B. Paolo VI Omelie 21572

Pentecoste, 21 maggio 1972: RITO PAPALE AL COLLEGIO DI SAN PIETRO APOSTOLO

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Solennità della Pentecoste


Fratelli tutti!

Ascoltiamo. Ascoltiamo dapprima, come un concento di campane diversamente lontane, gli echi delle memorie, che qua, per celebrare la festa di Pentecoste, ci hanno convocati. Prima, la più remota e la più grave è la memoria della istituzione della sacra Congregazione «de Propaganda Fide», oggi nominata anche «per l’evangelizzazione dei Popoli»; istituzione, preceduta da analoghe iniziative, ma voluta da Papa Gregorio XV (Alessandro Ludovisi), con atto definitivo nell’Epifania dell’anno 1622, trecento e cinquanta anni fa, pietra miliare nella storia della Chiesa incamminata ormai decisamente e prevalentemente sulla via maestra della sua missione nel mondo e nel tempo: portare il Vangelo di Cristo a tutti gli uomini della Terra.

Poi, con voce squillante e gentile, ecco la memoria della fondazione dell’Opera della Propagazione della Fede, promossa da Paolina-Maria Jaricot, nel 1822, cento e cinquanta anni or sono, memorabile avvenimento per essere scaturito dal cuore d’una giovane donna e per dare evidenza ed efficienza al principio che tutto il Popolo di Dio deve assumere in proprio la causa delle Missioni. Più vicino a noi, il cinquantesimo anniversario dell’ordinamento delle Pontificie Opere Missionarie, stabilito dal Papa Pio XI, ci porta a celebrare un atto memorabile di questo nostro grande e venerato Predecessore, e a riconoscere quanto saggia, quanto provvida sia stata questa sua legge, se ad essa dobbiamo l’incremento fiorente e il funzionamento organico di queste istituzioni missionarie, per cui oggi più che mai la Chiesa cattolica riesce a diffondere l’idea e l’entusiasmo per la causa dell’evangelizzazione universale, a procurarle i mezzi economici indispensabili, a curarne l’equa e scrupolosa distribuzione: l’esperienza cinquantenaria di questi organismi ne collauda le strutture e lo spirito, e ne promette ancora più ampi sviluppi.

E finalmente eccoci intenti ad ascoltare dentro di noi il festoso annuncio che di sé ci dà questo Collegio di S. Pietro Apostolo: da venticinque anni esiste questa casa, accanto al grande Collegio teologico Urbano de Propaganda Fide e poco lontano dal suo più giovane ramo filosofico; ma destinato questo al Clero oriundo dei vari Paesi di missione. Il profilo del compianto Cardinale Celso Costantini, che lo sognò, lo pensò e con tanti benemeriti collaboratori e benefattori lo volle, ci appare davanti, e quasi a lui d’intorno, assistito dai benemeriti Religiosi Verbiti, la ormai larga corona degli Ecclesiastici Ex-Alunni ed Alunni Sacerdoti, che qui, perfezionando a livello universitario la loro formazione spirituale e culturale, hanno offerto ed offrono alle Chiese missionarie con la loro vita un incomparabile servizio di pensiero e di azione.

Venticinque anni: Papa Pio XII fondò e benedisse; noi, umili suoi successori siamo lieti di confermargli con la nostra nuova presenza la nostra affezione e la nostra benedizione.

E questa benedizione si fa più ampia e commossa, perché insieme agli Ospiti di questo Collegio vediamo il Cardinale Agnelo Rossi, Prefetto della S. Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, i suoi degni Collaboratori, e tanti membri della Curia Romana e della nostra Diocesi di Roma; e per di più, con immensa nostra compiacenza, vediamo i rappresentanti di tutto il mondo missionario romano, di meritevolissime Famiglie Religiose, maschili e femminili, che alle Missioni cattoliche dànno un inestimabile contributo.

Siate tutti salutati, e ringraziati, e benedetti per l’opera vostra, e, in questa ora di festa pentecostale, per la vostra presenza e per la vostra partecipazione a questo rito celebrativo. Celebrativo non solo delle memorie testé rievocate, che ci risuonano nella mente e nel cuore, ma dell’attualità del mistero altresì: qui ora è Pentecoste.

Qui ora, pare a noi, si rinnova, in qualche modo almeno, l’avvenimento meraviglioso. La meditazione ce lo dice. Che cosa è la Pentecoste nel disegno divino-umano della salvezza? È la discesa dello Spirito Santo sopra la prima comunità dei discepoli rimasti fedeli al Signore Gesù dopo il dramma tragico della sua morte e trionfante dopo la sua misteriosa risurrezione, in attesa orante nel Cenacolo con Maria, la madre di Gesù. Non ci soffermiamo ora a descriverla. Ricordiamo soltanto ch’è Dio-Amore, il Quale invade di nuova coscienza, di irrefrenabile energia, di vivacissimo gaudio ciascuna persona e tutto il gruppo dei centoventi raccolti nel Cenacolo. È la Chiesa che nasce nel vento e nel fuoco. È l’animazione divina del corpo mistico di Cristo, secondo la promessa da Lui fatta a loro perenne consolazione. Stupenda verità, stupenda realtà: l’uomo reso tempio dello Spirito Santo! Ma sale dal fondo del cuore la domanda aggressiva: questo fatto avvenne allora, e, come ogni fatto della storia umana, subito si consumò e si spense? No, il fuoco della Pentecoste non si è più spento nella Chiesa viva di Cristo, anche se non più si manifestò con l’impeto folgorante di quel primo istante, ed anche se in certi momenti di crisi ed in certe situazioni di prova rimase velato dalla cenere umana, non si è spento; arde ancora; e ad ogni atto sacramentale, ad ogni umile preghiera, lo «Spirito buono» è presente, è operante.

Ora, Fratelli, non sarà cos? pure di noi in quest’ora privilegiata?

Qual è il significato di quest’ora per noi se non quello di una straordinaria «epiclesi», cioè d’una straordinaria chiamata dello Spirito Santo sopra di noi e sopra quanto ci circonda? Se le nostre labbra sono forse tarde all’invocazione, non parla, non prega per noi questo luogo benedetto, tanto vicino alla tomba dell’Apostolo Pietro? non parla, non prega per noi questa casa, che vuol essere un cenacolo di discepoli fedelissimi e di missionari esemplari del nome cristiano? E la nostra liturgia, per il solo fatto che proprio nel nome di Gesù tutti qui ci trova congregati, non ha di per sé la virtù di rendere presente fra noi Lui stesso, Gesù, Colui che non lascia orfani i suoi e che promette di ottenere e di mandare loro lo Spirito Paraclito? (Cfr.
Jn 14,18 Jn 16,26 Jn 16,7)

Dunque: la Pentecoste è qui. Dunque ancora: la Pentecoste è permanente? è attuale? Sì, è permanente, è attuale. Questo noi vorremmo che voi aveste sempre a ricordare, per ogni evenienza della vostra vita, per ogni strana, o avversa condizione in cui voi vi doveste trovare: lo Spirito Santo non abbandona la Chiesa, non abbandona i suoi. Anche nel confronto, talora sconcertante che le vicende della vita presente, o le obiezioni della cultura o le opposizioni del mondo, o il dilagare del male possono presentare alla nostra anima, alla nostra fede, tutti dobbiamo ricordare che non siamo soli; lo Spirito Paraclito, che vuol dire Difensore e Consolatore, è vicino, è vegliante, è dentro di noi.

E una nuova domanda urge allora sul nostro animo dinanzi a questa rivelazione che fa di noi dei posseduti dallo Spirito di Cristo; una domanda, che si fa impellente e gioiosa, sicura com’è di già della sua clamorosa e vittoriosa risposta; ed è questa: l’economia della grazia, quale noi ora abbiamo appena adombrata ma già abbastanza per scorgere in essa la maggior fortuna che possa all’uomo capitare, è riservata a pochi, ad alcuni eletti e privilegiati, ovvero è a tutti accessibile? è ristretta a qualche individuo fortunato, ovvero è concessa a tutti quanti la sanno desiderare e accettare? è destinata ad una casta distinta, ovvero è aperta a tutto un popolo? ad un popolo solo, ovvero a tutti i popoli, a tutta l’umanità? Oh! la risposta, quale nuova rivelazione ci annuncia: «Io effonderò - dice il messaggio di Pentecoste - il mio Spirito sopra ogni vivente» (Ac 2,17). Il messaggio è universale! Esso non ha confini geografici, storici, etnici, o sociali.

La nostra mentalità umana, naturalmente egoista e formata al senso del limite che fa preziose le cose rare, sarebbe indotta a circoscrivere il regno della grazia nel cerchio del privilegio. Invece la realtà storica e religiosa, inaugurata a Pentecoste, è diversa, è aperta, è universale. Un famoso miracolo subito lo manifesta. Il messaggio di Pentecoste ha in sé il carisma della comprensibilità universale; è la vocazione unica per tutti i Popoli più diversi; è il primo dialogo con l’intera comunità. Fu il primo stupore del cristianesimo irradiante nelle nazioni tra loro divise da quello stesso mezzo, il linguaggio, che dovrebbe servire ad unirle.

Ascoltate ancora questo brano del racconto di quella prima pagina di storia della Chiesa: «Tutti furono ripieni di Spirito Santo, e cominciarono a parlare in varie lingue, secondo che lo Spirito dava loro di esprimersi . . . . e la moltitudine, che s’era riunita, rimase confusa perché ciascuno udiva parlare (gli invasi dallo Spirito Santo) nel proprio linguaggio» (Ac 2). Questo è il miracolo delle lingue: ciascuno conserva la propria, ma tutti convergono, nell’espressione e nella comprensione, alla medesima verità. È la diversità dei Popoli, che per virtù del Vangelo, si compagina in armoniosa e fraterna unità: «dovete rispettarvi a vicenda con amore, scriverà San Paolo, sforzandovi di conservare l’unità dello Spirito nel vincolo della pace: un solo corpo e un solo Spirito, come in una sola speranza siete stati chiamati: uno è il Signore, una la fede, uno il battesimo; uno Iddio e padre di tutti» (Ep 4,2-6). Uno e tutti; sono i due cardini di questa nuova concezione spirituale, sociale, mondiale dell’umanità polarizzata in Cristo.

E non è questo stesso quadro, che qui ci raccoglie per celebrare il perenne mistero della Pentecoste, che ce lo presenta, quasi in tipico simbolo, e in certa dimensione nella realtà della nostra esperienza e della nostra storia, realizzato? Uno e tutti. Uno il corpo mistico di Cristo, che nello Spirito suo noi siamo, la Chiesa, e tutti quanti siamo impegnati ad annunciare il Vangelo, a celebrare la gloria di Dio. Laudate Dominum omnes Gentes! Noi vediamo in voi, Fratelli e Figli carissimi, candidati al ministero missionario, rappresentato il coro dei Popoli, in realtà ed in promessa, che all’unisono e ciascuno con la propria voce, annuncia la salvezza in Cristo Signore. Ecco che risuona qui, sulle nostre labbra, il vaticinio di Gioele profeta, fatto proprio nel mattino di Pentecoste, dall’apostolo Pietro: «Così avverrà, dice il Signore, ch’io negli estremi giorni diffonderò il mio Spirito su ogni vivente; e i vostri figli e le vostre figlie profeteranno; e i vostri giovani avranno visioni e i vostri vecchi vedranno nei sogni. Sì, in quei giorni, su i miei servi e sulle mie serve, spanderò dello Spirito mio, e profeteranno» (Ac 2,17-18).

Uno di quei giorni escatologici, inaugurati nella prima Pentecoste cristiana, è questo nostro, Fratelli e Figli, in questa casa piena di carità e di verità, costruita appunto per l’annuncio della nostra Fede al mondo intero; quella Fede, che in questa festività ci appare, come non mai, attuale e viva, unica ed universale, dinamica ed apostolica.

Benediciamo il Signore!





Giovedì, 1° giugno 1972: "CORPUS DOMINI" NELLA PARROCCHIA DEL SANTISSIMO SACRAMENTO A TOR DE' SCHIAVI

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Solennità del «Corpus Domini»


Fratelli,

Noi celebriamo la festa del «Corpus Domini», la festa del Sacramento dell’Eucaristia.

Procuriamo di comprendere qualche cosa di questo mistero, perché, innanzi tutto, dire «sacramento» vuol dire qualche cosa di nascosto. Cioè, di nascosto e insieme di manifestato; nascosto nella sua realtà sensibile, ma manifestato per via di qualche segno. Di quale realtà si tratta? si tratta, niente meno che di Gesù Cristo. Di Lui, proprio di Lui vero e reale, quale ora si trova in cielo, nella gloria del Padre. E per quale segno ci è rappresentato? Un segno che vuole ricordarcelo quale Egli fu all’ultima cena, anzi quale fu nel suo sacrificio della croce, perché anche l’ultima cena fu un segno, una figura rappresentativa della passione. L’Eucaristia è un segno, una memoria; ma non solo segno, ma segno che contiene la realtà che vuole significare, contiene Gesù, rivestito per noi nell’Eucaristia nei segni del pane e del vino, i quali contengono e sono, mediante un miracolo di trasformazione essenziale, la «transustanziazione», carne e sangue di Cristo, cioè Gesù in stato di vittima, di sacrificio.

Noi rimaniamo ammirati, ma confusi. Perché Gesù ha voluto rendersi presente in questa maniera? Questa domanda non è indiscreta, se espressa con umile ed amorosa sincerità. Osserviamo bene, perché vi sarebbero molte cose da dire; scegliamo quella che appare più semplice e più importante. L’intenzione di Gesù, istituendo l’Eucaristia, qual era? Anche un bambino, istruito nel Catechismo, e anche un fedele che guarda queste cose meravigliose, possono rispondere, e dicono: Gesù ha istituito questo Sacramento per la Comunione, cioè per dare Se stesso in comunione a quelli che lo ricevono.

Difatti che cosa vuol dire fare la prima Comunione? ovvero fare la Comunione? vuol dire ricevere quel sacramento prodigioso dell’Eucaristia, cioè del Corpo e del Sangue del Signore, come proprio cibo, come alimento della propria vita. Gesù si è voluto mettere in una condizione tale da poter essere il nutrimento interiore e vivificante della nostra umana e presente esistenza. Ricordate le parole esplicite, anche se difficili a capirsi, di Gesù, che disse: «Io sono il pane della vita . . . Io sono il pane vivo . . . Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed Io in lui . . . Chi mangia me, vivrà di me . . . Chi mangia questo pane, vivrà in eterno» (
Jn 6). Parole difficili, ripetiamo; ma parole del Signore, parole vere. Insomma: che cosa voleva dire il Signore enunciando questa Sua intenzione di farsi cibo dei suoi fedeli, di quelli cioè che accettano la sua parola e che ci credono, e accolgono questo superlativo «mistero di fede»? Voleva rendere possibile, anzi doverosa la nostra «comunione» con Lui. Comunione? sì comunione, cioè un’unione intima, profonda, perfetta. Una specie di simbiosi mistica, come diceva San Paolo: «Per me vivere è Cristo» (Ph 1,21). Ma è mai possibile, diciamo, fisicamente? Come può da noi, da ciascuno di noi essere avvicinato Gesù? Gesù che visse tanti secoli fa, Gesù che visse in un piccolo paese lontano? tempo e spazio ci separano da lui; come è possibile? e poi, Lui, Figlio di Dio vivo e Dio Lui stesso, Lui il Messia, Lui il Salvatore del mondo, Lui il primogenito dell’umanità redenta, il centro della storia e del mondo? (Cfr. Col 1) com’è moralmente possibile, a ciascuno di noi, a noi peccatori, venire a contatto con Lui? Vien fatto di dire, col centurione del Vangelo: «Signore, . . . io non son degno!» (Cfr. Lc 7,6). Eppure la sua parola risuona così: «Venite a me tutti . . .» (Mt 11,28).

Qui dobbiamo fermarci. Chi ha l’intelligenza delle cose vere, delle cose profonde, chi ha il coraggio della verità e dell’amore, chi ha intuito quale sia la Parola creatrice, che esce dalle labbra di Cristo, di Colui che aveva moltiplicato i pani per sfamare la folla, chi insomma crede in Cristo, deve pur dire a se stesso: anch’io sono invitato; Egli è Pane di vita anche per me; la comunione con Lui \e pronta; è offerta anche per me. Purché purificato dal peccato, anch’io, chiunque io sia, piccolo, misero, infelice, malato e vecchio, ovvero carico e sovraccarico di fatiche e di faccende, anche io sono invitato; Egli mi aspetta; Egli è per me . . . «Egli mi ha amato, e ha dato la sua vita per me» (Ga 2,20). La comunione è pronta. Questa è la realtà, questa è la festa, questo è il «Corpus Domini». Siamo tutti attesi alla mensa del Signore, che vuole a Sé incorporarci, incorporandosi a noi.

La meraviglia è al colmo. La porta della vita nuova, sopra il piano della vita naturale, è aperta. La vita del regno di Cristo, anche ai livelli dell’intensità spirituale, dell’esperienza mistica, del preludio e del pegno della vita eterna, ciascuno può dire, è anche per me. La comunione con Cristo, in profondità estremamente personale, è per me.

Ma non è tutto: ancora, ancora: questa elementare riflessione Sull’Eucaristia ci svela un’altra comunione. Sì, le comunioni prodotte dall’Eucaristia sono due. Una è con Cristo, abbiamo detto. L’altra è con gli uomini. Precisiamo: è con quegli uomini che siedono alla stessa mensa divina, che mangiano quello stesso Pane vivo, che è Cristo. Conosciamo tutti le parole rivelatrici di San Paolo a questo riguardo. Egli scrive: «Il pane che noi dividiamo non è forse comunione del corpo di Cristo? allora unico è il pane ed unico il corpo che noi, pur essendo molti, formiamo, poiché tutti partecipiamo ad un unico pane» (Cfr. 1Co 10,16-17). Così che la nostra comunione individuale con Cristo produce una comunione sociale con i Cristiani. La stessa vita divina circola in tutta la comunità di coloro che condividono la medesima fede, la medesima grazia, la medesima società ecclesiale: diciamo di più: il medesimo corpo mistico di Cristo, che è la Chiesa. Il corpo reale e sacramentale del Signore alimenta e fa vivere del suo Spirito il corpo spirituale e sociale, che siamo noi, membra dell’umanità compaginata in Cristo. Bisogna dare molta importanza a questa teologia fondamentale, che stabilisce una corrispondenza fra le due comunioni, una con Cristo vivo e personale in Cielo, che a noi si concede nel segno memoriale e sacrificale dell’amore profuso per noi, l’altra con Cristo presente negli uomini resi nostri fratelli dall’identico amore. Il tema è fecondo d’altre visioni: questa seconda comunione, quella con i fratelli, è preventivamente richiesta dal Signore come requisito per sedere alla sua mensa (Cfr. Mt 5,23); non si può accedere all’altare con l’odio nel cuore, o col rimorso d’avere offeso un fratello; e non si può lasciare la mensa del Signore, dimenticando il «precetto nuovo», ch’Egli con intenzionale gravità, dandosi a noi, ci ha trasmesso: «amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato» (Jn 13,34). L’Eucaristia diventa in noi la grande sorgente dell’amore fraterno, anzi della carità sociale. Noi che onoriamo l’Eucaristia dovremmo dimostrare nel sentimento, nel pensiero, nella pratica, che sappiamo davvero amare il nostro prossimo, anche quello che non siede alla mensa del Signore con noi, anche quel prossimo che manca ancora di comunione di fede, di speranza, di carità, di unione ecclesiale, ovvero manca di qualche cosa necessaria alla vita: di dignità, di difesa, di assistenza, di istruzione, di lavoro, di pane, di ottimismo, di amicizia; ogni deficienza umana diventa programma alla scuola di Cristo. L’insegnamento d’amore, che scaturisce dall’Eucaristia, ci deve trovare tutti alunni disposti a perdonare, a beneficare, a servire il nostro prossimo, fin dove sono allargabili i confini delle nostre possibilità. Non è utopia, non è iperbole; è la radice della società umana, non fondata sull’egoismo, sull’odio, sulla vendetta, sulla violenza, ma sull’amore. Questo, dopo l’Eucaristia, sarà il distintivo dei vari discepoli: l’arte di amarsi a vicenda (Jn 13,35 Jn 15,12).

O Fratelli e Figli carissimi, che ascoltate la nostra umile voce, vogliate ascoltare quella divina che parla dal sacramento che ora stiamo adorando e meditando, per la salvezza vostra, per l’onore di questa Roma cristiana, per la prosperità e la pace del mondo in cui viviamo; l’invito alla comunione sacramentale con Cristo, e alla comunione sociale in Cristo con gli uomini tutti.



Giovedì, 29 giugno 1972: IX ANNIVERSARIO DELL'INCORONAZIONE DI SUA SANTITÀ

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Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo


Al tramonto di giovedì 29 giugno, solennità dei Ss. Pietro e Paolo, alla presenza di una considerevole moltitudine di fedeli provenienti da ogni parte del mondo, il Santo Padre celebra la Messa e l’inizio del suo decimo anno di Pontificato, quale successore di San Pietro.

Con il Decano del Sacro Collegio, Signor Cardinale Amleto Giovanni Cicognani e il Sottodecano Signor Cardinale Luigi Traglia sono trenta Porporati, della Curia, e alcuni Pastori di diocesi, oggi presenti a Roma.

Due Signori Cardinali per ciascun Ordine, accompagnano processionalmente il Santo Padre all’altare.

Al completo il Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, con il Sostituto della Segreteria di Stato, arcivescovo Giovanni Benelli, ed il Segretario del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa, arcivescovo Agostino Casaroli.

Diamo un resoconto della Omelia di Sua Santità.

Il Santo Padre esordisce affermando di dovere un vivissimo ringraziamento a quanti, Fratelli e Figli, sono presenti nella Basilica ed a quanti, lontani, ma ad essi spiritualmente associati, assistono al sacro rito, il quale, all’intenzione celebrativa dell’Apostolo Pietro, cui è dedicata la Basilica Vaticana, privilegiata custode della sua tomba e delle sue reliquie, e dell’Apostolo Paolo, sempre a lui unito nel disegno e nel culto apostolico, unisce un’altra intenzione, quella di ricordare l’anniversario della sua elezione alla successione nel ministero pastorale del pescatore Simone, figlio di Giona, da Cristo denominato Pietro, e perciò nella funzione di Vescovo di Roma, di Pontefice della Chiesa universale e di visibile e umilissimo Vicario in terra di Cristo Signore. Il ringraziamento vivissimo è per quanto la presenza di tanti fedeli gli dimostra di amore a Cristo stesso nel segno della sua povera persona, e lo assicura perciò della loro fedeltà e indulgenza verso di lui, non che del loro proposito per lui consolante di aiutarlo con la loro preghiera.


LA CHIESA DI GESÙ, LA CHIESA DI PIETRO

Paolo VI prosegue dicendo di non voler parlare, nel suo breve discorso, di lui, San Pietro, ché troppo lungo sarebbe e forse superfluo per chi già ne conosce la mirabile storia; né di se stesso, di cui già troppo parlano la stampa e la radio, alle quali per altro esprime la sua debita riconoscenza. Volendo piuttosto parlare della Chiesa, che in quel momento e da quella sede sembra apparire davanti ai suoi occhi come distesa nel suo vastissimo e complicatissimo panorama, si limita a ripetere una parola dello stesso Apostolo Pietro, come detta da lui alla immensa comunità cattolica; da lui, nella sua prima lettera, raccolta nel canone degli scritti del Nuovo Testamento. Questo bellissimo messaggio, rivolto da Roma ai primi cristiani dell’Asia minore, d’origine in parte giudaica, in parte pagana, quasi a dimostrare fin d’allora l’universalità del ministero apostolico di Pietro, ha carattere parenetico, cioè esortativo, ma non manca d’insegnamenti dottrinali, e la parola che il Papa cita è appunto tale, tanto che il recente Concilio ne ha fatto tesoro per uno dei suoi caratteristici insegnamenti. Paolo VI invita ad ascoltarla come pronunciata da San Pietro stesso per coloro ai quali in quel momento egli la rivolge.

Dopo aver ricordato il brano dell’Esodo nel quale si racconta come Dio, parlando a Mosè prima di consegnargli la Legge, disse: «Io farò di questo popolo, un popolo sacerdotale e regale», Paolo VI dichiara che San Pietro ha ripreso questa parola così esaltante, così grande e l’ha applicata al nuovo popolo di Dio, erede e continuatore dell’Israele della Bibbia per formare un nuovo Israele, l’Israele di Cristo. Dice San Pietro: Sarà il popolo sacerdotale e regale che glorificherà il Dio della misericordia, il Dio della salvezza.

Questa parola, fa osservare il Santo Padre, è stata da taluni fraintesa, come se il sacerdozio fosse un ordine solo, e cioè fosse comunicato a quanti sono inseriti nel Corpo Mistico di Cristo, a quanti sono cristiani. Ciò è vero per quanto riguarda quello che viene indicato come sacerdozio comune, ma il Concilio ci dice, e la Tradizione ce l’aveva già insegnato, che esiste un altro grado del sacerdozio, il sacerdozio ministeriale che ha delle facoltà, delle prerogative particolari ed esclusive.

Ma quello che interessa tutti è il sacerdozio regale e il Papa si sofferma sul significato di questa espressione. Sacerdozio vuol dire capacità di rendere il culto a Dio, di comunicare con Lui, di offrirgli degnamente qualcosa in suo onore, di colloquiare con lui, di cercarlo sempre in una profondità nuova, in una scoperta nuova, in un amore nuovo. Questo slancio dell’umanità verso Dio, che non è mai abbastanza raggiunto, né abbastanza conosciuto, è il sacerdozio di chi è inserito nell’unico Sacerdote, che è Cristo, dopo l’inaugurazione del Nuovo Testamento. Chi è cristiano è per ciò stesso dotato di questa qualità, di questa prerogativa di poter parlare al Signore in termini veri, come da figlio a padre.


IL NECESSARIO COLLOQUIO CON DIO

«Audemus dicere»: possiamo davvero celebrare, davanti al Signore, un rito, una liturgia della preghiera comune, una santificazione della vita anche profana che distingue il cristiano da chi cristiano non è. Questo popolo è distinto, anche se confuso in mezzo alla marea grande dell’umanità. Ha una sua distinzione, una sua caratteristica inconfondibile. San Paolo si disse «segregatus», distaccato, distinto dal resto dell’umanità appunto perché investito di prerogative e di funzioni che non hanno quanti non possiedono l’estrema fortuna e l’eccellenza di essere membra di Cristo.

Paolo VI aggiunge, quindi, che i fedeli, i quali sono chiamati alla figliolanza di Dio, alla partecipazione del Corpo Mistico di Cristo, e sono animati dallo Spirito Santo, e fatti tempio della presenza di Dio, devono esercitare questo dialogo, questo colloquio, questa conversazione con Dio nella religione, nel culto liturgico, nel culto privato, e ad estendere il senso della sacralità anche alle azioni profane. «Sia che mangiate, sia che beviate - dice San Paolo - fatelo per la gloria di Dio». E lo dice più volte, nelle sue lettere, come per rivendicare al cristiano la capacità di infondere qualcosa di nuovo, di illuminare, di sacralizzare anche le cose temporali, esterne, passeggere, profane.

Siamo invitati a dare al popolo cristiano, che si chiama Chiesa, un senso veramente sacro. E sentiamo di dover contenere l’onda di profanità, di desacralizzazione, di secolarizzazione che monta e vuol confondere e soverchiare il senso religioso nel segreto del cuore, nella vita privata o anche nelle affermazioni della vita esteriore. Si tende oggi ad affermare che non c’è bisogno di distinguere un uomo da un altro, che non c’è nulla che possa operare questa distinzione. Anzi, si tende a restituire all’uomo la sua autenticità, il suo essere come tutti gli altri. Ma la Chiesa, e oggi San Pietro, richiamando il popolo cristiano alla coscienza di sé, gli dicono che è il popolo eletto, distinto, «acquistato» da Cristo, un popolo che deve esercitare un particolare rapporto con Dio, un sacerdozio con Dio. Questa sacralizzazione della vita non deve oggi essere cancellata, espulsa dal costume e dalla realtà quotidiana quasi che non debba più figurare.



SACRALITÀ DEL POPOLO CRISTIANO

Abbiamo perduto, fa notare Paolo VI, l’abito religioso, e tante altre manifestazioni esteriori della vita religiosa. Su questo c’è tanto da discutere e tanto da concedere, ma bisogna mantenere il concetto, e con il concetto anche qualche segno, della sacralità del popolo cristiano, di coloro cioè che sono inseriti in Cristo, Sommo ed Eterno Sacerdote.

Oggi talune correnti sociologiche tendono a studiare l’umanità prescindendo da questo contatto con Dio. La sociologia di San Pietro, invece, la sociologia della Chiesa, per studiare gli uomini mette in evidenza proprio questo aspetto sacrale, di conversazione con l’ineffabile, con Dio, col mondo divino. Bisogna affermarlo nello studio di tutte le differenziazioni umane. Per quanto eterogeneo si presenti il genere umano, non dobbiamo dimenticare questa unità fondamentale che il Signore ci conferisce quando ci dà la grazia: siamo tutti fratelli nello stesso Cristo. Non c’è più né giudeo, né greco, né scita, né barbaro, né uomo, né donna. Tutti siamo una sola cosa in Cristo. Siamo tutti santificati, abbiamo tutti la partecipazione a questo grado di elevazione soprannaturale che Cristo ci ha conferito. San Pietro ce lo ricorda: è la sociologia della Chiesa che non dobbiamo obliterare né dimenticare.


SOLLECITUDINI ED AFFETTO PER I DEBOLI E I DISORIENTATI

Paolo VI si chiede, poi, se la Chiesa di oggi si può confrontare con tranquillità con le parole che Pietro ha lasciato in eredità, offrendole in meditazione. «Ripensiamo in questo momento con immensa carità - così il Santo Padre - a tutti i nostri fratelli che ci lasciano, a tanti che sono fuggiaschi e dimentichi, a tanti che forse non sono mai arrivati nemmeno ad aver coscienza della vocazione cristiana, quantunque abbiano ricevuto il Battesimo. Come vorremmo davvero distendere le mani verso di essi, e dir loro che il cuore è sempre aperto, che la porta è facile, e come vorremmo renderli partecipi della grande, ineffabile fortuna della felicità nostra, quella di essere in comunicazione con Dio, che non ci toglie nulla della visione temporale e del realismo positivo del mondo esteriore!».

Forse questo nostro essere in comunicazione con Dio, ci obbliga a rinunce, a sacrifici, ma mentre ci priva di qualcosa moltiplica i suoi doni. Sì, impone rinunce ma ci fa sovrabbondare di altre ricchezze. Non siamo poveri, siamo ricchi, perché abbiamo la ricchezza del Signore. «Ebbene - aggiunge il Papa - vorremmo dire a questi fratelli, di cui sentiamo quasi lo strappo nelle viscere della nostra anima sacerdotale, quanto ci sono presenti, quanto ora e sempre e più li amiamo e quanto preghiamo per loro e quanto cerchiamo con questo sforzo che li insegue, li circonda, di supplire all’interruzione che essi stessi frappongono alla nostra comunione con Cristo».

Riferendosi alla situazione della Chiesa di oggi, il Santo Padre afferma di avere la sensazione che «da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio». C’è il dubbio, l’incertezza, la problematica, l’inquietudine, l’insoddisfazione, il confronto. Non ci si fida più della Chiesa; ci si fida del primo profeta profano che viene a parlarci da qualche giornale o da qualche moto sociale per rincorrerlo e chiedere a lui se ha la formula della vera vita. E non avvertiamo di esserne invece già noi padroni e maestri. È entrato il dubbio nelle nostre coscienze, ed è entrato per finestre che invece dovevano essere aperte alla luce. Dalla scienza, che è fatta per darci delle verità che non distaccano da Dio ma ce lo fanno cercare ancora di più e celebrare con maggiore intensità, è venuta invece la critica, è venuto il dubbio. Gli scienziati sono coloro che più pensosamente e più dolorosamente curvano la fronte. E finiscono per insegnare: «Non so, non sappiamo, non possiamo sapere». La scuola diventa palestra di confusione e di contraddizioni talvolta assurde. Si celebra il progresso per poterlo poi demolire con le rivoluzioni più strane e più radicali, per negare tutto ciò che si è conquistato, per ritornare primitivi dopo aver tanto esaltato i progressi del mondo moderno.

Anche nella Chiesa regna questo stato di incertezza. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza. Predichiamo l’ecumenismo e ci distacchiamo sempre di più dagli altri. Cerchiamo di scavare abissi invece di colmarli.


PER UN «CREDO» VIVIFICANTE E REDENTORE

Come è avvenuto questo? Il Papa confida ai presenti un suo pensiero: che ci sia stato l’intervento di un potere avverso. Il suo nome è il diavolo, questo misterioso essere cui si fa allusione anche nella Lettera di S. Pietro. Tante volte, d’altra parte, nel Vangelo, sulle labbra stesse di Cristo, ritorna la menzione di questo nemico degli uomini. «Crediamo - osserva il Santo Padre - in qualcosa di preternaturale venuto nel mondo proprio per turbare, per soffocare i frutti del Concilio Ecumenico, e per impedire che la Chiesa prorompesse nell’inno della gioia di aver riavuto in pienezza la coscienza di sé. Appunto per questo vorremmo essere capaci, più che mai in questo momento, di esercitare la funzione assegnata da Dio a Pietro, di confermare nella Fede i fratelli. Noi vorremmo comunicarvi questo carisma della certezza che il Signore dà a colui che lo rappresenta anche indegnamente su questa terra». La fede ci dà la certezza, la sicurezza, quando è basata sulla Parola di Dio accettata e trovata consenziente con la nostra stessa ragione e con il nostro stesso animo umano. Chi crede con semplicità, con umiltà, sente di essere sulla buona strada, di avere una testimonianza interiore che lo conforta nella difficile conquista della verità.

Il Signore, conclude il Papa, si mostra Egli stesso luce e verità a chi lo accetta nella sua Parola, e la sua Parola diventa non più ostacolo alla verità e al cammino verso l’essere, bensì un gradino su cui possiamo salire ed essere davvero conquistatori del Signore che si mostra attraverso la via della fede, questo anticipo e garanzia della visione definitiva.

Nel sottolineare un altro aspetto dell’umanità contemporanea, Paolo VI ricorda l’esistenza di una gran quantità di anime umili, semplici, pure, rette, forti, che seguono l’invito di San Pietro ad essere «fortes in fide». E vorremmo - così Egli - che questa forza della fede, questa sicurezza, questa pace trionfasse su tutti gli ostacoli. Il Papa invita infine i fedeli ad un atto di fede umile e sincero, ad uno sforzo psicologico per trovare nel loro intimo lo slancio verso un atto cosciente di adesione: «Signore, credo nella Tua parola, credo nella Tua rivelazione, credo in chi mi hai dato come testimone e garante di questa Tua rivelazione per sentire e provare, con la forza della fede, l’anticipo della beatitudine della vita che con la fede ci è promessa».



Martedí, 15 agosto 1972: SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DELL'ASSUNZIONE DI MARIA SANTISSIMA


B. Paolo VI Omelie 21572