi, sacerdoti, operatori e ministri dell’Eucaristia: oggi solennità del Corpo e del Sangue di Cristo, è festa grande per la vostra elezione, per la vostra mediazione, per la vostra duplice identificazione: con il Popolo di Dio, a cui voi appartenete, come fratelli e servitori nel ministero; con Cristo, di cui voi esercitate le prodigiose potestà che a Lui vi assimilano, come sacerdoti e come vittime nel sacrificio eucaristico! Meditate ed esultate in silenzio: è festa vostra!

A voi salute, Fedeli tutti, che qui per Noi rappresentate Roma cattolica, Urbe centrale di tutta la Chiesa, la sua storia, la sua fedeltà, la sua attuale vitalità; e volete essere con Noi per celebrare l’incontro sacramentale e perenne con Cristo vivo, nella fede, nella speranza, nell’amore!

A voi, specialmente, cari, carissimi Ammalati, che portate a questa celebrazione l’incenso bruciante e profumato del vostro dolore, e che date a Noi il gaudio paziente di incontrarvi, di esservi per un’ora vicini, di esprimervi la Nostra commossa affezione, di condividere le vostre pene e le vostre preghiere, salute! salute! Oh! come vorremmo che in questo augurio fosse la virtù, ch’esso significa ed auspica, quella salute che Gesù, Lui Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, elargiva agli infermi e ai sofferenti, incontrati durante il suo terreno soggiorno: Lui sì, tutti confortava e guariva: «Da Lui, scrive San Luca, l’evangelista medico, emanava una forza che guariva tutti» (
Lc 6,9). A Noi non è stato trasmesso questo potere miracoloso, ma quello, non certo meno prezioso, di comunicare non la salute fisica, ma la salvezza spirituale; e questa ora Noi vorremmo farvi in qualche modo gustare celebrando insieme con voi e per voi questa festa misteriosa e grandiosa del Corpo e del Sangue di Cristo. Voi soffrite di due mali, uno fisico, al quale medici ed assistenti cercano, con tanta bravura e premura, di portare rimedio; l’altro spirituale, che non è meno grave, sentito e complicato: a questo almeno la presente celebrazione può recare conforto.


MISTERO DI PRESENZA

Come mai? Ascoltate un momento. Qual è il vero significato di questa cerimonia? che cosa accadrà durante questo rito, come sempre, quando una Messa è celebrata? Accadrà questo: che Gesù, proprio Lui, Gesù Cristo sarà presente, sarà qui, sarà fra noi, sarà per voi. Noi stiamo rievocando non solo la sua memoria, ma la sua presenza, la sua presenza reale, velata, nascosta, accessibile soltanto a chi crede nella sua divina parola, ripetuta, e potente, da chi possiede il suo prodigioso sacerdozio, ma vera presenza, viva, personale. Lui, Gesù benedetto, sarà presente. L’Eucaristia è innanzi tutto un mistero di presenza. Pensiamoci bene: Gesù mantiene in questa forma e in questa ora la sua profetica parola: «Io sarò con voi fino alla fine dei tempi» (Mt 28,28). «Io non vi lascerò orfani, verrò a voi» (Jn 14,18). Così disse, e così fa: Egli sarà qui, per Noi, per voi, per ciascuno di voi. Ora dite, voi oppressi dalla sofferenza: non è la solitudine, il senso d’essere soli, e quasi separati da tutti, ciò che fa grave, e talora insopportabile e disperata la vostra sofferenza? Il dolore è, di per sé, isolante; e ciò fa paura, e accresce la pena fisica. Ebbene, per chi crede nell’Eucaristia, per chi ha la fortuna di riceverla, questa tremenda solitudine interiore non c’è più. Egli, Gesù, è con chi soffre. Egli conosce il dolore. Egli lo consola. Egli lo condivide. Egli è il medico interiore. Egli è l’amico del cuore. Egli ascolta i gemiti dell’anima. Egli parla in fondo allo spirito.


L’ESEMPIO DI GESÙ

Perciò ascoltate ancora questo linguaggio, proprio dell’Eucaristia. Vi dicevamo: Gesù sarà presente. Ma come sarà presente? Sarà presente, sia pure in modo incruento, come «l’uomo dei dolori» (Cfr. Is. Is 53,3); come vittima, come «agnello di Dio» (Jn 1,29); sarà presente come era nell’ora della sua passione, del suo sacrificio, come crocifisso. Questo significa la duplice specie del pane e del vino, figure del Corpo e del Sangue del medesimo Cristo. Gesù si offre per noi e a noi com’era sulla croce, immolato, straziato, consumato nel dolore portato al suo più alto grado di sensibilità fisica e di desolazione spirituale; ricordate i suoi spasimi umanissimi: «Ho sete!» (Jn 19,28); e i suoi ineffabili tormenti: «Dio! Dio! perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46); ricordate? Chi ha sofferto quanto Gesù? La sofferenza è proporzionale a due misure: alla sensibilità (e quale più fine sensibilità di quella di Cristo, Uomo-Dio?), e all’amore: la capacità di amare è misurata dalla capacità di soffrire. Comprendete come Gesù è vostro esempio, è vostro collega, uomini e donne, che qua portate le vostre vite doloranti? Comprendete perché proprio con voi abbiamo voluto celebrare la solennità del Corpo e del Sangue di Cristo?


OFFRIRE IL DOLORE PER LA CHIESA

E vi diremo di più: comprendete ora che cosa è la comunione, e ciò che l’assunzione dell’Eucaristia compie in voi? È la fusione della vostra sofferenza con quella di Cristo. Ciascuno di voi può ripetere, a maggiore ragione d’ogni altro fedele che si comunica, le parole di San Paolo: «. . . io mi rallegro nelle sofferenze . . . . e compio nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo» (Col 1,24). Soffrire con Gesù! quale sorte, quale mistero! Ecco, ecco una grandissima novità: il dolore non è più inutile! Se unito a quello di Cristo, il nostro dolore acquista qualche cosa della sua virtù espiatrice, redentrice, salvatrice! Capite ora perché la Chiesa onora ed ama tanto i suoi malati, i suoi figli infelici? Perché essi sono Cristo sofferente, il Quale, proprio in virtù della sua passione, ha salvato il mondo. Voi, carissimi ammalati, potete cooperare alla salvezza dell’umanità, se sapete unire i vostri dolori, le vostre prove a quelle di Gesù, che ora verrà a voi nella santa comunione.

E lasciate allora che Noi vi rivolgiamo una preghiera, suggerendo a voi di dare alle vostre sofferenze la medesima intenzione, che ispirava all’Apostolo, di cui vi abbiamo citato le famose parole, queste altre che integrano il suo pensiero: godo, egli diceva, di patire completando la passione del Signore «a favore del suo (mistico) corpo, che è la Chiesa» (Ibidem.): ebbene, questo Noi vi chiediamo, che abbiate a offrire (vedete: soffrire diventa offrire!) i vostri dolori per la Chiesa; sì, per la Chiesa intera, e per questa romana in particolare. Voi forse ne conoscete i bisogni.

Avrete voi, e avremo così insieme, degnamente celebrato la festa del Corpo e del Sangue di Cristo: festa di dolore, di amore, di consolazione, di speranza e di salvezza, per voi e per tutti!



Martedí, 29 giugno 1971: SOLENNITÀ DEI SANTISSIMI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

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Il Santo Padre, commentando il Vangelo, si sofferma sulla parola «Beato», che sembra abituale sulle labbra di Nostro Signore Gesù Cristo, ma che nel messaggio evangelico acquista di volta in volta un immenso, profondo, misterioso significato. È la parola che Gesù rivolge a Pietro dopo quella sua improvvisa, ispirata confessione. Pietro ha riconosciuto in Cristo il Messia, Figlio del Dio vivo. E Gesù, approvando con esultanza interiore questo grido uscito dalle labbra dell’Apostolo, dice «beato» a Pietro nel momento dell’atto fondamentale della nostra fede.

Il sistema dottrinale della nostra religione, si fonda sulla persona di Cristo, sul suo mistero, sulla ineffabile verità che egli è uomo come noi ed è Dio come il Padre. Questa unità, che si chiama Incarnazione, e che arriverà a dare valore divino alla Redenzione, è la chiave, la sintesi della nostra fede. È una nuova beatitudine che Gesù aggiunge a quelle enunciate nel discorso detto appunto delle beatitudini. Non è la prima volta che nel Vangelo avvertiamo questa unione, questa sintesi fra la fede e la beatitudine. Il Papa ricorda in proposito il saluto di Elisabetta a Maria («Beata quae credidisti»), le parole di Gesù «Beati sono quelli che ascoltano la mia parola e la accettano», e ancora le parole di Gesù a Tommaso, il quale aveva voluto certificare il fatto della Risurrezione con i suoi sensi, con la sua esperienza diretta: beati quelli che crederanno anche senza aver veduto.

La beatitudine, - prosegue Sua Santità, - è veramente il regno di Dio. E il vedere associata questa parola alla fede ci invita alla riflessione, ad un confronto con le condizioni spirituali nelle quali noi ci troviamo e in cui è posto il mondo contemporaneo. Dalla tradizione culturale degli ultimi secoli siamo stati abituati a distinguere la fede dalla razionalità, ciò che possiamo sapere con la nostra capacita intellettuale da quello che invece ci è fornito dalla Parola di Dio, alla quale dobbiamo credere senza che il nostro intelletto possa fornire una verifica diretta, anche se qualche esperienza poi viene a comprovarne la verità. Siamo stati abituati a separare la fede dal nostro pensiero e quasi a contrapporre i due termini fino ad escludere la fede; essa viene addirittura messa da parte come se fosse una forma inferiore e indebita dell’uso del nostro pensiero. Coloro poi che hanno accolto il connubio tra fede e ragione si sono come adattati ad esso, senza accettarlo pienamente con plauso interiore del pensiero. Hanno tollerato, più che ammesso, la fede. Quando poi l’hanno accettata, è parsa come una fatica, una tensione, un sì stentato, proferito perché qualcuno, la Chiesa, dice che si deve credere, perché la tradizione, grandi spiriti, grandi dottori e grandi santi hanno detto che si può e che si deve credere.

Poi, in quest’ultimo scorcio di tempo il pensiero si è ancora oscurato, anche perché si è quasi disintegrata e dissolta la norma del rigoroso pensare filosofico. Il dubbio, l’incertezza, la critica, sono diventati stati d’animo consueti e normali. Si arriva, in tal modo, come alle soglie di una negazione, di una interpretazione che annulli o che risolva in elementi privi di mistero quanto ammettiamo per fede.

Siamo in un momento, spiega ancora Paolo VI, di crisi della fede, che si ripercuote poi in tanti altri campi, cioè su tutta la vita della nostra religione, della nostra morale, della nostra situazione sociale.

Che cosa dobbiamo fare, adunque, oggi che celebriamo negli Apostoli i campioni, i testimoni, gli araldi del Vangelo e della fede? Dovremo proferire questa preghiera: Fa’, o Signore, che la mia fede sia beata, sia sicura di una felicità interiore, sia il risultato di una coincidenza di verità in parte credute e accettate dalla Parola di Dio, in parte sperimentate dalla mia capacità di pensiero; e fa’ che risulti da questa sintesi una felicità, la felicità che deve essere propria del cristiano, di chi segue ancora questa secolare tradizione che ci porta, nell’anno in cui viviamo, l’immutato messaggio di Pietro; ed egli qui sulla sua tomba ce lo ripete: Tu sei Cristo Figlio del Dio vivente.

Il Santo Padre parla ancora del dono della fede come di una segreta gioia che ci riempie il cuore anticipando quella del possesso completo della verità, della nostra completa beatitudine. Il Papa augura quindi ai presenti, alla Chiesa e a tutto il mondo di aver la fortuna di possedere la fede come una felicità e di sapere che la fede non mortifica e non devia il corso normale del nostro pensiero. Piuttosto lo esige rigoroso e completo, e dove il pensiero si arrende ecco l’incontro con il messaggio gioioso e misericordioso di Dio che dice: Accetta la mia parola.

Noi dobbiamo ripetere qui sulla tomba di Pietro - conclude Paolo VI - per le nostre anime, per la Chiesa e per il mondo che la sta cercando e la desidera forse senza saperlo, questa certezza e questa fiducia dell’essere, del vivere completo che è la fede. Dobbiamo acclamare quello che il Signore ci ha detto: Beati coloro che credono anche senza aver visto. E dobbiamo dire anche noi, con lo stesso entusiasmo di Pietro: Signore, io credo che tu sei Cristo, Figlio del Dio vivo!



Domenica, 15 agosto 1971: SOLENNITÀ DELL’ASSUNTA

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Nella omelia, il Santo Padre saluta innanzitutto il Cardinale Villot, i confratelli nell’episcopato e nel sacerdozio, la comunità parrocchiale e la comunità municipale, il nuovo direttore delle Ville Pontificie, le associazioni parrocchiali, le comunità religiose, i cittadini di Castel Gandolfo. Si dice lieto di trovarsi in mezzo a loro in unità di spirito, di fede e di preghiera, nel giorno dell’Assunta, una festa che induce i cristiani a rivolgere lo sguardo dell’anima verso il Cielo. Non è il cielo che contempliamo quando guardiamo la luna e le stelle, ma un’altra forma di essere, di vita che la Parola di Dio ci assicura susseguente alla forma di vita terrena, un’ineffabile e portentosa esistenza, dove la nostra capacità di vedere Dio e di godere di Lui sarà immensamente aumentata. Mentre adesso abbiamo soltanto il lume della Grazia e dell’intelligenza, che ci fa capire qualcosa di ciò che ci circonda, allora la nostra potenzialità recettiva sarà enormemente accrescitua. Sarà come se in una stanza buia si accendesse una luce. Quel Dio che ora cerchiamo a tentoni nei suoi segni, nelle sue manifestazioni naturali, nella sua opera, un giorno sfolgorerà davanti ai nostri occhi, splendente come il sole.

Paolo VI invita i fedeli a meditare sulla grande distanza che ci separa dal Cielo, sulla grande differenza tra la nostra vita attuale e quella futura. Così, guardando con lo sguardo dell’anima la Madonna Assunta al Paradiso avvertiamo questa infinita distanza. La sentiamo più eccelsa, immensamente diversa e lontana da noi. Maria era già diversa quando camminava su questa terra. Era un’eccezione, una creatura singolarissima, l’unica, oltre a Cristo, preservata dal peccato originale: immacolata, pura, perfetta.

Basterà ricordare le parole di Elisabetta che riceve Maria e che avverte il forte divario che la separa da Lei. Tanto più avvertiamo questa distanza noi che non vediamo Maria nella scena temporale sensibile, ma la contempliamo in uno stato di vita, di cui abbiamo un concetto incompleto e misterioso. Noi chiamiamo santità questa forma di esistenza. I santi sono i cittadini del Cielo, e Maria ne è la Regina; è la santità nel grado più alto, nell’espressione più sublime, completa, perfetta.

Gli uomini vivono in una tensione verso ciò che è perfetto; sono per natura attratti dalla bellezza, dalla virtù, dalla santità. Quando un santo appare sul nostro cammino ci sentiamo come polarizzati verso la sua persona. Anche i profani diventano curiosi, avidi di vedere qualcosa di questa elevatezza singolare che è superiore ad ogni conquista. Nella santità si verifica la pienezza delle nostre facoltà, l’espressione completa del nostro essere, la statura vera dell’uomo. Siamo avidi di perfezione. La Madonna, che è la creatura più perfetta e che ci appare nella sua gloria, attira in maniera superlativa il nostro sguardo.

Noi non conosciamo, - osserva il Santo Padre, - la manifestazione completa della luce divina. Ma conosciamo le perfezioni umane irradiate dallo splendore divino. Sono le virtù, che possiamo scorgere e misurare. La Madonna, proprio perché è così in alto, così distante da noi, nel fulgore dell’essere straordinario, eccezionale, unico, ineffabile che Dio Le ha conferito, irradia sopra di noi, fino ad incantarci, la sua immagine eccelsa, le sue perfezioni, le sue virtù, la sua santità. Noi la possiamo conoscere almeno per quello che nel cammino terreno la Vergine ci ha manifestato, e che il Concilio ha tratteggiato facendo, tra poesia e teologia, fervido elogio alla Madonna.

La prima virtù, la prima bellezza, la prima esemplarità che Maria ci manifesta, è la fede. La Madonna è l’esempio più alto della fede, cioè della comunicazione dell’uomo con Dio. Beata quae credidisti, è stato detto. Beata Colei che ha creduto ed accettato la Parola del Signore, il quale ha cominciato a vivere in Lei perché il Verbo si è riflesso nella sua anima recettiva. Dovremo guardare dunque a Maria come all’esempio di chi ascolta la Parola del Signore: la Parola che nella vita ci viene detta in modo tale da poterla ricevere o rifiutare. Siamo liberi di dire di no e di chiudere davanti a Dio la porta del nostro spirito. Ma ecco, Maria, esempio di Fede. Ella ha aperto la porta della sua anima al Signore.

Fra le altre virtù soprannaturali di Maria il Santo Padre sottolinea, poi, l’obbedienza. Fiat mihi secundum Verbum tuum. È l’obbedienza che fa la grandezza di Maria. Portiamoci ora sulla scena evangelica di Maria sotto la Croce del figlio sanguinante e morente. Qui va posto l’accento sulla fortezza dell’animo di questa Madre, sulla sua eroica capacità di soffrire e di resistere alla sofferenza. E la povertà? la Madonna ha lavorato con le sue mani nella forma più umile, insegnandoci anche questa virtù.

Più, quindi, guardiamo verso la Madonna, più troviamo quello che i santi hanno definito come il modello. Troviamo in Lei realizzata l’umanità nelle sue forme più genuine e per noi più accettabili. Sant’Ambrogio la chiama modello della Chiesa, e questo titolo passa nel Concilio, nelle parole solenni della Costituzione sulla Chiesa. Maria è il modello della Chiesa, cioè dell’umanità che accetta Cristo, si incontra con Cristo. Noi cristiani dobbiamo guardare a Maria per uniformare a Lei la nostra vita, Maria aveva dei privilegi che noi non abbiamo; ma essi, invece di aumentare la distanza tra noi e Lei, ci attraggono. La sua purezza, ad esempio. Nella Madonna non c’è macchia, non c’è imperfezione, non c’è difetto, non c’è mai stato un pensiero non eletto, un atto difforme dalla divina Legge. La nostra vita terrena è, invece, così piena di drammi interiori, di tentazioni, di provocazioni al male che creano in noi turbamenti e squilibri. Maria passa angelica sulla terra, intatta nella sua bellezza. Dobbiamo lasciarci incantare da questo esempio, e cercare di far sì che la nostra vita sia in qualche maniera modellata dalla sua santità tanto esemplare.

Il Santo Padre pone quindi l’accento sulla bontà della Madonna, sulla sua capacità di comprendere, di avvicinare, di consolare, di ascoltare. La Madonna è nel quadro del grande disegno della Comunione dei Santi. La bontà dei santi non è chiusa, esclusiva, inaccessibile; è comunicativa e si irradia dal Cielo verso gli uomini. Noi abbiamo la fortuna di poterci rivolgere, perciò, a Maria, di pregarla. Ella è madre di tutti, e ci infonde una speranza, una confidenza che dovrebbe modificare la nostra vita. Già mentre preghiamo la Madonna si trasforma la nostra fisionomia interiore. Le chiediamo una grazia ed Ella già ce l’ha concessa: quella di pregare, di essere buoni, di pentirci dei nostri peccati. La pietà mariana opera in noi la metanoia, la conversione interiore.

Imitare la Madonna e invocarla: questa l’esortazione del Santo Padre nel giorno dell’Assunta, che ci mostra Maria sfolgorante in una gloria inaccessibile, incomprensibile, superiore alle nostre forze, eppure stupendamente reale. Non sappiamo volare verso di Lei, ma sappiamo raccogliere gli esempi che piovono da Lei. Ella ci predica la fede, la bontà, la carità, la fortezza, l’obbedienza, la purezza, l’umiltà, e ci induce ad inserire queste virtù nel nostro programma di vita. Nessuna invocazione a Lei diretta va smarrita. Maria è pronta ad accogliere la voce più umile, la voce più flebile, la voce di chi è infermo, di chi muore, di chi soffre, di chi lavora. L’intera nostra vita umana è ascoltata da questa intercessione, che ci conduce a Cristo, unico Mediatore e Signore.






Mercoledì, 8 settembre 1971: PELLEGRINAGGIO A SUBIACO

8971 Festa della Natività di Maria Ss.ma



Eccoci finalmente a Subiaco!

Tre motivi muovono i Nostri passi a visitare questo Monastero.

Il primo è il desiderio di dissetarci, sia pure per brevi istanti, a questa fontana di spiritualità. Vennero prima di Noi, durante i secoli decorsi dalla sua lontana fondazione, Pontefici Nostri Predecessori, vennero Santi, tra cui S. Francesco d’Assisi, qui figurato, vennero Principi, Artisti e Studiosi, e uomini cercatori di Dio e di se stessi; vennero innumerevoli alunni della dominici schola servitii, ad ascoltare il maestro S. Benedetto.

Veniamo anche Noi per godere un istante di questa atmosfera beata, dove spira il silenzio, parla la preghiera, vige la penitenza, arde la carità, domina la pace. Veniamo per sentirci pervasi dal flusso corroborante della tradizione mistica ed ascetica della santa Chiesa cattolica, qui fedelmente custodita e incessantemente rinnovata dalla professione monastica. Veniamo per sostare un breve momento in intensa preghiera, quale qui essa sembra avere un suo privilegiato domicilio, e quale l’incalzante fatica del Nostro apostolico ministero ci fa ardentemente bramare. Veniamo per confortare la Nostra speranza e il Nostro gaudio nella croce di Cristo, e per sentirci ancora una volta, da Lui interrogati se Noi davvero lo amiamo, e osando Noi rispondere, specialmente in questa oasi di verità e di carità, che sì, miseri come siamo Noi lo amiamo, per ascoltare ancora la sua dolce e potente voce imporre a Noi d’essere in vece sua, per virtù sua, sull’esempio suo, pastori, fratelli e servitori dell’immenso ed eletto suo gregge, la santa ed unica sua Chiesa. E pare a Noi che la voce del risorto Gesù qui riecheggi per Noi in quella grave e soave del Santo qui venerato: Obsculta, o fili, praecepta magistri. Veniamo dunque per godere un’ora di ristoro spirituale; a sollievo della Nostra responsabilità, a presidio della Nostra fiducia nell’unica, valida virtù, la grazia del Signore.

Poi siamo venuti per salutare nel Signore lei, venerato Padre Abate Don Egidio Gavazzi, a Noi caro nel vincolo di lontani ricordi e di comuni sentimenti, degno successore del defunto Abate Salvi, e grato riflesso di una singolare e radiosa figura di Monaco Sublacense, il sempre compianto Abate Don Emanuele Caronti, maestro fra i primi della rinascita liturgica in Italia, e monaco veramente saggio ed esemplare nell’armonica fusione della vita interiore con l’azione esteriore, sempre fedele alla formula incomparabilmente sintetica e feconda del programma benedettino: ora et labora. E così intendiamo estendere il Nostro saluto alla veneranda e fervorosa comunità religiosa del Monastero di Santa Scolastica e del Sacro Speco, con la pia clientela monastica e laica, che qui ha il suo centro e di qui diffonde in Europa, in Italia, nel mondo, il nome e lo spirito di San Benedetto.

Intendiamo così, pur senza ufficiale solennità, ma con tanto maggiore semplicità e spontaneità, onorare la testimonianza evangelica, che la vita religiosa rende alla Chiesa ed anche alla società profana; e rinnoviamo pertanto con l’atto di questa visita ad un monastero, che per secoli ha professato con fedeltà e con esemplarità la regola di San Benedetto, il riconoscimento dell’importanza e della funzione della vita religiosa medesima, data da Noi mediante la pubblicazione di una recente Esortazione Apostolica, che voi certo ben conoscete. La vita religiosa è la conversione radicale alla rettitudine e alla santità, confacenti al cristiano animato dalla grazia; è la ricerca prevalente ed insonne della conoscenza del Dio vivente e della comunione e della conversazione con Lui; è la risposta piena e incondizionata alla vocazione di Cristo, che in tanti modi chiama ed elegge; è perciò la rinuncia eroica e liberatrice da ogni impedimento, fosse pur costituito da legittimi beni, in favore della priorità e dell’esclusività del suo amore; è quindi l’audacia delle sequele, oltre i precetti, dei consigli evangelici; è la derivante professione pubblica, convalidata dall’approvazione e dal sostegno della Chiesa, d’un genere di vita impegnata ad una progrediente perfezione; è la scelta d’una comunità di fratelli, tutti guidati dal carisma d’un ispirato ed eccellente interprete delle vie del Signore; è l’offerta totale di sé al servizio di Dio e dell’altrui bisogno; ed è così il preludio escatologico dell’eterna beatitudine.

Se questa è la vita religiosa, come la Chiesa non dovrebbe ritrovarvi se stessa in un’espressione particolarmente fedele ed esemplare, e come potrebbe non lodarla e promuoverla?

E ciò torna a Noi tanto più facile in questo Santuario, dove le forme proprie e le virtù caratteristiche della regola benedettina fanno esse stesse l’apologia della vita religiosa: la vostra costituzione fondata su l’esercizio paterno dell’autorità, fraterno della convivenza, filiale dell’obbedienza; il vostro silenzio e la vostra orazione; la vostra operosità intellettuale e manuale; la vostra austerità e la vostra semplicità; la vostra clausura e la vostra apertura al povero e all’ospite quasi Cristo egli fosse; il vostro stile benedettino, umile e distinto ad un tempo, artistico secondo l’estetica dello spirito, tutto qui dice come la vostra lunga storia tuttora sia vegeta e viva, e possa far proprio il grande sforzo di rinnovamento del recente Concilio.

Per questo oggi siamo qui, a vostra lode, a vostro incoraggiamento e a vostra consolazione.

Ma non è tutto: questa Nostra venuta a Subiaco ha il carattere d’un pellegrinaggio. Veniamo a venerare e ad invocare San Benedetto, perché protegga e assista la santa Chiesa nell’ora che si appressa del Sinodo episcopale. Voi sapete tutto in proposito; e perciò potete pensare quanto sia importante che lo Spirito Santo, Lui, guidi la Chiesa con i suoi lumi e con le sue grazie; Lui le infonda chiara coscienza dei propri doveri secondo la volontà di Cristo, e Lui le dia intelligenza dei bisogni propri di questi tempi; e perciò Noi, dopo aver impetrato la materna assistenza di Maria santissima, della quale oggi festeggiamo la felicissima natività, e dopo di aver chiamato a Noi vicini i Santi Giovanni e Giuseppe, Pietro e Paolo, e tutti gli altri cittadini del cielo, rivolgiamo qui la Nostra speciale preghiera a S. Benedetto e a Santa Scolastica, affinché questi altissimi Santi vogliano fare sperimentare alla Chiesa l’efficacia ed il conforto appunto della comunione dei Santi.

E voi, figli e seguaci del Santo qui nella terra privilegiata, donde la sua missione ebbe principio a vantaggio della Chiesa, del mondo, della civiltà cristiana siate con Noi, e non oggi soltanto, nell’orazione, nel servizio, nell’amore a Cristo Signore e con Lui alla sua Chiesa affaticata e fidente pellegrina nel tempo verso l’eterno incontro.

Sia con voi la Nostra Benedizione Apostolica.






B. Paolo VI Omelie 16571