B. Paolo VI Omelie 30674

Domenica, 30 giugno 1974: XI ANNIVERSARIO DELLA INCORONAZIONE DI SUA SANTITÀ

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Diletti Figli,

Venerati Fratelli,

e, fra tutti, Voi, Candidati alla dignità e all’ufficio episcopale nella Chiesa di Dio!

Il sacro rito, che noi stiamo compiendo, esige a questo punto una pausa; una pausa di riflessione.

Come, durante l’ascensione faticosa verso la vetta d’una montagna, l’alpinista arresta un istante il suo passo per riprendere lena e per rendersi conto del suo cammino e del panorama, che si apre davanti al suo sguardo, così noi sospendiamo per un breve momento preghiere, canti e cerimonie, e cerchiamo di renderci conto, per quanto è possibile, del nostro singolare itinerario spirituale, di riassumerne i temi religiosi, e di chiarire al nostro confuso pensiero il senso ed il valore dell’ordinazione episcopale, che noi, ministri di questo sacramento, stiamo conferendo, e che voi Fratelli, destinati alla pienezza del Sacerdozio, state ricevendo.

Quale immensa meditazione si offre al nostro spirito! Noi non osiamo certamente pretendere di contenerla nello stretto spazio di tempo e di studio di queste semplici parole, né di delinearla adeguatamente in una breve sintesi, che tuttavia un rito così grave, così solenne, così importante suggerirebbe alle nostre labbra. Noi diremo soltanto, per desiderio di brevità e di chiarezza, che a noi, in questo momento d’intensa attenzione interiore, è domandato un umile e fiducioso atto di coscienza.

Di coscienza, innanzi tutto, della personale elezione, che il conferimento di questo Sacramento mette in chiara evidenza. Noi, già insigniti di tanta grazia, e voi, Fratelli che state per esserlo, siamo qui, perché siamo stati chiamati. Nec quisquam sumit sibi honorem, sed qui vocatur a Deo, non vi è alcuno che assuma da sé questa dignità, se non è chiamato da Dio (
He 5,4). Chi oserebbe assumere di propria iniziativa questo ufficio (anche se le sue provvidenziali funzioni possono essere per se stesse desiderabili, come scrive San Paolo al fedele discepolo Timoteo) (1Tm 3,1), se non fosse sicuro che la sua investitura gli viene conferita per divino volere? e chi potrebbe essere garantito della sua prodigiosa validità, se non sapesse ch’essa deriva, per via apostolica, dall’originaria, insostituibile istituzione di Cristo stesso? Non vos me elegistis, sed Ego elegi vos, non voi avete eletto me, dice il Signore, ma Io ho eletto voi (Jn 15,16). Qualunque sia la nostra privata vicenda biografica, che qua ci conduce, purché canonicamente fondata, cioè secondo la legittima economia dello Spirito, noi scopriamo un’intenzione divina che ci riguarda ciascuno personalmente, una storia retrospettiva, analoga a quella per cui ci è stata regalata la vita, che ci rivela un pensiero, un’elezione, un amore di Cristo per ciascuno di noi. Nel chiarore di un’alba evangelica, narra il Vangelo, dopo aver passato la notte in preghiera (quale preghiera!) Gesù «chiamò i suoi discepoli, ne scelse dodici fra di essi, e conferì loro il nome di apostoli» (Lc 6,13).

Quella veglia, per il nostro tempo, quella preghiera, per la nostra sorte, non sono concluse; come fari irradianti dal cuore divino, nell’oscurità dei secoli, si riverberano segretamente e qui apertamente, su ognuno di voi Fratelli; l’eco delle parole estreme di Cristo ai discepoli arriva fino a questa scena presente, a questo momento benedetto: «Io prego, Egli disse, non solamente per essi (i discepoli di prima elezione, presenti all’addio del Signore alla vigilia della sua passione), ma anche per quelli che, mediante la loro parola, Egli soggiunse, crederanno in me, affinché siano tutti uno; come Tu, o Padre, sei in me e Io sono in Te, anch’essi siano uno in Noi, così che il mondo creda che Tu mi hai mandato» (Jn 17,20-21). Quel sacerdotale messaggio di Cristo arriva ora fino a noi; un mistero di unità si compie; una missione apostolica ne deriva e si protende nel tempo e nell’umanità.

Diciamo questo, o Fratelli eletti all’Episcopato, affinché una nuova mentalità, una nuova psicologia, un nuovo spirito si formi in voi, ed anche in noi si riformi, quasi fossimo tutti insieme investiti e magnetizzati dal cono di luce e di virtù emanante dallo Spirito Santo, abilitandoci al ministero superiore di reggere, servendola, la Chiesa di Dio (Cfr. Ac 20,28). Diciamo questo, Fratelli eletti, affinché invasi da questa sovrumana coscienza siate lieti, siate forti, siate fiduciosi sempre (Cfr. Ph 1,20), e possiate voi stessi essere sorgenti di consolazione per gli altri fedeli nelle loro tribolazioni (Cfr. 2Co 1,4).

Ed ecco allora che la tensione di questa nuova coscienza ci apre una successiva interiore visione, quella d’essere noi portatori qualificati di un tesoro, fragile e prezioso (Cfr. 2Co 4,7), messo nelle nostre mani, per dispensarlo, accrescerlo, custodirlo e difenderlo. Qual è questo tesoro? è il Vangelo vivo ed eterno di Cristo; è la sua Verità liberatrice e salvatrice; è il famoso e geloso «deposito» della fede da salvaguardare e da autenticare nella sua sempre viva integrità, mediante lo Spirito Santo (Cfr. 1Tm 6,20 2Tm 1,14).

Sì, Fratelli, una grande responsabilità sarà anche vostra, quella del ministero della parola, proclamante la divina verità, quella del magistero autorevole e fedele nella Chiesa di Dio, quella dell’annuncio missionario della dottrina cristiana, quella della tutela e della crescita del patrimonio della cultura cattolica. Sarà l’esercizio di tale responsabilità magisteriale uno dei doveri principali della funzione episcopale, reso oggi tanto più grave e salutare quanto maggiori sono la diffusione e lo smarrimento del pensiero speculativo moderno.

La cultura umanistica, abbandonata la sperimentata sapienza della tradizione, preferisce, oggi e spesso esclusivamente, compiacersi nella scienza del calcolo e della osservazione sperimentale, limitandosi alla conoscenza del mondo esteriore, empirica e sensibile, per cui è tanto difficile alla mente dell’uomo contemporaneo assurgere alla conoscenza razionale e metafisica, e tanto di più a quella, pur sempre ragionevole, della religione e della fede. L’arte del pensiero veramente umano e vitale esigerà dal vostro ministero uno sforzo pedagogico particolare e perseverante. Troverete anche voi, nella professione del vostro irrinunciabile ministero dottrinale, che una inquieta e talvolta ribelle ricerca è preferita al possesso sicuro e fecondo della verità conosciuta, un’opinione spesso servile e volubile è preferita alla coerenza positiva e dinamica della ragione, un’ipotesi gratuita e di moda è preferita alla esigenza sempre valida del senso comune, e così una critica aprioristica ed eversiva prevarrà facilmente alla analisi obiettiva della realtà, come pure uno stato di dubbio sistematico all’adesione equilibratrice e feconda della certezza.

Ben sappiamo che il possesso e lo studio della verità religiosa, quale la rivelazione cristiana offre al nostro spirito, si affermano e si sviluppano, oltre che nella sfera razionale, nel regno del mistero, di quel «pietatis sacramentum» di cui scrive San Paolo, e che contiene in sintesi il disegno trascendente della nostra salvezza (Cfr. 1Tm 3,9 1Tm 3,6); ma sappiamo altresì che tale mistero, lungi dal fiaccare la nostra nativa e divina facoltà di pensare «in spirito e verità» (Cfr. Jn 4,24), la esige e la corrobora.

Grande responsabilità, dunque, è quella del Vescovo che avverte nell’urgenza della sua coscienza il dovere d’essere al tempo stesso discepolo, il più fedele, e maestro, il più zelante, della divina dottrina (1Tm 4,13 1Tm 4,16).

Ma non è tutto. Il processo dell’interiore consapevolezza di ciò che un Vescovo è, non finisce a questo per quanto amplissimo limite soggettivo, ma piuttosto si apre ad una nuova esigenza, che potremmo dire costitutiva, della personalità di lui. Il Vescovo, come il Sacerdote, ed in grado superiore, non è tale per se stesso, lo è per il Popolo di Dio. L’Episcopato non è una semplice dignità per colui che ne è investito; è una funzione, un ministero, un servizio per la Chiesa. «Devi sapere, scrive San Cipriano, fin dalla metà del terzo secolo, che il Vescovo è nella Chiesa, e la Chiesa è nel Vescovo» (Ep 66,8 cfr. Lumen Gentium, LG 23, nota 31); e ciò non soltanto per celebrare un mistero di unità, ma un dovere, una dedizione, un sacrificio di carità. Il Vescovo è pastore. Ora «il buon pastore, dice Cristo di se stesso, personificando ed esemplificando in sé chiunque sia chiamato ad assumere la sua figura e la sua funzione nella Chiesa di Dio, il buon pastore dà la propria vita per il suo gregge» (Jn 10,11). Dono totale, dono supremo, dono gaudioso.

Deriva, come sappiamo, dall’amore: se mi ami, disse Gesù a Pietro, pasci il mio gregge (Cfr. Jn 21,15 ss.); e certo tale consegna vale per ogni vero pastore.

Pensate, anzi sempre penserete, alle conseguenze d’un tale principio : lo svuotamento da ogni egoismo, da ogni proprio interesse, da ogni riserva di qualche cosa di proprio. La carità pastorale assurge al primato dell’amore: «Nessuno, insegna Gesù, ha un amore più grande di quello di uno che dia la vita per i suoi amici» (Jn 15,13).

E ciò che Gesù disse per gli Apostoli, vale per i loro Successori, i Vescovi.

Chi sono gli amici d’un Vescovo? sono persone di due categorie; ben tutti lo sappiamo. La prima categoria è quella dei Vescovi stessi, dei membri cioè del collegio episcopale, ai quali, nelle persone degli Apostoli, è stato dato, per eccellenza, il comandamento nuovo, quello di amarsi gli uni e gli altri. «Come Io, dice ancora Gesù, ho amato voi, così voi amatevi a vicenda. Da questo tutti conosceranno che siete miei discepoli, se vi amerete scambievolmente» (Jn 13,34-35): unità, solidarietà, collaborazione, generosità faranno, sulla scorta di così esplicite e solenni parole del Signore, di tutti i Vescovi della Chiesa cattolica una comunione di fratelli (Cfr. Lumen Gentium, LG 23).

L’altra categoria è composta da tutti gli uomini. Sia perché la collegialità, come già insegnava il nostro venerato Predecessore Pio XII, rende ogni Vescovo corresponsabile « della missione apostolica della Chiesa, secondo le parole di Cristo ai suoi apostoli: “Come il Padre ha mandato me, così Io mando voi” (Jn 20,21). Questa missione, che deve abbracciare tutte le nazioni e tutti i tempi non è cessata con la morte degli Apostoli; essa permane nella persona di tutti i Vescovi in comunione col Vicario di Cristo» (Fidei Donum, 1957). E sia perché ogni Vescovo è deputato al ministero pastorale d’una Chiesa determinata, realmente organizzata nelle sedi residenziali, simbolicamente e virtualmente rispetto alla Chiesa intera nelle sedi titolari. Non si concepisce un Vescovo che non sia votato al servizio e all’amore del Popolo di Dio in tutta la sua più larga accezione. Il Vescovo è un cuore, dove tutta l’umanità trova accoglienza. Non senza certamente l’osservanza di norme sapienti, di cui la Regula Pastoralis di San Gregorio Magno, sepolto esso pure in questa Basilica, ci detta, con tanti altri maestri, l’unica ispirazione nella carità e l’indefinito pluralismo psicologico e pedagogico della sua applicazione.

Povero cuore d’un Vescovo! Come farà ad assumere tanta ampiezza e come potrà esprimersi con tanta sapienza? No, povero, Fratelli! felice piuttosto il cuore d’un Vescovo che è destinato a plasmarsi sul cuore di Cristo e a perpetuare nel mondo e nel tempo il prodigio della carità di Cristo. Sì, felice così! e tale sia il cuore di ciascuno di voi, nuovi Vescovi della Chiesa di Cristo!




Giovedì, 15 agosto 1974: SOLENNITÀ DELL’ASSUNZIONE DI MARIA SANTISSIMA

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Il pensiero che Paolo VI intende lasciare ai fedeli convenuti a Castel Gandolfo per la Messa nel giorno dell’Assunzione è un invito a rinnovare la devozione a Maria, una devozione «semplice ma vigorosa, forte e seria, basata sulla dottrina vera». Questo invito vuol essere anche un richiamo alla purezza e all’innocenza in un tempo in cui appare carente il rispetto per la vita e sembra affermarsi un costume ben diverso da quello cristiano.

All’inizio dell’omelia, il benedicente saluto al Cardinale Segretario di Stato che con il Papa condivide, oltre alle fatiche dell’ufficio, anche questi momenti di silenzio e di tranquillità; al vescovo di Albano Monsignore Raffaele Macario e all’ausiliare Monsignore Dante Bernini, nonché a tutta la diocesi in fase di espansione; al parroco Don Fiore Angelo Pozzi e a tutta la comunità parrocchiale di Castel Gandolfo, ai villeggianti; poi alla famiglia civile: al sindaco, Mario Costa, a quanti condividono con lui le cure dell’amministrazione cittadina, alle autorità militari, al direttore delle Ville Pontificie Carlo Ponti.

Sua Santità desidera anche sottolineare il significato dell’altare nuovo sul quale si svolgeva la celebrazione, accennando al valore del rinnovamento liturgico in atto per una più viva partecipazione dei fedeli ai sacri riti.

«Così tonificati dalla carità comunitaria che ci unisce nella preghiera - egli prosegue - tentiamo di aprire gli occhi dell’anima sul tema della festa odierna, l’Assunzione della Madonna. Ai nomi, alle parole siamo abituati. Ma la realtà di questo fatto, il mistero che esso contiene ci lascia quasi intimiditi, quasi esterrefatti dall’essere invitati a una contemplazione trascendente, ben superiore alla nostra stessa comprensione. La Madonna in cielo, non solo, come speriamo che siano tutte le anime buone, nell’immortalità propria dell’anima umana, ma anche con la sua Risurrezione, perché la tradizione vuole che anche la Madonna abbia sentito il sonno della morte».

La Chiesa, la Chiesa greca in particolare, parla della Dormitio Virginis, anche se molti devoti peraltro preferiscono pensare che la Madonna sia passata dalla vita presente alla vita futura senza l’intervallo di questo sonno che pure Cristo ha tollerato nel suo sepolcro.

La Madonna è passata anima e corpo nell’al di là, nella Risurrezione della vita eterna, nella associazione a Cristo suo benedetto Figliolo che siede alla destra del Padre. Sono parole che sgomentano, se davvero cerchiamo di volerne esplorare il significato, perché si tratta di un nuovo stato, di una condizione di cui non abbiamo un’idea esatta, né possiamo formarcela. Bisognerebbe andare in cerca delle parole profetiche, delle espressioni degli artisti, dei poeti . . .

Paolo VI cita allora, in proposito, il Petrarca, che in un inno indica la Madonna con le parole «Vergine di sol vestita». «Immaginate come sia possibile - osserva - che la natura umana sia vestita di sole; ,vuol dire uno splendore, una irradiazione interna che si effonde in una bellezza accecante.

Noi dobbiamo limitarci ad usare il diaframma affumicato delle nostre povere parole per poter contemplare in qualche maniera questa visione ultraterrena».

La Madonna - aggiunge il Santo Padre - è in Paradiso, nello stato al di là di questa nostra esistenza nella sua realtà di anima e di corpo; ma nella trasfusione della sua esistenza in quella che il Signore riserva ai suoi eletti e che ha riservato certamente in grado superlativo e incommensurabile alla Madre Sua. «La Madonna in Paradiso! Una sorella nostra - cioè che ha vissuto su questa terra povera, umile, silenziosa, obbediente, sofferente, vicino a Cristo, nella Croce - trasfigurata nella gloria del Paradiso. Sono cose che superano la nostra comprensione, ma dobbiamo oggi sfidare le difficoltà e tentare di dare alla nostra mente questa immagine, questa visione, proprio per lasciare nella nostra anima un senso di stupore, di meraviglia, di entusiasmo, quasi nel tentativo di passare noi stessi almeno con l’immaginazione da questa nostra scena umana alla scena futura che sarà quella della vita eterna dove Maria già è».

Questo non vuol dire distanza. Maria non è diventata più lontana. È maggiormente vicina, prossima, accessibile a noi che non fosse quando era nella scena evangelica, fra le tante persone che circolavano attorno a Cristo. La Madonna è in una condizione di accessibilità universale, è elevata al grado di regina, di madre della Chiesa, al grado di comunicabilità che è proprio quella di Cristo Redentore del mondo. « Dobbiamo abituarci a pensare a queste cose , di per sé impensabili, dobbiamo forzare il perimetro del nostro panorama terreno per arrivare al di là, in questa zona solare della vita eterna, almeno per desiderare, se non per conoscere, il nostro futuro».

Siamo troppo abituati a considerare la vita soltanto nel quadro a noi conoscibile, nel quadro sperimentale e terreno. «Non basta. Dovremo essere realisti nel conoscere questa scena presente, ma altrettanto realisti nel credere che al di là di questa maniera di vivere ce n’è un’altra: quella superiore, quella che sarà definitiva e che dà all’esistenza presente il suo valore di passaggio, di pellegrinaggio, di preparazione, di condizionamento di quella vita che ci è destinata per l’eternità, al di fuori di tutti gli orologi del tempo e di tutte le misure della storia. Siamo destinati all’eternità. Questo pensiero dovrebbe dare alla nostra vita cristiana una straordinaria ricchezza e la capacità di trascendere le realtà temporali sia nella speranza, sia nel desiderio, sia quasi nel pregustamento delle realtà superiori del Paradiso».

Tutto ciò, quindi, cambia la valutazione delle cose presenti. Paradossalmente, tanto più dobbiamo aver cura delle cose temporali, che costituiscono il programma della nostra permanenza quaggiù e l’impegno delle nostre fatiche, quanto più precario è il rapporto con esse. Dobbiamo approfittare del momento, perché è dal vivere bene le realtà presenti che si giudica la condizione di essere anche noi ammessi alle realtà future. Se siamo buoni nel tempo, saremo fortunati nell’eternità. Chi sarà stato giusto, caritatevole, puro, amabile in questo tempo preparatorio conquisterà quel Regno eterno a cui la Madonna è già arrivata e dal quale ci guarda.

Di qui, un altro pensiero immensamente fecondo. Il Papa cita la frase di San Paolo «Conversatio nostra in Coelis est» . «La Madonna - spiega - ci ascolta, ci vede, ci protegge, ci è vicina. È la madre di tutti i viventi, la madre della Chiesa, per cui siamo non solo autorizzati, ma invitati al colloquio con Lei». La festa dell’Assunzione, che esalta Maria nelle sue vette più alte e inaccessibili, ci esorta a rinnovare questo rapporto confidenziale con Lei, nella consapevolezza di essere tanto bisognosi di soccorso, di aiuto, di luce, di forza, di conforto. «Dobbiamo rinverdire quella che con il linguaggio della pietà cristiana chiamiamo la devozione alla Madonna. Siamo devoti di Maria? diciamo bene l’Ave Maria, che è la preghiera programmatica della nostra devozione? diciamo il Rosario?». Il Papa ricorda in proposito di aver emanato recentemente l’Esortazione Apostolica Marialis Cultus, invitando i fedeli a riaccendere il culto della Madonna, facendolo derivare direttamente da quello di Cristo.

«Come fanciulli - Egli spiega - come anime pie, come anime semplici, come anime alcune volte doloranti, disperate, dobbiamo ritornare alla pietà, alla misericordia, al soccorso della Madonna.

Madonna, aiutaci, sii vicina ai nostri casi, alle nostre sventure, ai nostri bisogni, alle nostre esperienze. Vedi in che mondo viviamo, specialmente laddove vediamo profanata la vita umana da sentimenti, azioni, costumi che non sono quelli cristiani. Non c’è rispetto per la vita, per la dignità delle persone, per l’innocenza dei nostri costumi. Dobbiamo, perciò, tornare ad essere capaci di discorrere in ogni momento con Maria Santissima. Non è difficile né per le anime grandi, né per le anime piccole. È il rapporto trascendente e sublime che la pietà cristiana concede a quelli che hanno la fede: poter colloquiare con quelli che stanno già in Paradiso, e specialmente con la Regina del Paradiso che è Maria Santissima».

«Questo vi raccomando - conclude Paolo VI -. Rinnovate nelle vostre anime la devozione semplice, ma stabile, forte, seria e fondata sulla dottrina vera, non sulla superstizione, sull’interesse, sulla fantasia, bensì su quello che il Vangelo ci insegna e che la Chiesa commenta con tanta provvidenziale frequenza e con tanta precisione: amare, pregare, venerare, imitare Maria Santissima. È l’augurio che faccio a tutti nel nome della Madonna stessa nel giorno della sua festa di gloria che è l’Assunzione».





Sabato, 14 settembre 1974: PELLEGRINAGGIO ALL’ABBAZIA DI FOSSANOVA

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Fratelli e Figli carissimi!

Noi siamo venuti a Fossanova per venerare San Tommaso d’Aquino, dove egli morì, il 7 marzo 1274, settecento anni fa, all’età di circa cinquant’anni. Era nostro pensiero di fare, quasi furtivamente, questa visita, a titolo di devozione privata; ma le circostanze prevalgono su questa nostra intenzione; e, con la presenza di tante personalità ecclesiastiche, religiose, civili, e di tanto popolo desideroso di associarsi a questo nostro atto di pietà religiosa, il nostro umile e personale ossequio diventa pubblico e si fa cerimonia celebrativa. Meglio così, per l’onore collettivo e significativo che è reso alla memoria del Santo, ben degna di ricordo e di venerazione comune, per l’occasione che a noi è offerta di incontrare voi tutti e di salutarvi nella veste degnissima di fedeli credenti e cultori della stima che a tanto Santo è dovuta, e nella veste specifica di ciò che voi siete e rappresentate in questo momento e in questo luogo, e per il dovere che in noi si pronuncia di rivolgervi una parola, semplicissima e spoglia da ogni pretesa d’essere al tema superlativo, che la menzione del grande Dottore esigerebbe da noi e per voi; una parola dovuta più al carattere liturgico di questa cerimonia, che a quello celebrativo del Santo che intendiamo onorare e invocare.

Diremo dunque soltanto qual è la ragione, - una delle ragioni! - che sembra emergere dalla evocazione della memoria di S. Tommaso, provocata da questa nostra pia escursione estiva e festiva.

Identifichiamo subito questa ragione, se noi tutti chiediamo a noi stessi: perché siamo qui? Dato il carattere assunto da questo convegno, non certo per compiere soltanto un gesto di religiosa venerazione, come se all’apparizione del Santo, sullo schermo della nostra coscienza, non ci curvassimo tremanti e felici davanti alla sua grande e ieratica figura. Tale figura, resa viva dalla comunione dei Santi, sempre rievocata da un rito religioso come questo, provoca in noi una domanda audace: Maestro Tommaso, quale lezione ci puoi dare? A noi, in un momento breve e intenso qual è il presente, a noi lontani sette secoli dalla tua scuola, a noi, galvanizzati dalla cultura moderna, a noi, fieri del nostro sapere scientifico, a noi, distratti dal «fascino della frivolezza», la fascinatio nugacitatis, di cui parla il libro della Sapienza (
Sg 4,12), e di cui noi sperimentiamo oggi, con la prevalenza della conoscenza sensibile su quella intellettuale e spirituale, il vertiginoso incantesimo, a noi, sottoposti alla anestesia del laicismo antireligioso, a noi, S. Tommaso, che ancora grandeggi, filosofo e teologo, sull’orizzonte del pensiero avido di sicurezza, di chiarezza, di profondità, di realtà, a noi, anche con una sola parola, che cosa ci puoi dire?

S. Tommaso ora non risponde con parole, ché troppe verrebbero al nostro ascolto dalle opere sue, ma col riflesso della sua figura e del suo insegnamento, da cui pare a noi ascoltare un’esortatrice lezione: la fiducia nella verità del pensiero religioso cattolico, quale da lui fu difeso, esposto, aperto alla capacità conoscitiva della mente umana. Bastino alcuni aspetti della monumentale opera sua a confortare in noi questa fiducia, la quale noi vorremmo che rimanesse vitale ricordo della centenaria commemorazione del Santo Dottore.

Fiducia, perché l’opera sua si attesta nella storia del pensiero, sia filosofico, che teologico, come una sintesi di ciò che altri sommi maestri, prima di lui, hanno studiato e lasciato in eredità alla cultura universale: egli ha assimilato il tesoro di sapere più significativo del suo tempo (ch’è tempo incomparabile per ampiezza e per acutezza di studio speculativo); lo ha qualificato con il più rigoroso intellettualismo, quello aristotelico, che senza disconoscere altre supreme forme della conoscenza, come quella neoplatonica agostiniana, sembra metterlo in sintonia con la nostra rigorosa mentalità scientifica moderna; lo ha sottoposto senza pregiudizi alla discussione dialettica d’un’onesta e stringente razionalità; lo ha perciò aperto ad ogni possibile acquisizione progressiva, reclamata che sia dalla scoperta d’un’ulteriore verità.

Fiducia ancora dobbiamo a San Tommaso, perché ci aiuta a risolvere il conflitto, tanto conclamato e radicalizzato nel tempo nostro, fra le due forme di conoscenza di cui dispone la mente dell’uomo credente, la fede e la scienza, partendo dalla parola di Dio rivelata e suffragata da ragionevoli motivi di credibilità, e poi impegnandovi la mente umana, la scienza, a studiarla con principii e metodi propri, in modo che la risultante teologia possa, senza presunzione e senza superstizione, assurgere ad un vero e meraviglioso livello di scientia Dei.

Fiducia finalmente per quel provvidenziale risultato che deriva al pensiero, anzi alla vita dell’uomo dalla complementarietà reciproca della fede e della scienza. La fede cerca nella scienza, cioè nella conoscenza umana naturale, non già la certezza ch’è dono di grazia, ma la sua conferma, il suo sviluppo, la sua difesa, il suo godimento: fides quaerens intellectum; e l’intelletto quaerens fidem riceve il ricambio d’una guida terminale senza pari, garantito com’è dalla fede della sovrastante Verità divina, che tutta illumina l’umana conoscenza, la preserva dall’inutilità del suo sforzo, dall’inguaribilità del dubbio, dal disperato scetticismo finale del nihil scire, non che dal folle orgoglio d’un dispotismo scientifico, oggi più che mai probabile, che può ritorcere a offesa e a morte dell’uomo pensante le conquiste del suo stesso pensiero.

Fiducia. S. Tommaso può essere per noi uno dei più autorevoli e convincenti testimoni della provvidenziale esistenza di quel magistero, affidato da Cristo alla sua Chiesa, che non preclude le vie del sapere, ma le apre, le rettifica e le difende, e che non sequestra ai soli iniziati alle fatiche, alle ascensioni, alle acrobazie del pensiero la luce della Verità vivificante, ma la offre con umile e sublime catechesi a quanti nella Chiesa stessa si riconoscono discepoli, e riserva la rivelazione dei misteri più alti e più salutari della fede ai piccoli, ai semplici, ai poveri, al Popolo ignaro delle speculazioni difficili, ma docile e disponibile all’ineffabile dialogo della Parola di Dio.

Invochiamo quindi San Tommaso che invitandoci ancor oggi alla sua scuola ci introduce al colloquio, nello Spirito Santo, con Cristo Maestro.




DOMENICA, 22 SETTEMBRE 1974

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Salute Fratelli!

Ripetiamo il saluto, col quale si i: iniziata questa straordinaria celebrazione: Gratis Domini nostri Iesu Christi et caritas Dei et communicatio sancti Spiritus sit cum omnibus vobis (
2Co 13,13).

Salute a voi, the venuti a Roma per confortare nella fede, nella speranza, nella carità i vostri animi di Pastori della Chiesa di Dio in un Paese grande e moderno, date a noi, e certamente anche a voi stessi un moment0 di stupenda esperienza veramente cattolica, nell’amore evangelico, mediante il. quale, come il nostro Capo e Maestro ci ha insegnato in quell’ultima Cena, di cui noi ora celebriamo la memoria e rinnoviamo la misteriosa realtà, noi autentichiamo la nostra derivazione di discepoli del Signore, come Egli con solenne semplicita proclami,: In hoc cognoscent omnes quia discipuli mei estis, si dilectionem habueritis ad invicem (Jn 13,34 Jn 15,12).

E mentre noi cerchiamo ora di realizzare in noi stessi questa parola del Signore non possiamo eludere l’impressione the noi attestiamo in forma concreta e evidente, quasi apologetica, un aspetto della Chiesa, ieri e ancora oggi tanto contestato da molti cristiani, purtroppo da noi separati, e cioè la visibilità della Chiesa, la sua concretezza umana e sociale, il suo corpo composto di persone vive e reali, viventi in questo mondo e nella sua storia fenomenica; e poi un altro aspetto della Chiesa risulta affermato dalla celebrazione di questa santa Messa, come identica e autentica proiezione della Cena del Signore; e cioè l’aspetto istituzionale, organizzato, gerarchico della Chiesa è qui messo in una evidenza, che la difende dalla tendenza di altri fratelli contestatori, contrari al riconoscimento d’una Chiesa giuridica, quasi che fosse possibile immaginare una Chiesa della carità, liberata dalle sue strutture organiche e ministeriali.

Chiesa reale, Chiesa viva, Chiesa nostra e di tutti i suoi aderenti, che cattolici, cioè universalisti sono chiamati, è ora celebrata nel rito consueto, ma sempre nuovo e originale di questa messa, resa, per di più irradiante di più pieno ed eloquente significato dalla vostra presenza, Fratelli miei, dalla nostra magnifica comunione.

Sono cose sublimi e semplici. Ma non sono forse meritevoli d’essere ora e qui ricordate, quasi per inserire il cuore nello studio teologico e spirituale, che voi, pellegrini verso questa Sede apostolica state compiendo.

E non è forse simultaneamente esaltato l’elemento mistico e soprannaturale della Chiesa proprio nel momento in cui noi, umili eredi degli Apostoli, ne affermiamo la sua inequivocabile esistenza fisica, visibile e gerarchica? La Chiesa, lo sappiamo, è il Corpo mistico di Cristo (Col 1,24 Ep 1,22), che, nella sua infrangibile ed armonica unità, reclama una complessità di funzioni complementari, che, ecco, ci riguarda direttamente, per quell’opus ministerii (Ep 4,12), che a noi, Vescovi della Chiesa di Dio, è specificamente assegnato.

Qual è il ministero a noi assegnato? Ben lo sappiamo, è il ministero dell’autorità, della exousia, della potestà, di cui tanto spesso ci parla il Nuovo Testamento, non solo in rapporto a Cristo, ma anche in rapporto agli Apostoli, in ordine cioè alla missione a cui essi sono inviati, e alla opera di istruzione, di santificazione e di guida, a cui sono destinati.

Noi daremo la massima attenzione a questa parola, potestà, che suona capacità di agire e di reclamare l’obbedienza ecclesiale, che vuol dire amorosa, di coloro ai quali questa parola è rivolta, perché esprime un pensiero divino, una concezione precisa circa l’ecclesiologia, che deve riconoscere i due quadri che la compongono: i pastori ed il gregge; i due aspetti costituzionali, che la definiscono: la società gerarchica e la comunità di grazia. E ammireremo in questa realtà, che configura divinamente nell’ordine, nella vitalità, nella bellezza, nell’amore, il volto della Chiesa, e ne benediremo il Signore, con il proposito di riconoscere fedelmente e coraggiosamente le conseguenze, che derivano dal disegno divino della Chiesa.

Sì, fedelmente e coraggiosamente. Perché sappiamo che nel linguaggio umano, e poi nella realtà storica quel nome di exousia, di potestà, si dimostra equivoco, nella sua duplice traduzione possibile, di dominio, e di servizio. E sappiamo che nostro Signore ha dato una soluzione molto chiara al possibile equivoco, per quanto riguarda i discepoli rivestiti d’autorità: qui maior est in vobis, fiat sicut minor; et qui praecessor est sicut ministrator (Lc 22,26). Così noi abbiamo ascoltato adesso la sua voce nella lettura del Vangelo. La nostra potestà non è un potere di dominio, è una potestà di servizio; è una diakonia, è una funzione destinata al ministero della comunità. È ben noto lo slogan di S. Agostino, riferito alla potestà ecclesiale: non tam praeesse quam prodesse delectet (PL, 38, 14841; che con S. Benedetto e S. Gregorio diventa una norma ricorrente nel linguaggio ecclesiastico; la riafferma il nostro venerato Predecessore Pio XII, a riguardo di questa Sede Romana (cfr. AAS 1951, p. 641; e cfr. CONGAR, L’Episcopat, Cerf 1962, p. 67 ss. e p. 106 ss.; S. Th. III 80,10. ad 5; ecc.).

E davanti all’interpretazione evangelica ed ecclesiale della nostra autorità nella comunità dei fedeli il nostro animo potrebbe rimanere timoroso e paralizzato: come potremo esercitare la nostra funzione se il senso suo proprio sembra capovolto? sarà la Chiesa governata dai fedeli, al cui servizio i Vescovi sono obbligati? No, lo sappiamo: i Vescovi sono posti dallo Spirito Santo per pascere la Chiesa di Dio. Pascere, poimaînein, parola risolutiva, che nella densità del suo significato fonde meravigliosamente il carisma giuridico dell’autorità con il carisma sovrano della carità, e dà al Pastore la sua vera fisionomia evangelica, quella della bontà, provvida e forte, e quella del discepolo di Cristo, posto nell’esercizio della cura animarum, che esige un completo dono di sé, un inesauribile spirito di sacrificio.

Questa è la carità nella sua più alta e piena espressione: la carità della verità (cfr. 2Th 2,10), mediante il docete omnes gentes (Mt 28,19) e la vigilanza sul « deposito » della fede da custodire (1Tm 4,6 1Tm 6,20 2Tm 1,14); la carità dispensatrice dei misteri di Dio (1Co 4,12 Ep 3,8); la carità che riversa l’amore sommo dovuto a Cristo nella guida saggia e indefessa al suo gregge (cfr. Jn 21,15 ss.).

Nulla di nuovo per voi, venerati Fratelli, nel richiamo a questi insegnamenti; ma non è mai vano il loro ricordo, specialmente se esso avviene nelle circostanze, come quelle vostre presenti, mentre state ricercando di ravvivare nelle vostre anime la luce dello Spirito Santo, ricevuto al momento dell’ordinazione episcopale (2Tm 1,6), e mentre state mettendo la vostra missione pastorale al confronto con le vostre benedette Chiese locali, e con il mondo immenso e fremente del nostro tempo.

Approfittiamo di questa lieta occasione per estendere altresì il nostro saluto nel Signore alle vostre popolazioni. Mediante le vostre persone, inviamo la nostra Benedizione Apostolica alle vostre chiese locali, e ringraziamo il vostro clero, i religiosi e il laicato per la loro viva comunione ecclesiale con voi e con noi e per la sollecita solidarietà che mostrano verso i fratelli e le sorelle delle altre Chiese locali sparse nel mondo. Come Successore di Pietro e in adempimento del nostro ufficio di servizio, noi vogliamo confermarvi nella fede in Cristo.

Così tutti ci assista e ci benedica Gesù Cristo, il Pastore dei Pastori!





B. Paolo VI Omelie 30674