B. Paolo VI Omelie 50373

Lunedì, 5 marzo 1973: CONCISTORO PER LA NOMINA DI NUOVI CARDINALI

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Fratelli!

Solleviamo un istante il capo curvo su l’altare e grave per le parole penetranti e solenni, che la liturgia ci fa ascoltare, e guardiamoci intorno, guardiamo specialmente a voi, Fratelli concelebranti. Lasciamo che un’onda di riverenza e di affezione corra sui nostri volti, commensali come ora siamo della mensa del Signore, e riflettiamo a quale titolo. Un vincolo originale, e profondamente ecclesiale, offre questo titolo: voi celebrate con noi ora questo santo Sacrificio, perché siete stati da noi chiamati a far parte di quel sacro Collegio Cardinalizio che è storicamente definito non solo per la sua fondamentale e peculiare posizione canonica in questa Chiesa Romana, ma altresì per la sua funzione spirituale ed operativa a voi affidata, quella d’essere vicini alla nostra persona, di assistere e coadiuvare la missione che a noi da Cristo deriva, di guidare cioè pastoralmente il gregge di Lui, Cristo, la Chiesa, ora tanto cresciuta di estensione, di bisogni, di problemi. Grazie a voi, Fratelli, e pace a voi, che accogliendo il nostro invito, siete venuti, e subito vi disponete d’intorno alla nostra umile persona, pronti a condividerne «la sollecitudine di tutte le Chiese» (
2Co 11,28), a servizio cioè ed a conforto di questa Sede Apostolica e d’un altro ben più largo Collegio, quello Episcopale, e con esso di tutto il Popolo di Dio. Qui, su la tomba dell’Apostolo Pietro, convalidiamo il comune proposito di rispondere insieme col cuore e con l’opera alla domanda incalzante del Signore, che sì, noi lo amiamo, lo ameremo, non ameremo che Lui, solo e per sempre, fino alla nostra dedizione totale: il sacro Collegio, con noi e con quanti lo compongono, dev’essere, in mezzo alla Chiesa, un focolare ardente di carità, luce ed amore, d’autorità e di servizio, di fedeltà al vangelo.

Oh! esulti il nostro cuore, esulti il vostro, in questo incontro dei nostri sguardi e dei nostri animi.! noi vorremmo riavere sulle nostre labbra i nomi delle vostre persone e ancor più quelli delle vostre Chiese, dei vostri rispettivi Popoli; che se il tempo ci concedesse di proferirli, sembrerebbe così a noi di far eco alla pagina degli Atti degli Apostoli, che ci dà la lista variopinta dei Popoli rappresentati all’avverarsi del prodigio della Pentecoste (Cfr. Ac 2,9 ss.). Non dobbiamo noi godere come di festa nell’avvertire che le vostre singole Persone, novelli Cardinali, assurgono in questo momento a rappresentanti delle vostre Diocesi e delle vostre Nazioni? e non possiamo noi confidarvi che codesta pluralità geografica ed etnica è stata intenzionale nella scelta delle vostre persone, e più avrebbe voluto estendersi, se ne avesse avuto possibilità? Il genio della Chiesa non è forse la cattolicità? Vogliamo anche supporre che in questa stessa cerimonia voi, e coloro che vi assistono, anzi quanti hanno occhi limpidi per cogliere il senso di questo avvenimento, sappiano scorgere un segno di cattolicità, cioè di amore universale. Così ama la Chiesa Romana.

Ma a questo punto, cioè al confronto, che ci si prospetta davanti, di questo fatto, di questo rito, compiuto nella Basilica di S. Pietro, con il mondo che ci circonda, e in cui noi stessi viviamo, un problema sorge nel nostro spirito, e forse anche nel vostro, il problema che si chiede se noi siamo all’unisono col nostro tempo, se vi è rapporto plausibile fra la Chiesa e il mondo, come tanto autorevolmente ci fu raccomandato dal recente Concilio ecumenico.

Chi di noi si abbandona alla visione di questo tempio, ai ricordi, alle emozioni ch’esso suscita nell’animo, commosso dal rito suggestivo che stiamo celebrando, entra in uno stato di sogno, dimentica la realtà storica e profana, teatro della nostra vita presente, e si sente trasportato in un altro mondo, fuori dell’ora attuale. Ci sembra di arretrare nei secoli, o meglio di vivere fuori del tempo. Una questione, e questione grave, tiene vigilante la nostra coscienza; ed è questa: la Chiesa vive dentro, o fuori della storia? La Chiesa, con questi suoi incantesimi tradizionali, - perché tali ci sembrano forse i suoi riti, i suoi costumi, i suoi istituti presenti -, non ci rende forse estranei alla realtà della storia? non sarebbe essa stessa un anacronismo? e questa sua superstite fedeltà a concezioni e a istituzioni d’altri tempi non ci distoglie dal movimento universale, innovatore del progresso, dell’attualità fuggente? Non ci rende timidi, e solo solleciti di conservare il passato e di frenare la corsa verso l’avvenire?

Il problema esiste; ed ha in questo istante una sua urgenza che potrebbe avere due contrarie ed entrambe false risposte: quella dell’immobilismo, o quella del relativismo. Il rapporto fra Chiesa e storia non si fissa ciecamente alle forme del passato, straniando la Chiesa dal flusso della storia che si evolve e che muta, che conquista sempre mirando a mete future e escatologiche, come non concede alla Chiesa di disperdere i tesori del suo cammino nel tempo, uno soprattutto, inalienabile, la fede, per mettersi affannosamente aI passo insensato di una società, che precipita la sua corsa non trovando altrimenti alcun equilibrio e alcuna pace: la rivoluzione è la sua meta, e con essa la perdita della libertà. La Chiesa, invece, ringraziamone Iddio, quand’è fedele a se stessa, ha il duplice e simultaneo carisma della fissità e della velocità perché possiede la Verità divina ed eterna, estratemporale ed ultratemporale, che, mentre la conserva nella sua vivente identità, la spinge a sempre continuo perfezionamento e rinnovamento.

Cose da voi sapute. E cose da voi oggi vissute. Perché non è vero che le strutture costituzionali e le autentiche tradizioni collaudate dai secoli siano catene che inceppino il cammino della Chiesa nel tempo; esse ne sono insieme il sostegno e lo stimolo. Lo ricordiamo a voi, Fratelli Cardinali, a Voi, Fratelli Vescovi e Sacerdoti e Diaconi, affinché non vi facciate vittime di voi stessi, cioè delle dignità e delle potestà, che la Chiesa vi conferisce, quasi fossero pesanti fardelli, che vi obbligano a difenderne il carattere a scapito della funzione, e quasi fossero d’intralcio, per lo stile nobile e sacro, che esse impongono alla vostra vita raffigurata su quella di Cristo (Cfr. 1Co 4,10 1Th 2,14), agli ardimenti liberi e audaci d’un più valido apostolato. Non pensate giammai d’essere fuori della vita vissuta, fuori della storia, per il fatto che le vostre persone e le vostre idee hanno una forma propria modellata sull’esperienza autorevole della Chiesa; pensate piuttosto come voi, così compaginati con la Chiesa di Pietro, siete all’avanguardia dei grandi movimenti, che trascinano l’umanità verso i suoi evidenti e per essa così difficili destini, vogliamo dire l’unità, la fratellanza, la giustizia, la libertà nell’ordine, la dignità personale, il rispetto alla vita, il dominio della terra senza rimanervi impaniati, la cultura senza rimanervi smarriti . . . Ed ancora più; ci confidava, or non è molto, un alto esponente dello sviluppo industriale moderno : «il mondo del lavoro, nel fondo della sua anima inquieta, avida e sofferente, oggi ha bisogno di trascendenza; ha bisogno di chi gliene dia l’annuncio e il segno vissuto nel proprio esempio . . . Perché non glieli date voi, ministri di Cristo? perché temete? non conoscete il fascino del vostro messaggio e del vostro ministero?» (Cfr. Mt 8,26 Jn 15,20). E quanto più convincente si fa questo discorso, quando pensiamo, come il Maestro ci ha insegnato, che tanto più efficace sarà la testimonianza, se convalidata dall’insuccesso e dalla sofferenza!

Ecco allora i pronostici delle buone, delle sante fortune per la causa del Vangelo e per l’incremento della Chiesa salire da questo rito nell’orizzonte dell’avvenire: quanti di voi sono oggi associati al nostro ministero pontificio con questo vincolo strettissimo e peculiarissimo del Cardinalato conforteranno tale ministero alla fermezza, al rinnovamento, alla fecondità e ne faranno proprio la testimonianza in questa Roma cattolica e fino ai confini della terra. Questo auguriamo, questo chiediamo, nel nome di Cristo e nella veste di Pietro, tutti di cuore benedicendo.

Nous saluons spécialement les Autorités et les pèlerins des pays de langue française, ici rassemblés pour tette célébration vraiment ecclésiale, et Nous comptons sur les nouveaux Cardinaux qu’ils sont venus entourer, pour Nous aider dans notre mission. A tous, Nous donnons notre Bénédiction Apostolique.

We wish to extend our greetings to the representatives and pilgrims of English-speaking nations. You have witnessed today the wonderful universality of the Catholic Church. May the memories of this historic occasion make you ever stronger in your faith and give you much joy in the Lord Jesus Christ. We give to all our Apostolic Blessing.

Unser herzlicher Gruss gilt in dieser Stunde den Priestern und Gläubigen aus dem Bistum Mainz, den Vertretern der staatlichen und städtlischen Autoritäten. Alle sind hierher gekommen, um dieses freudige Ereignis mit Uns und ihrem Oberhirten zu feiern. Ihnen und allen Pilgern aus den Ländern deutscher Sprache Unser Apostolischer Segen.

A las Misiones officiales, a los queridos sacerdotes, religiosos y fieles de lengua castellana, que vemos congregados en torno a los nuevos Cardenales, nuestro saludo gozoso de congratulación y el deseo de que este encuentro, ante la Tumba del Apóstol San Pedro, os aumente los vínculos de comunión en la misma fe, corroborada por una caridad profunda, y plasmada en un ardiente servicio a la Iglesia. Así lo invocamos del Señor, con Nuestra Bendición Apostólica.

Aos fiéis de língua portuguesa, diremos: em três palavras - alegria, pela vossa presença, congratulação, pelos vossos novos Cardeais e felicidades, para todos - levai deste encontro as lembranças do Papa, para as vossas pátrias, as vossas terras e famílias, com a nossa Bênção.






Mercoledì delle Ceneri, 7 marzo 1973: PRIMA STAZIONE QUARESIMALE NELLA BASILICA DI SANTA SABINA

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Quaresima. Figli carissimi! Voi sapete tutto. Si tratta d’un ciclo di sei settimane di particolare intensità spirituale, caratterizzata dalla conversione di se stessi, dalla penitenza, dall’espiazione delle proprie colpe e anche da quella altrui, dal digiuno esteriore ormai ridotto al minimo ed interiore che invece rimane esigente e che dovrebbe da ciascuno essere un po’ precisato e commisurato sui propri bisogni e un po’ intensificato; e caratterizzata questa intensità spirituale della quaresima specialmente dalla preghiera, quale la Chiesa arricchisce di testi, di espressioni, di sentimenti, così da farne un poema di commozione, di bellezza e di tensione verso un colloquio con Dio, un dramma in cui s’intreccia la storia della miseria umana con la tragedia del sacrificio di Cristo per la nostra redenzione; insomma un incontro finalmente con i sacramenti del suo amore e della sua grazia, causa della nostra riabilitazione e della nostra salvezza. In nessun altro periodo come in questo quaresimale vengono in gioco, con la consueta sproporzione, i due fattori di tale nostra salvezza, la misericordia di Dio, con la sua arte misteriosa d’entrare nei nostri spiriti dalle psicologie tanto complicate e personali, e di operare ciò che Lui solo può, cioè ridare la vera sua vita, dove il peccato ne ha interrotto la circolazione; e l’altro fattore, il nostro, per scarso e imperfetto che sia, però indispensabile specialmente per la efficacia di questo forte e complesso esercizio quaresimale, è, come sapete, la nostra volontà, la nostra risoluta volontà.

Ora fermiamoci a questo secondo fattore, procurando di persuaderci della prevalente rilevanza che la volontà assume nella vita religiosa della Quaresima. Essa si classifica preferibilmente nella categoria dell’attività ascetica; dopo la Pasqua l’attenzione mistica potrà meglio assorbire le nostre facoltà spirituali. Ora lo sforzo ascetico reclama il nostro impegno; un impegno attivo, premuroso, generoso. Il gaudio pasquale ci indurrà domani ad un atteggiamento piuttosto passivo, di contemplazione, di godimento. Ma oggi occorre che la volontà sia vigile, in stato d’azione, d’esigenza, di desiderio, e forse di deliberazione, di decisione.

Ora il discorso si fa difficile. Ma per voi tutti, cristiani coscienti quali siete, interessantissimo. Perché si fa autentico, si fa evangelico. Evangelico e paradossale, qual è un messaggio di vita nuova e divina; quale è il Vangelo. Infatti esso si enuncia in termini che rinnegano una forma di vita, una certa vita; e precisamente la nostra disordinata ed egoista, la nostra propria vita personale, ma terrena e presente. Dice infatti Cristo, il Signore, il Maestro: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinunzi a se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; chi invece avrà perduto la sua vita per amor mio la ritroverà. Che cosa giova mai all’uomo guadagnare tutto il mondo, se poi perde l’anima? o che cosa darà un uomo in cambio dell’anima sua?» (
Mt 16,24-26). E che questo sia un pensiero fondamentale nell’insegnamento di Cristo per la formazione dei suoi seguaci lo possiamo facilmente dedurre dalla ripetizione che Cristo ne fa, e sempre in accenti categorici e patetici. Dice infatti ancora, ad esempio, Gesù: «In verità, in verità vi dico che se il grano di frumento, caduto in terra, non muore, resta solo; ma se muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perderà, e chi odia la vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Chi mi vuol servire, mi segua, perché dove sarò io, quivi sarà anche il mio servo» (Jn 12,24-26).

Discorso difficile, anche perché esso non tende ad una conquista, ma ad una rinuncia. Gesù predica l’abnegazione, la rinuncia che il suo discepolo deve fare a se stesso. Non soltanto, commenta S. Gregorio, la rinuncia alle proprie cose esteriori, ma la rinuncia alla propria interiore autonomia (Hom. 32 in , PL 76, 1232), quando questa rifugge dall’ossequio dovuto a Dio e si chiude nel proprio egoismo, e quando si fa l’idolo di se stessa. Ed è più dura l’abnegazione di sé, che la lotta per l’esaltazione di sé. Ma è anche più felice: ricordiamo il discorso delle beatitudini. Questa è la penitenza, questo è il Vangelo.

Dovremmo insinuare qui due osservazioni, per non essere fraintesi. La prima ci deve stimolare a scoprire come questa severa pedagogia verso la nostra stessa personalità non ci distolga dal riconoscere i valori buoni del mondo esteriore, e non ci dispensi dai doveri della nostra vita nel tempo (Cfr. Gaudium et Spes, GS 4); la seconda osservazione ci ricorda che l’abnegazione cristiana, la mortificazione, la penitenza non sono forme di debolezza, non sono «complessi d’inferiorità», ma, scaturite dalla grazia e dallo sforzo della volontà, sono piuttosto forme di personale fortezza. Esse ci educano alla valutazione trascendente del nostro operare: «se non farete penitenza, dice il Signore, voi .., perirete tutti» (Lc 13,5): peccatori come siamo, siamo debitori di qualche espiazione: e poi esse ci allenano alla padronanza di noi stessi; esse danno unità ed equilibrio alle nostre facoltà; esse fanno prevalere lo spirito su la carne, la ragione su le fantasie, la volontà sugli istinti; esse inducono nel nostro essere una esigenza di pienezza e di perfezione, che talvolta possiamo chiamare santità. Dove è rigore ivi è vigore.

Noi vogliamo credere che voi, figli e figlie della Chiesa che ci ascoltate, voi, specialmente, che avete ad onore di professarne la spirituale milizia della fede, sappiate comprendere quale figura di uomo risulti dalla disciplina dell’ascetica cristiana: risulta l’uomo vero, l’uomo forte, l’uomo libero, l’uomo seguace di Cristo, l’uomo operante in virtù del suo Spirito. Si dirà forse da alcuni, sedotti da certe correnti amorali dei nostri giorni, che questo non può essere programma del figlio del secolo nostro, a cui si propone, con le blandizie della liberazione, di ritrovare finalmente se stesso abbandonandosi alla via larga e precipitosa della così detta «moralità permissiva»; il che comporta una conversione a rovescio, per certi versi non meno ardua della conversione verso il fine connaturale del nostro essere; comporta estirpare dalle profonde radici della coscienza il senso del peccato, cioè della nostra responsabilità verso il Dio vivente e veggente; comporta umiliare nel nostro virile giudizio il senso del dovere e della legge giusta; comporta attutire nella nostra superiore sensibilità un altro senso, quello del bene e del male, e lasciare che il proprio essere sia in balia degli impulsi sensibili e degli istinti ciechi, anche se ciò sia evidentemente turpe e disonesto. Codesta è bassezza; codesta è viltà. Non libertà. Lo sanno gli atleti dello sport; lo dovranno dimenticare gli atleti dello spirito?

Ascoltiamo ciò che San Paolo scrive ai Romani: «Gettiamo via l’opera delle tenebre, rivestiamo le armi della luce» (13, 12). Non ci dispiaccia imporre a noi stessi qualche maggiore vigilanza, qualche astinenza da cose vane o tentatrici, qualche salutare e proficua severità in quelle piccole cose che rendono gli animi atti ad osare, all’occorrenza, cose grandi. Questa è la palestra della quaresima, a tutti accessibile, all’insegna modesta della quotidiana pratica della abnegazione, alla luce folgorante della grande legge evangelica del morire per vivere, la legge del sacrificio, la legge della Croce.




Domenica, 8 aprile 1973: SANTA MESSA NELLA PARROCCHIA DI SAN MARCO NEL QUARTIERE DELL'AGRO LAURENTINO



«Ringrazio il Signore di aver creato questo luogo di preghiera e di carità, di riunione e di scuola cristiana». Con queste parole Paolo VI esordisce all’omelia, caratterizzandola subito come un incontro tra pastore e fedeli, semplice, paterno, cordiale.

Esternando la propria commozione per l’essere insieme in quella casa del Signore, il Santo Padre assicura ai fedeli la sua preghiera e la sua sollecitudine per la comunità, sentimenti questi che ha tradotto in un saluto diretto personalmente a ciascuno dei presenti, augurando che il Signore sia con loro, che ci sia davvero questa comunione religiosa ed umana che tutti li unisce come una famiglia. «Sapete che siamo parenti», ricordando che il fatto di essere cristiani ci fa tutti fratelli e figli del Padre in quanto partecipi di questa società organizzata come il Signore l’ha voluta, che si chiama Chiesa. Da questa parentela spirituale, dal diritto-dovere di chiamarsi fratelli e figli nascono la gioia di simili incontri ed il desiderio, sottolinea il Papa, di godere degli istanti memorabili, come quello che si sta vivendo nella chiesa di San Marco. Paolo VI ricorda quindi ai fedeli presenti la semplicità dei motivi che lo hanno portato tra loro. «Conoscerci, presentarci, e, se fosse possibile, noi dovremmo fare una chiamata per nome, perché tutti avete diritto ad essere riconosciuti nella dignità di appartenere a questa comunità».

Il Papa rivolge poi un saluto al Cardinale Vicario Ugo Poletti, suo rappresentante nella diocesi di Roma, ricordando come solo da pochi giorni sia nella sua nuova alta responsabilità pastorale, ringraziandolo della sua presenza e benedicendolo. È poi la volta del parroco, Padre Benedetto, come lo chiamano i parrocchiani, della famiglia dei francescani conventuali, della provincia veneta, quella del Santuario di Sant’Antonio, ricordando quanto bene faccia questa famiglia religiosa nella Chiesa d’oggi, e sottolineando come davvero si possa vedere in loro la fotografia moderna di San Francesco e di Sant’Antonio. Il Santo Padre invia, inoltre, un benedicente saluto a tutta la comunità della zona, sia ai sacerdoti che aiutano il parroco nella cura pastorale, sia ai fratelli religiosi della stessa famiglia, ricordando la loro dedizione al bene ed all’assistenza della comunità dei fedeli, la loro sollecitudine al dialogo con i quattordicimila abitanti del quartiere.


FIORITURE DI OPERE DI APOSTOLATO

Abbiate care queste realtà, prosegue Paolo VI, ricordando quanti cristiani non hanno la fortuna di avere una chiesa che li accolga, che sia punto d’incontro per le proprie riunioni, per pregare, non abbiano dei propri ministri che guidino la preghiera, che la sostengano, che vi aggiungano la loro voce per incoraggiarla ed il carisma del loro ministero per renderla grata a Dio.

Ed ecco, nell’elenco dei saluti, le tre famiglie di suore della Divina Provvidenza, tanto amate in tutta la parrocchia; le suore di San Giuseppe, le suore Geradine, che assistono le famiglie più bisognose. Dio le benedica, proprio perché sono partecipi di questo grande gesto della Chiesa, il ministero: l’essere incaricati di avvicinare, di servire, di aiutare, di parlare del Cristo, e di accogliere il dolore, di accogliere l’ansia religiosa e spirituale che è nel cuore del popolo.

Il Santo Padre non manca di ricordare le molteplici iniziative organizzate nell’ambito della parrocchia ed in particolare quelle di assistenza ai poveri e la «Milizia dell’Immacolata» fondata dal Beato Kolbe. Il cristiano deve essere unito, per categoria, per dati compiti da assolvere, deve far sì che il tessuto della comunione sociale, della parrocchia, sia davvero forte e fecondo di questi segni di partecipazione e di comunione, non solo individuale ma collettiva. Benedico tutto questo sforzo che parte dalla vostra parrocchia per esprimersi come famiglia di Cristo. Il Papa rivolge quindi un particolare saluto benedicente a tutte le famiglie presenti e nelle case vicine, sottolineando il calore della loro accoglienza alla sua visita.

Il Santo Padre altresì ricorda come la sua venuta nella parrocchia abbia anche altri scopi, quali quello di far propria l’esperienza della solennità, della coesione, dell’unità che piace tanto al Cristo e per cui Cristo si è fatto uomo, per rendere gli uomini più puri, più uniti per questa esperienza collettiva che sorpassa tutte le altre esperienze sociali, che possono venire da altri interessi. Siate veramente uniti, siate famiglia, famiglia di Dio. Siate capaci di volervi bene, di aiutarvi gli uni gli altri, di compatirvi, di non marcare le divisioni, le differenze sociali e professionali, culturali e di origine.

Ed ecco uno speciale accenno alla numerosa comunità di dalmati- giuliani. Salutandoli a parte il Santo Padre sottolinea che il suo gesto non vuole essere un atto di separazione, ma un accoglierli come fratelli, per farli sentire assimilati a quella nuova comunità, alla quale i dolori della storia vicina e la Provvidenza Divina li hanno accomunati. Il Papa augura a tutti la buona Pasqua, ricordando come il prossimo periodo pasquale debba essere per tutti un momento di pienezza spirituale, di coscienza di visione quasi di che cosa sia il nostro destino quando è segnato dal nome cristiano in questa vita.


PREDICARE CRISTO FRA LE GENTI

Il secondo scopo della visita del Supremo Pastore è quello di predicare Cristo tra le genti, seguendo la traccia sapientemente indicata dalla sacra liturgia per la preghiera collettiva della Chiesa. Del Vangelo del giorno, che presenta un tema immenso e stupendo, Paolo VI pone in risalto un pensiero centrale, inquadrandolo innanzitutto nella scena in cui i fatti si svolsero. Gesù entra in Gerusalemme. C’è stato tante volte, ma questa volta vi entra in maniera insolita, cioè a cavallo di un asinello. E questo doveva essere il suo trionfo, il suo riconoscimento ufficiale di fronte al popolo ebraico.

Erano giorni particolari. Tutta Gerusalemme era gremita di popolo, perché le feste di Pasqua avevano chiamato da tutte le regioni della! Palestina folle di fedeli che si accampavano qua e là. E c’era una grande vivacità, perché tutti avevano l’impressione che dovesse avvenire qualcosa di straordinario, cioè la rivelazione di colui che i secoli avevano aspettato. Doveva venire il Messia, il mandato da Dio. Gesù si presenta come il Messia e la gente, quasi toccata da una scintilla che fa divampare il fuoco, prende entusiasmo. «È lui, è lui, il figlio di David è qui!» - gridavano. I ragazzi andarono a strappare dagli alberi rami di ulivo e di palma gridando: «Viva, viva, osanna al figlio di David!».

È questa una delle pagine evangeliche più ricche di particolari che sembrano fotografici. Ci sono, per esempio, dei greci, dei forestieri venuti a Gerusalemme, una città che accoglieva tanta gente di passaggio che veniva per motivi di commercio o per transitare verso Paesi più interni dell’Asia. Questi greci si affacciano e, come tutti i curiosi, ripetono: «Vorremmo vedere Gesù». È una frase che ricorre due o tre volte nel Vangelo per indicare la curiosità di vederlo con gli occhi, di poterlo conoscere, di leggere nella sua fisionomia. Ma c’è sempre tanta gente intorno a Gesù. I greci non riescono ad avvicinarsi. E allora uno di essi si accosta a Filippo, uno dei discepoli. Il nome di Filippo, nome greco, ci lascia credere che in lui avessero trovato uno che parlava la loro lingua. E Filippo, che era uno degli apostoli, ma non il primo, si rivolge ad Andrea, fratello di Pietro, che era il capo riconosciuto da Cristo stesso della piccola comunità, e gli dice: «Vogliono vedere Gesù». Tutti e due si avvicinano a Gesù e gli dicono: «Ci sono dei greci che vorrebbero vederti». Non sappiamo come andò a finire, perché Gesù a questo punto comincia il suo discorso, il discorso rivelatore della sua psicologia, di quello che sentiva. È infatti una delle pagine del Vangelo da leggere con particolare intelligenza, poiché ci introduce nell’interiore psicologia di Cristo, ce l’apre davanti. Gesù non parla a quelli che gli sono vicino, ma a se stesso, alla storia, al mondo. Le mura di Gerusalemme si ergevano gigantesche e forti davanti a loro. Un altro evangelista, Luca, ci dice che Gesù, in quel momento, si mise a piangere. Anche in altre parti del Vangelo leggiamo che Gesù ha pianto.


QUAL È LA GLORIA DI CRISTO?

Per esempio, quando gli annunciarono la morte di Lazzaro. Anche questa volta piange. Piange per il destino di questa città che già vede distrutta. Queste mura così potenti le vede franare e cadere. Gesù ha davanti agli occhi due quadri: la futura caduta di Gerusalemme e il suo proprio destino: «Per questo sono giunto a quest’ora . . .». E scoppia nel dolore; sente che questo suo trionfo, che lo dichiara Messia pubblicamente e ufficialmente, gli varrà la morte. E si concede a questa passione, che dopo meno di sette giorni lo condurrà alla Croce. Sente che l’ora sua è venuta: «Padre, glorifica il tuo nome».

Avviene allora un altro fatto, uno dei tre fatti miracolosi e inesplicabili che troviamo registrati nel Vangelo, quando una voce dal Cielo risponde. Troviamo questa voce nella Trasfigurazione, la troviamo nel Battesimo di Gesù e la troviamo adesso. Dice: «Io lo glorificherò». E Gesù, allora, pensa alla sua gloria. Ma quale gloria? La Croce, che è l’ignominia, il disonore, lo spasimo, il dolore e la morte che Egli deve subire perché è entrato nel disegno di Dio e si è dichiarato mandato da Dio. La gloria di Cristo è il suo sacrificio, è la sua crocifissione, la sua morte. E qui la parola si allarga dal suo destino al nostro, a quello di quanti vogliono essere seguaci di Cristo, come dice l’odierno passo evangelico con accenti poetici. Se il grano di frumento non si dissolve nella terra e non cade, resta sterile; se invece nella terra si dissolve, e sembra morire, allora diventa fecondo, fruttifica. Questo è il disegno del cristianesimo, dice il Papa, questo è il disegno di chi lo seguirà. È la nostra grande legge del morire per vivere, del morire per amore per vivere di gloria. È il punto cardine del Vangelo e della vita cristiana.

È una predicazione difficile quella che ricorda a tutti la necessità di sacrificarsi per essere veri cristiani. Ci sono due atteggiamenti caratteristici degli uomini di fronte alla vita di questo mondo. Ci sono coloro che concepiscono la vita come un godimento. Bisogna - dicono - essere felici, avere tutto quello che serve, conseguire la pienezza dei beni di questo mondo. Molti concepiscono la vita in modo edonistico, cioè fatta di piaceri, fatta per la felicità e per i beni della terra. Non è che ci siano vietati questi beni della terra, specialmente quando sono necessari per la vita. Vediamo che il pane, la dignità, tutti i diritti umani sono anzi protetti dal Vangelo, e fatti addirittura oggetto della preghiera, della conversazione tra noi e Dio: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano». Ma quanti pensano soltanto a garantirsi questi beni per se stessi tradiscono il disegno di Dio che vuol essere invece impostato, fondato sull’amore.


IL SACRIFICIO FONTE DI VITA

Amore, è parola ambigua. C’è l’amore per sé, che si chiama egoismo. C’è l’amore per gli altri, che si chiama sacrificio, Ed è questo che il Signore ci indica col suo esempio come fonte di vita. Il Figlio di Dio venuto al mondo dà la sua vita in maniera così generosa, così pietosa, drammatica, tragica. Muore per noi tra gli spasimi del suo supplizio ignominioso sulla Croce. Muore per salvarci. Il sacrificio del Signore ci dice che dobbiamo concepire la nostra vita come un dovere. Ciascuno di noi è messo al mondo per fare qualcosa - non solo per sé, ma per gli altri - per amore, per un amore gratuito, disinteressato e generoso, costasse perfino la propria esistenza. Dobbiamo imitare Cristo che muore per noi. Dobbiamo essere anche noi come il grano di frumento che dà se stesso per trovare in se stesso le virtù superiori, la fecondità, la ricchezza che il Signore ha destinato ad ogni umana esistenza.

È una parola difficile, ma ben la possono capire la mamma di famiglia che dà la sua vita per i suoi bambini e per la sua casa, oppure l’operaio che lavora e suda per guadagnarsi il pane per la sua casa, oppure l’uomo pubblico che lavora, pensa e dispone per il bene altrui. Ciascuno di noi è chiamato a dare la sua vita per gli altri e non a chiudersi in se stesso accontentandosi della sua salvezza e della sua felicità. Dobbiamo procurare la felicità e il benessere degli altri anche a costo del dono di noi stessi. Il Signore ci insegna la grande legge del vero amore, la legge del morire per vivere.

Dobbiamo vivere per amare, spiega Paolo VI. Accoglie e vive la parola di Cristo colui che esercita la sua professione non solo per il proprio bene, ma per il bene degli altri, per il bene della società in cui viviamo in questo momento storico così turbato, così avido di godere; per far buoni, istruiti e liberi gli uomini che ci sono contemporanei e che ci sono fratelli. Il Papa reca questo annuncio drammatico perché è portatore della Parola del Vangelo. E il Vangelo ci dice che bisogna essere imitatori di Cristo. Gesù annuncia che a giorni sarà con le braccia distese, straziate, con le mani perforate dai chiodi, tutto vestito del proprio sangue e della propria angoscia: «Quando io sarò portato in alto» (e voleva dire in alto sulla Croce) «allora tutti verranno a me»: le folle, i fedeli, coloro che lo seguono, che lo imitano, che raccolgono la misteriosa virtù della Croce che rende buoni, coraggiosi e capaci di amare.

«È questo l’augurio - conclude Sua Santità - che porto a voi in questa Messa pre-pasquale. Guardate di amare Cristo crocifisso e di farne il libro della vostra esistenza, il codice della vostra imitazione, il segno della vostra felicità e della vostra immortale speranza».







15 aprile 1973: CELEBRAZIONE DELLA DOMENICA DELLE PALME

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Venerati Fratelli, Figli tutti carissimi,

E voi, ragazzi e giovani specialmente, che anche quest’anno noi abbiamo invitato a questa singolare e solenne cerimonia religiosa, la quale precede e inaugura le grandi e sempre nuove celebrazioni pasquali!

Noi diremo brevemente, ma voi ascoltateci bene: È di sommo interesse che noi tutti ci uniamo alla Chiesa, anzi che noi componiamo la Chiesa (che vuol appunto significare l’assemblea dei credenti in Cristo), per commemorare, per rinnovare liturgicamente l’avvenimento che supera tutti gli avvenimenti e a tutti gli avvenimenti della terra e della storia si riferisce sotto l’aspetto della nostra salvezza; è la Pasqua, fatto e mistero della redenzione dell’umanità. Non mai come nell’ora della Pasqua la nostra religione assume importanza decisiva per la nostra vita, presente e futura, di tutti e di ciascuno; la Pasqua è il punto focale in cui convergono tutti i raggi della nostra esistenza, dei nostri destini. Tutti, per il sì o per il no, siamo impegnati nell’avvenimento pasquale.

Come e perché questo fatto e questo mistero? Chi è capace di rispondere a questa domanda, nella quale si compie la sintesi suprema della fede con la vita?

Proviamo a rispondere con due considerazioni, che ci sono suggerite dalla celebrazione liturgica, che ora stiamo compiendo. La festa delle Palme, riportata alla sua origine evangelica, di cui noi ora facciamo memoria e simbolica ripetizione, che cosa ci dice? Ci dice, innanzitutto, che Gesù, il Gesù di Nazareth, il figlio di Maria, e legalmente figlio del fabbro Giuseppe (
Mt 13,55), il giovane Rabbi che da circa tre anni percorreva la Palestina, predicando come nessuno mai aveva predicato (Jn 7,46), con un linguaggio semplice e sublime da rivelarsi senz’altro misterioso profeta (Cfr. Jn 4,19 Jn 6,14), e compiendo miracoli stupefacenti (Jn 3,2), suscitando insomma un inesplicabile e tormentoso interesse circa la realtà della sua Persona, - tutto il Vangelo è pieno della curiosità relativa appunto alla definizione di chi fosse veramente Gesù (Cfr. Mt 11,3 Mt 16,14 e specialmente il Vangelo di S. Giovanni), - ebbene quel Gesù scioglie, finalmente, in parte almeno, il mistero della sua identità, e in quel giorno, il giorno delle Palme, cioè del suo ingresso umile e trionfale in Gerusalemme, si lascia proclamare Messia.

Messia, che cosa vuol dire? qui il discorso sarebbe lungo, ma dobbiamo concentrarlo nel significato che questo nome aveva assunto nella maturazione provvidenziale della divina rivelazione al Popolo eletto: Messia voleva dire, da un lato, l’uomo della tradizione genuina e privilegiata, cioè il figlio di David per eccellenza, e voleva dire, d’altro lato, l’uomo dell’avvenire, l’uomo della speranza, il re dei divini destini, il profeta della buona novella (Cfr. Is 61,1); il Sacerdote investito di suprema potestà, il servo di Yahweh espiatore e liberatore, il Figlio dell’uomo in cui confluivano tutte queste prerogative, così da rendere la sua figura, quasi indefinibile (Cfr. Jn 8,14), ma superlativa per maestà e potenza (Cfr. Marc. Mc 14,62). Gesù, nelle umilissime parvenze che il Vangelo ci ricorda, lascia alla fine trasparire i titoli della sua realtà, quella realtà trascendente che costituirà i capi d’accusa per la sua imminente condanna: Figlio di Dio (Jn 19,7 Mt 26,63), e Re dei Giudei (Cfr. Mt 2,2 Mt 21,5 Mt 27,37): leggete la narrazione del processo di Gesù, posta dalla liturgia odierna immediatamente dopo il rito delle Palme, e vedrete emergere questi titoli messianici di Gesù, per i quali Egli sarà crocifisso, ma in forza dei quali Egli, dopo la sua risurrezione, sarà dalla prima Chiesa e poi fino a noi proclamato Gesù Signore, Gesù Cristo (Cfr. Ac 2,36).

Così che noi, celebrando oggi questa festività delle Palme, lasciamo che l’eco delle voci, che hanno acclamato Gesù quel giorno quale Messia, risuoni nei nostri animi, anzi vogliamo che nei nostri cuori e sulle nostre labbra esso risuoni: viva Gesù, il Messia dell’umanità, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, re e maestro, luce e salvatore del mondo. Noi siamo qui per professare con vigore vittorioso che in Cristo è la via, la verità, la vita, è la nostra salvezza, la nostra sicurezza, la nostra pace, il nostro amore, la chiave d’ogni potere su l’umana esistenza (Cfr. Apoc. Ap 1,18), la nostra speranza, la nostra felicità! È così forte l’esplosione della nostra fede, oggi, che, come Gesù stesso ebbe allora a dire: se le nostre voci tacessero, parlerebbero le pietre! (Lc 19,40)

Ed ecco allora la seconda nostra considerazione; e questa riguarda direttamente noi uomini, noi fedeli, che ci professiamo credenti e cristiani. Riguarda specialmente voi, giovani, qui presenti: vi sentite di proclamare Cristo, con questa convinzione, con questa reazione alla mentalità indifferente e negativa, che ci circonda, con questa scelta decisiva del suo nome benedetto e delle conseguenze innovatrici del nostro modo di concepire e di condurre la vita, che essa comporta? Vogliamo davvero proclamare Gesù come nostro Messia, nostro Cristo, Signore e Salvatore? nostro Amico e Maestro?

Oh! quale questione! quale scelta! quale assalto alle nostre abitudini, alle nostre idee, alle nostre speranze! Ci inseriamo anche noi nel popolo festante, che finalmente si mette sui suoi passi, indovina Chi Egli è, e proclama coraggiosamente e gioiosamente la propria fede in Gesù?

Noi avremmo stimolo, a questo punto, a parlare non solo a voi, giovani, ma di voi. Sì, di voi, giovani, quali la vita moderna vi configura, e quali alcuni di voi si vantano di essere, contestatori, ribelli, rovesciatori di quanto le generazioni precedenti hanno costruito, e insieme sicuri d’una radicale e liberatrice trasformazione della società. Di voi, che spesso siete creduti e qualificati come insofferenti di ogni obbedienza, di ogni giogo, d’ogni disciplina, d’ogni dovere, e avidi e liberi di vita istintiva e gaudente, disimpegnati da ogni ideale che esiga rinuncia, impegno, fatica, lealtà. No, non così vi parleremo. Non faremo oggi l’analisi della gioventù decadente, della quale, sì, il nostro tempo ci offre qualche pietoso e punto simpatico esemplare. Guarderemo piuttosto a voi con altra intenzione, fiduciosa di scoprire l’aspetto più vero, più umano, più cristiano dei vostri atteggiamenti. Noi conosciamo le vostre inquietudini. Esse sono in realtà profonde e personali aspirazioni ad una ideale figura di uomo, che sia vero, sincero, forte, generoso, eroico e buono. Migliore insomma dei modelli umani del passato e del presente; nuovo e perfetto. Esse sono desideri grandi e stupendi verso un mondo migliore, libero e giusto, affrancato dal dominio della ricchezza egoista e dell’autorità dispotica e ingiustamente repressiva, reso invece fraterno da un comune impegno di solidarietà e di servizio. Voi pensate all’amore, quello della amicizia, lieta, pacifica, cortese espressione d’ogni migliore sentimento; e voi sognate l’amore, quello interpersonale e sacro del dono di sé; quello per la espansione della vita; quello che merita sacrificio e tutto, e che rende felice. E poi voi, ormai maturi per comprendere in sintesi panoramica la società, la politica, la storia, la dignità del genere umano, voi attendete un’età ideale, ma reale, dove l’unità, la fratellanza, la pace regnino finalmente fra gli uomini. Giovani, e voi tutti fratelli, che così andate agitando dentro di voi questi alti e universali pensieri, oh! aprite gli occhi, svegliate le coscienze; voi attendete e auspicate un’era messianica; voi andate, forse senz’avvedervene, incontro a un Messia; sì, incontro al Cristo Gesù. È Lui; non vi è che Lui, che possa appagare la sete profonda e misteriosa degli animi vostri. Gesù, Gesù; è Lui la luce e la salvezza del mondo e di ciascuno di noi. Gesù, Gesù! Oggi è il giorno, oggi è la festa della nostra scoperta, della nostra speranza, della nostra gioia. Acclamiamo insieme: osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! (Mc 11,9-10).





B. Paolo VI Omelie 50373