B. Paolo VI Omelie 11474

Giovedì Santo, 11 aprile 1974: SANTA MESSA «IN CENA DOMINI»

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Fratelli miei e Figli carissimi!

Dove siamo? perché siamo qui riuniti? che cosa stiamo facendo? La celebrazione di questo rito esige da noi un momento d’intensa concentrazione.

È pur vero: essa non è in sostanza che una Santa Messa, quale noi celebriamo ogni giorno e moltiplichiamo in tanti luoghi diversi. Ma oggi questo rito vuole assumere il suo pieno e originario significato. Esso vuole ricordare, anzi rinnovare le sue ragioni costitutive, e acquista per noi, in ogni suo aspetto, un rilievo particolare; noi vogliamo onorare la sua misteriosa e complessa realtà; la sua origine, ch’è l’ultima Cena del Signore; la sua natura, ch’è il sacrificio eucaristico; i suoi rapporti con la Pasqua giudaica, memoriale della liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù e poi segno della promessa messianica circa i futuri destini di quel popolo; il suo aspetto innovatore, ch’è l’inaugurazione d’un nuovo Testamento, d’una nuova alleanza, cioè d’un nuovo piano religioso, eminentemente più elevato e più perfetto, fra Dio e l’umanità, mediante il sacrificio d’una vittima unica e nuova, Gesù Cristo stesso . . . Noi siamo collocati all’incrocio delle grandi linee traiettorie dei destini storici, profetici e spirituali dell’umanità: qui si conclude l’Antico Testamento; qui si inaugura il Nuovo; qui l’incontro con Cristo, da evangelico e particolare, si fa sacramentale e universalmente accessibile, qui la intenzione fondamentale della sua presenza nel mondo, con la celebrazione dei due misteri essenziali della sua vita nel tempo e sulla terra, l’Incarnazione e la Redenzione, si svela in gesti ed in parole indimenticabili: «sapendo Gesù, dice infatti il Vangelo, che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (
Jn 13,1), cioè fino all’estremo limite, fino al dono supremo di Sé.

Questo è il tema sul quale ora dobbiamo fissare la nostra attenzione. Non ne saremo veramente capaci, come non sono capaci i nostri occhi di sostenere lo sguardo diretto della luce del sole. Ma non dovranno questi nostri occhi umani e fedeli stancarsi di contemplare ciò che il misterioso fulgore dell’ultima Cena fa risplendere davanti a noi: i gesti dell’amore che si offre e si dà, e che assumono l’aspetto e la dimensione d’un amore assoluto, divino; l’amore che si esprime nel sacrificio.

L’amore, nell’esperienza umana, è un termine terribilmente equivoco, a seconda dei beni a cui si rivolge; può significare le passioni più abbiette e più sordide, può camuffarsi nell’egoismo più esigente e maligno, può bilanciarsi in legittime reciprocità trovandosi pago di ciò che riceve per ciò che ha dato, e può concedersi con calcoli di quasi inavvertito interesse; e può finalmente darsi gratuitamente, realizzandosi nella sua essenziale definizione, per amore, senza considerare il merito di chi lo riceve, né il compenso che gli sarebbe dovuto.

Puro, totale, gratuito, salvifico amore; tale fu l’amore di Cristo per noi: e quest’ultima sera della vita terrena di Lui ce ne offre le prove commoventi e profonde.

Beati noi, se, avidi come siamo di cose grandi e singolari, sapremo soffermarci sullo studio, sulla contemplazione inesauribile di questo amore di Cristo, in certo modo come ci si lascia incantare dalla visione sensibile delle cose sconfinate, del cielo profondo, del mare senza rive, del panorama dai limiti inaccessibili! E ciò tanto più che noi sappiamo come l’Eucaristia, che ora ci abbaglia, è la figurazione, trasparente alla fede, della Croce: quel Gesù, ch’è ora glorioso in cielo alla destra del Padre, vuole essere da noi rilevato nell’atto perenne del suo sacrificio; tale infatti è il significato cruento del Corpo e del Sangue, immolati sulla Croce, a noi apparenti nei simboli incruenti delle specie del pane e del vino. Il Crocifisso è davanti a noi. Dolore ed amore ci inondano. La scena del Calvario sembra delinearsi intorno a noi. La mensa è diventata un altare: «Prendete e mangiate, questo è il mio Corpo; prendete e bevete, questo è il mio Sangue».

Il prodigio continua e si dilata. «Fate questo in memoria di me»: il sacerdozio cattolico nasce da questo amore e per questo amore: ogni fedele cristiano sarà così invitato a questa mensa ineffabile, a questa incomparabile comunione: «Noi, dirà l’Apostolo, siamo un solo corpo, pur essendo molti, poiché tutti partecipiamo dell’unico pane» (1Co 10,17).

Qui lo spirito, fisso nello studio del mistero eucaristico, scopre il profilo del «Cristo totale»: Gesù, il capo e le sue membra formanti un unico mistico corpo, la sua Chiesa, vivente in Lui animata dallo Spirito Santo: ecco i mille e mille eletti alla partecipazione del sacerdozio di Cristo, «stirpe che il Signore ha benedetto» , isti sunt semen cui benedixit Dominus come abbiamo letto nella Missa chrismalis (Is 61,9) di questa mattina; sono i nostri confratelli, sono i nostri collaboratori, ai quali è stato conferito il sacerdozio ministeriale, questa specie di potestà prodigiosa, che ci identifica, sotto certi aspetti, a Cristo medesimo, abilitandoci ad attualizzare la sua sacramentale presenza, e a risuscitare le anime morte per il peccato in virtù della sua operante misericordia. Vada in questo momento a voi, sacerdoti, che qui ci assistete, ed a tutti e ai singoli sacerdoti della santa Chiesa, sparsi sulla faccia della terra, il gioioso .e fremente saluto, - in osculo pacis -, della nostra comunione in Cristo, unico e sommo Sacerdote della nuova Alleanza, da Lui sancita nella Cena sacrificale e memoriale del Giovedì Santo.

E così subito rifulga l’altro prodigio della moltiplicazione sacramentale dell’Eucaristia, resa accessibile, mediante il nostro umile e sublime ministero sacerdotale, nella sua immediata pienezza di comunione con Cristo a tutti e ai singoli fedeli, disposti all’ineffabile incontro: a tutti, ad ognuno di questi fratelli oggi il saluto gioioso della nostra pace.

Che cosa stiamo dicendo? che cosa anzi celebrando? tutta la Chiesa alimentata dall’unico Cristo, vittima immolata per la nostra salvezza, una salvezza consumata nella trasfusione in noi della sua vita divino-umana, mediante la comunione con Lui, fattosi nostro sacramentale alimento? «chi mangia di me, vivrà per me» (Jn 6,56-57), proclama Cristo Gesù. È davvero così? Noi lo ascoltiamo con fede, trasognati, estatici, quasi in un sogno surreale; beati!

Ma il mondo, il nostro mondo, come può accogliere questo messaggio? Non crea esso una distanza invalicabile fra la Chiesa vivente e il mondo moderno, secolarizzato e profano? Oh! è vero! Durus est hic sermo, è difficile questo discorso (Jn 6,60). È difficile, sì; ma è il discorso dell’unità, dell’amore, della gioia, della salvezza, della verità; non è forse discorso anche per l’uomo moderno, per l’uomo autentico, per l’uomo in perenne ricerca di novità e di vita? Noi auguriamo che anch’esso, l’uomo moderno, lo possa, per sua fortuna, comprendere.




Domenica, 28 aprile 1974: BEATIFICAZIONE DI FRANCESCA SCHERVIER FONDATRICE DELLE SUORE FRANCESCANE DEI POVERI

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Unser gruss gilt heute zunächst der Stadt Aachen, dieser geschichtsreichen Stadt in Westdeutschland, und ihrer Diözese, in der unsere neue Selige, Franziska Schervier, die wir in dieser heutigen Feier ehren, geboren ist. Mit überaus grosser Freude sehen wir, wie diese grosse Ordensfrau ihrer berühmten und gesegneten Heimat zur Ehre gereicht, wo die kaiserliche und bürgerliche Geschichte Europas des Mittelalters und der Folgezeit sich mit der Tradition der katholischen Kirche verbindet, und wo im erhabenen Symbol der herrlichen zweifachen Kathedrale sich zwei ursprüngliche stilistische Ausdrucksformen, zwei Arten der Kunst und der Spiritualität, das Romanische und das Gotische nämlich, oder vielmehr zwei Volksarten, die lateinische und die germanische, in zwei berühmten und grossartigen Monumenten, die beide geschichtsreich und für dieselbe christhche Zivilisation äusserst bezeichnend sind, in einer unzertrennlichen brüderlichen Einheit begegnen.

Wir grüssen damit den verehrten Bischof von Aachen, unseren frommen und eifrigen Mitbruder, Monsignore Johannes Pohlschneider, und mit ihm zusammen den Klerus und die Gläubigen seiner Diözese; ferner auch all diejenigen, die aus der angrenzenden und ehrwürdigen Metropolitankirche von Köln und aus dem ganzen Katholischen Deutschland hier persönlich oder im Geiste zugegen sind. Und wie wir glauben, sind es recht viele, die uns alle teuer sind und in Frieden und Eintracht mit uns leben. Sodann gilt unser ehrerbietiger Gruss den Vertretern der deutschen staatlichen Behörden, die zu diesem festlichen Anlass erschienen sind.

Und schliesslich grüssen wir auch die Töchter der Seligen, die Armen Schwestern vom heiligen Franziskus, die heute mit uns und der ganzen Kirche die Freude teilen, von ihrer Gründerirr, der neuen Seligen, Franziska Schervier, die Tugenden offiziell anerkannt, ihre Verdienste gepriesen und ihre lokale Verehrung genehmigt zu sehen.

Noi siamo subito obbligati ad offrire alla medesima nuova Beata il tributo della nostra venerazione, quale da noi esige la narrazione storica della vita di Francesca Schervier; ma noi non oseremo in questo momento tracciare il profilo biografico della Beata, perché esso esigerebbe troppo lungo discorso, e perché pensiamo che la sua figura sia già ben nota agli uditori e alle uditrici presenti a questa cerimonia conclusiva dei lunghi studi analitici e agiografici sempre richiesti per una solenne ed ufficiale beatificazione.

Noi ricorderemo soltanto che il quadro storico nel quale si svolge la vita di Francesca Schervier è quello tanto ricco e complesso dell’ottocento; e precisamente il periodo che va dall’anno di nascita 1819 di Francesca all’anno della sua morte 1876; cinquantasette anni, pochi rispetto all’attività che li ha colmati e alle opere che vi hanno trovato l’origine; periodo storico di intensa trasformazione politica e spirituale, che si svolge dalla nuova configurazione dell’Europa dopo l’epopea napoleonica, e arriva all’affermazione dei due Imperi allora rivali, quello Francese e quello Germanico, dei quali tutti ricordiamo le avventurose vicende. Il quadro geografico invece è quello, dicevamo, della Germania occidentale, nella zona confinante con il Belgio e con la Francia, alla quale la diocesi di Aquisgrana, dal 1797 al 1815, era stata incorporata. Vi sarebbe molto da dire circa l’influsso che le condizioni sociali del tempo e del luogo esercitarono sulla famiglia, impegnata negli uffici civili della città, e sulla formazione della nostra Beata, e quindi circa la sua educazione spirituale e la sua sensibilità sociale. Il nuovo sviluppo civile e industriale era ai suoi inizi, ma in pieno svolgimento; grande attività, ma grandi bisogni; e questi tanto più avvertiti quanto maggiore il primo progresso economico e sociale segnava penosi, trascurati e intollerabili dislivelli nella compagine della popolazione.

Cattolico l’ambiente; donde l’avvertenza più urgente e più dolorosa della presenza dei poveri nella società in evoluzione ed in via di prendere quella coscienza di sé che troverà, alla metà del secolo, le sue più amare e caratteristiche espressioni, sia dottrinali che operative, di cui il nostro tempo sente tuttora le pesanti e colossali conseguenze.

Abbiamo nominato i poveri; e subito ci ricordiamo che la nuova Beata prende da essi la sua qualifica caratteristica: ella è stata chiamata «Madre dei poveri», promotrice audace e vigorosa; fondatrice col genio organizzativo proprio del suo popolo di istituzioni che hanno per oggetto l’assistenza, allora mancante, nelle sue prestazioni più umili e più generose ai poveri, ai bisognosi cioè d’ogni categoria, agli sprovvisti d’ogni aiuto materiale e spirituale. Siamo in pieno Vangelo. Ci piace vedere emergere questa giovane e inerme figura di donna fra altre irradianti somiglianti virtù che il secolo scorso diede alla Chiesa (o meglio: la Chiesa al secolo!); e sarebbe molto interessante e molto edificante studiare l’insieme di questa numerosa e luminosa costellazione, apparsa nel cielo buio dell’ottocento, di anime sante, così consacrate alla carità da immolare non solo se stesse all’amore del prossimo, ma da generare schiere innumerevoli di silenziose ed eroiche seguaci allo stesso amore, allo stesso sacrificio.

E a questo punto la nostra riflessione si dirige spontaneamente sopra un tema immenso, che non possiamo certo esaurire in queste semplici e brevi parole: la santità, cioè la perfezione cristiana, che ammirata in una vita come quella di Francesca Schervier, ci sembra diventare attraente e ammirabile, e svelare anche ad uno sguardo fugace come il nostro la ricchezza dei suoi segreti. Ma anche considerata la santità nel suo aspetto a noi più accessibile, quello della carità, cioè della sua umanità, subito ci accorgiamo ch’essa ha dimensioni sconfinate: la santità della carità, chi la può misurare?

chi la può fino in fondo esplorare? e proprio perché essa, la santità, assume qui il profilo della carità, chi oserà presumere di poterla definire, tenendo conto della sua duplice misteriosa fonte componente? quella della carità divina, carisma soprannaturale per eccellenza, che si fa umana, come ci avverte San Paolo: «la carità di Dio è stata riversata nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo, che ci è stato dato» (
Rm 5,5); e quella della carità umana, che, sempre secondo San Paolo, è descritta in termini senza misura: «la carità (voi ricordate) è longanime, è benigna, . . . soffre ogni cosa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta, e non verrà mai meno»; e così via (Cfr. 1Co 13,4 ss.).

E allora la nostra curiosità, guidata ora dalla nostra pietà, si domanda se la santità, così umanizzata dalla carità, ci offra ancora i segni religiosi, che sembrano più evidenti in altri tipi di santità. La santità della penitenza, ad esempio, ovvero quella dell’orazione e della contemplazione, quella della sofferenza e del martirio, non sono forse più trasparenti nella rivelazione della presenza divina dimorante, ovvero operante nella santità? È un confronto difficile, che solo nei fatti può trovare risposta. Ma nel caso nostro i fatti parlano.

E qui noi vorremmo invitare gli osservatori e ancor più i devoti della Beata Francesca a rilevare sia la frequenza di momenti e di episodi soprannaturali, divini certamente nella loro causa, che la sua biografia chiaramente registra, sia la continua conversazione con Dio sempre ardente nella esperienza spirituale della Beata, non distratta, ma piuttosto francescanamente attratta al divino colloquio della stessa attività caritativa esteriore, come Cristo ci insegnò: Egli si fa presente nell’uomo povero e disgraziato (Cfr. Mt 25,35 ss.).

Leggete la storia della Beata Francesca Schervier. Noi qui ci limitiamo alla citazione d’una sola, tipica testimonianza: «Tutto il suo fare era come se Dio fosse stato sempre in lei» (Test. Ap. Ap 34). Sia lezione memorabile per noi.

Ausser diesem inneren Licht strahlt die Liebe der neuen Seligen, Franziska Schervier, noch ein anderes, ausseres Licht aus, das die Heiligkeit ihres Lebens bezeugt. Es ist ihr Beispiel. Es ist ihre christliche Vollkommenheit, die zur Nachahmung empfohlen wird, und zwar nicht nur den Personen, die sich dazu entschlossen haben, in ihrer Nachfolge zu leben, sondern auch den Christglaubigen, die ihr Taufversprechen treu verwirklichen wollen, obwohl sie ihre Berufung inmitten der Welt zu verwirklichen haben. Mitunter sind die Heiligen mehr zu bewundern als nachzuahmen; die selige Franziska hingegen bietet sich als ein Vorbild franziskanischer Heiligkeit in beispielhafter Weise zur Nachahmung an.

Wenn die Heiligkeit im Grunde darin besteht, dem Willen Gottes entsprechend zu leben, so können wir im ganzen Leben der seligen Franziska, ja schon von frühester Jugend an, die stete Absicht feststellen, in Übereinstimmung mit dem Willen Gottes zu handeln; eine Absicht, die in einigen Augenblicken fast ängstlich, aber doch immer fest und zuversichtlich gewesen ist. Dies ist, wie ein Biograph von ihr schreibt, der vorherrschende Charakterzug ihrer Heiligkeit.

Zeigt uns sodann nicht diese ihre franziskanische Berufung, die von ihr mit der Treue und dem entschlossenen Einsatz gelebt wurde, die der starken deutschen Geistesart zu eigen ist, und die schliesslich auch mit bewundernswerter Anpassung San die moderne amerikanische Pädagogik in die neue Welt übertragen wurde, - zeigt uns diese ihre Berufung nicht wiederum, wie ewig gültig und doch anpassungsfähig das evangelische Ideal ist, das in dem Heiligen von Assisi personifiziert und mit solch magischer Anziehungskraft dargestellt wird? Lehrt sie uns nicht, wie dieses mit seinen fast widersprüchlich erscheinenden, aber doch wirklich christlichen Forderungen von lauteren christlichen Seelen jeder Zeit und jedes Volkes immer wieder neu gelebt werden kann? Die Beispielhaftigkeit unserer Seligen wird insbesondere von euch bezeugt und verkündet, liebe Armen-Schwestern vom heiligen Franziskus, denen heute die ganze Kirche durch uns ihr Lob und ihre Ermutigung zum Ausdruck bringen will.

So möge man also von der Armut sprechen, die die selige Franziska mit mutiger Strenge hat üben wollen, um ihre ganze Liebestätigkeit gleichsam noch opfervoller, aber zugleich auch überzeugender in ihrem evangelischen Zeugnis zu machen. Ist nicht diese Armut eine beispielhafte Lehre für uns Katholiken und insbesondere für unsere Gesellschaft, die den Besitz und den Genuss der zeitlichen Güter in ihren Programmen und ihrer Weltanschauung an die erste Stelle setzt?

Und werden nicht auch wir, gerade an diesem Tag der kirchlichen Ehrung dieser «Mutter der Armen», ihr Beispiel, ihre Einladung und ihren Aufruf zur Liebe der Armen in der Kraft der Liebe und dem Gebot Christi uns zu Herzen nehmen? Erblicken nicht auch wir in dieser erneuten Verteidigung der Armen, die vor der Kirche und der Welt unserer Zeit geschieht, die iiberzeugendste Ermahnung, aus unserem christlichen Bekenntnis den Antrieb und den Geist ftir ein echtes und wirksames Sozialprogramm zugunsten so vieler armer oder notleidender Brtider zu schtipfen, die wir immer unter uns haben? (Vgl. Jn 12,8) Dies lehre uns und dazu verhelfe uns die selige Franziska Schervier!

Hierzu erteilen wir euch allen von Herzen unseren Apostolischen Segen.

Diamo una nostra traduzione dei saluti rivolti dal Santo Padre agli intervenuti nella basilica, all’inizio dell’Omelia.

Salutiamo dapprima Aquisgrana, la storica città della Germania occidentale, la diocesi che ha dato i natali alla nuova Beata, che oggi festeggiamo, Francesca Schervier. Con immenso gaudio noi vediamo questa grande figura religiosa onorare quella sua patria gloriosa e benedetta, dove la storia imperiale e civile dell’Europa medioevale e successiva s’intreccia con la tradizione della Chiesa cattolica, e dove nel sublime simbolo della sua stupenda, duplice cattedrale sembrano incontrarsi in un inseparabile abbraccio fraterno due espressioni stilistiche originali di due forme d’arte e di spiritualità, il romanico e il gotico, anzi due forme etniche, quella latina e quella germanica, in due monumenti celebri e magnifici, entrambi storici, altamente significativi, d’una medesima civiltà cristiana, Salutiamo così il venerato Vescovo di Aquisgrana, il pio e zelante Fratello nostro Monsignor Giovanni Pohlschneider, e con lui il Clero ed i Fedeli della suddetta diocesi, con quelli della non lontana e degnissima Chiesa metropolitana di Colonia e di tutta la Germania cattolica, qui presenti di persona, ovvero in spirito, e pensiamo siano moltitudine, da noi amatissima e con noi in pace e concordia; come pure il nostro rispettoso saluto si rivolge alle Autorità civili tedesche che hanno voluto intervenire a questa solenne cerimonia.

Ma poi il nostro saluto va alle Figlie della Beata, le Religiose Suore Francescane dei Poveri, che oggi hanno con noi e con tutta la Chiesa la gioia di vedere ufficialmente riconosciute le virtù, esaltati i meriti, autorizzato il culto locale della loro fondatrice, la nuova Beata Francesca Schervier.







Sabato, 8 giugno 1974: CONCELEBRAZIONE CON I VESCOVI ITALIANI

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Cari e venerati Fratelli in Cristo Signore!

Eccoci ancora una volta uniti nella celebrazione dei santi misteri dell’ultima Cena di nostro Signore Gesù Cristo, cioè della nostra santa Messa, la quale attualizza fra noi la sempre viva, sempre identica, sempre autentica memoria di Lui; riporta come per noi pronunciate le sublimi ed inesauribili parole di quel suo transito rituale e drammatico; realizza mediante il nostro umile, ma prodigioso ministero sacerdotale la presenza reale, sacramentale, adorabile di Lui, Gesù Signore; rispecchia con misteriosa fedeltà, che ignora ogni distanza di tempo, di luogo, di circostanze, la tragica immolazione di Lui sulla croce, e fa di questo convito un sacrificio, il vero sacrificio redentore a noi disponibile, offrendo poi come nostro alimento santificante e vivificante, sotto le specie del pane e del vino la carne ed il sangue della Vittima divina; Cristo celebra così in noi, sue mistiche membra, la estensiva pienezza del nostro unico e sommo Capo, Cristo, che è appunto il Capo della Chiesa, che noi siamo; Egli ci fa gustare l’inebriante effusione del suo Spirito Paraclito; e rischiara in noi il vero senso della vita presente coll’irradiante promessa della sua futura gloriosa parusia. Tanta è la ricchezza del sacrificio eucaristico.

Ma un pensiero del Signore, un suo voto, sovrasta e conclude questo suo testamento; ne abbiamo raccolto la ripetuta espressione ascoltando l’annuncio del brano evangelico, scelto per questa celebrazione; ed un suo desiderio a noi rivolto, come ai successori degli Apostoli, come ai più diretti e qualificati eredi nella fede della loro testimonianza, oggetto noi pure di una intenzionale preghiera di Cristo al Padre celeste: «Io prego, disse Gesù in quel supremo anelito del suo cuore messianico, anche per quelli che mediante la loro parola (di Apostoli) crederanno in me, affinché» . . . e sono due gli scopi di così tesa e ardente preghiera di Cristo, «affinché siano tutti uno», primo scopo; «uno in noi, affinché», secondo scopo, «il mondo creda che Tu mi hai mandato . . .». E subito ripete, quasi rafforzando di lirico sentimento e di teologica profondità, il suo sovrano desiderio: «affinché siano perfetti nell’unità e il mondo riconosca che Tu mi hai mandato, e che Tu li hai amati, come hai amato me» (
Jn 17,20 Jn 17,23).

L’unità, vertice del Vangelo per i seguaci di Cristo, per i suoi apostoli, per i suoi ministri specialmente; e unità, apologia del Vangelo e della fede di fronte al mondo, all’umanità.

A questo centro focale della nostra vita religiosa sempre ci chiama il divino Maestro, l’unità, in cui si immedesimano la fede e la carità; ci invita il recente Concilio, che ha riaperto all’ecumenismo i suoi convergenti sentieri; e ci conduce, quasi per provvidenziale maturazione storica, la teologia e la struttura canonica della Chiesa cattolica: l’unità.

Prendiamo coscienza di questo sacro momento, nel quale noi stiamo celebrando una forma di unità assai bella e significativa per la comunità ecclesiale italiana, quale, prima di questi nuovi piani organizzativi dell’assemblea nazionale dell’episcopato, non mai in questo Paese era stata celebrata. Segniamo nei nostri cuori quest’ora come storica; sì, un’ora preziosa e dinamica di unità, e riconosciamo a questa unità numerica, esteriore, occasionale il suo valore trascendente, spirituale e impegnativo. Essa è un fatto collegiale; non ci ha forse il Concilio fatto progredire nella conoscenza di questo aspetto costituzionale dell’ordine episcopale? Nessuno di noi dovrà sentirsi diminuito dalle esigenze di carità, di concordia, di collaborazione, a cui la collegialità educa i suoi membri; né dovrà credersi esonerato dall’esercitare in pienezza personale il proprio ufficio pastorale per il fatto che nuove strutture collettive, proprie delle conferenze episcopali, si assumono funzioni di servizio comune.

Questa unità inoltre è l’espressione più autentica e più autorevole d’una proprietà essenziale della Chiesa, quella d’essere comunione.

L’unità cattolica è comunione. Questa è titolo che compete globalmente a tutta la Chiesa; e noi dobbiamo essere i primi a riprodurne lo spirito e le forme in questa conferenza episcopale; non solo, ma altresì nella coscienza e nelle espressioni associative della Chiesa Italiana; una Chiesa tanto più corrisponde alla sua definizione di Chiesa autentica di Cristo quanto meglio riflette in se stessa, nella sua animazione e nelle sue concrete strutture il principio profondo e costituzionale dell’unità. Il pluralismo delle opinioni e dei raggruppamenti, che ora si diffonde anche nell’area cattolica, non ci lascia indifferenti e del tutto tranquilli, come quello che ci sembra spesso derivare non già da un proposito di un libero, ma organico e sostanzialmente unitario sviluppo del corpo ecclesiale, ma piuttosto da un inquieto, ed in fondo egoistico, istinto di autonomia dispersiva, di cui la storia della Chiesa riporta dopo secoli ancora il doloroso e inqualificabile strazio, nonostante che sovente si qualifichi con equivoci e spesso abusivi titoli comunitari, nell’atto stesso che alla vera ed unica comunione, ch’è la Chiesa, compaginata in un solo corpo dalle membra diverse nelle forme e nelle funzioni, ma insieme fedelmente cospiranti all’armonia d’unica vita, portano offesa (Cfr. 1Co 12,12 ss.; Ep 4,25 Col 3,11 Rm 12,1 ss.).

Vi è oggi chi parla con enfasi di comunione ecclesiale, e si appella ad essa come alla sua propria anagrafe soprannaturale; ma spesso, pur troppo, più avido d’affermare propri particolari carismi, o di difendere suoi personali diritti, contestando insieme aspetti storici e canonici della Chiesa vivente e visibile, che di mantenersi nella docile, filiale ed esemplare obbedienza alla legittima potestà ecclesiale; praticamente, se non sempre con aperto dissenso, egli si svincola da tale perfetta comunione, non badando che con tale suo ostile contegno egli recide da sé il tralcio, che lo sostiene e lo unisce alla mistica pianta dell’unità, ch’è lo stesso Cristo nostro benedetto Signore, un solo mistico Essere con la sua Chiesa.

Abbiamo bisogno di unità, noi Vescovi per primi, che abbiamo la missione di promuoverla, di tutelarla, testimoniarla, di servirla, di viverla, nel circuito della fede e della carità (Cfr. Ep 4,15-16).

Questo tema ci obbliga ad accennare, anche in questa sede tanto spirituale e serena, al risultato del recente Referendum, il quale ha procurato a noi la dolorosa conferma di vedere documentato quanti cittadini di codesto sempre dilettissimo Paese non siano stati solidali in un esperimento relativo a tema, l’indissolubilità del matrimonio, che avrebbe dovuto, per indiscutibili ragioni civili e religiose, trovarli assai più concordi e più comprensivi.

Noi non ne faremo per questo un argomento di ormai superate polemiche.

Faremo piuttosto un paterno appello agli ecclesiastici e religiosi, agli uomini di cultura e di azione, e a tanti carissimi fedeli e laici di educazione cattolica, i quali non hanno tenuto conto, in tale occasione, della fedeltà dovuta ad un esplicito comandamento evangelico, ad un chiaro principio di diritto naturale, ad un rispettoso richiamo di disciplina e comunione ecclesiale, tanto saggiamente enunciato da codesta Conferenza Episcopale e da noi stessi convalidato: li esorteremo tutti a dare testimonianza del loro dichiarato amore alla Chiesa e del loro ritorno alla piena comunione ecclesiale, impegnandosi con tutti i fratelli nella fede al vero servizio dell’uomo e delle sue istituzioni, affinché queste siano internamente sempre più animate da autentico spirito cristiano.

Noi esprimeremo l’augurio che un vigilante senso di personale e comunitaria responsabilità si alimenti negli animi di tutti, specialmente dei coniugi, di coloro cioè che hanno scelto lo stato coniugale per dare felicità e valore alle loro esistenze, e poi particolarmente di quanti hanno missione pastorale, educativa, o sociale nel popolo, e pregheremo Iddio che tale senso vitale rimanga inviolabile presidio e umanissimo vanto della famiglia italiana. Ed esortiamo perciò tutti coloro che hanno dovere e possibilità ad intensificare la loro opera per dare ai valori ed ai bisogni familiari sempre più sollecita ed adeguata assistenza.

Venerati fratelli!

Riprendiamo la celebrazione della Santa Messa

Con questo invito all’unità, è in noi la riconoscenza per la testimonianza che la stessa vostra presenza ci dà; è in noi la compiacenza per il lavoro compiuto dalla vostra assemblea, specialmente in ordine all’Evangelizzazione circa i Sacramenti della Penitenza e dell’unzione agli Infermi; lodiamo e incoraggiamo le vostre iniziative per l’Anno Santo; e vi preghiamo di portare alle vostre diocesi, e specialmente ai sacerdoti, la benedizione che a voi diamo con tutto il cuore.




Giovedì, 13 giugno 1974: SOLENNITÀ DEL «CORPUS DOMINI»

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Figli e Fratelli carissimi!

State a sentire. Noi vi diremo d’un dubbio che ci è sorto nell’animo, quando ci siamo proposti di venire fra voi per celebrare insieme la festa del «Corpus Domini». E il dubbio è questo: se la nostra presenza fra voi avrebbe davvero giovato alla celebrazione d’una solennità religiosa come questa, tutta concentrata sul culto quanto mai ardente, esteriore ed interiore, personale e comunitario, della santissima Eucaristia, sul mistero della presenza sacramentale e sacrificale di nostro Signor Gesù Cristo, ovvero se questa mia venuta in questo quartiere, in questa parrocchia, sarebbe stato motivo, sì, di giubilo e di affollamento, ma piuttosto di distrazione, che di attrazione al vero oggetto della vostra devozione.

Cioè, ci siamo nel cuore domandati se la nostra presenza avrebbe interessato maggiormente la vostra attenzione che non la presenza, sola degna della vostra letizia e della vostra adorazione, di Gesù nascosto e palese nel sacramento eucaristico. Due presenze: la nostra straordinaria, visibile, umana, rappresentativa, sì, del Signore, ma infinitamente inferiore, trascurabile anzi al confronto della presenza consueta, è vero, ma prodigiosa, sacra, divina, incomparabile di Cristo Signore.

Perciò, noi ci siamo proposti, quando abbiamo deliberato di venire oggi, qua, al Quadraro, alla ancora giovane Parrocchia dell’Assunzione di Maria Santissima, di dirvi questa breve parola, che stiamo pronunciando, non tanto sulla nostra personale presenza, la presenza del Papa (ne diremo, se mai, un cenno dopo, alla fine della cerimonia), ma sulla presenza reale, misteriosa, ma vera, di Lui, di Gesù, qui al Quadraro, in questa nascente comunità; la presenza divina del Signore, che merita tutto il nostro interesse e che è il motivo principalissimo di questa festività del «Corpus Domini».

E questo invito a fare convergere la vostra attenzione su Gesù, sul Gesù del Vangelo, sul Gesù dell’ultima cena, sul Gesù della Croce, sul Gesù risorto, sul Gesù ora nella gloria del cielo, «assiso alla destra del Padre» (come cantiamo nel Credo), ha un primo motivo semplicissimo, ma decisivo, che la nostra persona non meriterebbe alcuna speciale considerazione, se non fosse quella d’un Vescovo, d’un Papa, cioè d’uno che fa le veci, d’un Vicario, d’un rappresentante, quella d’un ministro, che vuol dire d’un servitore, che trae tutta la sua dignità e la sua autorità da Colui che lo ha eletto a fungere in suo nome. Perciò quanto più voi guardate a noi, con filiale affezione e con compiacenza per la nostra visita, tanto più guardate a Lui, a Cristo, presente nel nostro ministero.

E fissate il vostro pensiero, oggi più che mai, affinché diventi abituale e sempre ispiratore, sul fatto misterioso e centrale di tutta la nostra fede, quello appunto della Presenza del Figlio di Dio, fatto uomo, fra noi; mistero dell’Incarnazione, che ci autorizza a ripetere il vero nome di Gesù, nato da Maria e abitante a Nazareth, il nome di «Dio con noi» (Cfr.
Is 7,14 Mt 1,23). Nobiscum Deus! E allora noi vediamo raccogliersi sotto questo appellativo, proprio di Gesù, il disegno, il senso della venuta in questo mondo, l’intenzione direttiva della sua apparizione fra noi uomini, nella storia dell’umanità: questa intenzione si risolve in un nome, tanto comune e spesso profanato, che qui assurge alla vetta della divinità; questo nome è amore. «Così Dio ha amato il mondo, da dare il suo Figlio unigenito» per la sua salvezza (Jn 3,16; cfr. Ep 2,4 Ep 5,2 etc.). Tutta la nostra religione è una rivelazione della bontà, della misericordia, dell’amore di Dio per noi. «Dio è carità» (1Jn 4,16), cioè amore che si effonde e si prodiga; e tutto si riassume in questa somma verità, che tutto spiega e tutto illumina. La storia di Gesù bisogna vederla in questa luce: «Egli mi ha amato», scrive San Paolo, e ciascuno di noi può e deve ripeterlo per sé: Egli ha amato me, «e ha sacrificato se stesso per me» (Ga 2,20).

E allora noi comprendiamo qualche cosa anche dell’Eucaristia, che oggi noi pubblicamente celebriamo. L’Eucaristia è un mistero di presenza, dovuta all’amore. «Non vi lascerò orfani, Io verrò a voi», disse Gesù lasciando capire che la sua vita temporale era alla fine.

Promessa dolcissima, che dopo la risurrezione diventa solenne, e segna il destino e la realtà della nostra storia religiosa ed umana: «Ecco, Io sono con voi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).

Dio con noi; Cristo con noi! Tutto il cristianesimo è un fatto, un mistero, di Presenza.

E se noi, questa sera, siamo qui, è proprio per questo scopo: per ridestare in noi, in voi, in quanti ascolteranno l’eco della nostra voce, l’avvertenza di questa realtà, vera e soprannaturale: qui è Gesù. Dove si celebra l’Eucaristia si svela e si proclama questo «mistero della fede»: qui è Gesù, il Cristo, il Salvatore nostro, vivo e vero. Presente!

Quando lasciamo che questa soave e tremenda verità entri nelle nostre coscienze, noi non possiamo più rimanere indifferenti, impassibili e tranquilli: è qui! il primo nostro sentimento è di adorazione e di esultanza; e quasi di confusione: che cosa dobbiamo fare? che cosa dobbiamo dire? cantare? piangere? pregare? o forse tacere e contemplare, come la Maria, sorella di Marta tutta agitata e sollecita di servire il Signore, mentre ella, Maria, «seduta ai piedi di Gesù, lo ascoltava parlare»? (Lc 10,39) Di qui nasce il culto eucaristico.

Ma un secondo sentimento c’invade, quello d’una legittima curiosità. La dottrina cattolica, espressione della nostra fede, ci assicura: Cristo, vivo, vero, reale, è presente. E allora una serie di questioni sorgono nel nostro spirito: è presente? ma come? dove? e perché? E si lascia Egli forse vedere, avvicinare, toccare, come faceva la gente nel Vangelo? (Cfr. 1Jn 1,1) È nascosto; ma è identificabile? e perché nascosto? e come simultaneamente può Egli essere in tanti luoghi? è forse questa una nuova e ripetuta miracolosa moltiplicazione dei pani? e come può Egli essere cibo, di cui nutrirsi? pane e vino si trasformano in carne e in sangue, com’era Gesù sulla croce? «è difficile questo discorso»! (Jn 6,60) Di qui nasce la teologia sull’Eucaristia. Sì, è difficile. Ma sapete che Gesù fu inflessibile nell’esigere che il suo grande discorso sul mistero eucaristico fosse testualmente accettato (Cfr. Jn 6,61 ss.).

Bisogna credere. Credere alla Parola e sulla Parola di Cristo. Noi ora dicevamo: è mistero di fede. Ma non del tutto incomprensibile, anche al timido nostro cervello: come un’unica immagine può riflettersi identica in quanti specchi la riprendono; come una stessa voce può essere raccolta da quanti orecchi la ascoltano; come una stessa parola può farsi pensiero in quanti la comprendono, così un unico Gesù può essere presente nei molti, innumerevoli segni sacramentali che lo rappresentano; ma ciò non senza un divino prodigio, e il prodigio consiste nel fatto che non si tratta qui, per divina virtù, d’una semplice rappresentazione, d’un semplice segno significativo, d’una figura sacramentale; si tratta che in questa stessa figura, cioè sotto le specie del pane e del vino una Realtà si nasconde, che si sostituisce alla sostanza del pane e del vino, e questa Realtà è Gesù stesso, la sostanza del suo corpo e del suo sangue, Lui stesso in una parola, rivestito da quelle umili apparenze (Cfr. S. TH. III 73,6).

Ma ascoltate un istante. Proprio a questo punto, ch’è per noi superiore alla nostra esperienza e alla nostra intelligenza, noi cominciamo a capire molte cose meravigliose, che ci lasciano intendere, se non il come, il perché Gesù ha voluto farsi sacramento eucaristico. Perché? per essere di tutti. Si è moltiplicato in questo straordinario modo per essere disponibile a ciascuno di noi. E quindi per fare di noi tutti una cosa sola, il suo Corpo mistico, la Chiesa una (1Co 10,17). Ma la domanda insiste: ma perché disponibile come alimento? non è strano, impensabile che Cristo si sia voluto fare cibo per noi?

Ecco una nuova meraviglia: Cristo si è fatto cibo spirituale per dimostrarci ch’Egli è a noi necessario: senza cibo non si vive, e poi ch’Egli è il vero nutrimento, interiore e personale, di vita eterna, di cui noi tutti abbiamo bisogno e di cui tutti, se vogliamo, abbiamo la fortuna di nutrirci, di compenetrarci in «comunione» con Lui, per il sostegno attuale e la pienezza immortale della nostra esistenza.

Incalza un’altra domanda: e perché Gesù ha voluto distinguere questo sacramento in due specie diverse, pane e vino, involucri sensibili di ben altro sostanziale contenuto? solo per dare sotto queste figure cibo e bevanda alla fame delle nostre anime? (Cfr. S. TH. III 73,2) Sì; ma la risposta sarebbe più lunga e più complessa. Del resto voi, fedeli cristiani, già la conoscete così: Gesù ha voluto dare a questo sacramento un duplice significato di sacrificio: sostitutivo l’uno di quello della Pasqua ebraica, facendosi Lui stesso l’agnello della liberazione; figurativo l’altro di quello della sua crocifissione, che dalla carne martoriata fece sgorgare il sangue della redenzione. Gesù nell’Eucaristia è la vittima, che rispecchia in sé l’unico e valido sacrificio redentore, quello della Croce, partecipando al quale, mediante la comunione, noi siamo associati ai frutti della immolazione salvatrice di Cristo.

Quante cose! quanti misteri confluenti in questo centrale mistero della fede nella presenza reale di Cristo nell’Eucaristia! Come ricordarli tutti? come riviverli nella nostra vita, individuale e ecclesiale?

Ebbene: ricordate almeno una parola di Gesù; ascoltate una sua voce. È quella del suo invito evangelico: «Venite a me!».

Sì: «Venite a me voi tutti che siete affaticati ed oppressi, ed Io vi consolerò» (Mt 11,28).

Sì, l’Eucaristia è una presenza che invita. Invita come un amico, avvicinandosi tacitamente, aspettando senza tregua, pronto a ricevere tutti. Invita ad una mensa, ch’è tutta una celebrazione dolcissima, di unione, di dolore, di amore. È una chiamata rivolta di preferenza a chi più soffre e fatica; a chi è povero e piange; a chi è solo e senza aiuto; a chi è piccolo e innocente. Gesù chiama e invita.

La sua voce arriva anche ai lontani, agli illusi, ai fuggiaschi fuori strada. Venite, l’ingresso è libero, ai pentiti ed ai credenti.

Venite, Egli dice: «Io sono la via, la verità e la vita» (Jn 14,6).

È questa la sua voce, che oggi si effonde da questo silenzioso sacramento, presente in mezzo a noi. Sollevato in questa sua festa davanti a tutto il popolo, Egli, con il suo accento divino ed umano, esclama, come già camminando sulle onde apparve ai suoi discepoli, nella burrasca notturna del Vangelo: «Abbiate fiducia; sono Io, non abbiate timore» (Mt 13,27). Venite!

Così sia!





B. Paolo VI Omelie 11474