B. Paolo VI Omelie 30971

Giovedì, 30 settembre 1971: II ASSEMBLEA GENERALE DEL SINODO DEI VESCOVI

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«Gratias vobis et pax a Deo Patre nostro et Domino Iesu Cristo»! (
Rm 1,7 1Co 1,3) Con le parole dell’Apostolo Paolo noi vi salutiamo e vi accogliamo a questo Sinodo, sul quale si concentrano l’attenzione e la speranza della santa Chiesa di Dio, ed insieme non poco interesse del mondo.

Vi salutiamo e vi accogliamo con cuore fraterno ed aperto, subito fondendo la nostra con la vostra preghiera: ogni nostra azione deve così cominciare, a Dio offrendo il nostro culto filiale e da Lui implorando la sua provvida e misericordiosa assistenza. Vi salutiamo e vi accogliamo in questa aula sacra c storica, quant’altre mai rievocatrice nelle sue bibliche immagini dei destini supremi dell’umanità e nei suoi più gravi convegni per le scelte decisive del Pontificato Romano; e vi salutiamo e vi accogliamo in questa ora densa di questioni assai importanti circa il Sacerdozio ministeriale e circa la Giustizia da promuovere nel mondo; e in questa nuova forma sinodale, che dal recente Concilio ecumenico deriva il suo spirito e la sua legge, così che possiamo dire essere qui canonicamente rappresentata e spiritualmente presente tutta la Chiesa cattolica.

Ed ecco che a rendere più evidente e più commovente questa universale presenza è fra noi, giunto in questi giorni a Roma dopo tanti anni di non libera assenza, il venerato Fratello nostro, il Signor Cardinale Jozsef Mindszenty, Arcivescovo di Esztergom, in Ungheria, desideratissimo nostro Ospite, e oggi associato a questa nostra religiosa celebrazione, quasi glorioso testimonio della unione millenaria della Chiesa Magiara con questa Sede Apostolica, quasi simbolo del vincolo spirituale che sempre tutti ci stringe ai Fratelli impediti d’avere con gli altri Fratelli e con noi normali rapporti, e quale esempio di intrepida fermezza nella fede e di infaticabile servizio alla Chiesa, con l’opera generosa dapprima, e poi con un vigile amore, con la preghiera e con la prolungata sofferenza. Benediciamo il Signore, e diamo all’esule ed insigne Pastore, il nostro comune, riverente e cordiale benvenuto, in nomine Domini.

Ma ora il nostro pensiero, lasciando ogni altro, si concentra sul rito, sempre augusto e misterioso, che stiamo fraternamente celebrando. È la santa Messa, che celebriamo con i Presuli, ai quali noi abbiamo affidato di presiedere ai lavori del Sinodo, che oggi è inaugurato. È la santa Messa, la cena memoriale e sacrificale da Cristo stesso istituita per stabilire, nel modo più pieno e più corroborante a noi concesso durante il nostro viaggio nel tempo, la duplice comunione da Lui voluta ed instaurata: la comunione con Cristo medesimo e la comunione fra noi commensali a questo mistico convito. È infatti l’Eucaristia il «sacramento dell’unità», così che la partecipazione che noi celebriamo a tanto sacramento è l’atto più unitivo della nostra vita con Cristo e con quanti insieme abbiamo la fortuna di mangiare dello stesso pane, che lo figura e lo contiene.

Noi vorremmo che di questa duplice comunione, con Cristo nostro Capo e nostro Salvatore, e fra noi suoi seguaci e suoi ministri, noi avessimo, durante il Sinodo, non soltanto un abituale ricordo, come sempre ci è richiesto, celebrando il santissimo rito, ma altresì qualche interiore e vivace esperienza, traducendo in noi stessi le parole dell’Apostolo: «Si qua ergo consolatio in Christo, si quod solacium caritatis, si qua societas spiritus, si qua viscera miserationis, implete gaudium meum ut idem sapiatis, eandem caritatem habentes, unanimes, idipsum sapientes, nihil per contentionem, neque per inanem gloriam, sed in humilitate superiores sibi invicem arbitrantes, non quae sua sunt singuli considerantes, sed ea quae aliorum» (Ph 2,1-4). Così che il bene comune e supremo della Chiesa, e quello dell’umanità in cui si svolge la sua missione, sia in quest’ora intensa e importante non soltanto la nostra aspirazione, ma altresì il nostro conforto e il nostro gaudio, nel cercarne il presagio e la realtà nella presente convocazione sinodale.

La quale si apre con questa celebrazione, e noi tutti sappiamo perché: da Dio Padre nostro deriva ogni nostro vitale principio, mediante Cristo Figlio di Dio vivo e Figlio dell’uomo, nostro unico e sommo Capo, invisibile, ma qui presente (Cfr. Mt 18,20), Maestro e Redentore nostro, autore della nostra salvezza, che consiste nell’animazione dello Spirito Santo, infusa in ciascuno di noi e nell’intero Corpo mistico di Cristo, che è la Chiesa. Noi attendiamo, noi invochiamo questa operazione illuminante e santificante del Paraclito. L’assistenza dello Spirito di Cristo ci è necessaria particolarmente in quest’ora importante per la vita della Chiesa, per la nostra vita.

Prima d’ogni altro problema, questo ci interessa.

Come possiamo ottenere questa assistenza? con la fede e con l’orazione. Non occorre che noi vi diciamo molte parole circa l’esigenza da parte nostra di questi indispensabili requisiti. Voi ben sapete come la fede è l’inizio dell’umana salvezza, e come senza la fede è impossibile piacere a Dio (Cfr. DENZ.- SCHON., 1532, 3008), e come non è frettolosa diagnosi dei disagi che affliggono la vita della Chiesa, e delle tristi condizioni spirituali della società, quella che ne ricerca la causa originaria e precipua in una varia ma unica crisi di fede. Dobbiamo dunque interiormente riconfermare la nostra accettazione convinta e lieta della divina rivelazione con un grande atto di fede; dobbiamo metterci davanti a Dio e a Cristo nell’atteggiamento di umiltà e di attesa fiduciosa proprie del credente, se vogliamo che lo Spirito ci parli nei cuori e ci conceda i carismi confacenti a chi esercita funzioni responsabili nella guida della Chiesa: la scienza, il consiglio, l’intelligenza, la sapienza specialmente, la carità soprattutto.

A questo stato d’animo di disponibilità, passiva, potremmo dire, uno stato d’animo di disponibilità attiva noi dobbiamo congiungere e rianimare senza posa: è l’orazione, che il Signore tanto ha raccomandato come condizione corrispondente alla sua benefica e misericordiosa causalità (Cfr. Mt 7,8 Lc 11,13 Jn 16,24). Dovremmo in questi giorni mantenerci in questo atteggiamento d’implorazione continua, affinché lo Spirito Santo trovi libero accesso alle nostre anime (Ac 1,14 Ac 2,42): orazione nostra ed azione della grazia devono incontrarsi, affinché il nostro orecchio possa cogliere «quid Spiritus dicat ecclesiis» (Ap 2,6).

E poi lasciate, venerati Fratelli, che noi v i rendiamo attenti ad un pericolo specifico, che può circondare la nostra riunione sinodale, e che per diverse vie, oneste o subdole, può turbare la nostra serenità di giudizio, anzi fors’anche la nostra libertà di deliberazione.

Consiste questo pericolo nella pressione: di opinioni di dubbia conformità alla dottrina della fede; di tendenze incuranti di tradizioni autorevoli ed acquisite all’autentica vocazione della Chiesa; di lusinghe all’adattamento alla mentalità profana e secolare; di timori delle difficoltà sollevate dai mutamenti della vita moderna; di pubblicità tentatrice o molesta; di accuse di anacronismo e di giuridismo paralizzante lo spontaneo svolgimento, così detto carismatico, d’un nuovo cristianesimo; e così via. La pressione: il suo volto è molteplice, il suo potere insinuante e pericoloso. Procuriamo d’esserne affrancati mediante l’impulso della nostra coscienza, responsabile di fronte alla nostra missione di Pastori del Popolo di Dio, ed al giudizio divino dell’ultimo giorno; e procuriamo invece di conservare la tranquillità e la fortezza di spirito per saper tutto bene conoscere e bene giudicare, secondo lo spirito di Cristo e secondo i veri bisogni della Chiesa e dei tempi (Cfr. 1 Thess. 1Th 5,21). Liberi da in debite ingerenze ed estranee suggestioni nell’esercizio dei nostri doveri sinodali, dobbiamo invece sentirci vincolati da questi doveri stessi, fra i quali è da ricordare l’osservanza del mandato ricevuto dalle rispettive Conferenze Episcopali, o dai Sinodi dei rispettivi Riti, ovvero dalla rispettiva Unione dei Superiori Generali.

Voi, membri del Sinodo, ne avete ampiamente preparato i lavori, con il clero - qui rappresentato da un gruppo di Sacerdoti che noi salutiamo con affetto - ed anche con religiosi, religiose e laici che partecipano attivamente alla vita della Chiesa nei vostri Paesi. Voi avete poi studiato e deliberato con i nostri fratelli nell’Episcopato l’apporto che ora siete chiamati a dare. Non parlerete, adunque, a titolo personale (se non con espressa dichiarazione, come prevede l’Ordo Synodi), ma sarete la voce qualificata della vostra Chiesa per tutta la Chiesa.

Superfluo che noi vi diciamo quanto sia importante per lei, la nostra santa Chiesa, una e cattolica, codesta voce, che fa eco a quella apostolica, e quanto grave la nostra corresponsabilità; voi ciò ben sapete. Ma non sia vano il voto comune che possa la Chiesa medesima, per virtù dello Spirito di Dio, «qui loquitur in vobis» (Mt 10,20), e per l’intercessione di Maria, Colei, che fu madre di Cristo secondo la carne, e madre, possiamo dire, del suo Corpo mistico secondo lo Spirito nel giorno di Pentecoste, possa la Chiesa essere «edificata» (Cfr. Ep 4,12) dal Sinodo che si iscrive nella sua storia secolare.

L’immagine della «edificazione», così spesso usata nella Sacra Scrittura, ci invita oggi a lavorare insieme con tutte le nostre forze per la grande opera che costituisce l’unico scopo del nostro vivere; costruire la Chiesa sul suo fondamento incrollabile, che è Cristo stesso, via, verità, vita.

Non lasciamoci in nessun modo deviare da questa strada: essa è la sola. Non lasciamoci allettare da nessuna altra voce: la verità è una. Non lasciamoci trascinare verso alcun’altra fonte che non sia quella di Dio vivente e vivificante.

Il nostro dovere di pastori è qui, chiaramente delineato: voglia il Signore concederci di esservi fedeli, sull’esempio dei santi pastori che, lungo i secoli del travagliato pellegrinaggio terrestre della Chiesa, seppero guidarla con coraggio e saggezza, tra gli scogli, verso il largo, dove Cristo la chiama per portare a tutti la buona novella della salvezza.

E noi stessi, quantunque deboli e infermi più di Simone, che avemmo dal Signore medesimo di Pietro il nome e l’ufficio, siamo con voi per dare nuovo incremento al mistico e visibile edificio, affinché esso apra ancor oggi i suoi atrii solidi e luminosi al Popolo di Dio, ora bisognoso, più d’ogni altra cosa, della vera fede che non mente, della sicura speranza che non inganna, del rinascente amore, che non si spegne.






Sabato, 9 ottobre 1971: INAUGURAZIONE DELLA CHIESA PARROCCHIALE DI S. GREGORIO BARBARIGO

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Il primo pensiero a Dio! Varcando le soglie di questo nuovo edificio sacro il senso religioso ci invade e ridesta in Noi l’avvertenza della presenza divina, la quale è dappertutto, così che ci dovrebbe sempre e in ogni luogo parlare e ci dovrebbe trovare intenti a scoprirla nel linguaggio e nella trasparenza di qualsiasi cosa che ci circonda: nulla è profano nella creazione. Tutto postula una ascensione dello spirito umano, se intelligente e se consapevole che ogni spazio, ogni tempo, ogni essere è voce che parte dal mistero divino. Ce lo ricorda la parola stessa di Gesù nel colloquio con la Samaritana, scelto come lettura evangelica di questa Messa: gli adoratori veri del Padre celeste lo dovranno adorare, non vincolati a condizioni esteriori e locali, ma in spirito e verità. Grande lezione evangelica per tutta l’umanità attenta al messaggio della creazione e credente nel messaggio della rivelazione che ci autorizza alla conversazione trascendente con l’ineffabile Iddio mediante il nome umanissimo di Padre. Ma questo non toglie che per svolgere questa estasiante conversazione, questo colloquio specificamente religioso gli uomini abbiano pur bisogno di trovarsi insieme in un luogo che diventa sacro, e d’avere per la loro imperizia al linguaggio religioso e per la loro impotenza, al contatto con i divini misteri, la Parola e i Sacramenti, un ministero autorizzato e fornito di prodigiosi carismi, il Sacerdote cioè il Parroco responsabile; ed ora ecco la «Chiesa», luogo ed assemblea insieme, la Chiesa locale, la Parrocchia.

Ed ecco anche questa Parrocchia!



LA STORIA DEL NUOVO EDIFICIO PARROCCHIALE

Questo sacro edificio, che oggi abbiamo la fortuna d’inaugurare, ha già una storia; la storia delle ragioni donde ha avuto origine. Come ognuno sa, esso è stato voluto e poi costruito per celebrare l’ottantesimo genetliaco del venerato Nostro Predecessore, il Papa Giovanni XXIII: egli era nato il 25 novembre 1881; e fu precisamente dieci anni fa, nel 1961, quando per tributare a lui, giunto alla bella, ma declinante età degli uomini più longevi, come dice il Salmo (Cfr. Ps.
Ps 89,10), un omaggio di devozione e di affezione, che fosse a lui gradito, che rispondesse a scopo utile e religioso, e che perpetuasse nel tempo futuro la cara e paterna memoria di lui, si stabilì di erigere in questa sua ed ora Nostra diocesi di Roma, a cui le innumerevoli e monumentali chiese dei secoli passati non bastano per il servizio pastorale dei nuovi e moderni quartieri, una nuova chiesa parrocchiale; ed è questa, alla quale Papa Giovanni prescrisse il nome del Santo a cui dedicarla, quello di San Gregorio Barbarigo, ed alla costruzione della quale tutta la cattolicità volle concorrere con le offerte, che qui sono diventate le strutture della nuova casa di Dio e della locale comunità dei fedeli, la quale questa sera qui tutti ci accoglie. E proprio perché questo complesso edificio è dovuto alla generosità, non solo romana, ma mondiale dei cattolici, l’invito ad assistere a questa cerimonia di apertura è stato esteso ai Vescovi presenti al Sinodo, quasi in riconoscimento della liberalità manifestata dall’intera Famiglia cattolica in quella occasione allo scopo, che ora vediamo finalmente e felicemente raggiunto.

Perciò l’assemblea, che qui ora ci riunisce, merita da parte Nostra, quali umili successori e quasi interpreti del sempre compianto Papa Giovanni, un particolare e riconoscente saluto. Lasciate che Noi espressamente a voi di cuore lo rivolgiamo:

- al Nostro Vicario Generale per la diocesi di Roma, il Cardinale Angelo Dell’Acqua, collaboratore e confidente dapprima, esecutore poi del voto manifestato da Papa Giovanni in ordine a questa impresa memoriale; e con lui, lo rivolgiamo ai suoi Collaboratori della Pontificia Opera per le nuove chiese in Roma;

- a voi tutti, Signori Cardinali e venerati Fratelli nell’Episcopato, qui presenti, esperti tutti certamente della commozione propria dell’animo d’un Pastore quando vede compiuta un’opera come questa; possa codesta partecipazione al Nostro gaudio spirituale meritare anche a voi e alle vostre lontane e gravate Diocesi simile soddisfazione per il bene delle vostre popolazioni;

- lo rivolgiamo il Nostro riconoscente saluto al Signor Ingegnere Raffaele Girotti, Presidente del Comitato parrocchiale promotore di questa costruzione: abbiamo testé ascoltato le sue nobili parole, eco dei suoi alti sentimenti e di quelli di quanti con lui hanno contribuito al felice esito del difficile lavoro; e Noi lo ringraziamo in modo particolare perché sappiamo quanto egli sia sovraccarico d’impegni professionali, e perciò quanto significativa sia l’adesione ad attività, come codesta, rivolta al bene spirituale di questo quartiere; ci sembra il suo esempio un lieto presagio per la vita religiosa di tutto il ceto sociale del quartiere stesso;

- con lui vorremmo ricordare il compianto Architetto Giuseppe Vaccaro, recentemente deceduto, al quale si deve lo studio architettonico della nuova costruzione, obbligata a inserirsi armonicamente nelle esigenze edilizie e prospettive circostanti; così vada il Nostro saluto al costruttore Carlo Pessina e a tutte le valorose maestranze.

Non possiamo omettere in questa rapida rassegna dei protagonisti della nuova costruzione le Autorità del Comune di Roma, tanto comprensive e premurose, e la Società Stefer, che ha ospitato in un suo deposito la nascente Parrocchia.

Ma poi il Nostro saluto si rivolge al Parroco, il bravo e zelante Don Bruno Greggio, di Padova; e vada alla Diocesi che a quella di Roma lo ha ceduto un particolare ringraziamento; e vada questo Nostro benedicente saluto a quanti, Sacerdoti, Religiosi e Religiose, prestano aiuto al Parroco nel ministero parrocchiale: così pure, e di gran cuore, ai Fedeli, alle loro singole Famiglie, ai Giovani specialmente, che s’interessano della costruzione spirituale della comunità incentrata nella nuova chiesa di S. Gregorio Barbarigo.


PER L'EDIFICAZIONE DELLA VERA CHIESA

Perché questo, alla fine, è lo scopo principale della costruzione materiale, che stiamo inaugurando: la costruzione spirituale. A nulla varrebbe l’aver speso cure, denaro, fatiche, per edificare queste mura, questa «chiesa», se essa rimanesse vuota, o se essa non servisse a edificare la vera «Chiesa», quella dei credenti in Dio, quella dei viventi per Cristo nello Spirito di grazia e di carità, e che formano la comunità locale, orante ed operante, espressione genuina e viva della Chiesa universale, corpo visibile e mistico di Cristo Signore.

La cosa è così ovvia che sembra superfluo dedicarvi un discorso. Eppure no: essa è tanto importante, e sotto molti aspetti, tanto difficile, - più difficile, «in genere suo» - che la stessa impresa edilizia ora a Noi d’intorno, che non vogliamo trascurare l’occasione per farvi un accenno.

Ricordate le parole di Gesù: «Io costruirò la mia Chiesa»? (Mt 16,18) Che cosa intendeva dire il Signore con questa immagine edilizia? e che cosa significa sulle labbra di Cristo la parola «Chiesa»? Lo sappiamo tutti. Gesù pensava ad una convocazione organica dell’umanità; pensava a istituire una comunità in continua formazione; pensava all’aspetto collettivo e unitario della salvezza, sempre in divenire nella storia; pensava alla composizione d’una società, voluta e promossa da lui stesso: «Io costruirò»; ma sopra di Sé, Pietra viva, Pietra d’angolo (Mt 21,42), sostegno d’un fondamento umano, qualificato, da Lui stesso chiamato Pietro, e sopra il quale si sovrapponessero altre «pietre vive», come scrive S. Pietro stesso (1P 2,5-7), che sono i cristiani, sono i fedeli; i quali, assecondando l’opera degli Apostoli, costruiscono essi pure il mistico edificio, costruiscono la Chiesa. Vale a dire: la Chiesa- corpo vivo, casa animata di Cristo, è sempre in costruzione; tocca a noi a innalzare l’edificio, che nella storia documenta la presenza del Signore e riunisce in un disegno visibile e spirituale insieme il Popolo di Dio chiamato alla fede e alla salvezza.

Ripetiamo a voi, fedeli di questa recente Parrocchia: tocca ora a voi farne una vera, viva e bella costruzione spirituale. Noi non ignoriamo che questo programma non trova facile predisposizione nella gente d’oggi; lo spirito associativo, talvolta anche nelle popolazioni che praticano la religione, non è fiorente; molti preferiscono. proprio a riguardo dei propri sentimenti religiosi, non manifestarli in pubblico; molti non amano avere vincoli comunitari; molti non sentono più, come era un tempo, l’onore e la forza d’appartenere ad un’organizzazione, e molti rifuggono d’essere classificati e tanto meno mescolati fra la folla eterogenea per motivi spirituali. L’urbanesimo moderno poi ha abituato la massa a vivere nella stessa città, nella stessa via, nella stessa casa spesso senza nemmeno che gli individui si conoscano; così, cittadini e colleghi in un medesimo complesso sociale facilmente si rimane anonimi ed estranei gli uni agli altri; spesso questo abitare insieme non forma conoscenze, non forma amicizie, non forma popolo. Non è così della Chiesa: essa rispetta e tutela la libertà e la personalità di ogni suo membro e non obbliga alcuno ad assumere rapporti sociali facoltativi; ma essa, di natura sua, tende a diffondere fra quanti la compongono un’atmosfera di solidarietà e di simpatia, ad armonizzare animi e voci in una medesima preghiera, a fare dei fratelli, a fare d’ogni singola Famiglia un nido di amore, di fedeltà e di pietà, a fare un Popolo; un Popolo di Dio, a cui la stessa fede, la stessa speranza, la stessa carità lasciano pregustare qualche cosa del gaudio dell’unità escatologica, cioè quello pieno e perfetto della comunione dei Santi finale.



L’INSEGNAMENTO DI PAPA GIOVANNI XXIII

Del resto questo fenomeno, chiamiamolo così, non è poi cos? ostico come qualcuno potrebbe credere: non si catalizzano forse oggi con facilità gruppi giovanili spontanei, in ordine a qualche formula culturale o spirituale? E se la formula si integra con uno scopo di carità sociale non è già trovato il cemento per una fusione comunitaria più stabile e più interiore? Ovvero, se un atto di culto, che esiga un esercizio ascetico di fedeltà e una certa intensità di raccoglimento e di preghiera, riunisce qui qualche persona franca e fervorosa, non trova subito seguaci che formano cenacolo? Ci è giunta notizia che questa vostra Parrocchia si distingue per un culto speciale all’Eucaristia, e alla Madonna: che cosa di meglio si può desiderare affinché essa, la vostra Parrocchia, si sviluppi in ricchezza di vita comunitaria e di fervore religioso?

Noi pensiamo, se così è e se così sarà, che Papa Giovanni ne sarà veramente onorato, e nel cielo felice, e prodigo per voi della sua caratteristica benevolenza. Perché, dedicando questo centro parrocchiale a San Gregorio Barbarigo, Egli, quasi definendo se stesso, ha indicato quale tipo di comunità cattolica Egli abbia auspicato: fu il Barbarigo, come sicuramente vi sarà stato detto e ripetuto, un Vescovo a lui caro, tanto che lo volle canonizzare non solo perché questi esercitò il suo ministero prima a Bergamo, patria di Papa Roncalli, e poi lungamente a Padova, ma perché fu un Santo di virtù pastorali, che proprio vuol dire virtù comunitarie e popolari, imitatore così d’un altro grande Pastore d’anime, che caratterizzò un periodo della Chiesa, quello Post-tridentino, San Carlo Borromeo. Figure e formule antiquate? No: esse sono così vicine, da un lato, all’autenticità del Vangelo e della Chiesa, dall’altro così dedite al bene del popolo, al servizio delle sue concrete e storiche necessità, da rimanere «tipiche», esemplari cioè per quel rinnovamento della Chiesa, diciamo di più, della vita morale, culturale, sociale del loro tempo, che noi, sicuri nella perenne vitalità della fede, andiamo cercando per il nostro tempo, sotto il titolo programmatico dell’«aggiornamento», cioè, dell’attualità cristiana, autentica quale il nostro tempo reclama; il cattolicesimo vivo, di cui Barbarigo fu allora magnifico promotore, e Papa Giovanni oggi quasi profeta e maestro.

Ecco: nel nome di questi benedetti protettori e ispiratori, Noi vi esortiamo ad essere davvero buoni parrocchiani, qui dov’è per voi offerto nella classica e imperitura formula parrocchiale (bisognosa d’integrazione, ma sempre necessaria) l’incontro con Dio e l’incontro con i Fratelli. Con la Nostra Apostolica Benedizione.






Domenica, 17 ottobre 1971: SOLENNE BEATIFICAZIONE DI PADRE MASSIMILIANO MARIA KOLBE

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Massimiliano Maria Kolbe, Beato. Che cosa vuol dire? Vuol dire che la Chiesa riconosce in lui una figura eccezionale, un uomo in cui la grazia di Dio e l’anima di lui si sono così incontrate da produrre una vita stupenda, nella quale chi bene la osserva scopre questa simbiosi d’un duplice principio operativo, il divino e l’umano, misterioso l’uno, sperimentabile l’altro, trascendente ma interiore l’uno, naturale l’altro ma complesso e dilatato, fino a raggiungere quel singolare profilo di grandezza morale e spirituale che chiamiamo santità, cioè perfezione raggiunta sul parametro religioso, che, come si sa, corre verso le altezze infinite dell’Assoluto. Beato dunque vuol dire degno di quella venerazione, cioè di quel culto permissivo, locale e relativo, che implica l’ammirazione verso chi ne è l’oggetto per qualche suo insolito e magnifico riflesso dello Spirito santificante. Beato vuol dire salvo e glorioso. Vuol dire cittadino del cielo, con tutti i segni peculiari del cittadino della terra; vuol dire fratello e amico, che sappiamo ancora nostro, anzi più che mai nostro, perché identificato come membro operoso della comunione dei Santi, la quale è quel corpo mistico di Cristo, la Chiesa vivente sia nel tempo che nell’eternità; vuol dire avvocato perciò, e protettore nel regno della carità, insieme con Cristo «sempre vivo da poter intercedere per noi (
He 7,25; cfr. Rm 8,34); vuol dire finalmente campione esemplare, tipo di uomo, al quale possiamo uniformare la nostra arte di vivere, essendo a lui, al beato, riconosciuto il privilegio dell’apostolo Paolo, di poter dire al popolo cristiano: «siate imitatori di me, come io lo sono di Cristo» (1Co 4,16 1Co 11,1 Ph 3,17 cfr. 1Th 3,7).


VITA ED OPERE DEL NUOVO BEATO

Così possiamo da oggi considerare Massimiliano Kolbe, il nuovo beato. Ma chi è Massimiliano Kolbe?

Voi lo sapete, voi lo conoscete. Così vicino alla nostra generazione, così imbevuto della esperienza vissuta di questo nostro tempo, tutto si sa di lui. Forse pochi altri processi di beatificazione sono documentati come questo. Solo per la nostra moderna passione della verità storica leggiamo, quasi in epigrafe, il profilo biografico di Padre Kolbe, dovuto ad uno dei suoi più assidui studiosi.

«Il P. Massimiliano Kolbe nacque a Zdusnka Wola, vicino a Lodz, l’otto gennaio 1894. Entrato nel 1907 nel Seminario dei Frati Minori Conventuali, fu inviato a Roma per continuare gli studi ecclesiastici nella Pontificia Università Gregoriana e nel “Seraphicum” del suo Ordine.

Ancora studente, ideò un’istituzione, la Milizia della Immacolata. Ordinato sacerdote il 28 aprile 1918 e tornato in Polonia cominciò il suo apostolato mariano, specialmente con la pubblicazione mensile Rycerz Niepokalanej (il Cavaliere della Immacolata), che raggiunse il milione di copie nel 1938.

Nel 1927 fondò la Niepokalanbw (Città dell’Immacolata), centro di vita religiosa e di diverse forme di apostolato. Nel 1930 partì per il Giappone, ove fondò un’altra simile istituzione.

Tornato definitivamente in Polonia si dedicò interamente alla sua opera, con diverse pubblicazioni religiose. La seconda guerra mondiale lo sorprese a capo del più imponente complesso editoriale della Polonia.

Il 19 settembre 1939 fu arrestato dalla Gestapo, che lo deportò prima a Lamsdorf (Germania), poi nel campo di concentramento preventivo di Amtitz. Rilasciato il giorno 8 dicembre 1939, tornò a Niepokalanow, riprendendo l’attività interrotta. Arrestato di nuovo nel 1941 fu rinchiuso nel carcere di Pawiak, a Varsavia, e poi deportato nel campo di concentramento di Oswiecim (Auschwitz).

Avendo offerta la vita al posto di uno sconosciuto condannato a morte, quale rappresaglia per la fuga d’un prigioniero, fu rinchiuso in un Bunker per morirvi di fame. Il 14 agosto 1941, vigilia dell’Assunta, finito da una iniezione di veleno, rendeva la sua bell’anima R Dio, dopo aver assistito e confortato i suoi compagni di sventura. Il suo corpo fu cremato» (Padre Ernesto Piacentini, O.F.M. Conv.).


IL CULTO DELL'IMMACOLATA CONCEZIONE


Ma in una cerimonia come questa il dato biografico scompare nella luce delle grandi linee maestre della figura sintetica del nuovo Beato; e fissiamo per un istante lo sguardo su queste linee, che lo caratterizzano e lo consegnano alla nostra memoria.

Massimiliano Kolbe è stato un apostolo del culto alla Madonna, vista nel suo primo, originario, privilegiato splendore, quello della sua definizione di Lourdes : l’Immacolata Concezione. Impossibile disgiungere il nome, l’attività, la missione del Beato Kolbe da quello di Maria Immacolata. È lui che istituì la Milizia dell’Immacolata, qui a Roma, ancora prima d’essere ordinato Sacerdote, il 16 ottobre 1917. Ne possiamo oggi commemorare l’anniversario. È noto come l’umile e mite Francescano, con incredibile audacia e con straordinario genio organizzativo, sviluppò l’iniziativa e fece della devozione alla Madre di Cristo, contemplata nella sua veste solare (Cfr. Apoc. Ap 12,1) il punto focale della sua spiritualità, del suo apostolato, della sua teologia. Nessuna esitazione trattenga la nostra ammirazione, la nostra adesione a questa consegna che il nuovo Beato ci lascia in eredità e in esempio, come se anche noi fossimo diffidenti d’una simile esaltazione mariana, quando due altre correnti teologiche e spirituali, oggi prevalenti nel pensiero e nella vita religiosa, quella cristologica e quella ecclesiologica, fossero in competizione con quella mariologica. Nessuna competizione. Cristo, nel pensiero del Kolbe, conserva non solo il primo posto, ma l’unico posto necessario e sufficiente, assolutamente parlando, nell’economia della salvezza; né l’amore alla Chiesa e alla sua missione è dimenticato nella concezione dottrinale o nella finalità apostolica del nuovo Beato. Anzi proprio dalla complementarietà subordinata della Madonna, rispetto al disegno cosmologico, antropologico, soteriologico di Cristo, Ella deriva ogni sua prerogativa, ogni sua grandezza.

Ben lo sappiamo. E Kolbe, come tutta la dottrina, tutta la liturgia e tutta la spiritualità cattolica, vede Maria inserita nel disegno divino, come «termine fisso d’eterno consiglio», come la piena di grazia, come la sede della Sapienza, come la predestinata alla Maternità di Cristo, come la regina del regno messianico (Lc 1,33) e nello stesso tempo l’ancella del Signore, come l’eletta a offrire all’Incarnazione del Verbo la sua insostituibile cooperazione, come la Madre dell’uomo-Dio, nostro Salvatore, «Maria è Colei mediante la quale gli uomini arrivano a Gesù, e Colei mediante la quale Gesù arriva agli uomini» (L. BOUYER, Le trône de la Sagesse, p. 69).

Non è perciò da rimproverare il nostro Beato, né la Chiesa con lui, per l’entusiasmo che è dedicato al culto della Vergine; esso non sarà mai pari al merito, né al vantaggio d’un tale culto, proprio per il mistero di comunione che unisce Maria a Cristo, e che trova nel Nuovo Testamento una avvincente documentazione; non ne verrà mai una «mariolatria», come non mai sarà oscurato il sole dalla luna; né mai sarà alterata la missione di salvezza propriamente affidata al ministero della Chiesa, se questa saprà onorare in Maria una sua Figlia eccezionale e una sua Madre spirituale. L’aspetto caratteristico, se si vuole, ma per sé punto originale, della devozione, della «iperdulia», del Beato Kolbe a Maria è l’importanza ch’egli vi attribuisce in ordine ai bisogni presenti della Chiesa, all’efficacia della sua profezia circa la gloria del Signore e la rivendicazione degli umili, alla potenza della sua intercessione, allo splendore della sua esemplarità, alla presenza della sua materna carità. Il Concilio ci ha confermati in queste certezze, ed ora dal cielo Padre Kolbe ci insegna e ci aiuta a meditarle e a viverle.

Questo profilo mariano del nuovo Beato lo qualifica e lo classifica fra i grandi santi e gli spiriti veggenti, che hanno capito, venerato e cantato il mistero di Maria.


TRAGICO E SUPERNO EPILOGO

Poi il tragico e sublime epilogo della vita innocente e apostolica di Massimiliano Kolbe. A questo è principalmente dovuta la glorificazione che oggi la Chiesa celebra dell’umile, mite, operoso religioso, alunno esemplare di S. Francesco e cavaliere innamorato di Maria Immacolata. Il quadro della sua fine nel tempo è così orrido e straziante, che preferiremmo non parlarne, non contemplarlo mai più, per non vedere dove può giungere la degradazione inumana della prepotenza che si fa dell’impassibile crudeltà su esseri ridotti a schiavi indifesi e destinati allo sterminio il piedistallo di grandezza e di gloria; e furono milioni codesti essere sacrificati all’orgoglio della forza e alla follia del razzismo. Ma bisogna pure ripensarlo questo quadro tenebroso per potervi scorgere, qua e là, qualche scintilla di superstite umanità. La storia non potrà, ahimé!, dimenticare questa sua pagina spaventosa. E allora non potrà non fissare lo sguardo esterrefatto sui punti luminosi che ne denunciano, ma insieme ne vincono l’inconcepibile oscurità. Uno di questi punti, e forse il più ardente e il più scintillante è la figura estenuata e calma di Massimiliano Kolbe. Eroe calmo e sempre pio e sospeso a paradossale e pur ragionata fiducia. Il suo nome resterà fra i grandi, svelerà quali riserve di valori morali fossero giacenti fra quelle masse infelici, agghiacciate dal terrore e dalla disperazione. Su quell’immenso vestibolo di morte, ecco aleggiare una divina e imperitura parola di vita, quella di Gesù che svela il segreto del dolore innocente: essere espiazione, essere vittima, essere sacrificio, e finalmente essere amore: «Non vi è amore più grande che quello di dare la propria vita per i propri amici» (Jn 15,13). Gesù parlava di sé nell’imminenza della sua immolazione per la salvezza degli uomini. Gli uomini sono tutti amici di Gesù, se almeno ascoltano la sua parola. Padre Kolbe realizzò, nel fatale campo di Oswiecim, la sentenza dell’amore redentore. A duplice titolo.


IL SACERDOTE, «ALTER CHRISTUS»

Chi non ricorda l’episodio incomparabile? «Sono un sacerdote cattolico», egli disse offrendo la propria vita alla morte - e quale morte! - per risparmiare alla sopravvivenza uno sconosciuto compagno di sventura, già designato per la cieca vendetta. Fu un momento grande: l’offerta era accettata. Essa nasceva dal cuore allenato al dono di sé, come naturale e spontanea quasi come una conseguenza logica del proprio Sacerdozio. Non è un Sacerdote un «altro Cristo»? Non è stato Cristo Sacerdote la vittima redentrice del genere umano? Quale gloria, quale esempio per noi Sacerdoti ravvisare in questo nuovo Beato un interprete della nostra consacrazione e della nostra missione! Quale ammonimento in quest’ora d’incertezza nella quale la natura umana vorrebbe tal volta far prevalere i suoi diritti sopra la vocazione soprannaturale al dono totale a Cristo in chi è chiamato alla sua sequela! E quale conforto per la dilettissima e nobilissima schiera compatta e fedele dei buoni Preti e Religiosi, che, anche nel legittimo e lodevole intento di riscattarla dalla mediocrità personale e dalla frustrazione sociale, così concepiscono la loro missione: sono Sacerdote cattolico, perciò io offro la mia vita per salvare quella degli altri! Sembra questa la consegna che il Beato lascia particolarmente a noi, ministri della Chiesa di Dio, e analogamente a quanti di essa ne accettano Io Spirito.


FIGLIO DELLA NOBILE E CATTOLICA POLONIA

E a questo titolo sacerdotale un altro si aggiunge; un altro comprovante che il sacrificio del Beato aveva la sua motivazione in una amicizia: egli era Polacco. Come Polacco era condannato a quell’infausto «Lager», e come Polacco egli scambiava la sua sorte con quella a cui il connazionale Francesco Gajownicek era destinato; cioè subiva la pena crudele e mortale in vece di lui. Quante cose sorgono nell’animo a ricordo di questo aspetto umano, sociale ed etnico della morte volontaria di Massimiliano Kolbe, figlio lui pure della nobile e cattolica Polonia! Il destino storico di sofferenza di questa Nazione pare documentare in questo caso tipico ed eroico la vocazione secolare del Popolo Polacco a trovare nella comune passione la sua coscienza unitaria, la sua missione cavalleresca alla libertà raggiunta nella fierezza del sacrificio spontaneo dei suoi figli, e la lo8ro prontezza a darsi gli uni per gli altri per il superamento della loro vivacità in una invitta concordia, il suo carattere indelebilmente cattolico che lo sigilla membro vivente e paziente della Chiesa universale, la sua ferma convinzione che nella prodigiosa, ma sofferta protezione della Madonna è il segreto della sua rinascente floridezza, sono raggi iridescenti che si effondono dal novello martire della Polonia e fanno risplendere l’autentico volto fatidico di questo Paese, e ci fanno invocare dal Beato suo tipico eroe la fermezza nella fede, l’ardore nella carità, la concordia, la prosperità e la pace di tutto il suo Popolo. La Chiesa e il mondo ne godranno insieme. Così sia.



Domenica, 24 ottobre 1971: CELEBRAZIONE DELLA «GIORNATA MISSIONARIA»


B. Paolo VI Omelie 30971