B. Paolo VI Omelie 25122


OMELIE 1973



Sabato, 6 gennaio 1973: SOLENNITÀ DELL'EPIFANIA DEL SIGNORE

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Venerati Fratelli e Figli carissimi,

questa solenne e piissima cerimonia si iscrive in tre grandi disegni, i quali si aprono sopra di noi e d’intorno a noi, come sconfinati orizzonti. Non possiamo restringere il nostro sguardo al rito, che stiamo compiendo, senza lasciare che da tali amplissimi disegni giungano al nostro rito la luce, il significato, il mistero, di cui sono superiore sorgente.

Il primo disegno, da cui l’atto religioso in via di celebrazione, acquista il senso ed il valore suo proprio, è quello liturgico. Noi celebriamo la festa dell’Epifania. Tutti sappiamo la densità di motivi culturali, ai quali tale festa si riferisce. A noi ora basti considerarli nel loro significato sintetico, e cioè la manifestazione di Dio avvenuta mediante 1’Incarnazione: la teofania che si è compiuta umanamente e storicamente in Cristo Gesù: l’apparizione di Dio nel quadro temporale e sensibile della rivelazione cristiana. «Il mistero occultato ai secoli e alle generazioni ora è stato rivelato . . .» (
Col 1,26). Il problema spirituale dell’umanità, l’attesa profetica delle religioni vaganti sulla terra e nei tempi in cerca d’un incontro autentico e felice col Dio ignoto, o soltanto conosciuto per via di processi logici negativi o superlativi, per via di segni insufficienti, atti piuttosto a suscitare il desiderio di Dio, che a conferire la gioia d’un vero e ineffabile incontro con Lui, la questione religiosa nel suo contenuto reale e profondo, e nella sua universale estensione, ha avuto la sua soluzione, la sua chiave d’intelligenza e di possesso, ha avuto il suo punto focale di spiegazione e di ordinamento concreto. La vera religione ci è stata aperta ed offerta (Cfr. 1Jn 1,1-4). Merita un tale avvenimento una riflessione senza fine. L’interpretazione globale della storia è resa possibile. L’umanità ha trovato il principio della sua fratellanza, della sua unificazione. La salvezza ha inaugurato il suo dramma meraviglioso e tremendo: «è nato per noi un Salvatore» (Lc 2,11), e si chiama Gesù (Mt 1,21); Lui è l’immagine trascendente e pur visibile e a noi familiare del Padre (Cfr. Jn 14,9); Lui è l’«Alpha e l’Omega, il principio e la fine» (Ap 1,8). A Lui gridiamo con Tommaso: «mio Signore e mio Dio»! (Jn 20,28)

Una tale visione del cielo liturgico odierno basterebbe per tenerci incantati in una indefinita contemplazione.

Se non che è per noi dovere e piacere cogliere nell’immenso panorama dell’Epifania un disegno che ci tocca direttamente, quello missionario; quello cioè della diffusione della rivelazione avvenuta in Cristo Signore. Gesù è venuto in silenzio ed in umiltà, ma non per nascondersi, non per circoscrivere l’irradiazione della sua presenza nel mondo; ma piuttosto per rendere accessibili a chi lo cerca, a chi lo accoglie i sentieri più piani (Cfr. IGN. ANT. Ad Eph. 18-19). Vi è un’intenzione missionaria nelle modalità stesse, con cui Gesù Cristo entrò nel mondo e svolse poi il suo disegno evangelico. Vi è un’economia storico-umana a cui certo presiede una guida divina circa la diffusione del Vangelo nel mondo. Ecco. La presenza dei Magi a Betlemme, commemorata in modo particolare oggi dalla Chiesa, indica che subito Gesù, appena nato, è disponibile per alcuni, quasi fosse per tutti; anzi piuttosto, secondo un’economia particolare, la quale sembra riservare ai più lontani i primi posti. Con la nascita di Gesù nel mondo è accesa una stella, è accesa una vocazione luminosa; carovane di popoli si mettono in cammino (Cfr. Is. Is 60,1 ss.); vie nuove si tracciano sulla terra; vie che arrivano, e per ciò stesso vie che partono. Cristo è il centro. Anzi Cristo è il cuore: una circolazione nuova per gli uomini è incominciata; essa non terminerà mai più. Anzi essa è destinata a costituire un programma essenziale per la Chiesa, cioè per la comunità degli uomini credenti in Cristo e formanti corpo con Lui. Un programma, una necessità, una urgenza, uno sforzo continuo, che ha la sua ragion d’essere nel fatto che Cristo è il Salvatore, Cristo è necessario, Cristo è potenzialmente universale, e che Cristo vuole essere annunciato, predicato, diffuso da un ministero di fratelli, da un apostolato di uomini inviati apposta da Lui per recare all’umanità il messaggio della verità, della fratellanza, della libertà, della pace (Cfr. Ad Gentes).

Ecco l’arco dello sforzo missionario delinearsi sopra questa cerimonia; essa è di per sé missionaria, ed una circostanza speciale ne mette in gloriosa evidenza l’intenzione. Voi sapete che una data significativa, il trecentocinquantesimo anniversario dell’istituzione dell'organo specificamente missionario della santa Chiesa cattolica, ci ricorda questa legge intrinseca della fede: la necessità della diffusione del Vangelo e della fede, della Chiesa perciò; e ci ricorda come storicamente la Sacra Congregazione «de Propaganda Fide», oggi denominata «per L’Evangelizzazione dei Popoli», abbia sapientemente, coraggiosamente, tenacemente incarnato tale legge, dando alle Missioni cattoliche impulso, direzione, sostegno, diffusione, senza più tregua, né senza mai concludere l’opera ed attenuare lo sforzo; opera c sforzo, che dopo tante esperienze, non poche rinomate per santità e illustrate da sacrifici incalcolabili, perfino dalla testimonianza estrema del sangue, reclamano oggi nuova, anzi maggiore adesione. Le Missioni, si direbbe, sono sempre al principio! Né le ragioni supreme della loro necessità, né i bisogni della loro attività, né le difficoltà per la loro espansione sono venute meno. Crescono piuttosto, con l’evoluzione civile dei Popoli; la quale, mentre apre la loro recettività al messaggio evangelico, ovvero in alcuni luoghi piuttosto la rende più delicata e difficile, aumenta il loro bisogno, diciamo pure il loro morale diritto, a ricevere, e il nostro comune dovere a far loro ricevere dal missionario l’annunzio evangelico.

Temi di tanta importanza e di tale ampiezza, voi ben lo sapete, meritano studio adeguato, che non certo intendiamo svolgere in questo momento, né in questa sede. Ma un atto ci sembra obbligatorio proprio in questo momento ed in questa sede: un atto d’impegno, una promessa: quella di dare, di ridare il cuore alla causa delle Missioni. Ce ne fa obbligo, dicevamo, la natura di questa causa; è quella di Cristo e dell’umanità; è quella del Vangelo, quella della salvezza cristiana di tanti uomini ancora privi della Fede; è quella della civiltà umana abilitata a interpretare e a perseguire i destini autentici della vita umana. Ce ne fa obbligo la recente tradizione missionaria, della quale si è nello scorso anno celebrata la storia eroica, più che mai degna e bisognosa d’essere continuata e promossa. Ce ne fa obbligo altresì la felice circostanza di questa storica cerimonia, nella quale un terzo disegno provvidenziale distende le sue linee ammirabili; ed è quello che presenta al nostro ministero apostolico questi alunni delle nostre Scuole Missionarie Romane, affinché noi conferiamo loro l’ordinazione sacerdotale!

Oh! momento sublime e decisivo, tipicamente missionario! Oh! davvero come il nostro cuore sente la commozione per essere ora noi stessi ministri d’un tanto sacramento! Oh! dove ne cercheremo noi l’essenziale segreto, se non nelle parole stesse di Cristo, le quali non tanto echeggiano come lontano ricordo, ma risuonano con una loro identica attualità nel ministero che stiamo compiendo: «Come il Padre ha mandato me, anch’Io mando voi . . . Ricevete lo Spirito Santo . . .» (Jn 20,21-22). Qui è la sorgente vitale della missione evangelica. Cristo non affida soltanto un semplice incarico apostolico; Egli trasfonde la potestà, la virtù di compierlo; Egli così associa a Sé alcuni uomini da Lui scelti ed eletti, da abilitarli ad agire per sua potestà; li segna di Sé, così che, come altri Lui stesso, possano compiere con divina efficacia una determinata funzione, quella sacerdotale, intermediaria tra Dio e gli uomini, quella propria di Cristo, unico Mediatore, la quale in loro si caratterizza ontologicamente in un modo peculiare e indelebile, rendendoli partecipi del suo unico ed eterno Sacerdozio.

Oh! prodigiosa estensione del mistero proprio di Cristo! oh! momento generatore d’ogni altra vitalità ecclesiale! oh! profilo della bellezza della Chiesa, reso evidente dall’azione salvatrice di Dio operante per via di strumenti umani, fatti veicoli della sua carità! (Cfr. S. TH. Suppl. III, 24, 1) Oh! Epifania, che ti prolunghi nei secoli e ti diffondi per tutte le regioni della terra! Questa è un’ora tua, questa ì, un’ora nostra! ora di luce, ora di vita, ora di speranza, ora di gaudio, che mentre celebri l’universale vocazione dei Popoli all’unità della fede, tu trasformi la missione, che ne reca il felicissimo annuncio, da forestiera e pellegrina in autoctona e permanente.

Salutiamo con estremo interesse il fenomeno missionario, che si compie sulla tomba del primo Apostolo, il pescatore di Galilea trasformato da Cristo in pescatore di uomini (Mt 4,19), l’entusiasta ma debole discepolo, riscattato poi dall’amore a Cristo per essere dopo di Cristo ed in sua vece, sostenuto lui stesso dal grave peso delle chiavi del regno messe nelle sue mani, il pastore buono e zelante del gregge evangelico, pronto egli pure a testimoniare di fronte alle avversità implacabili del mondo (Cfr. Ac 5,41) quel nome di Gesù, nel quale solo è salvezza (Cfr. Ac 4,12 1P 4,12 ss.).

Sacerdoti novelli di Paesi missionari, salute a voi! Noi per primi onoriamo il carisma sacramentale del Sacerdozio di Cristo, Sacerdozio che ora a voi trasmetteremo per virtù dello Spirito Santo! Molte, troppe cose noi vorremmo a voi dire in questo momento! La vostra storia familiare e sociale ci è presente: vorremmo più a lungo discorrere della parentela spirituale, della comunione, che codesta ordinazione stabilisce fra i vostri cari, la vostra gente e la Chiesa cattolica intera, e con questa romana specialmente! Vorremmo aver tempo per ringraziare i vostri maestri e quanti hanno spiritualmente ed economicamente contribuito a fare di voi dei nuovi messaggeri del Vangelo! Siano benedetti! Vorremmo parlarvi del mondo al quale siete destinati, e delle prospettive affascinanti e avventurose del vostro futuro ministero. Ma ad una parola sola ora noi affideremo l’esuberanza dei nostri sentimenti, la parola tanto spesso ripetuta da Gesù ai suoi discepoli: «Non abbiate paura!» (Cfr. Mt 10,28 Lc 12,7 Lc 12,32 Mc 6,50 Jn 6,20 etc.). La sproporzione delle forze umane e la grandezza della missione a voi affidata giustifica questa raccomandazione, valevole per chiunque di noi abbia ricevuto l’investitura del sacerdozio ministeriale. Oggi poi è venuto il momento di ripeterla con la più cordiale energia: non abbiate paura! una tentazione caratteristica del nostro tempo è venuta ad assalire il cuore del prete, la tentazione polimorfa del timore, dell’incertezza, del dubbio. Del dubbio sopra se stesso, pare strano! sopra la così detta identità propria, declinata in molte sottili questioni, che minacciano di abbattere la vittima, che le ha accolte come fondate entro il proprio spirito, quasi fosse infondato, anacronista, superfluo il sacerdozio cattolico, e senza scopo, senza fortuna la sua missione. Certamente voi tutti conoscete l’insidiosa fenomenologia di questa possibile corrosione interiore della certezza soprannaturale, che l’ordine sacro infonde nel ministro fedele: sono Sacerdote di Cristo! Cristo mi ha scelto e mi ha così posseduto da compiere attraverso di me la sua ineffabile missione di salvezza, con la sua parola, con la sua azione sacramentale, con la santa Messa specialmente e l’assoluzione dei peccati, con il ministero pastorale, e, non foss’altro, con il semplice e singolare esempio d’un particolare stile di vita, la vita pura, sacrificata e santa del prete fedele.

Non abbiate paura, vi ripeteremo, figli e fratelli carissimi! abbiate sempre intatta ed insonne coscienza del vostro Sacerdozio; e la vostra vita avrà la sua nuova e vera figura; avrà la sua forza di resistenza e di azione; avrà la sua originalità e vivacità d’amore per ogni anima, per ogni comunità, per ogni attività ordinata al bene della Chiesa, con l’adesione appassionata alla vostra Chiesa locale, e con l’ampiezza sconfinata della carità per la Chiesa universale; avrà la sua perenne Epifania di ricerca, di possesso, di annunzio di Cristo! e sempre, oramai, con la nostra Benedizione Apostolica.





Giovedì, 25 gennaio 1973: CHIUSURA DELL'OTTAVARIO DI PREGHIERE PER L'UNIONE DEI CRISTIANI

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Figli carissimi e venerati Fratelli,

Con gioia spirituale intima e profonda abbiamo voluto unirci alla preghiera per l’unità dei cristiani organizzata nella nostra diletta diocesi e trovarci qui tra voi, clero e fedeli, a pregare insieme il Signore, a ripetere la sua stessa preghiera al Padre Celeste: «ut unum sint, ut mundus credat» (
Jn 17,21).

La celebrazione annuale della Settimana universale di preghiera per l’unità dei cristiani ci ricorda il dovere di essere perseveranti e vigilanti nella preghiera, il dovere di rinnovare al Signore la nostra domanda, la nostra fiducia, la nostra speranza; essa ci fa rinnovare il nostro impegno a pregare sempre meglio e sempre più.

«Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1), chiedevano con semplicità i primi discepoli di Gesù. Ed Egli insegnò loro il Padre Nostro, il modello della preghiera cristiana. La preghiera è dunque dono di Dio. Se il cristiano, strappato al suo peccato ed elevato alla dignità di figlio di Dio (Jn 1,12) vive intensamente questo dono, allora è lo Spirito stesso, operante in lui, che si rivolge al Padre, «perché noi non sappiamo quello che ci conviene chiedere, ma lo Spirito stesso intercede a nostro favore, con gemiti inesprimibili» (Rm 8,26).

Il nostro discorso è molto breve e molto semplice, e si può riassumere in questo schema lineare: primo, la ricomposizione dell’unità integrale dei Cristiani è cosa di somma importanza: perché voluta da sempre da nostro Signore; ce lo dicono le Parole riassuntive dei suoi desideri divini sulla missione di Salvatore e di Mediatore fra Dio Padre e l’umanità credente: questa deve essere una, e deve riflettere nella sua compagine, che la definisce Chiesa, il mistero stesso d’unità che intercede, anzi che identifica in una medesima divina natura il Figlio al Padre (Cfr. Jn 17,11-12). E poi perché tutto il nuovo Testamento è pervaso da questa esigenza di unità fra quanti sono non solo veri seguaci di Cristo, ma di Cristo viventi, nello Spirito Santo. Ed anche perché le disavventure storiche che hanno frazionato la Cristianità durante i secoli si rivelano oggi alla riflessione e all’esperienza intollerabili, sproporzionate, alla luce della fede, alle cause che vi diedero origine, esiziali per la causa della religione nel mondo moderno, insostenibili al confronto del disegno divino, tutto rivolto a fare dello sparso e multiforme gregge di Cristo «un solo ovile e un solo Pastore» (Jn 10,16). Potremmo discorrere senza fine su questo punto; il Concilio ce ne presterebbe inesauribili ragioni; ripeteremo le sue stesse parole: «Il ristabilimento dell’unità, da promuoversi fra tutti i Cristiani, è uno dei principali intenti del sacro Concilio ecumenico» (Unitatis Redintegratio, UR 1). Ricordiamo: la ricomposizione dell’unità dei Cristiani è cosa di somma importanza.

Secondo punto: è cosa difficilissima. Anche a questo riguardo gli argomenti non sono che troppi; e, più o meno, tutti lo riconoscono; essi sono di prima evidenza gravi e complessi, anche se oggi finalmente fra le tenebre di difficoltà, che sembrano rendere insolubile il problema della riunificazione dei Cristiani fra loro separati nell’unica Chiesa cattolica, universale cioè e organica, e perciò variamente composta, ma solidale in una sola univoca fede, in una sola espressione, visibile e sociale di carità, pari a membra diverse, ma componenti un solo corpo (Ep 4,3-7), il corpo comunitario, gerarchico e mistico insieme di Cristo, anche se, diciamo, qualche consolantissimo bagliore venga ad accendere e a ravvivare le nostre speranze. Cosa difficilissima, ripetiamo: si tratta, potremmo dire, di cambiare la geografia religiosa del mondo cristiano; ma, ancor più che la geografia, la psicologia; si tratta di superare la formidabile e atavica obiezione antiromana, a nostro avviso ingiustificata, ma sempre resistente specialmente sul fronte teologico e canonico. Come stabilire la ricomposizione dell’unità dei Cristiani riconoscendo le intrinseche esigenze d’una vera unità ecclesiastica senza superare ostacoli, che il genio della divisione ha lavorato per secoli a rendere insormontabili? Occorre certamente una mentalità nuova, un rinnovamento spirituale, una riforma di studi e di comportamenti, che la buona volontà puramente umana non riuscirebbe a raggiungere senza un intervento soprannaturale, senza un aiuto divino. L’unità, che andiamo cercando, non può essere conclusa che con una grazia del Signore.

Ecco allora un terzo punto. Come possiamo ottenere questa grazia, che nella questione ecumenica non può non assumere le dimensioni d’un avvenimento straordinario anche misteriosamente maturato? Pregando! Pregando, fratelli e figli carissimi! Pregando, amici tutti! La preghiera aprirà al prodigio la via del suo compimento. L’unità dei Cristiani deve discendere dalla carità di Dio, lungo i sentieri che la nostra preghiera è impegnata ad aprire.

Qui si porrebbe il discorso sull’efficacia della preghiera, ricordando la lezione di S. Alfonso Maria de’ Liguori sul «Grande mezzo della preghiera» (1759), e applicandola al caso nostro mediante l’analisi delle due classiche definizioni che i maestri danno all’orazione. L’orazione, la preghiera, innanzitutto, è un’elevazione della nostra mente in Dio, per Cristo Signore, nello Spirito Santo. Ora se questa elevazione a Dio, da cristiani fra loro separati, in Lui converge, in Lui si fonde, genera un’unità di spiriti al vertice ultraterreno della divinità; in Dio essi s’incontrano, essi si amano, essi ritornano fratelli; essi, incontrandosi poi sul livello delle realtà umane e terrene, è mai possibile che dimentichino quel momento di estasi nella verità e nella carità, che appunto è la preghiera, e che non tendano con cuori nuovi a tradurre nella scena dell’esperienza storica e vissuta l’unità goduta nell’incontro verticale delle sommità spirituali?

E l’altra definizione della preghiera, la supplica cioè di quei beni i quali non ci possono venire che dalla mano misericordiosa di Dio, e dei quali abbiamo primario bisogno, non c’insegna quanto essa, la preghiera, può essere atta a consumare nell’unita il nostro grande sforzo ecumenico? «Se uno di voi, insegna Gesù, domanda un pane al proprio padre, forse che questi gli darà una pietra?» (Lc 11,10-13). Ricordiamo quante volte nell’economia del Vangelo il Signore stesso ci raccomanda di aver fiducia nell’efficacia della preghiera (Cfr. Mt 7,7 Mt 19,26 Mt 21,22 Jn 15,5 Jn 16,23 etc.). La causalità divina s’innesta nel corso delle vicende umane, non mediante (ché la grazia rimane sempre incondizionata e gratuita), ma attraverso le disposizioni prodotte in noi, sia individui, che collettività, dalla preghiera.

A volte oggi si può avere l’impressione che in qualche parte la preghiera vada perdendo questo suo ruolo centrale nella vita del cristiano e che essa divenga per alcuni cosa secondaria o superata. Non vorremmo che una simile impressione trovasse rispondenza nella realtà. Mentre con soddisfazione rileviamo che nella vita della Chiesa è in atto anche un fecondo risveglio spirituale e un vero rinnovamento della preghiera sulla base del Vangelo e delle grandi tradizioni liturgiche; in molti ambienti si riscopre anche il valore della contemplazione. Ciò è motivo di conforto per noi.

Se la preghiera esprime il nostro rapporto con Dio, la relazione intima con il Padre, essa è essenziale per il Cristiano e per l’uomo di ogni tempo e in ogni circostanza. «Senza di me non potete fare nulla» (Jn 15,5), ci ammonisce con chiarezza il Signore.

Quale sarebbe la nostra vita senza la preghiera? La preghiera è necessaria per la nostra esistenza, è necessaria per farci vivere nella grazia, per accrescere in noi, ogni giorno di più, la nostra fede, la preghiera è condizione per il nostro operare e il nostro agire, per poter predicare il Vangelo.

La preghiera è dunque indispensabile per il ristabilimento dell’unità di tutti i cristiani. Il Concilio Vaticano II ha posto le preghiere, private e pubbliche, in quel nucleo centrale che, con la conversione del cuore e la santità di vita, «si deve ritenere come l’anima di tutto il movimento ecumenico» (Unitatis Redintegratio, UR 8).

Questo movimento ha dato già importanti frutti. Un’amicizia vera e profonda si è ristabilita fra la Chiesa cattolica e le altre Chiese e Comunità ecclesiali; il dialogo è aperto con impegno di fede e fiduciosa speranza. Se in questo cammino si notano anche delle lentezze, ciò è dovuto alla delicatezza e all’ampiezza della materia trattata, in cui si è impegnati con la propria fede e la propria coscienza e quindi con grande senso di responsabilità.

Con le venerabili Chiese d’Oriente, in particolare, abbiamo riscoperto una comunione quasi piena che ci spinge a fare tutto il possibile per completarla.

Con pastorale soddisfazione notiamo che all’interno della Chiesa cattolica la preoccupazione per l’unità di tutti i Cristiani trova efficaci strumenti di azione nelle commissioni per l’ecumenismo delle Conferenze Episcopali e, sul piano locale delle diocesi, nei segretariati diocesani. Siamo stati vivamente lieti nel costatare come la commissione per l’ecumenismo della nostra diocesi ha programmato questa settimana di preghiera per l’unità, sollecitandone la pratica a tutte le parrocchie, alle comunità religiose, agli istituti e alle scuole. Esprimiamo la nostra gratitudine.

È questo un chiaro segno che è stata accolta la volontà del Concilio Ecumenico Vaticano II, secondo cui: «La cura di ristabilire l’unione riguarda tutta la Chiesa, sia i fedeli che i pastori, e ognuno secondo le proprie capacità (Unitatis Redintegratio, UR 5).

Inoltre, ciascun Cristiano anche se non vive in mezzo a Cristiani di altre confessioni «sempre e dovunque partecipa a questo movimento ecumenico confrontando tutta la vita cristiana allo spirito del Vangelo» (Directorium de re oecumenica, pars I, 21).

Prima di concludere vogliamo mandare un cordiale e spirituale saluto a tutti i Cristiani del mondo; ai Cattolici, che con noi godono del dono inestimabile dell’unità della Chiesa, e che con noi devono pregare e operare per l’unità nella Chiesa; a tutti i fratelli cristiani tuttora da noi separati affinché si sappiano ricordati, amati ed attesi; ed anche vogliamo esprimere un pensiero rispettoso ed affettuoso in Cristo ai Cristiani di altre confessioni dimoranti in questa città e assicurarli della nostra stima e del nostro ricordo al Signore.

Con questi sentimenti, in obbedienza alla volontà del Signore, continuiamo la nostra preghiera per ringraziare Iddio dei progressi . . . compiuti in campo ecumenico e per invocare il dono dell’unità piena che dobbiamo rendere possibile e affrettare rimuovendo da noi ogni ostacolo e migliorando la qualità della nostra vita cristiana.


Venerdì, 2 febbraio 1973: CERIMONIA DI OFFERTA DEI CERI

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Festa della Presentazione di Gesù al Tempio


Occursus, in latino, Ypapanté, in greco, era chiamata nella primitiva Chiesa orientale questa festività; e il nome voleva significare l’incontro, il fatto cioè dell’incontro di Gesù bambino, portato al Tempio di Gerusalemme dopo quaranta giorni dalla sua nascita, secondo la legge mosaica, per essere ivi offerto a Dio, come o Lui appartenente: sappiamo tutti che nello svolgimento di questo rito legale e religioso avvenne l’incontro con i! vecchio Simeone, che, invaso dallo Spirito Santo, riconobbe in Gesù il Messia e lo proclamò «Luce per illuminare le nazioni»; e subito dopo avvenne anche l’incontro con la veneranda profetessa Anna, ottantaquattrenne, la quale parimente «si mise a lodare il Signore e a parlare del bambino a quanti in Gerusalemme aspettavano la redenzione» (
Lc 2,38). Un incontro messianico dunque, che prende significato profetico e voce storica, e che inaugura pubblicamente, proprio nel luogo sacro al culto dell’unico e vero Dio, e alla coscienza del Popolo eletto circa i suoi misteriosi destini, l’era di Cristo.

Ebbene, cominciamo la nostra pia cerimonia dando all’incontro, che qui ci riunisce, il significato religioso e spirituale che riflette, sotto certi aspetti, quello che oggi la liturgia ci fa commemorare. Voi qua venite per compiere un atto di riconoscimento della missione affidata alla nostra umile persona per realizzare e continuare nel tempo quella di Gesù, il Cristo, luce e salvezza del mondo. È un incontro che esprime principalmente due vostri sentimenti, di fede l’uno, di fede in Cristo, nel suo Vangelo e nella sua Chiesa; di aperta adesione, di filiale ossequio l’altro al Papa, al vostro Vescovo, all’apostolo Pietro, a cui il Signore affidò le chiavi, cioè la potestà del regno dei cieli, ed insieme la funzione pastorale su tutta la Chiesa. Coscienti dei nostri limiti umani, noi saremmo tentati di fuggire a questo incontro, ma l’investitura, a noi pervenuta per legittima successione, dell’ufficio apostolico non ce lo consente, anzi essa ci fa grave e dolce obbligo di accoglierlo con tutto il cuore. Sì, benedetto sia questo incontro che ci offre la gradita occasione d’avere d’intorno a noi un’assemblea così piena, così varia, così devota, come quella che ora ci circonda, e che noi stessi abbiamo voluta accurata-mente predisposta, in questa monumentale e piissima Basilica, non per nostro, ma per vostro onore, carissimi e venerati figli. L’incontro dice unità, dice armonia, dice amicizia, dice coscienza della società gerarchica ed organica ed insieme religiosa e spirituale, che insieme componiamo, amiamo e serviamo. L’incontro dice Chiesa, e qui Chiesa Romana, Chiesa apostolica. Ora a noi questa comune consapevolezza, resa attuale e quasi sperimentale per il duplice fatto della presenza di rappresentanze di tanti corpi ecclesiali, viventi nella stessa città, ma non facili a confluire nel medesimo luogo e nella medesima cerimonia; e per il fatto che ciascuna di codeste rappresentanze viene recando l’offerta d’un suo cero, simbolo ricco di molteplici significati e fra essi primo quello del vincolo cordiale, onde ogni istituzione rappresentata vuole essere nella fede e nella carità a noi collegata, reca profondo gaudio spirituale: celebriamo Cristo insieme: per Lui e con Lui celebriamo la Chiesa. Quale altra cosa può più vivamente rallegrarci e confortarci?

Ora noi pensiamo sovente che quel grande avvenimento, di cui il nostro secolo andrà memorabile, il Concilio ecumenico testé concluso, doveva servire, nelle intenzioni della divina Provvidenza, a ravvivare, ad approfondire, ad armonizzare quel senso della Chiesa, che le dottrine conciliari hanno nutrito di splendidi temi, e che l’evoluzione dei tempi reclama più che mai limpido e forte; siamo perciò pieni di letizia e di fiducia quando abbiamo del «senso della Chiesa» qualche pur rapida e particolare quasi sensibile esperienza. Quanto ci piace e ci commuove gustare ora con voi la comunione ecclesiale della nostra diocesi! Come ci è facile supporre che gli Apostoli, suoi fondatori, che i suoi martiri ed i suoi Santi, con la Madonna Santissima, salus Populi Romani, ci assistano in questo momento d’incontro spirituale, tanto espressivo; anzi pensare al mistero della segreta presenza fra noi di Cristo stesso, il Quale ha promesso di trovarsi in mezzo a quelli che sono congregati nel suo nome (Mt 18,20).

Non possiamo omettere di rilevare una circostanza, che caratterizza questa cerimonia, e che le conferisce una splendida nota di pietà e di solennità. Vedete chi ha la parte maggiore e migliore quest’oggi nella basilica? sono le religiose, sono le nostre suore, sono le vergini e le vedove, consacrate al Signore, dimoranti Q Roma e facenti parte della nostra comunità. Salute a voi, figlie in Cristo, carissime! Voi benedette, che avete accolto il nostro invito a questo incontro, che, come dicevamo, vuole raccoglierci intorno al mistero messianico della presentazione di Gesù bambino al Tempio ed esprimere così la rete di legami spirituali e canonici, che dà forma e consistenza all’unità religiosa e sociale nella Chiesa di Roma. Perché abbiamo voluto che in questa assemblea le religiose «romane» (così le qualifica la loro permanenza, o anche il loro temporaneo soggiorno nella nostra diocesi) abbiano oggi un posto distinto? Oh! per molti motivi ! fra i quali eccone alcuni. Vogliamo che la comunità diocesana abbia una volta occasione di dimostrare di quale stima e di quale affezione essa circondi queste elette sue figlie, umili e forti. Esse non sono «emarginate», no; sono i fiori del suo giardino. Vogliamo che lo stile della loro evangelica testificatio, della loro testimonianza evangelica sia onorato e rivendicato dinanzi alla svalutazione laicista, che vorrebbe secolarizzare anche le anime più ardenti e più fedeli della sequela di Cristo. Vogliamo che una risvegliata generosa sensibilità della comunità dei fedeli non dimentichi le necessità delle religiose più povere e prive spesso dei mezzi di sussistenza. Vogliamo che la tradizione ascetica, contemplativa, ovvero attiva, della vita religiosa sia da tutti, dalla comunità ecclesiale specialmente, riconosciuta valida ed attuale, restaurata come dev’essere secondo lo spirito del recente Concilio, e secondo le norme suggerite dai documenti di questa Sede apostolica, anzi in conformità allo sforzo rinnovatore che le singole famiglie religiose hanno saputo imprimere alle proprie consuetudini, alle volte stanche e puramente formali, mediante le sagge revisioni dei loro statuti, studiate e compiute nei loro recenti capitoli generali. Vogliamo che le vocazioni specifiche, che qualificano gli Istituti religiosi, quali la preghiera e la penitenza, l’isolamento e il silenzio in vista d’un più intenso assorbimento interiore nella ricerca della conversazione con Dio, ovvero l’infaticabile dono di sé nell’ardua e provvida attività scolastica, o nell’esperta assistenza agli infermi o ai varii bisogni sociali, oppure in ordine alle missioni cattoliche, e secondo il genio inventivo della loro pietà e della loro carità, siano onorevolmente e organicamente inserite, forse anche mediante una qualche sacra iniziazione, nella compagine ecclesiale. Vogliamo poi promuovere e perfezionare l’assegnazione delle religiose, che ne abbiano il gusto e la preparazione, alla cooperazione nel ministero pastorale, specialmente dove sia scarsezza di clero, o nelle parrocchie impegnate all’assistenza religiosa e morale dei quartieri popolari e delle borgate di periferia, o delle desolate campagne.

Le vogliamo insieme con la Chiesa orante, insegnante, operante, sofferente, evangelizzante, queste nostre figlie generose e coraggiose, queste nostre sorelle pie e laboriose, queste donne ornate di semplicità e di dignità, esemplari sempre, e, secondo l’appellativo attribuito ai membri sinceri delle primitive comunità cristiane, sante!

Oh! sì! figlie predilette della santa Chiesa, lasciate che lo spirito di comunione, di cui essa vive, entri nelle vostre case, oltre i cancelli delle vostre clausure, entri nelle vostre anime, e infonda il respiro del rinnovamento voluto dal Concilio ecumenico, e dia anche a voi, anzi a voi specialmente, la visione dei grandi disegni divini che attraversano l’umanità e ne segnano i destini in ordine alla sua salvezza soprannaturale ed escatologica, così come a noi presentano i nostri doveri e le nostre risorse per l’aiuto necessario alla elevazione, alla concordia e alla pace del mondo.

Ecco che voi, beatissime figlie, non meno che gli ecclesiastici ed i laici, avete compreso, e, seguendo sul sentiero evangelico i passi della Madonna, interpretato dal rito liturgico che stiamo celebrando, venite verso l’altare portando anche voi il vostro dono simbolico, il vostro cero. Voi ci fate pensare alla parabola delle vergini del Vangelo di S. Matteo; ci ricordate i tanti significati che il linguaggio rituale e spirituale attribuisce a questa pura e primitiva sorgente di luce, il cero; e ci suggerite di raccomandare a voi stesse di fare del cero il simbolo delle vostre stesse persone: per la sua dirittura e la sua soavità, immagine d’innocenza e di purità; per la sua funzione d’ardere e d’illuminare, a cui il cero è destinato, realizzando in sé la definizione della vostra vita, tutta destinata all’amore unico, ardente e totale, al Padre, per Cristo, nello Spirito Santa, un amore-fuoco; un amore, che con la preghiera, l’esempio, l’azione rischiara provvidenzialmente la stanza ed il cammino della Chiesa e del mondo circostante; per la sua sorte infine, quella di consumarsi in silenzio, come la vostra vita nell’ormai irrevocabile dramma del vostro cuore consacrato: il sacrificio, come Cristo sulla Croce, in una carità dolente e felice, che non si spegnerà all’ultimo giorno, ma superstite risplenderà perenne nell’incontro eterno con lo Sposo divino.

Per voi, per tutti i presenti, con affettuosa riconoscenza la nostra Benedizione Apostolica.


L’annunzio della porpora cardinalizia al Pro Vicario di Roma

Al termine del sacro rito, il Santo Padre dà all’adunanza il seguente annunzio, sottolineato con vive acclamazioni.

Noi crediamo di non turbare lo spirito di questa cerimonia anticipando a voi una bella notizia. Di solito dicono che le religiose sono le ultime a saperle. Questa volta siete le prime. Sarà tra poco pubblicata la notizia che, invocando lo Spirito Santo, noi abbiamo deliberato di aggregare al Collegio cardinalizio Monsignor Ugo Poletti, Pro Vicario di Roma. E diamo a lui la benedizione che egli, in nostra rappresentanza, avrà l’occasione, nell’esercizio del suo ministero, di distribuire anche a tutte le vostre famiglie religiose.







B. Paolo VI Omelie 25122