B. Paolo VI Omelie 30372

Giovedì Santo, 30 marzo 1972: SACRO RITO «IN CENA DOMINI»

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Fratelli e Figli tutti in Cristo carissimi!

Noi dedichiamo questo breve momento di riflessione circa i riti, anzi circa i misteri che stiamo celebrando, alla comunione nella quale essi ci immergono, una duplice comunione: la comunione con Cristo e la comunione con la Chiesa; la comunione col corpo reale del Signore, e la comunione col suo corpo mistico. Non sono due atti separati; si tratta del medesimo atto, la partecipazione alla Eucaristia, considerato nella sua realtà sacramentale che attualizza in ciascuno di noi la presenza sacrificale di Gesù, che, sotto le apparenze di pane e di vino, offre a noi in alimento spiritualmente assimilabile la sua carne ed il suo sangue; e la partecipazione, che dobbiamo nello stesso tempo considerare nell’affetto specifico di questo sacramento, cioè la nostra fusione nel corpo mistico di Cristo, che è la Chiesa (Cfr. S. TH.,
III 73,2-3).


IL MASSIMO GRADO DELL'ADESIONE A CRISTO

Noi abbiamo presenti le notissime, ma non mai abbastanza meditate parole di San Paolo, che precedono quelle testé ascoltate della sua prima lettera ai Corinti: «Il calice di benedizione, che noi benediciamo, non è comunione del sangue di Cristo? e il pane, che spezziamo, non è comunione del corpo di Cristo? perché unico pane e unico corpo formiamo noi pur essendo molti, poiché tutti partecipiamo dell’unico pane» (1Co 10,16).

È questo il momento di pensare a questo massimo grado di adesione a Cristo, nostra vita, a noi concesso, la comunione: possiamo a Lui unirci ascoltando ed accogliendo la sua parola, cioè con la fede; possiamo entrare in comunione iniziale e vitale con Lui, mediante la grazia battesimale, ch’è il fondamento della vita spirituale (S. TH., ib. III 73,3 ad 3); e poi a Lui ci unisce l’imitazione dei suoi esempi e la sequela dei suoi insegnamenti; comunione morale (Cfr. Mt 7,21 Jn 12,26); e finalmente siamo a Lui incorporati, mediante l’assunzione della sua stessa vita, a noi offerta nell’Eucaristia: «Io sono il pane della vita; . . . chi mangia me vivrà di me»; comunione che possiamo dire di convivenza, come quella del tralcio sul ceppo della vite (Jn 6,48 Jn 6,58 Jn 15,1-11 Ga 2,20). La pratica religiosa e lo studio del Vangelo ci hanno abituati a queste parole, il cui realismo quasi ci turba e poi ci inebria; e spesso la nostra devozione si è arrestata a questa comunione come se essa bastasse a significare la misura di grazia accessibile alla nostra meditazione teologica e alla nostra capacità immaginativa: quale altra comunione possiamo desiderare più alta e più piena? Non abbiamo abbastanza riflettuto che la comunione con Cristo, capo della Chiesa, comporta non solo una comunicazione con la Chiesa, ma una comunione, un’unità col corpo sociale e mistico di Cristo medesimo; un grado cioè, una pienezza maggiore d’unione con Lui, col «Christus totus», come dice S. Agostino (Cfr. S. Aug. Serm. 341, 1; PL 39, 1493; Ep 4,7 PL Ep 43,139), un’inserzione simultanea nella circolazione universale della carità di Cristo Signore. Il mistero eucaristico di Cristo, che a noi singoli si dona, si diffonde nel mistero della Chiesa, alla quale noi veniamo così vitalmente associati. Ci pare allora di capire qualche cosa del mistero eucaristico, cioè di questa moltiplicazione dell’identico Cristo, fattosi sacramentalmente pane, se fissiamo lo sguardo al termine per cui questa moltiplicazione scaturì dall’onnipotente bontà del suo cuore: per giungere a tutti; per fare di tutti uno, come appunto inneggiò nell’estrema preghiera dell’ultima cena; è alla fine questo il suo supremo disegno: che tutti siano una cosa sola (Jn 17,21 Jn 17,23).


L’EUCARISTIA FA LA CHIESA

Sia questo, Fratelli, in quest’ora, il nostro studio, il nostro proposito: trarre dall’Eucaristia l’insegnamento, anzi il principio della nostra comunione ecclesiale. È stato ben detto: l’Eucaristia fa la Chiesa (H. DE LUBAC, Méd. sur l'Eglise, 116 ss.); consociatur Ecclesia (S. AUG. Contra Faustum, XII, 20; PL 42, 265): la Chiesa, celebrando l’Eucaristia, diventa Chiesa, cioè società, fratellanza, comunione. L’agape eucaristica è il momento della sua pienezza, della sua vitalità. Suppone la fede, genera l’amore. È il segno della sua unità, è il vincolo della sua carità (sempre S. Agostino che parla) (IDEM, Tr. in Io. 26, 13; PL 35, 1613).

Un’osservazione ci sembra importante a questo punto: mentre nella fase eucaristica della comunione col corpo reale di Cristo noi siamo, si può dire, prescindendo dalle disposizioni requisite a tale incontro (Cfr. 1Co 11,28), passivi, recettivi, cioè noi riceviamo la comunione, nella fase invece della comunione operativa della grazia specifica della Eucaristia, la «res», come dicono i teologi, che tende a compaginarci col corpo mistico di Cristo, noi siamo impegnati ad essere attivi, cioè a collaborare con la grazia, ad assecondare l’impulso e l’impegno che a noi viene dalla partecipazione all’agape, alla carità unificante ed operante della celebrazione eucaristica. Noi siamo invitati ed aiutati a formare il corpo mistico, cioè la Chiesa, la società dei cristiani, come Gesù l’ha voluta, sorretta, anzi ministerialmente generata dal sacerdozio gerarchico, e fraterna in una comunità sgombra da ogni interno steccato egoistico.

Quale dovere, quale programma ci deriva perciò dalla celebrazione tipica dell’Eucaristia, propria del Giovedì Santo, giorno commemorativo della sua istituzione e rivelatore delle sue divine intenzioni! Gesù si fa Eucaristia, cioè vittima incruenta che lo rispecchia vittima cruenta nel sacrificio della croce per la nostra redenzione, in modo che, credenti e redenti, noi possiamo essere in simultanea comunione con Lui e fra noi una cosa sola.


UMILTÀ E CARITÀ

E ce ne insegna la via con l’esempio, ancor prima che con le parole, come cioè sia anche a noi consentito di cooperare alla formazione d’una simile unità: l’umiltà, questa discesa nella «chenosi», nell’annientamento concettualmente metafisico e spiritualmente morale della falsa persuasione d’essere noi qualche cosa di nostro, di autonomo: creature siamo, e quanto più grandi tanto più debitrici all’unica e sovrana sorgente creatrice; il Magnificat della Madonna ce lo ricorda; ma alunni sordi e degeneri noi siamo, quando peccatori ci erigiamo, quasi emuli e nemici, nella sfida orgogliosa e folle di Dio; e la lezione ci è data da Gesù là dove l’umiltà è più difficile, quasi impossibile all’orgoglio della nostra personalità posta al confronto sociale col prossimo; ci è data con la lavanda dei piedi eseguita da Gesù nella sua ripugnante realtà, per ricordarci che la comunione con gli uomini derivante dall’Eucaristia esige un superamento tendenzialmente totale della nostra superbia. Umiltà ed Eucaristia fanno binomio inseparabile, tanto per la comunione col corpo reale di Cristo nel sacramento eucaristico, quanto per la comunione col suo corpo mistico nel sacramento ecclesiale.

E poi la carità: il mandato nuovo dell’amore scambievole, nella imitazione almeno, se non ci è possibile nella misura, come Lui, Cristo, ha amato noi, è formulato dal Maestro parimente in sede eucaristica, a quell’ultima cena, che noi stiamo, a modo nostro, ricordando e riproducendo. Eucaristia e carità fanno pure binomio: possiamo forse staccare l’una dall’altra?

Ed è perciò, Fratelli, che noi vorremmo celebrare quest’ora beatissima nella visione trasparente e dinamica della comunione eucaristica attraverso la realtà fisica e storica, che qui ci circonda. Dove ci troviamo? Nella Basilica di San Giovanni in Laterano, la Cattedrale di quella Chiesa di Roma, la quale ha meritato fin dal suo nascere il titolo di «presidente nella carità» (S. IGNAZIO D’ANT. Lettera ai Romani, introd.): quale titolo! quale impegno! Possiamo noi dire che la Chiesa di Roma, nella sua interiore compagine, e nella missione cattolica, che le è affidata, eccelle nella carità? Sì, con umile verità e per grazia del Signore; ma nessuno di noi pretende di dire che la nostra carità, quando la misura della carità è d’essere senza misura, può bastare, come le viene dalla sua tradizione magnifica, ma talvolta logorata dal tempo, e quando da tante contestazioni oggi è circondata; e quando soprattutto i tempi, cioè gli uomini, la reclamano, e sotto certi aspetti, la favoriscono in espansioni nuove e maggiori.

Carità, agape, comunione. Noi la offriamo, noi la domandiamo a voi, Fratelli che ci circondate; a voi, Signori Cardinali, nostro sapiente e fedele Presbiterio pontificio; a voi membri attivi della Curia Romana; a voi, Clero solerte della nostra Diocesi carissima, di quest’Urbe, che deve risplendere per la sua pastorale comunione; a voi, Fedeli tutti di Roma chiediamo un aumento di carità locale nella professione cristiana e nell’organizzazione ecclesiale; facciamo tutti insieme a noi stessi e al mondo vedere, non a nostro onore, ma a comune esempio e conforto, che questa antica e sempre viva Chiesa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo è, come la prima comunità ecclesiale nella culla del Cenacolo di Gerusalemme, «un Cuor solo e un’anima sola» (Ac 4,32), aperta alle dimensioni cattoliche della Chiesa e del mondo. Così sia.






Domenica di Pasqua, 2 aprile 1972: NELLA PARROCCHIA DI GESÙ DIVINO MAESTRO

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"Il Signore è risorto". Il Papa si dice felice di poter ripetere direttamente l'annuncio pasquale a una rappresentanza della sua diocesi, la diocesi di Roma. È il mandato affidato dal Signore ai Sacerdoti, e soprattutto ai Vescovi. È l'annuncio che per prima la Maddalena fece agli Apostoli, e che fu raccolto da due di essi: Giovanni, l'apostolo dell'amore, e Pietro, che aveva ancora nell'anima il peso di aver abbandonato Gesù e di averlo rinnegato proprio il giorno della sua Passione. Correvano. Pietro correva, e sentiva quasi il timore di doversi incontrare con Cristo. Arrivarono, e videro che il sepolcro era vuoto. E allora capirono quello che poi altri fatti avrebbero confermato: il Signore è risorto.

È una realtà che tutti investe e che penetra nelle anime, l'annuncio che il Papa viene ancora una volta a portare ai fedeli. Paolo VI sente tutta la gioia e la responsabilità di questa Parola, e si dice lieto di condividerla con gli altri Pastori: il Cardinale Angelo Dell'Acqua, suo Vicario per la diocesi romana; il Cardinale Wright, titolare della chiesa di Gesù Divin Maestro, già Arcivescovo di Pittsburgh (una delle più belle diocesi degli Stati Uniti, una città. mineraria, industriale), ed ora qui a Roma a servire la Chiesa; i Vicegerenti Ausiliari e il Vescovo della zona; il Vescovo Ausiliare di Brescia Monsignore Pietro Gazzoli, giunto a Roma per festeggiare la Pasqua in una chiesa che a Brescia deve in gran parte la sua vita; il parroco e i suoi coadiutori, provenienti appunto dalla diocesi di Brescia, così cara al cuore del Papa che nel suo seno fu iniziato al sacerdozio. Una parrocchia nuova, una chiesa nuova.

Dalle cose il senso della novità passa negli animi e trova il suo riflesso, la sua eco, la sua voce nel Vangelo della Risurrezione, che risuona tra le nuove mura nel giorno della Pasqua, giorno di novità. Si sente dire che la Chiesa sarebbe vecchia, conservatrice, passata, ormai fuori tempo, che non avrebbe il senso del nuovo da cui tanto è caratterizzato il nostro tempo. La novità, d'altra parte, è l'aspirazione centrale della nuova generazione, che è stata abituata dall'onda delle trasformazioni circostanti a desiderare sempre qualche cosa di diverso. La chiesa parrocchiale di Gesù Divin Maestro corrisponde, nelle sue strutture, a questo rinnovamento che invade tutta la società d'oggi, che si ripercuote sulle case, sui quartieri, sulle istituzioni, ma soprattutto sui pensieri, sulla mentalità, e che a volte diventa precipitoso, impaziente, addirittura rivoluzionario.

Questa mentalità trova nei cristiani, nella nostra fede, una precisa rispondenza. Un'analisi approfondita ci porterebbe a riconoscere che, se il mondo di oggi sente tanto l'urgenza della novità, lo deve proprio al cristianesimo, alla fede cristiana che ha messo il fermento nel cuore degli uomini. Il cristianesimo dice all'uomo: "quello che sei, quello che hai non basta; devi aspirare a qualche cosa di nuovo, a qualcosa di più".

Lo dice e l'ha detto in tanti modi che la gente, le generazioni, la storia, i costumi, la mentalità hanno assorbito questa lezione. Spesso gli uomini che sentono questa spinta, questo fermento non si domandano donde provenga, da che cosa sia stato originato. Ma il senso del rinnovamento del genere umano, la speranza di poter crescere, di progredire, di avere la possibilità di sviluppare i doni e i talenti che il Signore ci ha dato, sono radicati nel cristianesimo.

Proprio perché siamo cristiani, sottolinea Paolo VI, dobbiamo avere il senso del nuovo. La novità che si celebra nel giorno della Pasqua, poi, è così grande, così impensabile, così miracolosa, così bella che non l'avremo mai meditata abbastanza. Questo giorno, ripete un canto del popolo, l'ha fatto il Signore. Ha fatto cose grandi, ha fatto cose che sono al di là della nostra immaginazione. I primi ad averne notizia - gli apostoli, le donne che videro il sepolcro vuoto, i discepoli ai quali Cristo successivamente apparve - non erano, infatti, predisposti; erano anzi diffidenti. Ed è proprio questo che rende più credibile la loro testimonianza.

Paolo VI cita San Gregorio, il quale disse che credeva volentieri alla gente che non credeva. Se quei testimoni fossero stati pronti a credere, potrebbe nascere il dubbio che abbiano giocato di fantasia, che si siano lasciati illudere. Essi invece erano dubbiosi, restii, quasi incapaci di credere. L'avevano visto crocifisso, vestito di sangue, straziato in ogni maniera, morto, sepolto con una gran pietra fatta scivolare sulla bocca di una piccola grotta scavata nel sasso: una pietra che nessuno poteva rimuovere, tanto era pesante. Ma la pietra è stata ribaltata, i custodi sono fuggiti, il sepolcro è stato trovato vuoto. Alcune donne che l'hanno incontrato dicono che è risorto.

Non è, però, una risurrezione come quella che abbiamo incontrato in altre pagine del Vangelo. Non è come quella di Lazzaro, che da uomo è ritornato uomo, cioè quello che era. Né come quella del figlio della vedova di Naim, che era un ragazzo morto ed è tornato un ragazzo vivo, proprio come quello di prima. Gesù è tornato vivo, nell'identità fisica, psicologica, morale, umana di prima, ma - ecco il salto, la novità che ci rende esterrefatti - spiritualizzato. È come se l'anima fosse diventata più piena, più forte e avesse vitalizzato di una nuova energia il corpo di Cristo, e non per farlo morire di nuovo, come sono poi morti nuovamente quelli che Gesù aveva risuscitato, ma per consacrarlo alla vita eterna.

Lo Spirito che di natura sua è immortale ha animato il corpo di Cristo risorto così da renderlo vivo a tutt'oggi.

Gesù è vivo. Dov'è? Non lo sappiamo, perché non lo vediamo, ma sappiamo che Gesù esiste, vivo, con i suoi occhi, con le sue mani, con le sue piaghe come le ha mostrate quando entrò nel Cenacolo e disse: "Vedete, toccate, questa è la mia carne". Gli apostoli lo videro mangiare e bere con loro. Ma videro che c'era in Lui ,qualcosa di fisico e qualcosa di superspirituale: una nuova vita. Il pensare a questa nuova vita è caratteristico della nostra fede cristiana. Noi crediamo la Risurrezione di Cristo, noi crediamo che davvero Gesù ha fondato una nuova forma di vita, che ha promesso agli altri.

La Pasqua di Gesù, questa Pasqua miracolosa, prodigiosa, superiore alle nostre capacità di pensare e di immaginare, è assicurata per noi. Siamo tutti destinati a risorgere come Gesù. Il Signore farà il miracolo di estrarre dalle tombe e dalla dispersione il nostro povero essere umano e ridarà ad esso la sua fisionomia, la sua statura, la sua realtà, ma in una forma particolare di perfezione, di bellezza, di completezza, di eleganza, di vitalità, di pienezza.

È la pienezza della vita eterna - ricorda il Papa - che si celebra nel giorno di Pasqua. È la Risurrezione non solo di Gesù, ma anche nostra. Il fatto miracoloso della Risurrezione dei morti avverrà alla fine dei tempi, alla fine dei secoli, quando cioè il Signore ha stabilito nel suo orologio eterno di cui non conosciamo la misura. Ma sarà. E adesso? Adesso, noi abbiamo già in anticipo il pegno della Risurrezione. Non siamo soltanto uomini in carne ed ossa. Abbiamo un principio, un seme, un segreto immesso nel nostro essere. È il principio di questa Risurrezione, di questa immortalità beata che ora ci è promessa come fede e come speranza, ma che domani sarà nella sua pienezza e nella sua realtà. Questo principio si chiama la Grazia, cioè la vita divina comunicata a noi. Viviamo di questa energia misteriosa che ci garantisce la vita eterna. Ci è data nel Battesimo, in cui siamo rigenerati. Paolo VI cita, in proposito, l'Inno della Risurrezione, ascoltato ancora una volta nella Basilica di San Pietro la sera del Sabato Santo, uno dei migliori inni di tutta la letteratura non solo sacra ma umana, in cui è detto: non ci sarebbe valso nascere se non avessimo potuto rinascere.

La vita umana così com'è sarebbe una bellissima, ma povera cosa, così breve, così piena di malattie, di fatiche, di dispiaceri, tanto che molta gente, e proprio quella che dalla vita ha di più, si sente infelice. Il Papa accenna, addolorato, ad un recente sconcertante episodio, di cui la cronaca si è ampiamente occupata. Che cos'è la nostra vita se non ha l'infusione della Grazia, se non è innestata nel circuito della vita divina, se non è in contatto con il Dio immortale? Questo contatto con la immortalità di Dio, questa grande novità che ci è data col Battesimo, infonde in noi un'energia, un seme di vita superiore che un giorno fiorirà, scoppierà: e saremo risorti.

Adesso è sepolto nel cuore, ed abbiamo una terribile responsabilità. Come se fosse una luce, possiamo accenderla, tenerla accesa ma anche, con un soffio, spegnerla. Cioè possiamo mantenere in noi la Grazia di Dio animatrice della nostra esistenza, e possiamo spegnerla, quando diventiamo così sciagurati da commettere qualche volontario e grave peccato. Con il peccato, la vita divina in noi si spegne. All'apparenza restiamo quelli di prima; nella realtà siamo dei morti.

Abbiate gelosamente cara - è la esortazione pasquale del Santo Padre - la Grazia di Dio; fate che mai quella morte che si chiama peccato abbia a privarvi di questa luce miracolosa che viene a posarsi dentro di noi e accende in noi il principio e la speranza sicura della vita soprannaturale ed eterna.

La prima e grande novità che ci reca la Pasqua è la vita della Grazia. Se siamo cristiani, siamo in comunicazione con Cristo, e da Lui riceviamo quell'alito che respira dentro di noi e ci fa candidati alla vita eterna. Ma basta così? San Paolo sviluppa la riflessione su questo nuovo stato dei cristiani: se siete rinati con la Grazia, vivete una vita nuova; siate logici, siate coerenti. Cristiano, sii cristiano, vivi da cristiano. Una nuova legge, una nuova fortuna è venuta dentro di te. Tu hai la legge dell'amore, la legge della presenza di Cristo nella tua anima. Devi vivere perciò in conformità a questa predilezione di Dio, a questa tua fortuna. Devi vivere da cristiano.

Cambiano le forme, ma il nostro stile di vita deve essere sempre caratterizzato da queste novità. Tante volte esse si vedono anche esteriormente. Paolo VI indica, ad esempio, i ragazzi, che vivono senza neanche accorgersene, nella loro innocenza, la Grazia del Signore. E tante anime elette che vivono la vita nel mondo (operai, impiegati, padri di famiglia, secondo il ruolo che la vita sociale comporta per ciascuno) portano in sé questa novità perenne, questa sorgente che continuamente obbliga ad essere nuovi, buoni, perfetti.

È un'esigenza tale che non lascia mai quieti. Gesù ha detto agli uomini che devono diventare perfetti come è perfetto il Padre Suo; ha offerto un modello insuperabile, infinito. Ha chiesto uno slancio affannoso, inquieto. A volte avviene che la promessa, il desiderio, l'ansia di essere cristiani rendano l'anima sempre sveglia. Vigilate e pregate, ci dice il Signore. Non dobbiamo essere anime addormentate.

Il cristianesimo non è un soporifero che fa addormentare gli uomini, o che li rende sì tranquilli, ma come macchine. I cristiani sono anime vive, lucerne ardenti, fiamme che non possono stare tranquille. Il Papa ci esorta ad avere sempre lo slancio interiore verso la vita buona, il genio del bene; ed a cercarne le forme sempre nuove e adeguate, come ha fatto anche nella recente Lettera Apostolica Octogesima Adveniens dedicata alla posizione del cristiano di fronte alle trasformazioni sociali. Abbiate la fantasia del bene - dice il Papa - cercate di saperlo immaginare, di saperlo creare.

Tante famiglie religiose, per esempio, sono nate proprio dal desiderio della novità, di far qualcosa di personale, di nuovo, di generare un cristianesimo sempre in primavera, e non un cristianesimo vecchio, abituale, consuetudinario, stanco, incapace di affrontare i bisogni nuovi. "Credete voi - domanda il Santo Padre - che noi abbiamo paura di tutte le novità del mondo che ci circonda? Che il cristianesimo non sarà capace di affrontare tutte le grandi novità sociali, politiche, economiche che ci nascono davanti, e ingigantiscono, e talora portano dentro di sé il destino di capovolgersi?".

Accade che scoperte magnifiche, destinate alla felicità dell'uomo, si trasformino poi nella sua disgrazia. Se ne ha un esempio dalla questione dell'ecologia. Talora il progresso produce la morte. Abbiamo inventato armi così strepitose che potrebbero distruggere addirittura il mondo. Abbiamo scoperto tanti segreti del creato e abbiamo ancora il grande mistero che ci consuma l'anima fino alla disperazione: non sappiamo perché viviamo, dove andiamo. Abbiamo questo grande desiderio di conoscere il tutto che è Dio, ma abbiamo ancora gli occhi ciechi davanti a questa luce.

I cristiani, però, sono abituati ad accogliere la novità come una primavera, e soltanto nel suo aspetto positivo e buono. Possiamo vivere bene, accettare i doni del progresso, ma con la misura, con la libertà di spirito, con la superiorità che un cristiano deve avere. Il nostro destino non è qui. Adoperiamo le cose perché sono opere provenienti sì dalla mano dell'uomo, ma in ultima analisi dal genio di Dio. Stiamo bene nel mondo in cui il Signore ci ha chiamato a vivere, ma sempre con il desiderio del più, il desiderio di salire, il desiderio del nuovo. Abbiamo l'obbligo - è l'esortazione finale del Papa - di vivere sempre una vita nuova: la vita di Gesù risorto.






Lunedì, 1° maggio 1972: SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DI SAN GIUSEPPE ARTIGIANO

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Primo maggio: festa del lavoro!

Quale grande tema di studio e di parola!

Tema attuale, fondamentale, costituzionale! riguarda in pieno l’attività umana (Cfr. Gaudium et Spes,
GS 33, ss.).

Tema fecondo, percorre la storia, la scienza, la tecnica, la economia, la sociologia, la morale, la politica, la cultura, la civiltà.

E tema antropologico, teologico, spirituale, ed ora, con l’apparizione di San Giuseppe in mezzo alla festa del lavoro, tema liturgico.

Tema dunque centrale nel fenomeno mondiale dello sviluppo e del progresso umano; e perciò tema controverso, esplosivo, risolutivo.

Quando se n’è parlato; quanto se ne parla! Anche la Chiesa quali studi, quali documenti, quali esperimenti, quali sforzi e quali opere vi ha profusi!

Accenniamo soltanto a questo tema, affinché, se ve ne fosse bisogno, vi abbiate a pensare, ed abbiate coscienza dell’interesse, dell’importanza, della complessità del tema che s’intitola al lavoro, e abbiate a comprendere come esso supponga ed insieme produca una concezione generale della vita: siamo nel tempo moderno, celebrativo quant’altri mai dell’operare umano, che chiamiamo lavoro. A voi questo studio, che ben sapete quanto la Chiesa, dicevamo, lo alimenti di dottrina e di esempio.

È troppo breve questo momento perché noi ne parliamo. E sapete? Se noi ne dovessimo parlare, preferiremmo parlare dei Lavoratori, piuttosto che del Lavoro in se stesso; cioè degli esseri umani, delle Persone, che sono impegnate nel lavoro; e fra queste sceglieremmo quelle che al lavoro danno la mano, voglio dire la fatica fisica, l’esecuzione, piuttosto che quelle (per altro ben degne esse pure del nostro interessamento) che lo preparano con gli studi e lo dirigono. E qui, in questo momento brevissimo, nemmeno con la parola vogliamo venire a colloquio con il mondo sterminato dei Lavoratori, ma con un altro mezzo di comunicazione sociale, un mezzo silenzioso, e forse non da tutti percepibile: la simpatia.

Sì, oggi noi rivolgiamo verso tutti i Lavoratori questa corrente spirituale e cordiale: la simpatia. Questa onda, invisibile per sé e imponderabile, ha tuttavia la sua realtà e la sua efficacia. La nostra simpatia, che è quella della Chiesa, quella di chi si dichiara discepolo del Vangelo, si effonde su tutti i Lavoratori; vorremmo che loro lo sapessero, anzi che in qualche modo la sentissero. Voce del silenzio; ma voce vera.

Tanto spesso negli ambienti del lavoro è invece diffusa l’opinione contraria: la Chiesa non ha simpatia per la gente che lavora, che tanto spesso è la gente delle classi umili, la povera gente. La Chiesa, si dice, non ci conosce, la Chiesa sta con i ricchi, con i potenti. La Chiesa è conservatrice, la Chiesa predica i doveri dei deboli e i diritti dei forti. La Chiesa si occupa dei valori morali e religiosi, e si disinteressa dei valori economici e temporali. La Chiesa cerca i suoi interessi, i suoi privilegi; è avara, è egoista, non pensa a noi, Lavoratori subordinati, sfruttati, abbandonati.

E quando i fatti dicono il contrario? Allora altre obiezioni si oppongono all’interpretazione giusta del contegno amico e solidale della Chiesa verso la gente del lavoro. Spesso questa gente del lavoro dubita e diffida delle parole e dei gesti benevoli della Chiesa: così ella fa, si pensa e si dice, perché ha paura del popolo lavoratore; ci usa belle maniere, alcuni dicono, per prenderci e per paralizzare le nostre rivendicazioni, o anche per strumentalizzare il nostro numero, per illudere la nostra mentalità semplice e priva di alta cultura, per frenare lo slancio delle nostre ormai irresistibili conquiste sociali: o meno per tenere in piedi tutto il castello della religione, a cui noi non crediamo più . . . E questa diffidenza si fa spesso e subito opposizione, odio, lotta e maledizione. Pur troppo. Lo sanno quei Paesi dove prevale l’ateismo e dove esso è diventato programma. Si potrebbe continuare.

Eppure la Chiesa non può, non vuole guardare al Lavoratore, proprio in quanto tale, senza questo sentimento inestinguibile di simpatia. Lo voglia o no, lo sappia o no, il Lavoratore è oggetto, da parte della Chiesa di Cristo, di simpatia. Che cosa vuol dire simpatia? Oh! vuol dire molte cose, che tutti conosciamo! Vuol dire, innanzi tutto, partecipazione alla sofferenza altrui; vuol dire affinità morale, vuol dire comprensione; vuol dire predisposizione alla stima, al favore, all’amicizia, al servizio, all’amore.

La Chiesa possiede un tale sentimento?

Sì, figli e fratelli; sì, sappiatelo, voi tutti Lavoratori, ai quali arrivasse l’eco di questa semplice professione di simpatia, di questo silenzioso discorso.

Se noi vi dicessimo i motivi di questo profondo sentimento, il discorso non sarebbe più silenzioso, ma sarebbe lungo da non finire più. La Chiesa ha simpatia nel Lavoratore, innanzi tutto, perché ne vede e ne proclama la dignità di uomo, di fratello eguale ad ogni altro uomo, di persona inviolabile sul cui volto è stampata una sembianza divina. E ciò tanto più (badate: non tanto meno!) quanto sono più marcati su cotesto volto il bisogno, la debolezza, la sofferenza, l’offesa, l’ansia di abilitazione e di liberazione. La fatica, la povertà, l’insicurezza, lo sfruttamento, ed anche qualche eventuale inferiorità sono titoli per la simpatia della Chiesa.

E alle tante altre ragioni che fanno scaturire nel cuore della Chiesa questa simpatia per la folla innumerevole degli uomini che a causa del lavoro sudano, soffrono, ed oggi attendono ed esigono, queste due alla fine aggiungiamo, che tutte riassumono; prima: anche Cristo fu uomo del lavoro manuale; fu soggetto alla fatica alla scuola di Giuseppe, fu chiamato «il figlio del fabbro» (Mc 6,3), fu collega vostro, Lavoratori numero uno e numero ultimo, perché diede la vita, il sangue, per tutti salvare. E seconda: è proprio di Cristo il grido che ancora passa nei secoli e sul mondo: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati ed oppressi, ed Io vi sosterrò» (Mt 11,28).

Questa è la simpatia di Cristo, della Chiesa, ancor oggi per il mondo lavoratore.

Con la nostra Apostolica Benedizione.

Quarto centenario di San Pio V

Il nostro saluto si rivolge ora al pellegrinaggio della diocesi di Alessandria, guidato dal suo venerato Pastore, Monsignor Giuseppe Almici. Sappiamo che questo pellegrinaggio rientra nel quadro delle celebrazioni del quarto centenario della morte di San Pio V, l’alessandrino, Religioso Domenicano e poi Cardinale Antonio Michele Ghislieri, ed ha lo scopo non soltanto di venerare le reliquie del Santo custodite nella Basilica di S. Maria Maggiore, ma altresì di «videre Petrum», e porgergli l’omaggio della propria fedeltà e devozione filiale. Grazie, figlioli, della vostra visita! Grazie del conforto che ci procurate col vostro affetto, con la vostra pietà e soprattutto con la vostra testimonianza di fedeltà a Cristo e al suo Vicario in terra. Diremo: camminate sulla via che vi è stata luminosamente indicata dal vostro grande concittadino e nostro Predecessore, sempre fedeli delle belle tradizioni cattoliche della vostra terra e sempre più saldi in quella fermezza di fede e di attaccamento alla Sede Apostolica, che tanto vi onora.

A tal fine impartiamo con effusione di cuore a voi e a tutti i vostri cari l’Apostolica Benedizione.

Cooperativa «La Famiglia» di Brescia

Siamo lieti di incontrarci, una volta ancora, con i membri della Cooperativa «La Famiglia», di Brescia: sono circa quattrocento muratori, tra i quali si trovano anche quelli che lavorano nel villaggio che abbiamo auspicato si costruisse in Acilia. Vi salutiamo con affetto, e con voi salutiamo il Padre Marcolini, il quale si occupa con tanta dedizione della vostra Cooperativa. Conosciamo l’impegno che ponete nel realizzare le vostre opere e nel costruire quella che a noi sta tanto a cuore, ad Acilia. Seguiamo con interesse la vostra attività, che ha acquistato già tante benemerenze, destinate, così speriamo, ad accrescersi sempre più; e vi diciamo la benevolenza, la gratitudine, il compiacimento che la vostra presenza suscita in noi, come tutto quanto ha attinenza con la nostra cara terra bresciana.

Voi sapete mettere a frutto, con un impegno di lavoro comunitario, le istanze del nostro tempo, ove c’è bisogno di braccia generose, che si mettano al servizio del prossimo, privo di casa, di sostegno, di appoggio fraterno. Che San Giuseppe, Patrono dei lavoratori, protegga e dia incremento alle vostre attività! Noi lo preghiamo per voi e per le vostre famiglie, affinché a tutti ottenga dal Signore prosperità, pace e letizia di spirito. Con la nostra Apostolica Benedizione.

Studenti della regione parigina

Nous souhaitons particulièrement la bienvenue aux élèves de la région parisienne, venus, avec leurs professeurs et parents, prendre sur place une connaissance visuelle et concrète de tette histoire romaine qui a déjà enchanté leur imagination dans leur classe de cinquième. Chers enfants, vous trouvez ici, n’est-ce-pas, des souvenirs émouvants de tette civilisation romaine. Il nous est très utile de bien la connaitre: elle a contribué à la nôtre; son expérience, avec ses grandeurs et ses misères, nous fait réfléchir, éclaire notre route. Vous trouvez aussi, dans les catacombes en particulier, la joie sereine, le dynamisme et le courage des premiers chrétiens qui, au sein de la vieille Rome, ont su faire briller leur foi au Christ et leur amour fraternel. Vous êtes invités vous aussi, chers amis, à mettre au service du monde qui doit sans cesse se renouveler, les talents humains et chrétiens que le Seigneur a donnés à votre jeunesse. Pour vous encourager dans cette voie, en union avec l’Apôtre Pierre mort tout près d’ici, Nous vous donnons notre paternelle Bénédiction Apostolique.






B. Paolo VI Omelie 30372