B. Paolo VI Omelie 27272

Domenica, 27 febbraio 1972: STAZIONE QUARESIMALE NELLA PARROCCHIA DI SAN PIER DAMIANI

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Una fervida esortazione ad amare la Chiesa è il tema del Santo Padre nella Omelia pronunciata durante la Messa nella parrocchia di San Pier Damiani ai Monti di San Paolo in Acilia, dove il Papa è presente per la stazione quaresimale.

Paolo VI innanzitutto richiama l’attenzione dei presenti sul motivo della visita. Egli l’attua come Vescovo di Roma, e desidera sottolineare il particolare vincolo di parentela spirituale che lo lega ai parrocchiani di S. Pier Damiani in quanto componenti della stessa diocesi romana. Indica poi tra i motivi principali della sua venuta il fatto che la parrocchia sia dedicata a San Pier Damiani e sottolinea la presenza del Cardinale Cicognani, presidente del comitato per le celebrazioni in onore del Santo, con i presuli che del comitato stesso fanno parte.

Il Santo Padre si sofferma quindi sull’attualità dell’insegnamento di San Pier Damiani, il quale, nove secoli or sono, disse parole, compì gesti, assunse posizioni che trovano riscontro nella situazione del nostro tempo. Il Santo, fu, tra l’altro, vescovo di Ostia, e a quel tempo la zona dove oggi sorge Acilia si trovava proprio nel territorio di quella diocesi. Fu vescovo, fu cardinale. Prima era stato monaco, e ancora tanti monaci camaldolesi continuano la sua tradizione, a cominciare dall’abbazia di Fonte Avellana, un complesso storico, antichissimo in cui si conservano tuttora i tesori originali delle sue opere.

Ma la ragione principale che spinge oggi a onorare questo Santo, al quale da dieci anni è dedicata la parrocchia scelta dal Papa per la visita quaresimale, consiste nel fatto che egli fu esemplarmente «uomo di Chiesa». Questa caratteristica emerge come la nota saliente da tutta la sua vita, piena di avvenimenti e di opere prodigiose. Fu monaco, fu maestro e fu ambasciatore dei Papi del suo tempo. Certe sue lettere e pagine sono vibranti come quelle degli scrittori che hanno lo slancio dell’espressione più ardita e più forte. San Pier Damiani scrisse i suoi libri per la Chiesa. Egli amò intensamente la Santa Chiesa, la Santa Chiesa Romana, di cui fu strenuo difensore. Le parole che ci ha lasciato sulla funzione del Papa che deve presiedere a tutta la Chiesa sembrano scritte negli anni del Concilio Ecumenico Vaticano II. Per ordine di Cristo, il Successore di San Pietro deve avere la responsabilità di tutta la Chiesa, deve portare il suo servizio a tutta la Chiesa.

Questa prerogativa del Sommo Pontefice fu energicamente difesa da San Pier Damiani in tempi, purtroppo, corrotti. Noi sentiamo tanto spesso parlare male della nostra società, e non di rado a buon diritto. Abbiamo molte cose da lamentare. Ma era forse migliore quel tempo? Grazie a Dio, osserva il Santo Padre, i nostri tempi sono migliori. Allora erano decaduti i costumi, i sentimenti del vivere cristiano, e purtroppo anche nell’interno della Chiesa. Perfino alcuni ministri della Chiesa, meritarono riprensione e rimprovero. Nel periodo della vita di San Pier Damiani ci fu più di un antipapa. Era quasi difficile sapere quale fosse il vero Papa. Ma il Santo, seguendo la logica del Vangelo, la logica del Diritto Canonico, della legge della Chiesa, sapeva distinguere il vero Papa. Con forza tremenda, inveiva e scriveva contro chi abusava delle possibilità sfrenate di quei tempi per arrogarsi diritti che non aveva, contro i laici che, secondo un vizio diffuso, comperavano gli uffici ecclesiastici, ottenendo così ricchezza e potenza per sé e per i propri familiari. Contro questo disordine insorse San Pier Damiani, così come molti altri. Paolo VI ricorda, per esempio, l’abate di San Paolo, Ildebrando, che, in seguito divenuto Papa Gregorio VII, impose la libertà della Chiesa contro le intromissioni del potere secolare, stroncò questi vizi e dette gradualmente alla Chiesa un’espressione genuina, sana, dirigendola verso i suoi scopi spirituali e morali.

L’esempio di San Pier Damiani ci invita ad amare la Chiesa. È questa la richiesta del Papa alla parrocchia che porta il nome del Santo, alla diocesi di Roma e a tutta la grande famiglia universale di Cristo che arriva ormai a tutti i confini della Terra. È un invito a voler bene all’umanità, perché è di Cristo e perché Cristo l’ha amata, ha dato il suo sangue per salvarla e ne ha fatto una famiglia di fratelli destinati ad essere una cosa sola con Lui. Bisogna amare la Chiesa proprio come ideale dell’umanità, come scopo delle intenzioni divine sulla vita umana.

Tra i sentimenti degli uomini quello dell’amore per la Chiesa deve essere emergente. L’amore alla Chiesa deve trovarsi al vertice della piramide, perché la Chiesa è l’umanità amata da Cristo, esaltata da Cristo. Noi tutti siamo componenti di questa famiglia umana, e l’appartenenza a questa società religiosa spirituale è per ciascuno motivo di sacrificio, di servizio, di speranza e di gioia. Essere nella Chiesa significa avere una grande confidenza nella vita. Tanti sono sconsolati, disperati. Noi che apparteniamo alla Chiesa dobbiamo essere sempre felici di appartenere a questa famiglia di Cristo che si chiama Chiesa.

Ce lo insegna San Pier Damiani. Si sentono, nel nostro tempo, tante parole offensive verso la Chiesa, parole non solo di critica, che può avere uno scopo, ma di contestazioni avanzate quasi per difendersi, nella vita sociale, dalle espressioni di vita che non si considerano autentiche e buone. Viviamo in un periodo in cui si cerca di colpire lo scandalo nella Chiesa, di trovarlo anche se non c’è, di vedere tutto sotto una luce sinistra. La critica è facile e spesso, specie presso le giovani generazioni, si presenta come un vezzo elegante.

Come si comportò San Pier Damiani di fronte ai difetti della Chiesa, che allora erano molto gravi? Egli amò la Chiesa ed insegnò ad amarla. Dobbiamo amare tanto più la Chiesa quanto più essa ci si presenta inferiore a quello che dovrebbe essere. I mali stessi della Chiesa devono essere per noi motivi per amarla di più. Come amiamo di più una persona ammalata perché ha bisogno di essere assistita, così dobbiamo amare di più la Chiesa nelle sue infermità, nelle sue debolezze, nelle sue ombre umane.

La Chiesa dovrebbe essere santa, buona, dovrebbe essere come l’ha pensata e ideata Gesù Cristo. San Paolo mette il titolo di «sposa di Cristo» nel cuore e sulle labbra di Gesù. La Chiesa deve essere bella, splendida, santa, pura. Così dobbiamo pensarla e desiderarla, anche se tante volte vediamo che qua e là non è vestita di questi meriti. Se siamo veramente figli della Chiesa, se abbiamo capito il disegno di Cristo dobbiamo amarla con maggiore forza, cominciando noi stessi a essere più fedeli, più osservanti, più bravi nella preghiera e nell’esercizio delle virtù cristiane. Si riedifica la Chiesa se ciascuno, personalmente, si sforza di essere autentico nella fedeltà che la Chiesa ha il diritto di pretendere.

San Pier Damiani ha veramente amato la Chiesa e ha vissuto da uomo di Chiesa. Ha predicato la penitenza e ha fatto penitenza. Ha insegnato la preghiera ed è stato uomo di preghiera. Ha invitato ad essere onesti e la sua vita è stata splendente di virtù e di onestà. Ha pregato perché la Chiesa fosse purificata dalle sue scorie ed ha dato egli stesso testimonianza alla Chiesa con la sua integrità e con la purezza della sua vita.

La mancanza che più frequentemente commettiamo, osserva a questo punto il Santo Padre, è quella di essere incoerenti. Siamo battezzati: dobbiamo dunque essere tutti figli di Dio e degni di questo titolo. Lo siamo veramente? Diciamo di essere cristiani: applichiamo dunque la legge cristiana alla nostra vita. Diciamo di essere buoni fedeli: siamo veramente fedeli? La logica ci obbliga a trarre le conseguenze da questa nostra dignità cristiana. Se siamo cristiani, da cristiani dobbiamo vivere. Dobbiamo dimostrare con la nostra vita e con i nostri sentimenti che l’essere fedeli figli della Chiesa non è un nome vano, non è un attributo insignificante.

Paolo VI richiama poi l’attenzione dei presenti sul brano evangelico letto poco prima, quello della Trasfigurazione. Gesù, con tre dei suoi discepoli, si reca su un monte: forse il Monte Tabor, nell’alta Galilea. Arrivano stanchi, di notte. I discepoli cadono a terra e si addormentano. Gesù invece si raccoglie a pregare da solo. A un certo punto gli occhi dei discepoli dormienti si aprono perché si è accesa una gran luce. Vedono che Cristo si è trasfigurato. Il testo parla di una specie di metamorfosi. Gesù è mutato. Il suo volto è irraggiante come un sole e abbaglia i discepoli. Le sue vesti, che erano quelle di un povero viandante, sono diventate candide come la neve, bianche come la luce. I discepoli restano sbalorditi, incantati. Pietro, che è sempre il più impulsivo, il più generoso, il più pronto, il più entusiasta, comincia a parlare. Esprime la gioia di trovarsi lì. Vede vicino a Gesù due altri personaggi. Come li riconosca, non sappiamo. Ma ha un intuito: capisce che sono Mosè ed Elia. Propone di fare tre capanne e di restare in quel luogo così bello. Ma ecco diffondersi un alone luminoso che circonda i tre personaggi: Cristo è al centro, irradiante. I due misteriosi accompagnatori che rappresentano l’uno la legge dell’Antico Testamento, l’altro la profezia, stanno parlando con Lui. La nube li avvolge; i discepoli si gettano a terra. Si ode una voce, profonda, dolcissima, celeste, che dice: «Questo è il mio Figlio amatissimo. Ascoltatelo». I discepoli restano esterrefatti e non hanno il coraggio di sollevare la testa. Si sentono toccare da Cristo, che li invita ad alzarsi. La scena è scomparsa.

Ci sarebbe da chiedersi, come i discepoli conoscessero Gesù. Fino ad allora, lo conoscevano con i loro sensi, come la loro conversazione con lui, la sua compagnia lo avevano a loro presentato: come un uomo. Anche se intravvedevano in Lui qualcosa di singolarissimo, erano affascinati dalla sua presenza, dalla sua parola, dai suoi miracoli, lo vedevano come l’uomo Gesù, il profeta, il maestro. Ma in quel momento videro che in Gesù c’era qualche altra realtà, lo videro trasfigurato, lo videro in trasparenza, lo videro illuminato e illuminante. Si accorsero che Gesù non era soltanto un uomo, ma era un mistero. E la voce dal cielo annunciò questo mistero: è il Figlio di Dio, è Dio fatto uomo. Ascoltatelo. La sua Parola esige d’essere ascoltata perché è venuta dal cielo. Egli è Colui che porta la Parola di Dio nel mondo. È il Verbo, la Parola di Dio che si è fatta uomo, che si è fatta carne nostra. È svelato il mistero dell’incarnazione.

Il Papa invita gli ascoltatori a tener sempre in mente questa immagine del Vangelo che la Chiesa ci propone di meditare. La Chiesa, è un altro Cristo, è Cristo che passa attraverso la storia, è Gesù che si prolunga nel tempo, è il Corpo Mistico di Cristo. Guardando questo Corpo Mistico, vediamo delle persone come tutte le altre, magari anche difettose, che smentiscono con la loro condotta il titolo sovrano di cui sono insignite, cioè il titolo di cristiani. Vorrei, esorta il Santo Padre, che aveste la capacità di intravvedere nella Chiesa la luce che porta dentro, la capacità di vedere trasfigurata la Chiesa, di vedere cioè quello che il Concilio ha illustrato tanto chiaramente nei suoi documenti. La Chiesa racchiude una realtà misteriosa, un mistero profondo, immenso, divino. Dio è nella Chiesa. La Chiesa è il sacramento, il segno sensibile di una realtà nascosta che è la presenza di Dio tra noi. È l’apportatrice di Dio nel mondo. Non è un’apparizione che sfugge; è un destino, un nostro destino perché reca con noi la vocazione di cui siamo insigniti, di diventare figli di Dio, viventi di Dio. Cristo è il grande disegno di Dio di abbassarsi, di farsi come noi perché noi diventassimo associati alla sua vita. Siamo tutti destinati a diventare divinizzati e la Chiesa porta con sé questa vocazione, questo mistero, questa forza che ha di farci cristiani, di trasfigurarci.

Il Papa invita a concepire la storia, tutti i nostri dolori, le nostre fatiche, le nostre gioie, come eventi convogliati a diventare immagine e trasparenza di Dio. Sono parole difficili, ma sono reali, sono belle, sono vere. Tutti vorrebbero vedere un miracolo, ma il miracolo siamo noi stessi se siamo cristiani. La Chiesa è anche umana, ma è la sposa di Cristo, è la bellezza di Cristo, è la virtù di Cristo, è la vocazione di Cristo alla umanità di diventare suo Corpo, di vivere di Lui, di essere unita in Lui, di essere trasfigurata dalla sua presenza e dalla sua virtù divinizzatrice. Ecco il messaggio che il Papa lascia a questa parrocchia, dove è venuto ad onorare il Santo che ha amato la Chiesa e che ha visto in lei, nonostante tutti i suoi difetti, le sue colpe, le sue bassezze, la sposa di Cristo. C’è qualcuno escluso da questa vocazione, da questo destino? È escluso soltanto chi non vuole essere chiamato, chi ama il peccato, e staccarsi dalla Chiesa, preferisce rinunciare a questa fortuna, giocando con la sua sorte eterna. Ma se invece - conclude il Santo Padre - accettiamo con umiltà e con gioia l’invito ad essere figli della Chiesa, membri di questo grande Corpo, siamo destinati fin da adesso a vedere questo destino in una forma sacramentale, dove il segno c’è e la realtà dentro è nascosta. E inoltre siamo pure destinati a veder sfolgorare, come Cristo sul monte, la nostra sorte di essere anche noi figli di Dio, figli per l’eternità.




Domenica, 19 marzo 1972: RITO QUARESIMALE A SANTA MARIA DELLA VISITAZIONE

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Il Santo Padre si reca, nel pomeriggio, alla chiesa parrocchiale di Santa Maria della Visitazione a Casal Bruciato sulla via Tiburtina, dove celebra la Santa Messa. Dopo il Vangelo egli rivolge la sua parola ai fedeli soffermandosi sull’importanza della verità e realtà religiosa per gli uomini del nostro tempo. Riportiamo i pensieri principali dell’Omelia.

Il Papa saluta i presenti ricordando le parole di Gesù ai discepoli quando essi, durante una burrasca, lo videro che camminava sulle acque. Si spaventarono e dissero: «È un fantasma». Ma Cristo gridò da lontano: «Non abbiate paura, sono io, confidate». «Il saluto di Gesù vuol essere il mio in questo momento - così Paolo VI -. Forse vedete il Papa per la prima volta, e avete qualche timore, qualche riserbo. Ebbene, vi dico: non abbiate paura. Sono io, uomo come voi, bisognoso della misericordia del Signore come voi. Siate tranquilli e siate contenti».

Il Santo Padre esprime quindi la sua riconoscenza al Cardinale Vicario, presente al rito nonostante una recente malattia, elogiandolo per l’opera che presta in sua vece per l’assistenza pastorale di Roma, che tanto si espande e che tanto ne ha bisogno. Poi il Papa saluta e ringrazia il vescovo ausiliare Monsignor Zanera, gli altri Presuli, i parroci della prefettura della zona, la comunità parrocchiale tutta, nella persona del suo parroco Don Gregorio; i sacerdoti che lo assistono, le Suore missionarie Minime del Sacro Cuore, che si prodigano in particolare nell’assistenza ai fanciulli; infine tutte le famiglie. Ha quindi sottolineato alcune delle attività della parrocchia, come il gruppo catechistico e tutte quelle che cominciano a riunire i fedeli in nuclei distinti i quali poi concorrono a fare di tutta la comunità un corpo organico e bene organizzato. «Cercate davvero di comporre la vostra parrocchia in queste forme, che rendono più facile, più efficace, più rispondente alle necessità il ministero del parroco».


ATTIVITÀ, OPERE, IMPRESE

Paolo VI ricorda di aver visto, avviandosi verso la parrocchia, numerosi gruppi di giovani: sono le generazioni nuove che non hanno ancora la conoscenza esatta di che cosa sia la Chiesa. Invita perciò i presenti ad aprire generosamente le braccia a questa gioventù, facendo capire ad essa che nella Chiesa potrà trovare comprensione, aiuto, elementi per dare un senso alla vita. All’insieme della comunità parrocchiale, il Papa intende lasciare, a ricordo della sua venuta, la risposta a una domanda che è ripetuta nel nostro tempo da diversi ambienti, da tante correnti di opinione pubblica: a che cosa serve la religione? Siamo infatti abituati a giudicare ogni cosa dalla sua utilità. Il nostro mondo è ricco di attività, di opere, di imprese. Per ciascuna, ci si chiede di solito quale sia la sua funzione; e questo interrogativo non risparmia la religione, la fede, la Chiesa. Che utilità v’è nel costruire una chiesa per radunare la gente, per far sì che si preghi? Tanti, purtroppo, rispondono che non serve a niente, che nel nostro tempo non c’è bisogno della religione. Si può vivere bene - sostengono - anche senza questa espressione dello spirito umano, senza questa organizzazione speciale che compone la comunità, cioè senza la Chiesa. Sembra che il mondo, anche prescindendo dalla fede, vada avanti lo stesso. Si compiono infatti opere grandi; gigantesche realizzazioni coprono la faccia della terra. L’industria, il commercio, la cultura, la scuola, la scienza, la sanità sono tutti campi dell’attività umana dove la religione non appare direttamente. Oggi si cerca di secolarizzare la vita, di renderla cioè spoglia di tutti i vincoli, di tutti i ricordi che possono unirla a una fede religiosa. Vogliono liberare (così dicono) il mondo da questa sopravvivenza, che le generazioni venute prima di noi hanno tanto amato e professato, e reso celebre con chiese, monumenti e opere d’arte.

Il mondo moderno, invero, mostra di tendere a questa secolarizzazione. Ma è bene che sia così? Si può vivere senza la fede? Specialmente coloro che vivono a Roma possono vivere senza sentirsi membri della Santa Chiesa di Cristo?

In realtà questo mondo, che ha tante opere grandi, belle, ricche, nuove, non è contento di sé. Non è soddisfatto, non è tranquillo. Sentite, ha domandato il Papa, il disagio che c’è nel mondo? Non vedete la vita sociale turbata da tante inquietudini, da tante lotte, da tante cosiddette ideologie irriducibili e in contrasto fra loro? La gente, in fondo, è infelice. E tanto più gode, tanto più è scontenta. Tanto più possiede, tanto più si sente insoddisfatta. Manca qualcosa; nel mondo c’è una disfunzione. Qui manca la libertà, là manca il pane, qui manca la giustizia, là manca la cura necessaria per lo sviluppo.

Il mondo manca di Dio, manca di fede, manca di ciò che da Dio gli può venire. L’uomo non vive di solo pane, cioè soltanto di tutte le cose che vengono dalla terra. L’uomo ha bisogno di qualcosa che viene da più in alto, di ciò che scende dalle labbra di Dio: della Parola di Dio.


RENDERE LOGICA LA NOSTRA VITA

Paolo VI richiama questa frase di Gesù letta poco prima nel Vangelo: «Quando si cammina nelle tenebre, non si sa dove si va». Si va a tentoni. Il mondo contemporaneo, nel suo aspetto visibile, corre, moltiplica i suoi passi, ma è un cieco che cammina nelle tenebre. Abbiamo bisogno di luce, di verità, di principi, cioè di poter rendere la nostra vita logica, derivata da alcune affermazioni che ci mettono in contatto con Dio. L’uomo oggi è nel mondo senza sapere donde viene, dove va e perché vive. Il perché della vita gli sfugge. È bravissimo l’uomo moderno, ma non sa perché lavora. Non a caso si nota che la cosiddetta contestazione di questi anni, che è una forma di ribellione contro ciò che il mondo crea di più bello e di più grande, nasce specialmente là dove il mondo si è affermato con maggiori opere e con maggiori documenti della sua potenza e della sua sapienza. Proprio dalle nazioni più evolute sale questo senso di nausea della vita, questo malcontento di ciò che si fa, questa insoddisfazione radicale.

«Se uno cammina nelle tenebre, non sa dove va». Occorre che si accenda una luce. E questa luce è la fede, è la nostra religione, è la Parola di Cristo che ci dice donde veniamo, dove andiamo e perché esistiamo. Il segreto della nostra esistenza è in questa rivelazione che ci è data da Cristo, dal suo Vangelo e da questo strumento della Sua voce che si chiama la Chiesa. Il Papa è veicolo, tramite della Parola di Cristo che illumina. Quando in un ambiente oscuro, nella notte, si accende una luce, gli occhi vedono le cose. Le cose acquistano un posto, una figura, un senso. Ebbene, ciò che dà un senso alla nostra vita è la luce centrale della fede.

Quando si ha la luce, si opera, si cammina, si tocca, si sente, si parla, si crea un vincolo sociale di comunità. La Chiesa, con la sua luce, crea la comunità vera tra gli uomini. Dalla verità nasce la carità, nasce l’amore, nasce la simpatia verso il mondo, verso le cose, verso gli altri. Nasce l’impulso a volersi bene vicendevolmente perché ci si conosce. E ci si conosce come fratelli: siamo tutti figli di Dio, destinati a quell’esperimento che si chiama vita presente, per guadagnarci la vita futura.


COME RISOLVERE LE QUESTIONI SOCIALI

Nasce il desiderio di ringraziare il Signore perché ci dà il pane. E nasce l’ansia di trovare il pane per chi ha fame, di diventare cioè provvidi, solerti, solleciti, bravi a dare una soluzione a tutte le questioni. Le questioni sociali, ha osservato il Papa, sono quelle che oggi premono di più sulla coscienza della vita pubblica. Bisogna risolverle. Ma come daremo giustizia, pane, libertà, diritti a chi non li ha? Chi solleverà il povero, l’oppresso, e lo renderà uomo degno e cittadino civile come gli altri? Ebbene, è la verità, che ci guida, che ci parla dall’alto e ci fa intendere il vero significato, il fine, la bellezza, la gioia dell’opera di Dio. Bisogna derivare dalla fede, dal fatto che ci si riunisce in chiesa per pregare il Padre e per incontrare Cristo benedetto nella Eucaristia, l’impegno per la giustizia. E nel cercare di rendere vive e operanti nella vita le parole del Vangelo ci si trova di fronte a due grandi doveri. Il primo ci impone di amare Dio con tutto il cuore, con tutte le forze, con tutta l’ansia delle nostre aspirazioni. Dobbiamo cercare di essere uomini religiosi non per abitudine, o solo perché viviamo in una società cosiddetta cristiana, ma per coerenza con la nostra convinzione interiore.

Il secondo dovere consiste nell’amore per il prossimo. Dobbiamo amarci gli uni gli altri. Ha detto Gesù, congedandosi dalla sua vita temporale per andare, dopo la Croce, all’eterno Padre e alla vita eterna: ricordatevi che si riconoscerà se siete o no miei seguaci se vi amerete gli uni gli altri. Si riconoscerà che siete cristiani dall’amore che saprete effondere dalle vostre anime verso gli altri.

La Chiesa si adopera per radunare i fedeli, per insegnare loro ad amarsi, a formare quella società, quel Corpo Mistico di Cristo, che è la carità, l’amore degli uomini derivato dall’amore di Dio. È qui la risposta alla domanda: a che serve la religione? Serve per vivere. Non si può vivere veramente - conclude il Santo Padre - senza la fede, senza Cristo. Ricorda, in proposito, il racconto evangelico della Risurrezione di Lazzaro, in cui Cristo dà una definizione di se stesso da meditare attentamente come una grande apertura di luce che il Signore ha fatto con le sue parole. Davanti a una tomba, davanti alla morte che sembra inesorabile, che non ha rimedio, che un giorno tutti ci consumerà, si leva la voce di Cristo onnipotente che dice: lo sono la Risurrezione e la Vita. «Cristo è la nostra Risurrezione e la nostra Vita. Stiamo vicino a Cristo, cerchiamo davvero di essere uniti a Lui e avremo in noi la soluzione dei nostri problemi, avremo la speranza e la sicurezza della vita eterna».



Domenica delle Palme, 26 marzo 1972: SACRO RITO DELLA «DOMINICA IN PALMIS»

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A Voi, giovani, si dirige oggi principalmente la nostra parola. Voi siete oggi di turno nella celebrazione liturgica ed ecclesiale.

Perché? Perché è la festa delle Palme. Cioè la memoria, e, come sempre nella liturgia, la rinnovazione non tanto della scena storica, di cui ora avete ascoltato la lettura evangelica, quanto del significato, del mistero, che tale scena rappresenta; significato e mistero che sfidano i secoli, passano attraverso la storia, e adesso in questa celebrazione si attualizzano, si realizzano, spiritualmente.

Ricordate la scena: Gesù, il misterioso profeta, che in pochi anni di predicazione aveva commosso e sconvolto il popolo ebraico, con la semplicità e la profondità della sua parola, con la crescente popolarità e la umile maestà della sua figura, con l’annuncio d’un nuovo regno, il regno dei cieli, il regno di Dio, e con la presentazione miracolosa ed enigmatica della sua personalità, quel Gesù fascinatore delle folle e critico provocatore degli ambienti ufficiali del fariseismo, fanatico ed ipocrita, aveva suscitato d’intorno a sé una questione estremamente importante per la psicologia di tutta la nazione, tesa e concentrata nell’aspettazione d’un personaggio prodigioso, la cui venuta, allora sentita imminente, doveva essere decisiva per il nuovo destino di quel piccolo, ma inconfondibile popolo, vinto ed oppresso, senz’altra cultura che la sua Bibbia e il suo Tempio, ma da secoli ostinatamente fedele alla sua tradizione etnica e spirituale, sospesa a due punti capitali della sua storia: la sua antica e privilegiata vocazione religiosa: Abramo, Mosè, David, i Profeti . . . . ed un suo traguardo avvenire, cioè un suo futuro vittorioso riscatto, dominatore delle sorti non solo della Palestina, ma altresì di quelle di tutte le genti sulla terra; e la questione, che si era polarizzata sul giovane Rabbi di Galilea, Gesù, era questa: è o non è colui che noi aspettiamo; o ne dobbiamo aspettare un altro? (
Mt 11,3) È o non è il Cristo? il Messia che deve venire?


L’UOMO DELLA SPERANZA

Se leggete il Vangelo, voi vedete che intorno a questa alternativa si svolge il dramma di Gesù. Non solo di Gesù, ma del Popolo; e non solo di quel Popolo, ma di tutta l’umanità; il nostro stesso dramma, di noi che qui siamo; il dramma del mondo di oggi e di domani; perché in questo dramma si decide se Gesù è veramente il mandato da Dio, se Egli è il Salvatore del mondo, se è il nodo in cui si concentrano e si risolvono tutte le questioni vitali dell’uomo, d’ogni uomo del nostro pianeta.

Ebbene, ricordate la scena di Gesù che entra, in quel giorno, che noi oggi commemoriamo e riviviamo, a Gerusalemme, traboccante di gente venuta da tutte le parti di quella terra fatidica, e che a grida di popolo, primissimi e vivacissimi i giovani, è riconosciuto ed è proclamato, sì, lui il Messia, il figlio di David, l’uomo della speranza passata e della speranza futura, l’uomo centrale, l’uomo cardine, l’uomo che totalizza in sé le sorti della storia umana, colui che svela e che compie le profezie antiche e future; l’uomo-Dio della nostra salvezza.


L'INQUIETUDINE GIOVANILE NEL NOSTRO TEMPO

Fedeli tutti, a cui arriva la nostra voce; e voi, Giovani specialmente, a cui essa specialmente è rivolta: comprendete, comprendete voi l’importanza di questa liturgia, alla quale voi siete invitati non solo ad assistere, ma ad assumere una parte preponderante? Per questo, carissimi Figli, noi vi abbiamo convocati in questa Basilica, che diventa simbolo della Chiesa universale e vivente. E non tanto per interrogarvi se voi siete disposti a fare vostra, in questa precisa ora della storia, la funzione che la gioventù di quel decisivo episodio evangelico, così detto delle Palme, fece propria con travolgente entusiasmo, osannando al carattere messianico di Gesù; ma vi abbiamo convocati per dimostrarvi col fatto che noi abbiamo viva fiducia che voi siete già pronti e desiderosi di fare vostra tale funzione: riconoscere e proclamare, cioè, che Gesù è il Cristo, è il Salvatore, è Colui che solo dà senso, valore, speranza, gioia, alla vita degli uomini. È Gesù che libera l’uomo dalle catene del peccato e da quelle altre catene interne ed esterne d’ogni schiavitù; è Gesù che ci rende buoni e forti; è Gesù che ci dà le ragioni per cui vale la pena di vivere, di amare, di lavorare, di soffrire e di sperare; è Gesù che c’insegna le supreme verità; è Gesù, che ci obbliga a considerarci fratelli; è Gesù, che ci soffia nei cuori il suo Spirito di sapienza, di fortezza, di gioia e di pace; ed è Gesù, che fa di tutti noi una unità mistica e visibile, un corpo sociale animato dalla sua parola e dalla sua grazia; è Lui che ci fa «Chiesa».

Notate, Amici, questa intenzionale circostanza: vi abbiamo convocati perché abbiamo fiducia in voi; fiducia, che voi abbiate a comprendere la vocazione che la Chiesa vi attribuisce; fiducia, che voi abbiate l’intelligenza ed il coraggio di fare della vostra vita un’acclamazione, una testimonianza: Cristo è la nostra salvezza. E se vi parliamo di fiducia, segno è che vi sappiamo comprendere, che vi vogliamo sostenere nello sforzo personale e geniale di dare alla vostra vita uno stile suo proprio, nuovo e originale, se volete; di assumere nel tempo nostro l’iniziativa e la responsabilità, che a voi spettano. Qui sarebbe logico dare uno sguardo alle condizioni psicologiche e morali della gioventù del nostro tempo. I giovani d’oggi hanno, più forte che non l’avessero quelli di ieri, una certa smania di evadere dai sentieri dell’educazione convenzionale, e si credono quasi obbligati a sottrarsi dall’obbedienza alla normalità delle forme di vita familiare e sociale, preferendo atteggiarsi liberi e talvolta spregiudicati ed eccentrici, per cedere ai capricci delle mode più strane e alle passioni spesso amorali e antisociali, quasi col gusto di apparire contestatori e sovversivi, pur di staccarsi dalle consuetudini ambientali e di far capire a tutti che la società, così com’è risultata dall’evoluzione moderna, non soddisfa e non piace. Vi è nell’atteggiamento di tanta gioventù un senso di disagio e di rifiuto di ciò che il progresso esibisce a buon mercato, e vi è una ricerca di espressioni umane e primitive, più semplici, più sincere e più libere. Voi conoscete meglio di chiunque altro questo vasto e complesso fenomeno della inquietudine giovanile; e noi non ve lo stiamo ora a descrivere. Solo a noi sembra di poter scorgere qualche cosa di profondamente interessante in codesta inquietudine, la sincerità cioè dei vostri animi, che non temono di denunciare il vuoto che la vita moderna non solo lascia, ma scava dentro di voi. Un vuoto privo di idee vere e forti, privo di ragioni degne di dare alla vita un senso, un valore, una fede. Sentite la sofferenza della fatuità a cui vi ha indirizzato una concezione scettica ed edonistica della vita, della quale concezione le generazioni precedenti sono state, in non lieve misura, stolte maestre.


L’INCONTRO CON LA CROCE

Avete cercato, forse, in atteggiamenti contestatari quegli ideali trascendenti e quelle prove di coraggio e di eroismo a cui la vostra età - e, diciamo di più, lo spirito umano - si sente candidato. Avete un bisogno «messianico» in fondo ai vostri cuori, che la nostra storia, di derivazione cristiana, ha vivamente svegliato nella vostra psicologia, e la nostra società secolarizzata ha, sotto certi riguardi, completamente deluso.

Ebbene, la festa delle Palme, alla quale vi abbiamo chiamati, intende rispondere, una volta di più e con pienezza, allo spazio interiore dei vostri spiriti. Avete, senza forse che ne avvertiate la sublime esigenza, bisogno di un Messia, d’un vero Messia. Noi ve lo annunciamo, semplicemente, solennemente. Il Messia di cui avete bisogno, e di cui il mondo sperimenta la nostalgia e la carenza, è Gesù, Gesù, il Cristo.

E a voi diciamo, giovani d’oggi: tocca a voi sperimentare in voi stessi questo fascino, non menzognero, non mistificatore, del Messia Gesù. Tocca a voi, giovani, rivelare al mondo odierno il volto luminoso del Cristo, e mostrare per quali ragioni e con quali modi, Egli, Gesù, è oggi più che mai il polo attraente del mondo in cerca sempre di capire se stesso nella giustizia, nella libertà, nella fratellanza, nella pace.

Lasciate, amici e figli carissimi, che noi vi esortiamo a idealizzare in Cristo la vostra segreta aspirazione a fare della vita una cosa seria, un momento di pienezza, un’ora di sapienza, un dono d’amore, un inno a Dio.

È venuta l’ora d’una svolta nella psicologia decadente del nostro momento storico; la svolta dall’indirizzo vacuo e negativo a quello veramente umano e positivo. E se questa svolta messianica, dietro i passi di Gesù, vi facesse domani incontrare nella sua Croce, non abbiate paura; là è l’amore che si dona, là è l’amore che sa il valore del sacrificio, là è l’amore che salva, là è l’amore che ha in se stesso l’infallibile promessa della risurrezione e della vita eterna.






B. Paolo VI Omelie 27272