B. Paolo VI Omelie 10133

Sabato, 10 novembre 1973: INAUGURAZIONE DELLE CELEBRAZIONI GIUBILARI NELLA DIOCESI DI ROMA

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Il Papa anzitutto invita i presenti a uno sforzo di riflessione, al fine di cogliere il vero significato dell’Anno Santo. Dobbiamo porci in uno stato di tensione, di attenzione, di raccoglimento e di concentrazione delle nostre facoltà percettive nel punto focale che siamo chiamati a meditare con totale donazione della nostra coscienza. L’Anno Santo, che attraverso i secoli viene con i suoi annunci, con le sue pratiche di religione, di penitenza e di pietà, a iscriversi nel corso della storia spirituale di Roma e del mondo, ci impone un primo sforzo di comprensione del solco in cui la nostra esistenza si svolge: il tempo. Si parla di tempus acceptabile, come avviene già altre volte nella pedagogia liturgica. Vi sono dei tempi propizi, vi sono dei momenti felici, vi sono dei periodi più idonei di altri per realizzare la nostra personalità e lo scopo stesso per cui ci è data la vita. L’Anno Santo è uno di questi momenti felici, un momento in cui si misura che cosa vale per noi la religione, che cosa vale per noi la fede, che cosa vale per noi l’essere cristiani. È un momento in cui riflettiamo sulla consapevolezza già acquisita di essere cristiani, battezzati, di essere cattolici, domandandoci quale profondità, quale incidenza questa nostra qualifica cristiana abbia nella realtà della nostra vita sia nell’attimo che fugge, il momento presente, sia nel corso di questo tempo che ci fa vivere, ci divora e ci porta verso il nostro destino. L’Anno Santo è il momento in cui siamo chiamati a decidere che cosa vogliamo essere, ad autodefinirci, a dire a noi stessi ciò che siamo, non anagraficamente ma esistenzialmente.

Vogliamo definirci religiosi, cristiani e cattolici cioè vogliamo concepire questa nostra esistenza in un rapporto indeclinabile, necessario col Dio trascendente e col Dio che è venuto incontro a noi con i passi umili, semplici, fraterni del Vangelo. Ci siamo incontrati con lui, abbiamo ascoltato la sua parola, abbiamo sentito il fascino della sua evangelizzazione, abbiamo accolto i doni delle sue parole misteriose, ci siamo sollevati fino ad essere uniti con lui e poter dire con San Paolo «Non sono più io che vivo; è Cristo che vive n me». Questa trasfusione della nostra vita in Cristo e di Cristo in noi, questa divinizzazione della nostra esistenza prende in questo momento tutta la nostra attenzione. Non si tratta di piccola cosa, di cosa secondaria, di cosa che si può risolvere senza un grande impegno, ma è cosa che investe tutta la nostra personalità, tutta la nostra responsabilità: ecco perché dedichiamo un anno a questa grande riflessione. E in quest’anno ci dobbiamo rinnovare, rifare, ricomporre, dobbiamo mescolare la nostra psicologia, la nostra educazione, la nostra anima per dirci individualmente: «Sì, voglio essere quello che il Vangelo mi chiama ad essere, un uomo nuovo», e per cercare socialmente di avere intorno a noi null’altro che fratelli ed amici. Ci è stato perdonato tutto. «Dimitte nobis debita nostra sicut et nos dimittimus debitoribus nostris»; vogliamo perdonare tutti e avere le braccia aperte al soccorso, alla carità che si effonde e genera l’ecclesia.

Tutto ciò è molto difficile, e perciò esige una preparazione, un anticipo, un’introduzione: l’Anno Santo diocesano che si sta inaugurando. Esso ci consente di avvicinarci a questo processo di pensiero spirituale, filosofico, esistenziale, sociale, con un po’ di chiarezza nell’anima e con qualche proposito delineato e determinante. Chi vi annuncia questo? Un pover’uomo, un fenomeno di piccolezza. Io tremo, fratelli e figli, tremo nel parlare, perché sento di dire qualcosa che immensamente mi supera, delle cose che io non ho abbastanza testimoniato e servito, delle cose che meriterebbero davvero una voce profetica che avesse a dare l’ampiezza lirica e potente della loro realtà. E invece ve le dico così. Non ho niente da leggere, come di solito voglio fare, per essere più chiaro e più breve nei miei discorsi. Leggo adesso nel mio cuore, sento la mia piccolezza e la sproporzione schiacciante tra il messaggio che annuncio e la mia capacità di esporlo e anche di viverlo. Ma nello stesso tempo non posso negare, non posso tacere che io sono mandato. Non parlo ,di me, non vi annuncio un qualche mio ritrovato di pensiero, di studio o una formula mutuata da qualche sapiente. Io vi annuncio la parola di Cristo, io sono mandato da lui, io il successore di San Pietro. Accoglietemi, non disprezzatemi, accoglietemi per quello che sono. Sono il Vicario di Cristo. In nome suo vi parlo e perciò vi prego di avere riguardo non tanto a me quanto alla mia parola e al mio annuncio, e di capire che cos’è questa chiesa gerarchica e costituita che ha la missione di annunciare con autorità e con sicurezza la parola del Signore. È venuto il momento in cui vi devo chiedere tutta la Vostra adesione e il vostro ascolto.

Il Papa richiama a questo punto l’attenzione su una scena evangelica particolarmente significativa. Gesù torna in Galilea dopo aver compiuto atti singolari, come il Battesimo di Giovanni. Torna al suo paese, a Nazareth, ed entra nella sinagoga, cioè nel luogo di preghiera e di raccoglimento in cui la popolazione del luogo trovava la sua espressione religiosa. Gesù, il figlio del fabbro, si alza per leggere: apre il libro e si presenta come il profeta. «È venuta l’ora - dice - che io annunci la buona novella ai poveri, la liberazione ai prigionieri, il ricupero della vista ai ciechi, la libertà agli oppressi, che io proclami l’anno di grazia del Signore». È Gesù che parla e tutti si meravigliano. Come mai quel giovane che lavorava nella bottega di Giuseppe è salito a questa altezza, tanto da far sue le parole di Isaia? Chi era costui e come fu accolto? Ahimé, lo cacciarono, e volevano gettarlo giù dal monte su cui Nazareth è costruita e ucciderlo. L’annuncio di Cristo va incontro anche a questa eventualità. Gesù invece passa innocuo in mezzo alla folla e ricomincia, anzi incomincia il suo ministero di annunciare il regno di Dio al popolo galileo.

È venuto il momento propizio e io sono qui stasera per dire a voi, figli di Roma, figli della Chiesa, figli di questo tempo: «Guardate che si approssima un periodo, un momento veramente favorevole. È forse il momento che deciderà le nostre sorti personali e le nostre sorti eterne, un momento di somma responsabilità, e di somma fortuna se lo sappiamo cogliere, di somma sventura se per caso passasse inosservato o se ci trovasse chiusi al suo ascolto.

Dobbiamo entrare in profondità nella nostra coscienza, avere il senso di noi stessi. Dobbiamo orientarci nella molteplicità delle voci, delle proposte, delle possibilità, dobbiamo trovare l’orientamento nella dialettica del mondo moderno che si affaccia quotidianamente alla nostra coscienza. Dobbiamo orizzontarci nella confusione, nella polemica, nella contraddizione, trovare un dialogo, trovare la maniera di capire tutti, di trarre da ogni parola umana che viene pronunciata attorno a noi un nucleo di verità sufficiente a renderci amici anche di chi ci insulta, ci offende, ci nega. Dobbiamo essere convinti di poter e dover colloquiare con tutti. Dobbiamo costruire una grande armonia attorno a noi, una grande riconciliazione, dobbiamo saper essere così saggi da tutto comprendere, tutto discernere». Sappiate conservare ciò che è buono.

Si tratta poi - prosegue il Santo Padre - di trovare uno stile di vita. Siamo figli del nostro tempo, non vogliamo essere diversi dagli altri cittadini del mondo. Ma un’intenzione dovrà dominare la nostra esistenza, una sapienza la dovrà dirigere, un valore superiore la dovrà fare risplendere di valori che adesso restano occulti, quasi oppressi. Dovremo rigenerare la nostra maniera di pensare e di vivere nel mondo in cui siamo. Dovremo ricostruirci una vera coscienza cristiana. Dovremo essere veramente rigenerati nel cuore: questo il programma dell’Anno Santo. «Sono venuto a dirvi di prepararvi - ha aggiunto il Santo Padre -, di cogliere il momento che è buono, per dire: Sappiate adattare questa problematica religiosa, spirituale, morale alle vostre personali condizioni». Rivolgendosi poi con particolare commozione ai confratelli nel sacerdozio, Paolo VI dichiara: O sacerdoti, comprendiamo la nostra vocazione. Abbiamo forse subito anche noi momenti di confusione, di debolezza, di critica, di contestazione? Forse in momenti in cui più luminosa ci è apparsa la nostra vocazione ci siamo rivoltati contro di essa, siamo diventati i critici di noi stessi, gli autolesionisti della nostra stessa missione. Ebbene, cerchiamo di rimetterci nella pienezza della rispondenza con Cristo che ci ha amato e ci ha fatto la grande grazia di investirci dei suoi poteri, di incarnarsi in noi, di autorizzare le nostre labbra a pronunciare le sue parole e le nostre mani a dare le sue benedizioni e la nostra vita a consacrarsi per il bene dei nostri fratelli. Siamo diventati Ministri di Cristo; siamolo, nella pienezza del nostro dono e nella consapevolezza della fortuna strana, paradossale che ci è capitata. Viviamo il nostro sacerdozio in grande pienezza, guardi,amo di essere veramente i rappresentanti e i ministri di Cristo in mezzo al popolo in cui siamo.

E voi, specialmente, giovani, che già avete sentito qualche eco della voce del Signore, l’avete forse incontrato in qualche vicenda della vita, avete sentito la sua voce che dice «vieni, vieni dietro a me», e siete accorsi. Se mai è avvenuto questo per voi, badate che la vostra vita diventa un grande dramma, glorioso e doloroso nello stesso tempo, ma incommensurabile. È la maniera più alta, più degna, più grande, più iperbolica di vivere la propria esistenza. Siate degni di questa vocazione; con tutta semplicità dite: «Ecco, Signore, tu solo hai parole di vita eterna, io ti seguirò».

E gli altri giovani? Come annunciare l’Anno Santo alla gioventù del nostro tempo? L’annuncio del cristianesimo alle nuove generazioni è preoccupazione assidua del Papa. Colme annunciare Cristo Signore - egli si chiede - ai giovani, che sono i candidati migliori per capirlo e per realizzarlo? Che sono stanchi e quasi nauseati delle formule che la vita moderna, così carica, così ricca, così opulenta ha riversato sopra di loro? Il giovane, che alcune volte ha le divinazioni che gli adulti non hanno, sente un senso di nausea di fronte a un certo modo di vivere. In questa visione contestataria trova lo stimolo a vivere in povertà, trova la spinta verso la ricerca della verità. I giovani d’oggi vogliono essere autentici, vogliono essere quello che si è e si deve essere. Hanno un’anima iperfilosofica.

Vorrei colloquiare con questi - afferma Sua Santità - e dire «io ho la verità, io ho quello che ti manca e quello che aspetti, io ho la formula per interpretare la tua vita, io ti do la bellezza, io ti do la gioia, la forza, moltiplico le tue ricchezze, le tue facoltà, io ti metto nella vita reale, ti metto nel centro della grande ipotesi dell’esistenza umana. La vita è una grazia immensa, impagabile. Quale dialogo lungo, quale dialogo amico, penetrante, interessante si dovrebbe fare alla nostra gioventù, perché capisse che la sua follia non è che un pianto, non è che un gemito per cercare qualcosa di veramente reale, di veramente buono. È l’acclamazione incognita e inconscia verso il Cristo che non trovano e che, se lo trovassero, li inebrierebbe di pace, di gioia, di forza, di equilibrio: sarebbero loro i padroni del mondo di oggi e del mondo di domani».

Infine, l’annuncio dell’Anno Santo è rivolto a tutti gli altri. Nel nostro mondo, nella nostra società in fondo ci sono molte persone che hanno già trovato qualcosa, che hanno conquistato il possesso di tanti beni di scienza, di cultura, di benessere soprattutto di beni economici, che sono diventati adesso i primi ad essere calcolati. Tutti vogliono accrescere il loro benessere. Vorrei dire a questi potenti della vita, che hanno avuto una loro pienezza, ciò che loro manca: Siete dei poveri, e non avete capito l’elementare verità che quanto più noi possediamo di questa terra tanto più spasimiamo per avere altri beni che invece ci sfuggono. Quanto più il nostro cuore è pieno di terra, tanto più è avido dei beni del cielo. È da operarsi una metamorfosi nella mentalità della gente che ha ricevuto, amministra, gode e conta di suoi risparmi, il suo potere economico. Bisogna dir loro: più hai accumulato e meno possiedi, perché hai riempito la tua anima di beni falsi, di beni fittizi, di beni perituri. Quae autem cumulasti, cuius erunt? Che resterà? Tutti quelli che mettono il confine della vita a questo livello fanno un grande tradimento alla statura umana con una decapitazione che porta l’uomo a non desiderare più ciò a cui è realmente destinato, la vita del cielo, la vita futura, la vita dello spirito, la vita del bene, la vita dell’amore, la vita della bellezza, dei grandi doni dello spirito.

L’annuncio non è facile neanche per tutto il popolo, il popolo che soffre, il popolo che aspira alla libertà. Ma gli oppressi hanno bisogno di una liberazione diversa che non sia quella puramente economica e sociale, di una libertà che non può che essere data dalla nostra fede, dalla nostra relazione autentica con Dio e con Cristo. Hanno bisogno di speranza, hanno bisogno di sapere che c’è qualcosa di destinato anche a loro, che non sono i diseredati, che non sono gli emarginati, che non sono i disprezzati, ma che sono i fratelli e sono al primo posto perché sono i preferiti. Bisogna consolarli, incantarli - spiega il Santo Padre -, non di parole, non di suggestioni vane e mitiche, incantarli del messaggio del Vangelo di Nostro Signore che dice: Beati voi, poveri, perché vostro è il regno dei cieli. Fosse questo l’anno per poter dire a questa gente queste parole di Cristo! Fosse questo il momento, fossi io il profeta di queste parole, lo fossimo insieme, fosse tutta la Chiesa di Roma capace di cantare le beatitudini che il Signore ci ha insegnato! Questo vorrei dire a ciascuno. Ognuno ha il suo messaggio, la sua parola, ha pronta la sua risposta che viene dal cuore di Cristo. Vorrei che tutti imparassimo ad amare il Signore, ad amare Cristo e a sentire che quest’amore si esprime in maniera completa nella comunione, nell’essere insieme, nella ecclesia, e cioè nella chiesa di Dio, dove troviamo questa felicità incipiente e questa pedagogia verso i beni reali e i beni eterni. Vorrei che l’Anno Santo riconfortasse la Chiesa di Roma ad essere ecclesia, ad essere comunione, ad essere unità nello spirito, nei propositi, nelle forme di vita, nei costumi. Che sia così: sappiate che questo è l’annuncio. Il regno di Dio è vicino. Convertitevi, perdonatevi, mettetevi in pace e cercate di capire che questa è l’ora del passaggio del Signore.






Martedí, 25 dicembre 1973: SOLENNITÀ DEL SANTO NATALE DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO

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Ecco, Fratelli di questa Chiesa Romana!

Ecco, Fratelli dell’intera Chiesa cattolica sparsa nell’orbe! Ecco, Fratelli del mondo intero, che con noi vi qualificate cristiani!

E voi, Fratelli in virtù dell’umanità, che tutti ci uguaglia nella vita presente, cittadini della terra!

Ecco il vaticinio angelico che noi questa notte vi ripetiamo:

È venuto!

È venuto!

È venuto!

Chi è venuto?

È venuto, è nato oggi per noi un Salvatore!

Il Salvatore, Cristo Signore!

Colui che i secoli hanno atteso, e le generazioni tutte, a modo loro, hanno preconizzato! È venuto il primogenito, l’autentico Figlio dell’uomo. È venuto il vero Fratello d’ogni essere umano. Si chiama Gesù, che vuol dire Salvatore. È venuto il Messia, Colui che decide dei destini del mondo. Ecco: «ci è nato un bambino, ci è stato dato un figlio; e il principato è stato posto sulle sue spalle, e sarà chiamato ammirabile, consigliere, Dio, forte, padre del secolo che verrà, principe della pace» (
Is 9,6). Cosi lo annunciò il Profeta. Tremano le mie labbra; perché il suo vero «nome è Emmanuel, che significa: Dio con noi» (Cfr. Mt 1,23-24). Egli non è soltanto il Figlio dell’uomo, per eccellenza; Egli è il Figlio unigenito del Dio vivente (Cfr. Mt 16,16 Jn 1,18). Sì, perché Egli è il Verbo stesso di Dio, Dio lui stesso, il quale si è fatto carne, e sta con noi (Cfr. Jn 1,14), uomo come noi, uomo-Dio per noi.

Quando è venuto? dove è venuto?

Oh! voi lo sapete. È venuto al tempo del primo Imperatore Romano Cesare Augusto (lo abbiamo appreso adesso dalla lettura del Vangelo) venti secoli fa; è venuto nella storia, è venuto nel tempo, quando l’orologio divino dei destini umani segnava l’ora della pienezza (Ga 4,4); è venuto per fissare il punto focale degli avvenimenti religiosi, che danno senso all’esistenza dell’umanità.

Dove? chi non lo sa? a Bethlehem; in un umilissimo ospitale presepio, accanto a quel minimo-grande paese, sul quale già posava la profezia della privilegiata elezione messianica (Mt 2,6 Mt 5,2), e al quale oggi convergono i cuori incantati dei nostri fanciulli, con quelli pensosi di tutti i cristiani con voti di pace.

E come è venuto?

O Donne, esultate, e ammirate fra voi tutte la benedetta!

È venuto per via di generazione umana: il Figlio di Dio è diventato insieme Figlio dell’uomo, perché nato, per virtù dello Spirito Santo, dal seno d’una Donna, una Vergine sempre Vergine, ma eletta alla missione privilegiata della Donna, la maternità; così Maria, la piena di grazia, - inchiniamoci tutti con beata commozione! - è diventata la madre di Cristo, la Madre di Dio!

È venuto bambino; è venuto fanciullo, è venuto operaio; è venuto maestro; è venuto profeta; è venuto re del Popolo di Dio; è venuto Redentore per assumere sopra di sé tutti i peccati del mondo, vittima in nostra vece, agnello di Dio per l’umanità; è venuto per la vita e per la risurrezione dell’uomo, Alfa ed Omega dell’universo; è venuto per fare di noi dei figli di Dio (Cfr. Jn 1,12).

Fratelli, che ci ascoltate: date riflessione, date importanza all’annuncio che questa notte noi vi facciamo! Due aspetti attraggano la vostra attenzione: il valore universale di questa venuta; essa è come un sole sorgente; lo dice l’Evangelista Giovanni: «luce vera, che illumina ogni uomo» (Jn 1,9). Ogni popolo, ogni storia, ogni cosa! E poi trasalite di nuova meraviglia e di gioia: il valore personale della venuta di Cristo. Ciascuno di noi può dire, deve dire: «è venuto per me!» (Cfr. Ga 2,20). Per me! Che nessuno pensi d’avere celebrato bene il Natale, se non s’è sentito investito e quasi folgorato da questa sempre nuova scoperta: Egli è venuto per me! La carità di Cristo mi colpisce e m’incalza (Cfr. 2Co 5,14); ciascuno deve dire e sentire in se stesso: io, io sono amato da Cristo!

Chi sperimenta in qualche misura questa inebriante e ormai solare verità natalizia, ritornando alla propria casa e alle proprie cose, sentirà nascere nel proprio cuore un canto spontaneo, il canto di questa festività: Gloria a Dio! e pace in terra! Un canto d’amore divino, il canto di Natale.






OMELIE 1974



Domingo 27 de enero de 1974: MISA DE CANONIZACIÓN DE SANTA TERESA DE JESÚS JORNET E IBARS

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Venerables Hermanos y amados Hijos:

Hace unos momentos, con emoción contenida y en virtud de nuestra autoridad apostólica, hemos pronunciado una sentencia solemne, agregando al catálogo de los Santos a Santa Teresa de Jesús Jornet e Ibars, fundadora de las Hermanitas de los Ancianos Desamparados. La hemos declarado Santa, es decir, digna de recibir el culto universal en la Iglesia; nos encomendaremos a su intercesión y la podremos tomar como orientación para nuestra vida espiritual.

Con mirada atónita contemplamos el milagro de arcana predilección divina que supone la santificación de un alma, cuyo sorprendente camino por la vida terrena, imitando a Cristo, pasa de los sufrimientos a la cumbre de la gloria.

Nos encontramos ante una de esas figuras que dejan una impronta propia y profunda de su paso por el mundo, legando a la Iglesia y a la sociedad el sello de su personalidad siempre lozana e inmarcesible: servir, inmolarse por los demás, será la faceta distintiva de la espiritualidad de Santa Teresa Jornet quien, obedeciendo a un mismo impulso de amor al necesitado, eligió un modelo de vida similar al que sirvió también a la Sierva de Dios, Juana Jugan, fundadora del Instituto de las «Petites Soeurs des Pauvres», cuya causa de beatificación esperamos pueda ser reanudada próximamente.

Es consolador contemplar con cuánta profusión de formas y de colorido espirituales se van perfilando -prodigios de la gracia- nuevos cuadros de la santidad de la Iglesia. En la obra límpida y transparente de un alma consagrada, como Santa Teresa Jornet, se trasluce la misma ansia que animara a su homónima abulense para desplegar, en formas diversas, la hermosura y la riqueza inagotables del designio de salvación.¡Cuántas páginas de historia eclesial, bellísimas, llevan impresos esos lances del amor divino que brotan del corazón de Cristo, como manantial perenne de luz y de verdad!

Difícil seguir en detalle la vida y la actividad de la Madre Teresa. La niña de Aytona y Lérida, la estudiante y maestra de Fraga y Argensola, a la búsqueda de su vocación entre las Terciarias Carmelitas y las Clarisas de Briviesca, deja el paso a la religiosa gallarda y sencilla que, mientras cubre distancias y recorre las ciudades más diversas, sabe conservar el secreto de su dinamismo: la unión con Dios. Alma que amaba pasar desapercibida, pero que no por ello dejaba de marcar con su huella personal, recia y dulce al mismo tiempo, las bases mismas de su incipiente obra. Ella supo guiar, desde sus primeros pasos, el nuevo Instituto, desde Barbastro a Valencia y Zaragoza, extendiéndolo después -en un incansable afán caritativo- por buena parte de la geografía española y que más tarde se trasplantaría a América.

Teresa Jornet tuvo algo, misterioso si se quiere, que nos atrae. A su lado se siente esa presencia inefable de la Vida que la sostuvo y la alentó en sus afanes de consagración a Dios y al prójimo, orientándola hacia la senda concreta de la caridad asistencial.

El fruto de la ingente labor desplegada por tan humilde religiosa cuajó de manera admirable, pero sin clamor externo. El quehacer de la gracia será siempre algo misterioso. La opción hecha en la intimidad del alma sabe de la predilección divina, de la acción fecundadora del Espíritu.¡Quién podría describir por qué rutas y celadas Santa Teresa ha ido descubriendo a su Esposo! Al abrazar un género de vida abnegada, ella ha querido realizar el programa de santidad trazado por el Divino Maestro: descubrir la verdadera felicidad, la Bienaventuranza que esta escondida, como un precioso tesoro oculto, en el amor y servicio a los pobres y necesitados.

Al contemplar la figura de la nueva Santa y de la multitud de vírgenes que en el Instituto por ella fundado inmolan su vida por los ancianos desamparados, sentimos que el ánimo se nos inunda de afecto indecible. ¡Servir a los Ancianos Desamparados! Sabemos bien que son miles y miles las personas que han podido beneficiarse de tan espléndida corriente de gracia y caridad. Esta da un matiz peculiar al carisma confiado a Santa Teresa, que se insiere con fuerza lógica en la misión misma de Cristo y de todo apóstol: «para evangelizar a los pobres me ha enviado» (
Lc 4,18).

Hoy más que nunca, en esta época de gigantescos progresos, estamos asistiendo al drama humano, a veces desolador, de tantas personas llegadas al umbral de la tercera edad y que ven aparecer a su alrededor las densas nieblas de la pobreza material o de la indiferencia, del abandono, de la soledad. Nadie mejor que vosotras, amadísimas hijas, Hermanitas de los Ancianos Desamparados, conoce lo que ocultan los pliegues recónditos de tan triste realidad. Vosotras habéis sido y sois las confidentes de esa especie de vacío interior que no pueden llenar, ni siquiera con la abundancia de recursos materiales, quienes están desprovistos y necesitados de afecto humano, de calor familiar. Vosotras habéis devuelto al rostro angustiado de personas venerables por su ancianidad, la serenidad y la alegría de experimentar de nuevo los beneficios de un hogar. Vosotras habéis sido elegidas por Dios para reiterar ante el mundo la dimensión sagrada de la vida, para repetir a la sociedad con vuestro trabajo, inspirado en el espíritu del evangelio y no en meros cálculos de eficiencia o comodidad humanas, que el hombre nunca puede considerarse bajo el prisma exclusivo de un instrumento rentable o de un árido utilitarismo, sino que es entitativamente sagrado por ser Hijo de Dios y merece siempre todos los desvelos por estar predestinado a un destino eterno.

¡Oh! Si pudiéramos penetrar en vuestras comunidades y residencias, allí sorprenderíamos a tantas hijas de la nueva Santa que, como ella, están difundiendo caridad: caridad encerrada en un gesto de bondad, en una palabra de consuelo, en la compañía comprensiva, en el servicio incondicional, en la solidaridad que solicita de otros una ayuda para el más necesitado. Bien sabemos que vuestra entrega a los ancianos, cuyos achaques requieren de vosotras atenciones delicadas y humanamente no gratas, tienen un ideal, una pauta, un sostén: el amor a Cristo que todo lo soporta, todo lo supera, todo lo vence, hasta lo que para tantas mentalidades de hoy, empapadas de egoísmo o prisioneras del placer, es considerado una locura. Ese amor que se alimenta en la oración y que adquiere un ulterior dinamismo en la Eucaristía llevó a vuestra Santa Fundadora y os impulsa a vosotras a ver en los ancianos una mística prolongación de Cristo, a atenuar en ellos sus fatigas, sus enfermedades, sus sufrimientos, cuyo alivio repercute con cadencias de evangelio en el mismo Cristo: «a Mí me lo hicisteis». ¡Esta es la respuesta de la caridad! ¡Ese es el sentido de lo que humanamente sería inexplicable ! ¡Esa es la respuesta a quienes verían mejor empleada, en otros campos eclesiales, la vitalidad de vuestras llamas vocacionales que mantienen la tenue y casi apagada existencia de los ancianos! Y ello es una constante interpelación a la conciencia del hombre de hoy, insensible con frecuencia ante la realidad de los beneficios, aun sociales, que aporta la caridad hecha en nombre de Cristo, ¡caridad operativa que Santa Teresa, con fina percepción, intuyó tan necesaria en un problema de su tiempo! Caridad que encuentra hoy la misma necesidad y la misma urgencia.

Nuestras palabras se concentran ahora para rendir homenaje de devoción a Santa Teresa Jornet Ibars. Su vida queda en nuestra memoria como ejemplo de virtud; y su obra, fielmente continuada por las Hermanitas de los Ancianos Desamparados, es una invitación apremiante a la acción caritativa y social. Mientras la invocamos como Santa, demos gracias a Dios que nos ha permitido ser testigos de las maravillas de su gracia en una hermana nuestra, en quien se cumplen admirablemente las palabras proféticas: «enalteció a los humildes» (Lc 1,52). Tal exaltación redunda en honor de todo el Pueblo de Dios, pero especialmente de España, tierra de Santos, que en todo tiempo ha sabido dar ejemplos de piedad, de generosidad, de heroísmo, de santidad. Justo honor el que hoy rendimos a un pueblo tan querido que, entregándose generosamente a las tareas del espíritu, ofrece siempre la reserva de lo esencial y definitivo: su fe cristiana, arraigada y vital. Honor pues a España, con el reconocimiento de la Iglesia entera.

Y, superada toda frontera, ¡honor a la misma Iglesia! que invoca entre sus Santos a esta española, universal por el espíritu y el alcance de su obra. Gloria a la Iglesia, que ve correr por sus miembros la savia siempre nueva de la caridad que su Divino Fundador le infundió como esencia de la tarea salvadora. Hoy resplandece más, de hermosura y de gozo, al proclamar la santidad de una de sus hijas, proponer su nombre e invocar su intercesión para ejemplo y ayuda de todos los bautizados.

No queremos concluir sin dedicar unas palabras a la nutrida representación española que, con sus celosos Pastores -cuya presencia nos complace de modo particular-, nos trae el dulce y compacto testimonio del catolicismo de España, tan vinculada a esta Cátedra de San Pedro. Nuestro deferente y especial saludo a la Misión Extraordinaria enviada por el Gobierno español, a los Señores Cardenales y Hermanos todos en el Episcopado; nuestra afectuosa bienvenida a los sacerdotes, religiosos y peregrinos españoles, y sobre todo a vosotras, Hijas de Santa Teresa Jornet, y a vuestros ancianos que, en prueba de agradecimiento, han querido asistir a esta memorable ceremonia.

Ante el ejemplo de Santa Teresa, repetimos a todos los presentes y a cuantos en la distancia se encuentran espiritualmente unidos, la exhortación de San Pablo: «haced demostración de vuestra caridad y acreditad los encomios que de vosotros hicimos a la faz de las Iglesias» (2Co 8,24). Así sea. Con nuestra Bendición Apostólica.

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Pare a noi doveroso aggiungere una parola in lingua italiana per estendere ai fedeli presenti che hanno propria questa lingua la riflessione che non può mancare sopra l’avvenimento che noi abbiamo ora compiuto, e che per sempre, da oggi in poi, la Chiesa cattolica non cesserà di ricordare e di magnificare come avvenimento gioioso. Noi ci limitiamo ora a indicare semplicemente i motivi principali di gaudio, che sono salienti di questo rito singolare e solenne: esso deve appunto riempire i nostri animi di santa letizia.

E il primo motivo è la natura stessa d’una canonizzazione. Che cosa è una canonizzazione? È una sentenza, che impegna il magistero della Chiesa, circa la santità d’una persona, che è dichiarata appartenere in gloriosa pienezza al Corpo mistico di Cristo, nella sua finale e perfetta condizione di Chiesa celeste. Essa è pertanto, e innanzi tutto, una glorificazione, quale a noi membra della Chiesa terrestre è possibile, della santità di Dio, fonte d’ogni nostro bene, e di Cristo, causa meritoria della nostra salvezza, nell’effusione animatrice dello Spirito Santo. È il riconoscimento della divina perfezione, cioè della santità di Dio, riverberata in un’anima eletta, come la luce del sole si riflette nelle cose che esso illumina col suo splendore e conferisce alle cose l’irradiazione della bellezza. E questa divina derivazione della santità, e perciò del culto che alla santità d’una creatura noi tributiamo, è da tenere sempre presente a tutela della nostra dottrina cattolica, che mentre esalta la santità dei Santi, la riconosce e la celebra relativa e tributaria di quella unica e somma di Cristo e di Dio, e infonde in noi, ancora pellegrini verso la patria celeste, una grande gioia, tutta esultante di ammirazione e di speranza, facendoci sempre esclamare: mirabilis Deus in Sanctis suis (Ps 67,36).

Perché questo è il significato del culto dei Santi, il riconoscimento dei doni di Dio in anime fortunate e felici, che tali doni (come i talenti della parabola evangelica) non solo hanno ricevuto, ma hanno in sé e fuori di sé coltivati e moltiplicati.

Ed ecco allora il secondo motivo della nostra gioia: ammirare nella nuova Santa l’epifania, cioè la manifestazione dei doni divini, sia al loro grado iniziale, di doti naturali o di carismi soprannaturali, e sia al loro grado di espansione, di professione, di sviluppo, che caratterizza la particolare e sempre originale fisionomia della Santa che celebriamo. E qui non possiamo tacere l’elogio dello studio dei Santi, cioè della agiografia. Se ogni studio della vita umana, considerata nella sua esistenziale fenomenologia, è sempre interessantissimo (quanta scienza, quante arti vi trovano il loro inesauribile nutrimento! ), quale interesse, quale passione dovrebbe avere per noi lo studio dell’agiografia, cioè delle vite dei Santi, nei quali questo soggetto di studio, ch’è il volto umano, svela segreti di ricchezza, di avventura, di sofferenze, di sapienza, di drammaticità, in una parola, di virtù, che non possiamo riscontrare in pari vigore di esperienza e di espressione, e finalmente di ottimista affermazione, in altri viventi, siano pur essi dotati di straordinarie qualità.

La parola « edificazione » è qui appropriata; la conoscenza della vita dei Santi è per eccellenza una edificazione. Così ricordassero i nostri maestri di spirito e di umanesimo e i nostri educatori del popolo la prodigiosa, staremmo per dire la misteriosa efficacia pedagogica e formativa d’attingere alla scuola dei Santi la vocazione e l’arte di vivere bene, da veri uomini e da veri cristiani! Eccoci dunque oggi, convocati da questa Chiesa nostra, Madre e Maestra, alla scuola della nuova Santa Teresa di Gesù Jornet e Ibars!

Che cosa diremo? noi ci risparmiamo ora l’apologia, che sarebbe di regola, della vita mirabile di questa cittadina della terra dichiarata cittadina del paradiso, e perciò esemplare in molti e meravigliosi suoi aspetti. La brevità stessa di questo discorso sarebbe insidiosa alla sua fedeltà: del resto voi tutti conoscete l’itinerario biografico della Santa; il quale, per nostra fortuna scolastica, si presta alla sintesi più densa e più breve, se osserviamo ch’esso ebbe una sola traccia, altrettanto aspra che rettilinea, quella della carità verso il prossimo; e quale carità ! Dovremo avere tutti la saggezza di descrivere alla nostra meditazione questa polivalente lezione di carità, e senza volerci difendere dalla sorprendente sua somiglianza con altri e non pochi nel nostro tempo profili agiografici, che ci sembrano quasi coincidere in un medesimo, o analogo disegno di vita dedicata alla regina delle virtù, la carità, troveremo fonti di meraviglia e modelli di imitazione nella figura serena, dolce e forte, di questa Santa, specialmente in due aspetti caratteristici, quello della carità rivolta alla vecchiaia abbandonata, carità che (senza far torto a qualsiasi altra sua espressione) ci sembra eroica e originale, e quello dell’avere suscitato nella Chiesa di Dio una nuova Famiglia religiosa, che vediamo qui splendidamente rappresentata, e che tutta si consacra con incomparabile dedizione, al medesimo esercizio di carità cristiana e sociale. Aprire gli occhi, dobbiamo, fratelli e figli, appunto affinché le nostre anime possano godere di così mirabili irradiazioni del Vangelo immortale, del servizio, del silenzio, del sacrificio, dell’amore evangelico, quale Cristo insegna e suscita tutt’oggi nella sua Chiesa.

E alla fine non vogliamo tacere un terzo motivo del nostro gaudio odierno, e lo enunciamo appena, sebbene anch’esso si presterebbe a lunghe dissertazioni. Noi godiamo che Santa Teresa di Gesù Jornet e Ibars sia un nuovo regalo che la Spagna cattolica fa alla Chiesa di Dio e all’umanità del nostro tempo. Sì, ella era spagnola; e noi godiamo che quella terra fiera e generosa sappia ancora germinare fiori di tanta bellezza spirituale e frutti di tanta fecondità umana e sociale.

Noi non vogliamo tacere l’augurio - un vaticinio? - che la Spagna possa sempre trovare nella fedeltà alle sue tradizioni religiose e storiche la fonte della sua piena, originale e magnifica espressione, per la sua libera, organica e compatta interiore unità e per il suo rinnovato impulso al compimento dei gravi e grandi doveri che oggi la storia propone ad ogni civile e progredente società.

L’umile e grande Figlia della Spagna, che noi oggi eleviamo all’onore degli altari, possa essere ispiratrice di pace e di prosperità interiore ed esteriore al suo nobile e piissimo Popolo, e lo conforti ad attingere dalle sue straordinarie energie etniche e morali quel rinnovamento generale e spirituale, individuale e sociale che l’indizione dell’Anno Santo propone ad ogni Nazione, alla nostra santa Chiesa cattolica principalmente.

Così sia, con la nostra Apostolica Benedizione.





B. Paolo VI Omelie 10133