B. Paolo VI Omelie 15872

Martedí, 15 agosto 1972: SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DELL'ASSUNZIONE DI MARIA SANTISSIMA

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Il decimo incontro del Santo Padre Paolo VI con la comunità parrocchiale di Castel Gandolfo, per la festa dell’Assunzione di Maria Santissima, avviene in occasione dell’ormai tradizionale Messa, celebrata dal Papa nella chiesa arcipretale della cittadina laziale, che ospita nei mesi estivi il Sommo Pontefice.

La data è sottolineata dallo stesso Paolo VI che all’inizio dell’omelia durante la Messa, la ricorda ai fedeli che gremiscono il tempio berniniano di S. Tommaso da Villanova. L’incontro è motivo di letizia ed assume uno stile particolarmente familiare.

Il Papa è ricevuto, all’ingresso della chiesa parrocchiale, dall’arciprete di Castel Gandolfo, Don Angelo Di Cola con i padri salesiani che lo coadiuvano nel governo della parrocchia. Tra le autorità presenti sono il sindaco di Castel Gandolfo dott. Marcello Costa con la Giunta Municipale al completo, il direttore delle Ville Pontificie dott. Carlo Ponti, con il segretario dott. Bonanni e tutti gli altri collaboratori, i dirigenti degli istituti religiosi e scolastici della città, tra i quali il direttore della scuola «Paolo VI» Fratel Vittorio Grazia delle Scuole Cristiane, i superiori e le superiore delle congregazioni religiose, tra le quali le Maestre Pie Filippini e le Figlie di Maria Ausiliatrice.

Il Santo Padre inizia la sua Omelia salutando la «cara comunità parrocchiale e municipale» di Castel Gandolfo, con la quale, sono ormai dieci anni, rinnova il suo incontro nel giorno dedicato alla Madonna Assunta in cielo.

Paolo VI ringrazia, primo tra tutti, il Cardinale Segretario di Stato Giovanni Villot, che condivide con lui il lavoro, nel servizio della Chiesa in Cristo, le speranze e le implorazioni al Signore; poi i due Vescovi di Albano, Monsignor Macario con il nuovo Ausiliare Monsignor Bernini; gli altri sacerdoti, in modo particolare il parroco, il pastore che ha l’incarico, l’onore ma anche il grande peso e la responsabilità di diffondere tra la comunità parrocchiale la parola del Signore. Il Papa ringrazia inoltre, per la loro presenza, le comunità religiose, con le numerose suore presenti a Castel Gandolfo, alcune delle quali direttamente interessate con la loro attività all’assistenza di gruppi particolari: un ufficio di carità che affianca ed integra il ministero parrocchiale.

Continuando nei suoi saluti Paolo VI esprime poi gratitudine, per la loro presenza, alle autorità municipali di Castel Gandolfo, guidate dal Sindaco della cittadina laziale.

Manifesta quindi il desiderio di poter conoscere di persona tutti i singoli gruppi che compongono la comunità parrocchiale, e, proseguendo nel suo indirizzo di saluto, rivolge un ringraziamento al direttore delle Ville Pontificie, a tutte le associazioni cattoliche, rilevando come la vita di una comunità parrocchiale così piccola come quella di Castel Gandolfo susciti nel Santo Padre sentimenti di entusiasmo vivo e particolare, veramente paterno, allorché sono visibili i segni di queste premure pastorali.

A questo punto il Papa parla ai giovani, a tutta la generazione nuova che cresce, dando ad essa il suo paterno ed affettuoso saluto.

Egli aggiunge che il suo saluto deve essere tanto più gradito alla comunità dei fedeli in quanto si esprime nel giorno della solennità della Madonna, la grande festa gloriosa di Maria Assunta in Cielo: una ricorrenza, che suscita in tutti i fedeli non solo sentimenti esteriori di letizia, ma anche quelli interiori di pace e di spiritualità. In lei ci sentiamo affratellati in Cristo e maggiormente consolati dall’immensa ricchezza di misteri, di verità, di insegnamenti che piovono da questa figura esaltata dal Signore, una nostra sorella, una donna di questa terra anche lei, che ha avuto la fortuna di essere la madre di Cristo, benedetta fra tutte le donne.

Il Santo Padre si sofferma quindi sul mistero dell’Assunzione di Maria, rifacendosi alle parole stesse rivolte nel cantico del «Magnificat» dalla Madonna a Sant’Elisabetta, «Exaltavit humiles» e alle altre «Beata, perché hai creduto . . .». Maria in ogni occasione, ma specialmente in questa sua festa ci insegna ad abbandonarci con estrema fiducia nel mistero della volontà del Signore perché Ella stessa si abbandonò pienamente al mistero, facendo in tutto la volontà del Signore. I parenti più vicini a Dio e da lui più riconosciuti, ha soggiunto il Papa, sono proprio quelli che accettano la sua volontà. L’epilogo di questa accettazione avvenne sotto la croce di Gesù, quando la Madre, dal Figlio vilipeso e odiato dagli uomini, accolse il suo testamento di amore che la rendeva per sempre madre di tutti gli uomini. Fu Maria a rivelare poi la gloria del Cristo risorto, prima di tutti agli Apostoli, diventando, così, anche Madre della Chiesa.

Tutto ciò meriterebbe oggi, giorno a Lei dedicato, una meditazione piena di gioia e di letizia. Ma queste nostre parole - continua il Santo Padre - dovrebbero essere raccolte in modo particolare dalla nuova generazione, dai giovani, da quelli che vivono a contatto con l’esperienza del mondo in cui noi siamo attori, spettatori, e partecipi.

Ancor oggi, come in ogni tempo, il mondo è colpito dal fatto che Maria, proprio per questa sua sudditanza di fiducia e di amore, di dolore e di speranza, è stata risuscitata ed è stata assunta al cielo. Questa è l’impressione che domina i credenti specialmente in questa festa dell’Assunzione di Maria. Ella è stata assunta e vive in cielo accanto al suo Figlio. Tutto ciò oggi ci apre come uno spiraglio di cielo e ci fa chiaramente vedere qualche cosa dell’al di là. Ci mostra il Cielo e ci fa vedere il nostro destino in una visione meravigliosa e affascinante.

Purtroppo, osserva il Papa, noi che dovremmo tenere lo sguardo rivolto alla inebriante visione del cielo, siamo proclivi a curvare la testa verso la terra in esperienze temporali che ci vorrebbero tenacemente rendere padroni della terra. Di queste esperienze temporali non siamo mai sazi, come tanti ricchi che sono sempre più affezionati ai loro averi e spesso, proprio per questo, soccombono alla irrazionale fuga dalla vita, Noi dobbiamo convincerci che tutto quello che abbiamo e che ci circonda è fuggevole, e che in un attimo inesorabile può esserci tolto; e allora come è stato osservato saggiamente, non resta che la «libertà di morire». Noi siamo, come dice S. Paolo, dei morti in continuazione, «cotidie morimur».

Avviandosi alla conclusione, Sua Santità afferma che la festa dell’Assunta squarcia ogni velo umano e ci dice che Maria è risorta e che, come Lei, tutti risorgeremo, anche se Lei è risorta per divino privilegio subito dopo la morte, mentre noi risorgeremo negli ultimi giorni della terra; ma che comunque, risorgeremo per una vita che non è più nel tempo ma nell’eternità e in Dio.

Questa festa inoltre ci ricorda il doppio stato di esistenza a cui siamo destinati, questo presente e quello misterioso futuro. Abbiamo due vite da vivere: la vita presente è collegata alla futura e la condiziona. Se viviamo bene qui, avremo la fortuna di guadagnare il Paradiso; se invece ci distraiamo o percorriamo delle vie false e contrarie alla legge di Dio, quale sarà la nostra sorte al di là, quale infelicità ci prepariamo? Viene un sospetto, un’obiezione a questo punto: ma il miraggio della vita futura di cui la Madonna ci dà un saggio, non ci distacca, non svalorizza, non deprezza, la vita presente? I santi sono stati categorici su questo punto, sono stati di una radicalità che va anche al di là della giusta misura, con il loro disprezzo per la vita temporale, per le cose di questo mondo. La visione vera, è quella espressa nella preghiera che diremo durante la Messa al Signore, è quella di saper comporre, di rendere coordinate le due vite, la vita presente con quella futura. Se noi comprendiamo davvero qual è il disegno, il destino della nostra esistenza attuale, che Gesù Cristo ci ha insegnato e ha già realizzato in sé, e ha anticipato nella Madonna, la composizione di queste due vite non è più un problema insolubile. Resterà un problema difficile, diremo anche attraente, poiché anticipa qualcosa di lassù, l’amore, la felicità, la speranza, il godimento intenzionale, che domani sarà godimento reale.

Guardiamo di vivere così, misuriamo davvero la nostra vita presente, al contatto, al confronto di quella futura. Se il Signore ci chiamasse adesso, saremmo pronti? Un cristiano dovrebbe sempre poter dire: «sono pronto, sono in grazia di Dio, sono pellegrino verso quella meta, non sono fuori strada, sono fedele, sono cristiano, faccio il mio dovere, e allora posso condividere con tranquilla coscienza, senza presunzione, la grande speranza del Paradiso, la gioia che oggi Noi celebriamo inneggiando alla Madonna». Tutto poi si riduce, in fondo, a queste due cose: amare Dio ed amare il prossimo. Siamo fedeli a questo programma, vediamo in sintesi il nostro destino. Che la Madonna appunto ci insegni a vivere bene la giornata che passa, anche questa piena di doni del Signore e della Provvidenza. E guardiamo di mettere nel nostro cuore il grande desiderio, il grande amore che fu quello di Maria, l’amore del Cielo.





Sabato, 16 settembre 1972: VISITA AD UDINE PER IL XVIII CONGRESSO EUCARISTICO NAZIONALE

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Venerati Fratelli e Figli carissimi!

Noi vi dobbiamo innanzi tutto il nostro saluto. Esso fa parte del mistero, che ora insieme vogliamo celebrare, mistero di carità e di unità (Cfr. S. AUG. In Ioannem, tract. 26, 13; PL 35, 1613).

Alla Chiesa di Cristo, presente e vivente a Udine, promotrice e ospite del XVIII Congresso Eucaristico Italiano, il nostro primo saluto acclamante e giulivo: alle Chiese della Regione Triveneta qua convenute con i loro Pastori e con così cospicue schiere del loro Clero e dei loro Fedeli; alla Chiesa Italiana, che qui tutta si trova rappresentata in modo tanto qualificato ed in così largo numero di fratelli; ed a quanti da regioni vicine e lontane sono qua accorsi pellegrini, chiamati dalla medesima fede e da emula devozione, il voto di grazia, di gaudio e di pace, da parte nostra, quale Vescovo della Chiesa Romana, Pastore dell’intera Chiesa Cattolica sparsa su tutta la terra, nel nome del Dio vivente, Padre del Signore Gesù Cristo e nostro, nello Spirito Santo vivificante ed unificante.

Il nostro riverente e beneaugurante saluto si rivolge parimente alle Autorità della società civile qui presenti, ed a quanti con il consiglio e con l’opera hanno favorito il buon esito di questo Congresso; e nessuno inoltre di coloro che soffrono, lavorano, pregano, o perché piccoli, o tribolati, o bisognosi di misericordia, di assistenza e di conforto si creda da noi dimenticato ed escluso dalla nostra affettuosa benedizione. Un saluto particolare giunga a voi, Emigranti del Veneto e del Friuli specialmente, qua convenuti per questa felice circostanza; e a voi, Sloveni, che tanti vincoli storici ed etnici uniscono a questa regione, e che avete voluto con codesta presenza saldare specialmente i vincoli spirituali che affratellano la vostra a questa popolazione. A tutti l’assicurazione del nostro ricordo in questa celebrazione eucaristica della presenza reale e sacrificale di Cristo, nostro Maestro e nostro Salvatore.

Ora noi vi dobbiamo dire perché siamo venuti; e sarà questo tutto il nostro breve discorso.

Siamo venuti per adorare insieme con voi questo mistero eucaristico, che qui ora s’intende celebrare con quella intensità di riflessione interiore e di culto esteriore, che deve scuotere la nostra fede e farci meglio comprendere e in qualche misura gustare «l’abisso di ricchezza, di sapienza e di scienza di Dio» (Cfr.
Rm 11,33), palese nel segno, nascosto nella realtà, che si contiene nell’Eucaristia, non mai abbastanza esplorata, onorata, partecipata. Cotesto sforzo, che qui impegna i cattolici d’una Nazione intera, nella quale noi pure siamo localmente, storicamente e spiritualmente inseriti, a celebrare con unanime adesione e con cordiale solennità il mistero eucaristico, non poteva lasciarci materialmente e personalmente estranei, sebbene il venerato Cardinale, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, da noi espressamente inviato a presiedere questo Congresso, già vi dimostri la nostra piena adesione. Dovevamo venire. Dovevamo venire nonostante gli ostacoli, che chi conosce un po’ la nostra vita quotidiana può immaginare, non foss’altro quello di non far torto ad altri analoghi ed attraenti inviti, ai quali con nostro rammarico non possiamo sempre materialmente corrispondere. Ma al vostro invito, carissimi figli Udinesi, non potevamo non aderire, perché al merito della vostra Chiesa e all’affezione, che noi le portiamo, s’aggiungeva la scelta del tema prefisso, fra i tanti possibili, alla meditazione e alla celebrazione di questo Congresso; un tema teologico e ecclesiologico, che riguarda non soltanto l’attualità degli studi e delle discussioni Post-conciliari, ma tocca un aspetto del nostro ministero apostolico, e cioè il rapporto della Chiesa locale con l’Eucaristia, perché essa a sua volta tocca l’unità della Chiesa; e dove è in gioco l’unità nella Chiesa e della Chiesa è chiamato in causa l’ufficio apostolico affidato a Pietro, e perciò anche all’ultimo nel merito dei suoi successori (Cfr. Lumen Gentium, LG 23).

Voi conoscete già tutto a questo riguardo. Egregi e piissimi Maestri vi hanno già illustrato questo immenso e essenziale capitolo della dottrina eucaristica. Noi vi esortiamo a fissare l’attenzione, e poi, in seguito, la memoria, sulla grazia specifica dell’Eucaristia, sulla «res», dicono i teologi, di questo sacramento, cioè su l’intenzione centrale che Cristo ha avuto, al vertice del suo amore per noi, nell’istituirla, la grazia specifica, che esso ci apporta; ed è, voi lo sapete, l’unità del suo corpo mistico (Cfr. S. TH. III 73,3). La parola di San Paolo, scelta come punto focale della meditazione e della celebrazione di questo Congresso, lo dice con semplicità scultorea e con profondità insondabile: ad un unico, medesimo Pane, cioè Cristo fattosi cibo per noi, deve corrispondere un unico medesimo Corpo, il suo corpo mistico, la Chiesa. Alla Eucaristia, sì, corrisponde la Chiesa; al Corpo personale e reale di Cristo, contenuto nei segni del pane e del vino, per raffigurare e perpetuare il suo sacrificio salvifico nell’amoroso disegno di trasfondersi, per via di cibo, di alimento sacrificale, nei credenti in Lui, corrisponde il suo Corpo sociale e mistico, che sono i cattolici, cioè l’umanità riunita nell’organismo unitario, che chiamiamo Chiesa. Il Capo, Cristo, effonde la vita nelle membra del suo corpo mistico. L’Eucaristia è segno e causa di questa nuova struttura umana, storica, universale, vivente dello Spirito di Cristo, perché da Cristo chiamata, a Lui unita e intimamente associata, santificata perciò in ogni espressione della sua esistenza: «chi mangia di me, vivrà per me» (Rm 5,5); e sostenuta dalla speranza che non delude (Jn 6,57) della risurrezione finale (Jn 6,51-58).

Notate a ricordo di questo Congresso, con premurosa attenzione, il genio unitario, suprema rivelazione del cuore del Signore (Cfr. Jn 17,21-22) e caratteristica espressione della fede cattolica: tutti dobbiamo essere una cosa sola, tutti dobbiamo costituire una società unanime, non solo compaginata in virtù d’un identico pensiero, la fede, e da un’affezione comunitaria, la carità, una società vivente e soprannaturale, in virtù d’un identico principio esistenziale, la grazia unificante che emana da Cristo eucaristico; così che noi tutti dobbiamo formare il «corpo» del «Cristo totale», Lui Cristo del Vangelo il Capo, noi, disseminati nel mondo e nella storia, le membra (Cfr. S. AUG. En. in PS 17,51 PL 36,154).

Non dimenticheremo, no, come l’Eucaristia sia perfettiva del singolo fedele che si nutre di questo pane divino, e come esso abbia per ciascuno di noi il dono adeguato d’una pienezza gaudiosa da conferire: omne delectamentum in se habentem, ma questo dono non è il termine completo e finale del nutrimento eucaristico; perché esso non è soltanto dono personale, individuale; è dono che straripa dal singolo fedele e si riversa sui fratelli fedeli, destinato a fare di loro un organismo spirituale unificato; ripetiamo: il corpo mistico di Cristo, la Chiesa.

E ciò che diciamo del singolo fedele diremo analogamente di quella porzione dell’unica Chiesa che chiamiamo Chiesa locale, quella sulla quale si è concentrata l’attenzione di questo Congresso, e nella quale la celebrazione sacramentale e liturgica dell’Eucaristia offre la visione unitaria della Chiesa, e acquista un duplice aspetto, l’uno e l’altro estremamente interessante. E nella Chiesa locale - e qui il pensiero dal perimetro diocesano, che per eccellenza definisce il carattere proprio d’una Chiesa locale, costituzionalmente riconosciuta come tale, si allarga e si ramifica nelle espressioni parrocchiali e nelle altre particolari e legittime - noi possiamo riconoscere il punto di effettivo contatto dove l’uomo incontra Cristo e dove gli è aperto l’accesso al piano concreto della salvezza: qui il ministero, qui la fede, qui la comunità, qui la parola, qui la grazia, qui Cristo stesso che si offre al fedele inserito nella Chiesa universale. La Chiesa locale è perciò nell’economia religiosa cattolica il momento iniziale e terminale; e come il frutto rispetto alle radici, all’albero, ai rami; la fase cioè della pienezza spirituale a tutti disponibile. Gesù stesso sembra descriverne la bellezza e la fecondità: «Io sono la vite, Egli dice, voi i tralci» (Jn 15,5). Qui termina la struttura del suo disegno, e qui comincia la maturazione promessa del regno di Dio. Ascoltate il Concilio: «La diocesi, cioè la Chiesa locale, è una porzione del Popolo di Dio affidata alle cure pastorali del Vescovo, coadiuvato dal suo presbiterio, in modo che, aderendo al suo Pastore, e per mezzo del Vangelo e dell’Eucaristia, (quella porzione) da lui riunita nello Spirito Santo, costituisca una Chiesa particolare, nella quale è veramente presente ed opera la Chiesa di Cristo, Una, Santa, Cattolica ed Apostolica» (Christus Dominus, CD 11 Lumen Gentium, LG 26).

La Chiesa locale come madre deve essere amata. Il proprio campanile dev’essere preferito come il più bello di tutti. Ciascuno deve sentirsi felice di appartenere alla propria Diocesi, alla propria Parrocchia. Nella propria Chiesa locale ciascuno può dire: qui Cristo mi ha atteso e mi ha amato; qui l’ho incontrato, e qui io appartengo al suo Corpo mistico. Qui io sono nella sua unità. Quanti qui siamo dobbiamo essere inseriti in Cristo ed essere con Lui e fra noi una cosa sola. Ed è l’Eucaristia che ci dà, che ci deve dare questo senso di comunione. È l’Eucaristia la mensa del Signore: noi ci raccogliamo intorno al medesimo altare, come commensali di Cristo e commensali degli altri fedeli, che dobbiamo considerare come Fratelli.

Perché ci indugiamo a fare l’elogio della Chiesa locale?

Perché una rinnovata ed accresciuta stima della rispettiva Diocesi, della nostra propria Parrocchia, o della nostra legittima comunità, e di conseguenza di qualsiasi forma di onesto umano rapporto, dev’essere il frutto di questo Congresso. Cristo, nell’Eucaristia, Sacerdote, vittima e cibo della sua mensa sacrificale, ci è altresì maestro di carità e di unità. È dalla sua mensa ch’Egli ci ha lasciato in testamento l’esempio di perfino sconcertante umiltà di Lui, come Egli stesso allora si definì, Signore e Maestro, che si curva a lavare i piedi dei suoi discepoli (Jn 13); ci ha lasciato il comandamento nuovo di volerci bene gli uni gli altri; dove la novità, pare a noi, sta nel «come». Egli ci ha voluto bene, un «come» senza fondo: «Io vi do un comandamento nuovo, Egli disse, che vi amiate a vicenda, come io vi ho amati». Un comandamento, che dev’essere caratteristico e distintivo: «Tutti sapranno che siete miei discepoli se vi amerete vicendevolmente» (Jn 13,35). Segno, pegno, impulso, fonte e forza di questa impensabile comunione fra noi seguaci ed alunni, fra noi cristiani, la comunione con Lui, l’Eucaristia.

Una rinnovata coscienza della nostra socialità ecclesiale dev’essere, sì, la conseguenza d’un Congresso Eucaristico, intitolato alla comunità locale; una conseguenza che non ci concede più di vivere la vita cristiana nel guscio chiuso e comodo del proprio individualismo, sia spirituale che pratico, e nel disinteresse dei bisogni, dei problemi, delle fatiche, delle gioie della propria comunità; una conseguenza, che ci vieta di fomentare i difetti degli ambienti ristretti; le antipatie, le gelosie, le maldicenze, i dispetti, le contestazioni, le avversioni, le liti, che vegetano spesso anche nelle nostre comunità; una conseguenza invece che mette l’amor del prossimo come programma reale e generale delle nostre convivenze ecclesiali, e che lo applica con generosità ed umiltà in ogni vicenda della vita quotidiana; e che fa sentire a tutti e a ciascuno come propri i bisogni della comunità, quelli dei poveri, dei disoccupati, dei sofferenti, dell’infanzia e della gioventù, non che quelli della vita religiosa e della vita civile. Noi siamo lieti d’avere oggi con noi, quasi a conferma dell’amicizia di cui è capace una Chiesa locale, storicamente ed etnicamente caratterizzata come quella di Udine, d’accogliere come ospiti e fratelli, folle di lavoratori, che personificano le passioni e le speranze sociali di tanta parte del popolo italiano, e di esprimere loro la nostra cristiana solidarietà.

Unità nella Chiesa locale. Poi unità della Chiesa, cominciando anche su questo punto da una riaffermata coscienza della comunione con la Chiesa universale, e con la Chiesa che le sta alla base ed al centro, per volere di Cristo, la Chiesa di Pietro, la Chiesa Romana. Non parliamo per nostro orgoglio o per nostro egoistico vantaggio. Servo dei servi di Dio, investito della funzione pastorale di tutto il gregge di Cristo, noi parliamo per il nostro dovere e il vostro onore, citando una nota parola di San Giovanni Crisostomo: «Chi sta a Roma, sa che gli Indi sono sue membra» (In Io. Hom. 65, 1; PG 59, 361); parliamo per il vantaggio delle Chiese locali, per le quali sarebbe tristissima sorte perdere il senso della cattolicità dell’unico Popolo di Dio e di cedere alla tentazione del separatismo, dell’autosufficienza, del pluralismo arbitrario, dello scisma, dimenticando che per godere dell’autentica pienezza dello Spirito di Cristo è necessario essere inseriti organicamente nel Corpo di Cristo (Cfr. 1Co 12,1 ss.; 2Co 1,9 Ga 3,28 Rm 6,5 Rm 11,17 ss.; etc.; S. Agostino). Dall’Eucaristia l’unità comunitaria e gerarchica, che dalla convergenza verso il suo punto focale, visibile, il ministero apostolico, invisibile, il mistero dello Spirito di Cristo, si allarga a ventaglio senza confine nella cattolicità della Chiesa, estesa per tutta la terra, in uno slancio di amore missionario ed ecumenico: questo è l’orizzonte che si spalanca sopra di noi, se davvero nell’intimo cenacolo della nostra Chiesa locale avremo celebrato il sacrificio eucaristico di Gesù offerto «pro mundi vita», per la vita del mondo (Jn 6,51).



Domenica, 24 settembre 1972: CENTENARIO DELLA NASCITA DI MONSIGNOR LORENZO PEROSI

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Questa vostra religiosa e festosa presenza nella nostra Basilica Vaticana, carissimi Ceciliani, è per noi motivo di grande conforto e di rinnovata speranza. Avete voluto che il vostro Congresso straordinario fosse coronato da questa celebrazione eucaristica, accompagnata dal fervore della vostra pietà e delle vostre molteplici voci, qui sulla tomba del Principe degli Apostoli, in comunione di fede e di carità con l’umile Vicario di Cristo.

Ve ne siamo grati, figli carissimi. Il Nostro ringraziamento va anzitutto al benemerito Presidente dell’Associazione Italiana S. Cecilia, Monsignor Antonio Mistrorigo; vogliamo poi ringraziare gli altri dirigenti dell’Associazione, particolarmente Monsignor Ernesto Moneta Caglio, che delle scholae cantorum, indispensabile mezzo di animazione del canto nelle cattedrali come nelle più piccole comunità parrocchiali, è zelante promotore e accorto sostenitore. Né dimentichiamo gli illustri Maestri qua convenuti da ogni parte d’Italia, i dirigenti dei Segretariati, i partecipanti tutti a questa festa della Musica sacra, tanto necessaria per la celebrazione veramente degna della Liturgia.


LE MIRABILI COMPOSIZIONI DI UN GRANDE GENIO

Vogliamo ora dirvi una parola di plauso e di riconoscenza per il fatto che il vostro Congresso intende commemorare il centenario della nascita del grande, indimenticabile Monsignor Lorenzo Perosi, Maestro Direttore Perpetuo della nostra Cappella Sistina.

Questo centenario cade in un momento molto importante per la Chiesa. Il Maestro Perosi è stato, con la sua meravigliosa vena musicale, il fulcro del rinnovamento liturgico promosso dal nostro Predecessore san Pio X. Fu Monsignor Perosi, che con le sue mirabili composizioni e con l’influsso del suo genio riportò la musica sacra ad essere espressione sincera e degna del culto divino, liberandola da un certo decadentismo, che in alcuni casi l’aveva colpita nel periodo a lui immediatamente precedente.

Perosi seppe attuare alla perfezione la linea direttiva che san Pio X esprimeva nel Motu proprio «Tra le sollecitudini», con queste parole: «La musica sacra deve . . . possedere nel grado migliore le qualità che sono proprie della liturgia, e precisamente la santità, la bontà delle forme e . . . l’universalità» (Tra le sollecitudini, 2).

Nel rinnovamento liturgico, voluto dal Concilio, a noi pare che Lorenzo Perosi abbia ancora qualcosa da dire ai cultori della musica sacra. E anzitutto questo: il culto del Signore, le sante parole che velano il «mistero», e pur rivelano, in qualche modo, le tremende affascinanti realtà soprannaturali, devono essere rivestite di forme musicali perfette, quanto è possibile ad una creatura. Il genio è dono di Dio; e Dio distribuisce i suoi doni secondo la sua volontà. Ma anche quando la mente umana non può assurgere a quel supremo fastigio, non si può né si deve trascurare sforzo alcuno per raggiungere quella perfezione di forme e di sacralità, che conviene alla musica di chiesa. Inoltre, è necessario che il musicista, nella ricerca di nuove espressioni, tenga conto del momento della celebrazione, del luogo sacro, dell’assemblea, della maestà divina a cui si rivolge e per cui scrive il suo brano musicale, e insieme delle tradizioni della Chiesa, della quale Lorenzo Perosi fu un servo buono e fedele, consacrando ad essa tutta la sua vena artistica e tutta la sua vita.

Ecco perché Ci sembra doveroso che la Chiesa ricordi solennemente questo suo sacerdote e proponga la sua arte, il movente della sua ispirazione musicale, la sua dedizione, alla attenta riflessione di quanti oggi mettono i propri talenti artistici al servizio del Culto divino.


IL CANTO DEL POPOLO NELLA CELEBRAZIONE DEI SACRI MISTERI

Fin dagli inizi del nostro servizio pontificale, e particolarmente da quando abbiamo messo mano all’attuazione della riforma liturgica, non solo nei documenti ufficiali, nelle Istruzioni, nelle norme dei nuovi libri liturgici, ma anche nei nostri colloqui con le varie categorie del popolo di Dio, non abbiamo lasciato passare occasione per raccomandare l’impegno di promuovere con tutti i mezzi il canto del popolo nella celebrazione dei sacri misteri: esortazione che abbiamo rivolto in particolare ai nostri fratelli nell’Episcopato, alle Commissioni liturgiche, alle associazioni di musica sacra, alla vostra stessa Associazione, alle scholae cantorum e alle Cappelle Musicali, ai pueri cantores.

Ma oggi non possiamo non rinnovare questo invito dinanzi ad una assemblea così cospicua di cultori della musica sacra.

È un’esigenza dell’uomo portare nel culto del Signore il meglio di sé e dire a Lui il proprio amore con tutte le facoltà personali. Ora, la vita è piena dell’espressione gioiosa del canto. Lo osservava già amabilmente S. Giovanni Crisostomo: «Cantano le madri, prendendo in braccio i bambini per addormentarli dolcemente; cantano i viaggiatori . . . sotto il sole cocente; canta l’agricoltore quando coltiva la vite, vendemmia o pigia l’uva o a qualunque altro lavoro si dedichi; cantano i naviganti affondando i remi nell’acqua; . . . cantano da soli o in coro, proponendosi di alleviare con il canto la fatica; e l’anima, grazie al canto, sopporta le più dure sofferenze» (Cfr. S. IOAHN. CRHYS. Expos. in
Ps 41,1, PG 55, 156-157). Il canto, che risuona con tanta frequenza sulle labbra umane nei momenti lieti e tristi della giornata, non dovrebbe anche sostenere il cristiano nella celebrazione dell’opera in cui «si compie la nostra salvezza»?

Il canto è un’esigenza dell’amore e lo manifesta. Sentite come ne parla Sant’Agostino: «il canto viene dall’allegria, ma se osserviamo più attentamente, dall’amore: canticum res est hilaritatis, et si diligentius consideremus, res est amoris» (S. AUG. Sermo 34, 1: PL 38, 210), e ancora: «cantare et psallere negotium esse solet amantium: cantare e salmeggiare è proprio di chi ama» (Sermo 33, 1: PL 38, 207).


LINGUAGGIO DI AMORE NEI FEDELI

Segno naturale dell’amore, il canto ha quindi un posto insostituibile nel culto cristiano, che è servizio di carità: di quell’amore nel quale, come abbiamo ricordato nell’orazione della S. Messa, «è posto il fondamento di tutta la legge». Poiché de illo quem amas cantare vis (S. AUG. Sermo 34, 6: PL 38, 211), il nostro amore per Iddio si esprime anche nel canto. Amore e lode si richiamano a vicenda come dice ancora Sant’Agostino: «amare e lodare; lodare nell’amore; amare nella lode: amare et laudare; laudare in amore: amare in laudibus» (Cfr. ID. Enarr. in Ps 147,3, PL 37, 1916).

Ma il canto manifesta e fomenta anche l’amore tra i fratelli. Nel canto si forma la comunità, favorendo con la fusione delle voci, quella dei cuori, eliminando le differenze di età, di origine, di condizione sociale, riunendo tutti in un solo anelito nella lode a Dio, creatore dell’universo e Padre di tutti. Per questo il Concilio raccomanda che «si incrementi con ogni cura il canto religioso popolare, in modo che le voci dei fedeli possano risuonare . . . tanto nei pii esercizi, quanto nelle azioni liturgiche» (Sacrosanctum Concilium, SC 118). Infatti, la Liturgia è azione di tutta la Chiesa, sacramento di unità, ossia popolo santo riunito e ordinato sotto l’autorità dei legittimi pastori (Cfr. Ibid. 26). Essa appartiene a tutto il corpo ecclesiale, e perciò l’obiettivo fondamentale della riforma liturgica è la partecipazione attiva dei fedeli nel culto dovuto e reso al Signore. Elemento tra i più indispensabili per raggiungere questa meta è appunto il canto comunitario. Il canto del popolo deve, perciò, ritrovare tutta la sua forza e stare al primo posto. Purtroppo, non sempre è dato di vedere Io spettacolo meraviglioso di tutta un’assemblea pienamente attiva nel canto: «Troppe bocche rimangono mute, senza sciogliersi nel canto - dicevamo ai partecipanti alla IX Rassegna delle Cappelle Musicali -. Troppe celebrazioni liturgiche rimangono prive di quella mistica vibrazione, che la musica autenticamente religiosa comunica alle anime aperte e sensibili dei fedeli» (Discorso ai partecipanti alla IX Rassegna delle Cappelle Musicali, 14 aprile 1969).


ESSERE LA LODE DI DIO

Grave compito incombe pertanto ai responsabili della pastorale e in particolare a coloro che Dio ha dotato di talento, per aiutare e sostenere la partecipazione dei fedeli alla liturgia con canti facili, con la ricerca di forme nuove non indegne del passato, con la valorizzazione del patrimonio musicale antico, procurando che tutto sia intonato ai vari momenti della celebrazione e ai periodi dell’anno liturgico, e sia capace di esprimere il sacro e di toccare la sensibilità religiosa degli uomini del nostro tempo.

Anche a questo riguardo, che a nessuno il Signore debba rivolgere il rimprovero del Vangelo di oggi: «perché ce ne state oziosi?». Vogliate invece accogliere con cuore aperto l’invito a lavorare nella sua vigna per un’opera che sta grandemente a cuore alla Chiesa. E che il canto divenga così coefficiente di vita cristiana, come esorta ancora Sant’Agostino: «Cantate con la voce, cantate con la bocca, cantate con i cuori, cantate con un comportamento retto: "Cantate al Signore un cantico nuovo" . . . "La sua lode risuoni nella assemblea dei santi". Il cantore, egli stesso, è la lode che si deve cantare. Volete dire le lodi a Dio? Voi siete la lode che si deve dire. E siete la sua lode, se vivete in modo retto» (S. AUG. Sermo 34, 6: CCL 41, 426).

Con questi pensieri, figli carissimi, auguriamo che dalla presente celebrazione prenda nuovo slancio il bel canto del popolo fedele, per la gloria di Dio, per la nobiltà del culto del Signore e per la piena efficacia della sacra liturgia nel rinnovamento della vita cristiana.







B. Paolo VI Omelie 15872