B. Paolo VI Omelie 27974

Venerdì, 27 settembre 1974: III ASSEMBLEA GENERALE DEL SINODO DEI VESCOVI

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Signore Gesù, noi non sappiamo esprimere il tema di questa riflessione preventiva al Sinodo Episcopale, che stiamo per iniziare, se non in forma di preghiera.

Nell’avviare i nostri studi e le nostre discussioni circa «l’evangelizzazione nel mondo contemporaneo», noi saremmo tentati di analizzare subito i bisogni spirituali di questo mondo, la possibilità di apostolato e di ricercare i metodi atti ad assicurare una più vigorosa presenza della Chiesa. Preferiamo, perciò, rivolgerci anzitutto a Te per confermare in noi questa prima certezza: che il fatto stesso dell’evangelizzazione nasce da Te, Signore, come un fiume, esso ha la sua sorgente e Tu, Cristo Gesù, sei questa sorgente. Tu sei la causa storica, Tu sei la causa efficiente e trascendente di questo prodigioso fenomeno: l’apostolato, da Te, Maestro; da Te, Salvatore; da Te, principio e modello; da Te, pontefice ed ostia della salvezza dell’umanità, è scaturito, è stato conferito agli eletti discepoli, da Te chiamati Apostoli e dagli Apostoli è arrivato a noi, Vescovi, con infrangibile successione. La Tua parola, come fiamma che si propaga nel tempo e nelle stazioni della storia, arriva a noi, dolcissima e imperativa, sempre viva, sempre nuova, sempre attuale: Sicut misit me Pater?, et Ego mitto vos (
Jn 20,21; cfr. Jn 15,22 Jn 17,18).

Così che, o Signore, noi dovremo risalire fino al mistero della Santissima Trinità per rintracciare l’origine prima del mandato che urge sopra di noi, e per scoprire, nelle investigabili profondità della vita divina, il disegno di amore, che investe, qualifica e sorregge la nostra missione apostolica. Ma come può essere? non siamo noi piccoli esseri sperduti nell’oceano della storia e nell’innumerevole folla dell’umanità, come possiamo essere scelti per una missione di tale natura e di tale importanza?

Ecco, Signore, noi riassumeremo in questo attimo di coscienza e di sintesi la nostra storia spirituale. Ci ricordiamo il canto profetico di Maria: respexit humilitatem ancillae suae fecit mihi magna qui potens est (Lc 1,48-49): per un’analogia, che precipita dall’altezza di quella beatissima, noi pure siamo stati scelti, non certo per la nostra statura umana, ma forse proprio per la nostra piccolezza, affinché nell’opera messianica che Tu ci hai voluto affidare non creasse ambiguità un qualsiasi nostro valore umano, ma fosse proprio per la nostra stessa esiguità più palese l’opera Tua nell’umile ministero delle nostre persone, alle quali argomento di umiltà e di fiducia fosse ancora la Tua parola, o Gesù Maestro: non vos me elegistis: sed Ego elegi vos et posui vos, ut eatis et fructum afferatis et fructus vester maneat . . . (Jn 15,16). O storia personale ed intima della nostra vocazione alla sequela di Te, Signore, al Tuo servizio, al Tuo Sacerdozio, a cui noi partecipiamo, a titolo speciale, in forza dell’ordinazione episcopale, quale interiore certezza essa ci infonde per affrontare, fino alla fine della nostra vita temporale, la singolare e drammatica avventura della missione a noi affidata! Quale forte e dolce catena sostiene l’inguaribile caducità della nostra umana natura, resa ancora più fragile dall’abitudine critica propria dell’intelligenza moderna! Ecco gli anelli di questa logica e salvatrice catena di sostegno: primo, l’autenticità del nostro sacerdozio; sì, è autentico il sacerdozio cattolico! secondo, la sua validità, sì, è valida la sua triplice potestà, di magistero, di ministero, di guida pastorale! terzo, l’intimità, che esso non solo ci consente, ma ci impone d’avere con Te, Cristo, primo e indefettibile fra tutti gli amici, per aderire così alla Tua volontà salvifica ed entrare in quella corrente di Amore che Tu nutri per gli uomini.

E poi altri vincoli soccorrono la sproporzione fra il mandato, che Tu ci hai intimato: la fiducia, specialmente quale Tu sovente hai infuso ai Tuoi discepoli (cfr. Lc 12,32), una fiducia che ci impone come dovere il coraggio (Mt 10,16 Mt 10,28), una fiducia, che ci obbliga all’iniziativa (cfr. Mt 10,27), all’annuncio evangelico al mondo intero (Mt 28,19), alla perseveranza, oltre i calcoli dell’opportunità: usque in finem (cfr. Mt 24,12-14). E con la fiducia la speranza: spes autem non confundit (Rm 5,5); e finalmente e sempre la carità: quis nos separabit a caritate Christi? ricordiamo, ricordiamo queste parole infuocate dell’Apostolo, che ci offrono garanzia senza limiti e contro ogni difficoltà nell’ardua impresa che l’evangelizzazione del mondo oppone a noi uomini fra gli uomini, a noi disarmati di terrena potenza, a noi poveri di risorse temporali (Rm 8,35 ss.).

Signore Gesù! eccoci pronti a partire per annunciare ancora il Tuo Vangelo al mondo, ne! quale la Tua arcana, ma amorosa provvidenza ci ha posti a vivere! Signore, prega, come hai promesso, il Padre (Jn 16,26), affinché Egli, Te mediante, ci mandi lo Spirito Santo, lo Spirito di verità e di fortezza, lo Spirito di consolazione, che renda aperta, buona ed efficace la nostra testimonianza; e sii con noi, o Signore, per renderci tutti uno in Te e idonei, per Tua Virtù, a trasmettere al mondo la Tua pace e la Tua salvezza. Amen.






XVI CENTENARIO DELL’ORDINAZIONE EPISCOPALE DI S. AMBROGIO

Sabato, 7 dicembre 1974

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Qua veniamo, noi Milanesi Romani, com’egli fu, dov’egli fu, per ricordarlo, per venerarlo, in questo decimosesto centenario della sua singolare, precipitosa quasi, elevazione alla cattedra episcopale di Milano, per sentirlo a noi vicino. Non è la nostra una celebrazione adeguata a tale poliedrica figura tipica di nobile romano, di alunno del foro, di giurista, di amministratore, di consolare, di politico e di polemista, di letterato e di poeta, di scienziato e di oratore, di vescovo soprattutto, e quindi pastore e di maestro, di dottore e di santo; per fortuna, a suo e proprio onore, la Città che ambrosiana si definisce, ha già provveduto a tributare a Sant’Ambrogio degno omaggio di memoria e di culto; basti ora a noi questo atto di venerazione, che stiamo per dire confidenziale e filiale, nell’intento, ben modesto, ma sincero di ascoltare da lui qualche sua parola per la nostra vita cristiana della quale Egli, Ambrogio, ebbe il genio, ebbe, come pochi a lui pari, lo spirito. S. Agostino ne fa garanzia, come bene sappiamo. Chi non ricorda la prima (prima fra molte successive) testimonianza di Agostino su Sant’Ambrogio? «Così venni a Milano dal vescovo Ambrogio, noto a tutto il mondo come un uomo dei migliori, pio cultore tuo, i cui discorsi, in quel tempo, strenuamente dispensavano al tuo popolo l’adipe del tuo frumento e la letizia dell’olio e la sobria ebbrezza del tuo vino. Ero condotto a lui da te, senza saperlo, affinché per lui, sapendolo, fossi condotto a te. Quell’uomo di Dio mi accolse paternamente e, da buon vescovo, si mostrò assai contento di quella mia venuta. E così cominciai ad amarlo . . .» (Confess. V, 13, 23: PL 32, 717).

Ma ora la sua storia, la sua biografia in questo momento non trattengono la nostra attenzione; e nemmeno la sua . . . bibliografia; tralasciamo il più, tralasciamo tutto: ci basti spigolare sul suo fertile campo qualche citazione, qualche spiga per la nostra edificazione spirituale.

Cominciamo dalla sua concezione del mondo. Naturalista, moralista, S. Ambrogio ci offre il quadro cosmico in cui ci troviamo.

Dio creatore; parla Mosè: «In principio, dice. Com’è ordinata la narrazione! Egli afferma prima di tutto ciò che gli uomini di solito negano, e fa loro sapere che il mondo ha un principio, affinché non pensino che ne è privo» (Hexam. I, III: PL 14, 137). La Bibbia è il suo primo libro; dalle sue pagine, come da finestre su l’universo, Ambrogio osserva il mondo; l’allegoria lo fa poeta, ma non mai gli confonde la visione reale delle cose; «tanto che l’opera sua passò ben presto come una vera, e si può dire la migliore Storia Naturale dei suoi tempi» (Cfr. A. PAREDI, S. Amb., 370).

E subito succede la storia drammatica dell’uomo. «Leggo che (Dio) fece l’uomo ed allora si riposò»; ed ecco il lampo del genio mistico di Ambrogio: «avendo a chi rimettere i peccati» (Hex. VI, X, PL 14, 288; cfr. U. PESTALOZZA, La Rel. di A., 25). L’antropologia di Ambrogio penetra in tutte le sue opere, e trova il suo disegno nuovo e grandioso nel mistero della redenzione e nell’economia della grazia. Alla rivelazione di Dio onnipotente nella creazione succede quella ineffabile di Dio infinito nella bontà, nella misericordia. Leggete poi, se vi piace, il libretto testé da noi pubblicato, per merito di bravi collaboratori, il De Mysteriis, una catechesi squisita sull’iniziazione cristiana: «. . . è stato spalancato per te il Santo dei Santi, sei entrato nel sacrario della rigenerazione» (PL 16, 407).

Qui troverete, tra l’altro, la testuale professione della fede eucaristica: «Lo stesso Signore Gesù proclama: Questo è il mio corpo. Prima della benedizione delle parole celesti viene nominata un’altra specie, dopo la consacrazione viene significato il corpo. Egli stesso dice il suo sangue. Prima della consacrazione viene nominata un’altra realtà, dopo la consacrazione viene chiamato sangue. E tu dici: “amen”, cioè, questo è vero. Quel che dice la bocca, deve confessarlo internamente lo spirito; quel che la parola fa risuonare, deve provarlo il sentimento. È dunque con questi sacramenti che Cristo pasce la sua Chiesa!» (Ibid. 424).

Qui Cristo non è solo presente e operante. Cioè è Lui, ma in quella trasfusione della sua divina potestà, che chiamiamo il nostro sacerdozio. E chi non ricorda l’opera famosa di S. Ambrogio: De oficiis ministrorum? sui doveri degli ecclesiastici? (PL 16, 26 ss.) Non ci fermeremo alla sua iniziale professione di umiltà: «Io . . . trascinato dai tribunali e dalle dignità amministrative al sacerdozio, ho incominciato ad insegnare a voi quello che io stesso non imparai . . .», perché invece in questo breve e primo manuale di dottrina morale troveremo già un buon tentativo d’una sintesi della etica razionale con l’insegnamento nuovo e originale, derivante dalla sapienza evangelica; buona, se pur ancora iniziale pedagogia, per stilizzare santamente la vita ecclesiastica, e poi quella comune dei cristiani. Cicerone precede, Ambrogio segue, integrando, ma supera lo stoicismo di base, derivando dalla fede la norma dell’operare, da cui non è più escluso il povero e l’umile, sì bene portato al comune livello, anzi con preferenziale intenzione di fraternità e di carità; per concludere il trattato con un’esclamazione che potremo far nostra: «che cosa più preziosa dell’amicizia?» (Ibid. 193).

E gli altri aspetti della vita rigenerata dal battesimo? Sarebbe qui troppo lungo passarli in rassegna; ma uno merita una menzione speciale, perché ebbe da Ambrogio particolare impegno, che meritò a noi l’eredità di parecchie sue opere; diciamo l’educazione alla verginità, vero colpo d’ala sulla bassezza dilagante del costume pagano e morbosamente corrotto. Chi non ricorda, ad esempio, il capitolo II, letterariamente splendido, della prima opera di questa categoria, circa il martirio di Santa Agnese, dodicenne: «In una sola vittima, un duplice martirio, del pudore e della religione. E rimase vergine ed ottenne il martirio»? (PL 16, 201-202)

E non è in questo libro l’elogio, uno dei primi nella letteratura sacra, della Vergine Maria, Madre di Cristo? «Immagine della verginità: tale infatti fu Maria» (PL 16, 222). E simili scintille di bellezza e di sapienza potremmo ricavare da altre opere ascetiche e morali del Pastore-Dottore, dove, ad esempio, parla De viduis (PL 16, 233 ss.). Troveremmo incantevoli colloqui, nutriti di notizie preziose sulla cronaca dei suoi giorni, nella corrispondenza, unica, crediamo, nel suo genere, con la sorella MarCellina (PL 16, 1036 ss.); e soavi amarezze nei due discorsi, non certo ignoti ai necrologi famosi di Bossuet, per la morte del fratello Satiro (PL 16, 1345); e tant’altre cose. S. Ambrogio è un maestro prodigo; non si consulta mai indarno, anche se la sua loquela non è sempre facile per noi, letterato, com’egli è, sempre padrone e forse un po’ raffinato nel suo stile. Vedete, vorremmo raccomandare, il lavoro suo forse principale, la Expositio Evangelii secundum Lucam (PL 15, 1607-1943). Ma a noi preme concludere con una citazione notissima, ma confacente al caso nostro, quella che si trova nel commento al Salmo XL, dove S. Ambrogio, con l’abituale facilità a introdurre nel contesto della trattazione un riferimento scritturale, scrive: «Questi è Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa (
Mt 16,18). Dove dunque è Pietro, ivi è la Chiesa; dov’è la Chiesa, lì non c’è assolutamente morte, ma la vita eterna» (PL 14, 1134). Chi fu che a queste fatidiche parole aggiunse una chiosa significativa: Dov’è Pietro, ivi è la Chiesa Milanese? (Se bene ricordiamo, questa chiosa è dovuta al predecessore del Card. Ferrari, Monsignore Luigi Nazari di Calabiana, dal 1867 al 1894 arcivescovo di Milano). È così una sentenza che documenta non solo una verità dogmatica, ma anche una tradizione storica, che noi ora, con questa cerimonia, qui ove fu la sua dimora, intendiamo confermare, ad onore della Chiesa Ambrosiana, che in questo momento tutti portiamo nel cuore. Del resto non aveva già affermato S. Ambrogio: «In tutto voglio seguire la Chiesa Romana»? (De Sacramentis, III, 5: PL 16, 452)

E non risuona nei nostri animi un’altra parola del nostro Santo, la quale può suggellare nel ricordo e nel proposito questa modesta, ma pia e cordiale celebrazione: «La vita dei santi è per gli altri norma del vivere»? (De Ioseph Patriarcha, 1, 1: PL 14, 673) Così sia per noi, per merito di Sant’Ambrogio, con la sua e la nostra Benedizione.





Notte Santa di mercoledì, 25 dicembre 1974: NATALE DEL SIGNORE

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La nostra parola, che ora osa interpretare la voce del Natale ed il linguaggio simbolico di questo rito giubilare, è semplice ed unica: Venite! Sì, Fratelli, venite!

Ma è parola polivalente ! Vogliate ascoltarne la risonanza nel fondo dei vostri animi; vogliate procurare di comprenderla. Innanzi tutto perché essa vuol essere parola universale. A tutti, noi lanciamo come un grido di richiamo, questo invito del cuore: Venite! La parola risuona in questa basilica; ma essa è rivolta a tutti i Fedeli, a tutta la Chiesa qua convergente dai quattro punti cardinali della terra; venite! come «un Cuor solo ed un’anima sola» (
Ac 4,32) a celebrare insieme il Natale di Cristo ed a compiere insieme il Giubileo del rinnovamento e della riconciliazione, nel prodigio e nel gaudio di quella unità di fede e di amore, che il Signore ci lasciò suo comandamento e suo retaggio: venite!

E poi la medesima parola, piena di rispetto e di speranza, si effonde dovunque il nome di Cristo definisce una fratellanza e ne reclama una felice pienezza: venite! noi conserviamo sempre disponibile, intorno all’unico nostro e vostro Signore e Maestro, il posto d’onore e di amore, che a voi è dovuto in questo Natale di novità e di riconciliazione: venite! È l’invito ecumenico! L’invito subito si allarga nei grandi cerchi dell’umanità non cristiana, con lo stesso suono, ma con accento diverso, anche se non meno riguardoso e cordiale: anche voi, uomini amici, siete invitati, anche voi attesi all’incontro della nostra fraternità. Trema la nostra voce, di commozione, non d’incertezza, affermando che il richiamo è anche, e, in un certo senso, specialmente per voi, che siete solidali con noi, in Abramo, della nostra fede e tuttora figli della sua promessa, in noi già operante.

E ancora non tace la nostra chiamata. Essa vuole diffondersi verso i lontani, verso gli spiriti vagabondi, solitari, sfiduciati, verso i cuori chiusi, e perfino verso coloro che si sono resi refrattari alla religione e alla fede: venite! Sarà forse la nostra una parola al vento? In ogni caso, non sarà priva d’una sua segreta virtù, che non deriva dalla nostra debole voce, ma dal fatto inconfutabile al quale essa rende testimonianza: Cristo vi attende! Egli aspetta anche voi e voi forse con amorosa impazienza: venite! Voi ci domandate, Fratelli tutti e Uomini ai quali perviene questo nostro invito, tanto incalzante e tanto fiducioso: don e esso deriva? quali motivi lo mettono sulle nostre labbra?

Non chiedeteci in questo momento un’adeguata risposta: soltanto quella che deriva da voi stessi noi vi daremo; ed è questa: venite, perché questa è già la via dei vostri passi. Venite, perché ne avete inconscio desiderio e assoluto bisogno. Venite, perché il cammino dell’uomo è segnato verso la direzione, alla quale noi vi chiamiamo; diciamo la grande parola: la meta della vita umana è Dio! venite: e noi vi faremo incontrare o riscoprire quel Dio vivente, che non avete mai cessato di cercare. Lo andate cercando quando la traccia della vostra vita è semplice e primitiva, perché quasi per attrazione naturale noi siamo tutti orientati verso il polo originario e terminale della nostra esistenza; è la sintesi di Sant’Agostino, che scolpisce nelle note parole questo nostro destino: «Tu, o Dio, ci hai fatti per Te, e il nostro cuore non avrà pace finché in Te non riposi» (Conf. 1, 1). E anche oggi che la vita nostra non è più semplice, ma complicata nello sviluppo del suo pensiero e del suo progresso, la verità è sempre quella, anzi più quella che mai: perché dove sfocia il pensiero e dove il progresso nelle sue estreme conclusioni, quando non voglia perdersi nella notte del nulla, se non in un supremo anelito, in un inno estatico, verso l’Essere assoluto e necessario, ch’è il Dio della luce e della vita?

E ancora noi vi ripetiamo: venite! perché siamo peccatori, diciamolo con umile, ma salutare franchezza; il che vuol dire che se il prodigio del Natale non fosse realmente avvenuto non potremmo nemmeno camminare con speranza: la nostra sorte sarebbe disperata. Non noi abbiamo capacità di raggiungere Dio, ma Dio ha avuto l’infinita bontà di venirci incontro, anzi di giungere Lui, dagli insondabili spazi del suo regno, che è mistero, fino a noi.

Lui è venuto incontro a noi fino a farsi uno di noi, fino a farsi uomo; e così «è comparso sulla terra, e si è messo a conversazione con gli uomini» (Ba 3,38). Questo è il Vangelo, questo è il Natale.

Il Natale! il punto di contatto vitale del Verbo di Dio, Dio lui stesso col Padre e con lo Spirito Santo, con noi, gente di questo piccolo pianeta, ch’è la terra; Emmanuele è il suo nome, che appunto vuol dire: Dio con noi (Mt 1,23 Is 7,14).

Ma allora, sembra di dover dire, non altro occorre; non dobbiamo noi andare da Lui, se Lui è venuto da noi. La soluzione ultima dei nostri problemi non sarebbe già raggiunta? la salvezza già assicurata?

Ascoltate un’ultima volta il nostro invito, Fratelli e Uomini di buona volontà, invito che ancora ripetiamo per i passi che ci restano da compiere, affinché l’incontro si realizzi e si consumi nell’abbraccio, anzi nella comunione col Cristo, il Dio-uomo, nostro salvatore, nostro rigeneratore nell’ordine di vita soprannaturale, che ci è destinata.

Venite! Sono due i passi nostri, insignificanti rispetto alle distanze che Gesù, il Messia divino, ha colmato per avvicinarsi a noi, ma per noi estremamente importanti, e non privi di nostre drammatiche difficoltà.

Il primo passo, il grande passo, che umilia il nostro abusivo orgoglio di presunta autosufficienza, ma amplifica il nostro spirito alle proporzioni immense ed esaltanti della Parola rivelatrice di Dio, è la fede. Su le soglie del presepio, del Vangelo, della salvezza sta la fede. Occorre da parte nostra la fede; dobbiamo credere al regno di Dio, che ci è aperto davanti, e dire con l’anonimo personaggio evangelico : «Credo, o Signore; ma Tu aiuta la mia incredulità» (Mc 9,24).

Poi il secondo passo, che la celebrazione del Giubileo, con la sua semplice ma profonda disciplina spirituale, e con l’apertura simbolica delle sue porte di misericordia e di perdono, vuole significare, il passo della metamorfosi interiore, il passo coraggioso della verità morale, il passo evangelico del figlio prodigo, che ritorna alla casa paterna, il passo che il Padre attende e interiormente ispira e rende gioioso; ecco, è il passo della conversione del cuore: «Io sorgerò e andrò».

Ciascuno di noi lo può fare questo passo; lo deve. È in fondo, così facile. È così felice. È così dolce. È il passo che noi stiamo facendo. Il passo di Natale per l’Anno Santo, che abbiamo insieme questa notte inaugurato.

La Chiesa è con noi! così lo sia il mondo! Con questi voti nel cuore riprendiamo ora la nostra preghiera.






OMELIE 1975




1° gennaio 1975: SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DI MARIA MADRE DI DIO NELLA VIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

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Ecco l'Anno Nuovo!

Ecco un nuovo periodo della nostra vita!

Salutiamo la nostra Vita! Che è Cristo! nostro principio: in Lui tutte le cose sono create e ideate(1); Egli è il nostro modello e il nostro maestro (2); Egli è il termine e la pienezza della nostra vita, presente e futura (3). Salutiamo il nostro Signore Gesù Cristo, al Quale sia onore e gloria nei secoli! (4) E poi salutiamo Maria, la Madre benedetta di Gesù, la quale oggi la Chiesa onora per questo suo elettissimo privilegio e per questa nostra inestimabile fortuna d'essere per ciò stesso la Madre di Dio fatto uomo, nostro Fratello e nostro Salvatore, Salve, Regina, Madre di misericordia, vita, dolcezza e speranza nostra, salve! E ora un saluto a voi, Pueri Cantores, che venite da ogni parte del mondo a dare qui a Roma cattolica, cuore dell'unità e della pace, un saggio prodigioso di armonia e di allegria, cantate, cantate! le vostre voci, che si fondono in un solo coro di fede e di preghiera, sono una profezia di pace e di speranza per il mondo intero! Salute a voi, Pueri Cantores!

Salut à vous, Petits Chanteurs, venus du monde entier, pour élever nos cceurs, par vos merveilleux chants de joie et d'espérance. Chantez, oui, chantez, dans tette Rome catholique, centre d'unité et de paix.

A special welcome to you, the boy singers who have come to add your voices to our chorus of praise. May the Lord bless you and may your lives ever be a hymn of thanksgiving for his goodness.

Herzlichen Willkommengruss den Sängerknaben aus allen Teilen der Welt. Unseren Dank euch allen im Namen Jesu Christi für euren unermüdlichen Einsatz im Dienste der Kirchenmusik!

Vuestras voces y el acento apacible de vuestra presencia en Roma son sin duda un respiro de serenidad, que invita a moldear corazones nuevos, llenos de fe y de concordia. Con queste esultanti antifone i nostri animi si fissano ora sul tema, che facciamo oggi, tutti insieme, oggetto della nostra riflessione e della nostra preghiera: la Pace.

La Pace è come il sole del mondo.

Come fissare in questo sole il nostro sguardo? esso è troppo luminoso; noi ne restiamo abbagliati! Ma come facciamo per il sole, limitiamoci ora a vederne lo splendore riflesso, in uno dei tanti suoi aspetti, che lo rendano a noi comprensibile. State attenti. Che cosa è la Pace? È l'arte di andare d'accordo. Gli uomini vanno d'accordo spontaneamente, automaticamente? Sì e no. Sì, vanno d'accordo «potenzialmente»; cioè sono fatti per andare d'accordo. In fondo ai loro animi v'è la tendenza, l'istinto, il desiderio, il bisogno, il dovere di andare d'accordo, cioè di vivere in pace. La pace è un'esigenza della natura stessa degli uomini. La natura umana, fondamentalmente, è unica, è la medesima in tutti; è di per sé rivolta ad esprimersi in società, a mettere in comunicazione gli uomini fra loro; essi hanno bisogno di ricevere la vita da altri, hanno bisogno d'essere da altri allevati ed educati, hanno bisogno d'intendersi, cioè di parlare un comune linguaggio, hanno istinto e bisogno di conoscersi, di vivere insieme; sono esseri sociali, formano famiglie, tribù, popoli, nazioni e tendono oggi, quasi per fatale spinta di tutti i generi di comunicazioni sociali, a confluire in una sola famiglia, articolata in tanti membri con una certa loro autonoma indipendenza e una loro certa autenticità caratteristica e distinta, ma oramai complementari e interdipendenti.

Tutti vedono che questo è un movimento non solo necessario, ma bello e buono, il solo oramai che possa far suo a pieno diritto il nome di civiltà. L'umanità è unica, e tende a organizzarsi in forma comunitaria. E questa è la pace. Cristo, con una sola parola, ha sintetizzato e profetizzato questo sommo destino umano, dicendo agli uomini di questo mondo: «Voi tutti siete fratelli» (5); e, rivelando a noi la verità religiosa e solare della Paternità divina, conferiva alla fraternità umana universale la sua ragion d'essere, la sua capacità di realizzarsi, la sua gloria e la sua felicità. Ripetiamo: questa è la Pace, la fratellanza cioè, concorde, solidale, libera e felice degli uomini fra loro. Ma esiste questa Pace? ahimé! quale distanza fra l'ontologia e la deontologia della Pace; fra il suo essere e il suo dover essere! La storia, si direbbe, con le sue guerre, le sue competizioni, le sue divisioni, smentisce nel passato, con una indescrivibile e inesauribile fenomenologia, la realtà della Pace!

Ancora seguiteci con la vostra paziente attenzione. Del resto, contemplare il panorama del mondo e i suoi destini merita d'a noi tutti questo sforzo di comprensione. E diciamo: se è vero che pur troppo la Pace non ha realmente sempre rappresentato in passato il quadro auspicato dell'umanità ordinata e pacifica, ma piuttosto ha prevalso il quadro contrario delle lotte fra gli uomini, noi tuttavia ci siamo sentiti autorizzati in questi ultimi tempi, consenziente il mondo, e sollecitati non solo dalla nostra fede religiosa, ma dalla maturità della coscienza moderna, dall'evoluzione progressiva dei Popoli, dalla intrinseca necessità della civiltà moderna a proclamare due capitali affermazioni: la Pace è doverosa! la Pace è possibile! Sorge allora nei nostri spiriti una domanda, un dubbio, che sa di scetticismo, e che velatamente, ma crudamente accusa il nostro entusiasmo per la Pace di utopia, di sogno, di illusione, di anacronismo per lo meno, quasi favoleggiasse ancora sull'aurea età virgiliana, mancata all'appuntamento degli eventi sperati.

E la domanda è questa: il barometro della Pace, oggi, non volge al cattivo tempo? sotto altre spoglie, ma ancora più fiere e paurose, il mondo non ritorna alle posizioni dialettiche e polemiche di prima della guerra? cioè ad una contestazione di principio al metodo e al regno della Pace? che cosa ci lasciano presagire gli armamenti mondiali e locali, portati ad un grado d'inconcepibile terribilità? potrà davvero scongiurare la catastrofe mondiale la politica dei contrastanti equilibri? e dove potrà arrivare il radicalismo delle lotte di classe, se non più moderate dal senso della giustizia e del bene comune, ma dominate dalla passione della vendetta e del prestigio? Dobbiamo registrare, in questi ultimi anni, quasi un'insidia che fa tutti trepidanti, quasi un insulto che macchia l'onore del nostro vivere civile, un pauroso aumento di criminalità organizzata, con l'arma spianata della minaccia a qualche vita incolpevole, e col ricatto d'iperbolica venalità: dov'è il diritto? dov'è l'a giustizia? dov'è l'onore? e dove allora quella tranquillità dell'ordine, che risponde al nome di Pace? (Si ricordi la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 1974 del Procuratore Generale della Corte di Cassazione dottor Mario Stella Richter). E poi dobbiamo pur accennare alle guerre e guerriglie, che ancora persistono in varie parti del mondo, con vittime e rovine lacrimevoli : tutti le abbiamo dolorosamente presenti.

Noi ci riferiamo, senza pronunciare ora alcun nostro commento a fatti e a condizioni relative alla pace ferita, o mancata in non poche situazioni sociali e politiche sulla terra, per insinuare nella meditazione che stiamo facendo un principio, un metodo, ch'e deriviamo dal genuino insegnamento cristiano e che, applicato ai tentativi e alle procedure sempre in corso per salvaguardare e per promuovere la Pace, sarebbe indubbiamente positivo e risolutivo, anche se psicologicamente non poco difficile. Esso s'intitola «riconciliazione». È uno dei punti programmatici dell'Anno Santo, testé inaugurato. La riconciliazione sposta la sfera della Pace dal foro esterno al foro interno; cioè dal campo estremamente realistico delle competizioni politiche, militari, sociali, economiche, quelle insomma del mondo sperimentale, al campo non meno reale, ma imponderabile della vita spirituale degli uomini. Difficile arrivare in questo campo, sì; ma questo è il campo della vera Pace, della Pace negli animi prima che nelle opere, nell'opinione pubblica prima che nei trattati, nei cuori degli uomini prima che nella tregua delle armi.

Per avere una vera Pace bisogna darle un'anima. Anima della Pace è l'amore. Noi ne abbiamo fatto incidere la formula nella medaglia coniata in occasione della nostra visita all'Assemblea delle Nazioni Unite, nell'ottobre del 1965: Amoris alumna Pax. Sì, è l'amore che vivifica la Pace, più che la vittoria e la sconfitta, più che l'interesse, la paura, la stanchezza, il bisogno. Anima della Pace, ripetiamo, è l'amore, che per noi credenti discende dall'amore di Dio e si diffonde in amore per gli uomini. Questa è la chiave del Sistema della vera pace, la chiave di quell'amore, che si chiama carità. L'amore-carità genera la riconciliazione; è un atto creativo nel ciclo dei rapporti umani. L'amore supera le discordie, le gelosie, le antipatie, le antitesi ataviche e quelle nuove insorgenti. L'amore dà alla pace la sua vera radice, toglie l'ipocrisia, la precarietà, l'egoismo. L'amore è l'arte della pace; esso genera una pedagogia nuova, ch'è tutta da rifare, se pensiamo come dai giochi dei nostri fanciulli fino a certi trattati di etnologia e di filosofia della storia la lite, la lotta, la misura di forza, l'utilità della violenza sembrano costituire una necessità, una bandiera d'onore, una fonte di interessi.

Soprattutto l'amore, sì, l'amore cristiano, riuscirà a svellere dal fondo dei cuori l'avvelenata e tenace radice della vendetta, dei «regolamenti di conti», «dell'occhio per occhio, del dente per dente» (6), donde poi sangue, rappresaglie e rovine discendono col1egate a catena, come un perpetuo obbligo d'ignobile onore? riuscirà l'amore a disinfettare certi sedimenti psicologici collettivi, certi bassifondi sociali, dove la mafia ha una sua segreta legge spietata, riuscirà a far decadere la camorra popolare, o la faida privata o comunitaria, o la lotta tribale, quasi ossessionanti falsi doveri generanti un loro cieco impegno fatale? riuscirà a placare certi orgogli nazionalisti o razziali, che si tramandano inesorabili dall'una all'altra generazione, preparando rivincite, che sono per entrambe le parti contendenti odi infausti, stragi inevitabili? (7) Sì, l'amore riuscirà, perché ce lo ha insegnato Gesù Cristo, che ne ha inserito l'impegno nella preghiera per eccellenza, il «Padre nostro», obbligando le nostre labbra ostinate a ripetere le parole prodigiose del perdono : «rimetti, o Padre, a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori».

L'amore della riconciliazione non è debolezza, non è viltà; esso esige sentimenti forti, nobili, generosi, eroici talvolta; esige un superamento di sé, non dell'avversario; può sembrare talora un disonore perfino (pensate all'«altra guancia» da esporre allo schiaffo di chi ti ha percosso la prima (8); pensate al pallio da dare a chi ti fa causa per la tunica) (9); ma non sarà mai oltraggio alla doverosa giustizia, o rinuncia al diritto del povero; sarà in realtà la paziente e la sapiente arte della pace, del volersi bene, del convivere da fratelli, sull'esempio di Cristo e con la fortezza del nostro cuore modellato sul suo. Difficile, difficile; ma questo è il Vangelo della riconciliazione, che, a ben guardare, è in fondo più facile e più felice che non portare in sé e accendere negli altri un cuore pieno di rancore e di odio. L'uomo è un essere buono in origine; deve essere e ritornare buono. Ricordiamo allora: Cristo è la nostra pace (10).

Et maintenant, chers petits chanteurs, ce message de paix, de solidarité, d'amour, nous vous le confions spécialement à vous, pour que vous le portiez à travers le monde entier. Oui, par votre foi fervente, par votre enthousiasme joyeux, par votre chant persuasif, il vous revient d'annoncer partout tette bonne nouvelle.

And to you, Pueri Cantores, we say this final word: it is for you, the generation of tomorrow, to spread the Gospel of reconciliation. You must be peacemakers, in your homes, in your work, an example to the people of your different lands. May God grant you the grate to be the instruments of his peace, for the renewal of the whole World.

Sed también vosotros, Pueri Cantores, que fundís vuestras voces en serenas melodías universales, mensajeros de nuestra invitaciòn a la paz en los corazones y al amor que ha de vivificarla en el mundo.

Euch, ihr Lieben Sängerknaben, vertrauen Wir diese Einladung zum Frieden Christi in der weiten Welt an. Seid Werkzeuge des Friedens in euren Familien, in eurer Schule, an eurer Arbeitstätte durch euren überzeugten Glauben und euer gutes Beispiel. Und der Segen Gottes wird mit euch sein!

Esta mensagem, de amor, de fraternidade e de paz, Nos vos-la confiamos, em particular a vòs, Pueri Cantores: levai-a pelo mundo; levai-a às vossas terras, com o Nosso afectuoso saudar em Cristo! (10).

(1) Cfr.
Col 1,15-17
(2) Cfr. 1Co 11,1 Ep 5,1 Mt 23,8
(3) Cfr. Ga 2,20 Rm 6,5 1Th 4,17 Ap 1,8; etc.
(4) Rm 16,27
(5) Mt 23,8
(6) Mt 5,38
(7) Cfr. Mt 7,12
(8) Lc 6,29
(9) Mt 5,40
(10) Ep 2,14







B. Paolo VI Omelie 27974