B. Paolo VI Omelie 8876

Domenica, 8 agosto 1976: CHIUSURA DEL 41° CONGRESSO EUCARISTICO INTERNAZIONALE

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Venerati Fratelli

e Figli carissimi!

Noi tutti, in questo momento, siamo a Filadelfia, in America, dove si celebra, nel fervore della sua conclusione, il Congresso Eucaristico Internazionale. Bolsena è a Filadelfia. Non è soltanto un collegamento televisivo, che, per un magico prodigio della scienza e della tecnica, trasferisce la scena e la voce di questa cerimonia in quel continente lontano e in quella grandiosa assemblea; è un collegamento spirituale, ma, nel suo genere, ancor più reale, che ci fa partecipare in unità di fede, di culto, di carità a quella straordinaria celebrazione; è l’appartenenza alla medesima Chiesa cattolica, che ci riempie di meraviglia e di gaudio nella esaltazione della sua unità e della sua universalità, proprie della nostra religione cattolica, e proprie del mistero eucaristico, che ce ne dà la certezza e in qualche misura anche la spirituale esperienza. Ricordiamo le classiche parole di San Paolo, proprio relative all’Eucaristia: «Noi, pur essendo molti - scrive l’Apostolo -, siamo un corpo solo; noi tutti infatti che partecipiamo dell’unico pane» (
1Co 10,17). L’unico pane, di cui ora parliamo, è Cristo, Cristo stesso, non solo rappresentato e significato, ma personalmente, realmente reso presente nel sacramento dell’Eucaristia, memoriale incruento, ma autentico, dell’unico suo sacrificio redentore.

Bolsena non dimentica, ed oggi ripresenta a noi e al mondo il miracolo compiuto nel santuario della sua santa Cristina, il quale miracolo ha ravvivato nella Chiesa d’allora e ravviva tuttora la coscienza interiore e ha perpetuato il culto esteriore, pubblico e solenne, dell’Eucaristia, del quale Orvieto e Bolsena conservano ed alimentano nel mondo l’inestinguibile fiamma.

E per quanto grande ed inesauribile sia il mistero eucaristico, e per quanto breve sia l’attimo ora riservato alla nostra riflessione, noi non possiamo tralasciare la considerazione centrale, che il Congresso Eucaristico di Filadelfia ha scelto per uniformare e moltiplicare i nostri pensieri sul mistero eucaristico.

Perché il Congresso ci presenta il mistero eucaristico, ch’è essenzialmente mistero di presenza reale di Gesù e di vero memoriale della sua Passione sotto l’aspetto esteriore di Pane e di Vino, che non è poi altro in sostanza che Cristo stesso rivestito di quella apparenza. Cristo-Pane, Cristo-Vino, perché?

Oh! quale teologia può sgorgare da così elementare questione!

Basti a noi accennare a due punti di tale dottrina. Il primo punto è quello della fame e della sete, esigenza continua, molteplice, ineludibile, che entra nella definizione dell’uomo. L’uomo è un essere che ha fame e sete. Cioè un essere insufficiente per se stesso; un essere dai continui e molteplici bisogni di nutrizione, dalla cui soddisfazione dipende la sua presente esistenza. Dall’aria per respirare, dal latte materno appena egli varca le soglie della vita, dal cibo e dalla bevanda materiali più volte al giorno, alle cento altre cose a cui tende la sua vita per costituzionale necessità, il sapere, il possedere, il godere, sempre questo essere che si chiama uomo ha necessità di avere dal di fuori di lui ciò che manca alla sua esistenza, al suo sviluppo, alla sua salute, alla sua felicità. Perciò desidera, perciò studia, perciò lavora, perciò vuole, soffre, prega, spera, aspetta; sempre è teso a qualche complemento che lo sorregga e lo faccia vivere in pienezza, e, se possibile, sempre. Questo quadro di esistenza, ch’è quello reale, di tutti, può essere riassunto in una sola emblematica espressione: l’uomo è un vivente bisognoso di pane, d’un suo pane che lo nutra, lo integri, gli allarghi e gli prolunghi la sua sempre avida e caduca esistenza. Un’esistenza tesa nello sforzo di mantenersi e di dilatarsi, ma condannata a sperimentare la propria insufficienza e caducità, e a subire alla fine una morte fatale. Non vi è in terra pane che le basti; non vi è dalla terra pane che la renda immortale.

Ed ecco allora la divina parola del Signore Gesù: «Io sono il pane della vita . . . se uno mangia di questo pane vivrà in eterno» (Jn 6,48-51). La vita umana ha in Cristo, per chi crede alla sua Parola, il suo compimento, il suo pegno di vita immortale. Sì, Fratelli e Figli, ricordiamolo bene: Cristo è il pane della vita. E questo significa un’altra cosa, pure assai importante. È questo il secondo punto. Come il pane ordinario è proporzionato alla fame terrena, così Cristo è il pane straordinario, proporzionato alla fame straordinaria, smisurata dell’uomo, capace, smanioso anzi di aprirsi ad aspirazioni infinite (Cfr. S. AUGUSTINII Confessiones, 1, 1). Noi abbiamo spesso la tentazione di pensare che Cristo non corrisponda in realtà ai bisogni, ai desideri, ai destini dell’uomo; dell’uomo moderno specialmente, che spesso si illude d’essere nato per altro alimento superiore che non quello divino, e d’essere riuscito a saziarsi d’altre conquiste, che non quelle della fede, ovvero che sospetta essere la religione uno pseudoalimento, praticamente vacuo e vano.

No: Cristo non si copre di queste sembianze alimentari per deludere la nostra fame superiore, ma si riveste delle apparenze di cibo materiale, oltre che per farci desiderare quello spirituale, ch’è Lui stesso, per riconoscere e per rivendicare le esigenze legittime della vita naturale. È Lui, che prima di annunciare Se stesso come pane del cielo ha moltiplicato il pane della terra fino alla sazietà di coloro che per ascoltarlo lo avevano seguito in una zona disabitata, e che non avevano di che mangiare (Jn 6,11 ss.); è Lui che ha rivolto all’umanità l’incomparabile invito: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati ed oppressi; ed io vi ristorerò» (Mt 11,28). È Lui, che non più sotto le specie di pane e di vino, ma sotto quelle d’ogni essere umano sofferente e bisognoso, svelerà all’ultimo giorno, quello del giudizio finale, che tutte le volte che noi abbiamo soccorso qualcuno, abbiamo soccorso Lui, il Cristo: «Io ho avuto fame e voi mi avete dato da mangiare; Io ho avuto sete, e voi mi avete dato da bere; ...» (Ibid. 25, 35).

Così che l’Eucaristia diventa per noi non solo il cibo per ciascuna delle nostre anime, per ciascuna delle nostre comunità cristiane; ma stimolo di carità per i fratelli d’ogni specie (ricordiamo la parabola del buon samaritano - Lc 10,33 ss. -): che hanno bisogno di aiuto, di comprensione, di solidarietà, caricando così l’azione del bene sociale d’un’energia, d’un idealismo, d’una speranza che, finché Cristo sarà con noi con la sua Eucaristia, non verranno meno giammai. Cristo è il pane della vita. Cristo è necessario, per ogni uomo, per ogni comunità, per ogni fatto veramente sociale, cioè fondato sull’amore e sul sacrificio di sé, per il mondo. Come il pane, Cristo è necessario!

Ed ecco il testo del messaggio televisivo che il Papa rivolge al termine della celebrazione, via satellite, ai fedeli raccolti a Filadelfia, a conclusione del Congresso.

... In inglese



Domenica, 15 agosto 1976: SOLENNITÀ DELL’ASSUNZIONE DI MARIA SANTISSIMA

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Il Papa rivolge anzitutto un saluto augurale al Vescovo di Albano e al suo Ausiliare, al parroco di Castelgandolfo, ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose ospiti della comunità, al sindaco e ai suoi collaboratori, a tutte le famiglie. Quindi richiama l’attenzione dei presenti sull’opportunità di trarre sempre vivi e operanti pensieri dalla celebrazione della solennità di Maria Assunta, cercando di realizzare un vero rinnovamento della devozione alla Madonna, restituendo freschezza, calore, spiritualità al pensiero di Lei, che è abituale per la comunità cristiana, ma non deve diventare consuetudinario, cioè privo di vibrante fervore e di implicazioni morali sulla condotta di vita.

Paolo VI mette in luce anzitutto l’unicità di Maria, Madre di Dio, Immacolata Concezione, accompagnatrice di Cristo sul Calvario, sofferente accanto a Lui, chiamata a presiedere alla Chiesa nascente, cioè all’umanità del Corpo Mistico di Cristo. «Non avremo mai terminato di meravigliarci - dice il Papa - davanti a Maria, se abbiamo capito qualche cosa dei destini particolari che dal Cielo sono piovuti su questa creatura umana. È stata veramente scelta da Dio. Dio ha rifatto in Lei l’immagine che si è guastata con Eva in tutta l’umanità, che è ancora guasta e imperfetta. Noi siamo creature imperfette, non siamo creature quali il Signore avrebbe voluto che fossimo . . . Siamo superstiti di un naufragio, mentre l’unica che fu esente da questo, e che quindi verifica in se stessa una bellezza divina, come Dio l’ha concepita, come Dio l’ha voluta, è Maria». La Madonna ha avuto coscienza della eccezionalità dei favori che Dio ha riversato su di lei; ha sentito la presenza di Dio nella sua anima. Maria è il tabernacolo della presenza di Dio, è una creatura che porta in sé lo Spirito Santo. E per questa singolarità raggiunge il vertice della bellezza, non solo spirituale, ma anche umana. Maria è la più bella, la più perfetta, irraggia da sé pensieri buoni, puri, grandi, forti, eroici, pieni di umanità, perché sono anche pieni di divinità.

Ma la Madonna, oltre a quella della sua grandezza, ebbe simultaneamente coscienza della sua umiltà, di quel che è una creatura davanti a Dio. È questo che rende Maria così vicina a noi. È nostra, è sorella, è madre proprio per questa sua intenzionale umiltà. «Sente che davanti a Dio - dice il Papa - noi non siamo che esseri minimi, microscopici, perché le misure di Dio sono l’infinito e nessuno può gareggiare con Dio stesso. Ed ecco allora che la grandezza della Madonna non ci allontana, non ci dà un senso di estraneità».

Ecco perciò che nella devozione alla Madonna si accomunano due atteggiamenti: di ammirazione e di confidenza. Di ammirazione senza confini, di contemplazione, di estasi gioiosa, di espansione felice dell’anima di fronte a questo «capolavoro uscito dalle mani di Dio». Di confidenza, di familiarità, perché la Madonna ha voluto considerarsi creatura, ha voluto l’ultimo posto, ha vissuto in umiltà, in semplicità. Se la Madonna è umile, è segno che per noi è accessibile. Possiamo parlarle col nostro linguaggio, con i nostri sentimenti; ci conosce come una madre; è stata donna anche lei, ha camminato per le vie di questo mondo, ha sentito il flusso della storia intorno a lei. «Chi ha sofferto tanto - aggiunge il Papa – come questa Madre che sta sotto la croce del Figlio unico suo e che muore, si direbbe, con lui?». Dobbiamo avere la disinvoltura, la libertà di ricorrere a Lei, di narrarle le vicende della nostra giornata, delle nostre fatiche, delle nostre pene, delle nostre speranze, di invocare la Sua intercessione. E ricorrere alla Madonna significa già convertirsi.

Non si può ricorrere a Lei senza allinearsi un po’ sul paradigma della sua umiltà. Il Papa cita in proposito Sant’Ambrogio, che chiamava la Madonna «tipus», cioè l’esempio, Colei che ci dà il modello autentico, esatto e più alto, ma non per allontanarlo da noi: per avvicinarlo. E nel culto di Maria diventiamo cristiani, diventiamo fedeli, bisognosi di rifare la nostra vita sul modello che ci viene presentato da questa figura unica e splendente.





Domenica, 3 ottobre 1976: SOLENNE RITO DI CANONIZZAZIONE DI BEATRICE DA SILVA MENESES

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Noi non possiamo tessere il breve elogio della nuova Santa, solito a farsi al momento d’una canonizzazione, che sembra proiettare le sembianze di un volto glorioso davanti al nostro sguardo giubilante, perché come l’aspetto del viso straordinariamente bello e puro di Beatrice da Silva, rimase velato per lunghi anni della sua vita terrena, fino alla sua morte beata, così troppe linee del suo aspetto biografico non sono giunte a noi che per riflesso, nella documentazione storica, quasi «per speculum in aenigmate», da cui essa traspare in figura innocente, umile e luminosa, ma senza lasciare alla nostra umana, e pur legittima curiosità, alcun segno di personale espressione. Vengono alle labbra le parole dantesche: «Ov’è Beatrice?» (DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia, «Paradiso», 32, 85); o quelle bibliche risonanti di mistico amore: «O mia colomba, . . . mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è leggiadro» (
Ct 2,14). Perché infatti nessuna parola di questa Santa è pervenuta a noi nelle sue sillabe testuali, nessuna eco perciò della sua voce; oh! Nemmeno alcuno scritto di sua mano, nessun ritratto della sua faccia, troppo avvenente, così si disse, per non essere, ai suoi giovani anni, motivo di turbamento. E nemmeno uno statuto definitivo della regola per la famiglia religiosa, che Ella tuttavia fondò, inaugurandone con la sua morte la nascita.

Ma allora una domanda sorge nell’animo di chi volge l’attenzione e la devozione a questa cittadina del cielo: leggenda è la sua vita? mitica l’opera sua ? No, no: Beatrice da Silva, prima d’essere nel regno eterno del cielo, è stata cittadina della terra: e la sua anagrafe, anzi l’opera sua di Fondatrice d’una nuova e tuttora fiorentissima famiglia religiosa, quella delle Monache Francescane della Santissima Concezione di Maria, non lasciano alcun dubbio, e sostengono di particolare certezza e di edificante esemplarità la storia agiografica di questa splendida figura.

Santa Beatrice da Silva, portoghese d’origine, passò la maggior parte della sua esistenza terrena in terra di Spagna. Ci si permetta dunque di rendere omaggio a queste due nobili Nazioni utilizzandone la lingua per tracciare, con rapidi tocchi, il profilo biografico di una Donna, che non con gli scritti, ma con l’eloquenza ben più convincente della vita, parla al nostro cuore di credenti.

Paolo VI così riassume i momenti più significativi della vita della nuova Santa, in lingua portoghese.

Beatriz Da Silva nasceu em Ceuta, cidade do Norte de Africa voltada para o Mediterraneo, nessa época sob o dominio da Coroa de Portugal. O feliz evento verificou-se em 1426, muito provavelmente, embora alguns biografos falem do ano de 1424.

Nasceu portuguesa, portanto. Seu pai, Dom Ruy Gomes da Silva, quando jovem, havia combatido na conquista da referida cidade de Ceuta, em 1415; e com tanto denodo e valor se houve, que o Capitáo da praca, o nobre Dom Pedro de Meneses o premiou, dando-lhe em Matrimónio a sua própria filha Isabel. Era esta, por diversas aliancas, aparentada com as casas reais de Espanha e Portugal.

Deste Matrimónio nasceram ll filhos, criados e educados com amor e com a esclarecida prudencia da alma profundamente cristá dos progenitores, sobretudo da máe. Para além de Beatriz, destes há a salientar o Beato Amadeu da Silva, o qual abrasou em Itália a Ordem de Sáo Francisco e deu origem a um ramo da Ordem dos Frades Menores reformados, conhecidos por Amadeus.

Pelo ano de 1433 foi o pai de Beatriz da Silva e Meneses nomeado Alcaide-mor da vila de Campo Maior, em Portugal, para onde se transferiu com toda a família. Em Portugal, portanto, transcorreu a nova Santa os tempos da sua meninice e juventude, cultivando as excelsas qualidades da sua alma privilegiada e preparando- se para futuras provacões. A experiencia de sofrimentos físicos e morais, como prova de amor, é frequente no caminho a percorrer por aqueles a quem o Senhor quer dar a coroa da vida, prometida aos que O amam (Cfr. Jc 1,12).

Rivolgendosi ai pellegrini giunti dalla Spagna e dall’America Latina, il Papa dice.

En el año 1447, al casarse Isabel, hija de Juan príncipe de Portugal, con Juan II Rey de Castilla, llevó consigo a tierras de Castilla a Beatriz, la cual había cumplido los veinte años.

Sin embargo, pasado cierto tiempo, debido a que su bellezza provocaba la admiración de los nobles o, quizá, porque la misma reina temía ver en ella una peligrosa rival, Beatriz abandonó la corte real e ingresó en el monasterio de Santo Domingo, de la Orden de Santo Domingo, en el que durante treinta años se dedicó únicamente a Dios.

Después de estos casi treinta anos de dedicación a Dios en el monasterio de Santo Domingo, decidió fundar un nuevo monasterio u Orden de la Inmaculada Concepcion, en honor del Misterio de la Inmaculada Concepcion y para la propagación de su culto. Asi pues, el ano 1484 abandono el monasterio de Santo Domingo y paso, con algunas compafieras, a una casa Ilamada Palacios de Galiana, que le habia donado la reina Isabel la Catolica.

EI dia treinta de abril de 1489, a peticion de Beatriz y de la misma Reina Isabel, el Papa Inocencio VIII autorizo la fundacion del nuevo monasterio y aprobo las principales reglas que, entre tanto, habrian de observarse en el mismo.

Sin embargo, antes de que, conforme al permiso pontificio, iniciara la vida regular en el nuevo monasterio, Beatriz subio a los cielos. No obstante, su Instituto no desaparecio y, a pesar de algunas dificultades, se convirtio en una verdadera Orden religiosa y obtuvo su propia regla el afio 1511.

Il Santo Padre così riprende il discorso in lingua italiana.

Questo, in sintesi, è quanto le fonti storiche ci dicono di Santa Beatrice da Silva. Ed ora l’animo sosta pensoso davanti a questa fragile figura di donna velata, che un certo alone di mistero rende anche più suggestiva, e si domanda se Ella abbia un messaggio per l’uomo di oggi, psicologicamente così lontano dal mondo popolato di cavalieri, principi e dame, dal quale Ella trasse i natali.

Sì, certamente, dobbiamo rispondere.

Vi è intanto il messaggio rappresentato dall’opera stessa di Santa Beatrice, l’ordine delle Concezioniste, sbocciato dal suo cuore innamorato di Dio. La nuova Famiglia religiosa, diffusasi rapidamente nelle diverse Nazioni europee e poi anche nel Nuovo Mondo, da poco scoperto (la prima fondazione Concezionista nel Messico risale al 1540), è anche oggi validamente rappresentata nella Chiesa: con le circa 3000 monache, che popolano gli attuali 150 monasteri sparsi nel mondo, l’ordine testimonia la sua vitale presenza nella Chiesa, una presenza che si qualifica per l’impegno della penitenza e della contemplazione. La stretta clausura, determinata dalla Regola in tutti i dettagli con parecchi anni di anticipo sulla riforma Tridentina ed anche al presente onorata dalle Concezioniste, che hanno preferito essere assenti fisicamente da questa celebrazione per essere in Dio spiritualmente più vicine alla loro Madre, proprio questo intende favorire l’intimo raccoglimento, necessario ad un più intenso e continuato colloquio con Dio. Come non ricordare a questo riguardo le parole, di sapore prettamente francescano, con le quali il cap. X della Regola insiste sulla dimensione orante e contemplativa dell’Ordine? : «Considerino attentamente le Suore che soprattutto devono desiderare di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione, con purità di cuore e devota preghiera; e purificare la coscienza dai desideri terreni e dalle vanità del secolo; e diventare per amore uno spirito con Cristo loro Sposo». Per l’uomo moderno, preso dentro il vortice delle impressioni sensibili moltiplicate dai mass-media fino al limite dell’ossessione, la presenza di queste anime silenziose e vigili, protese verso il mondo delle realtà «non visibili» (Cfr. 2Co 4,18 Rm 8,24 ss.), non rappresenta forse un richiamo provvidenziale a non smarrire una dimensione essenziale della sua natura, quella cioè della vocazione a spaziare sugli orizzonti sconfinati del divino?

C’è un secondo messaggio, che avvicina Santa Beatrice all’esperienza nostra, facendoci apprezzare tutta l’attualità della testimonianza che Ella ci propone. Noi viviamo in una società permissiva, che pare non conoscere più frontiere. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: l’espandersi del vizio in nome di una malintesa libertà, che, ignorando il grido indignato delle rette coscienze, deride e conculca i valori dell’onestà, del pudore, della dignità, del diritto altrui, quei valori cioè su cui si regge ogni ordinato consorzio civile. Ebbene, la società nobiliare del periodo rinascimentale, il mondo delle corti, quale è dipinto dalle cronache dell’epoca, presenta molto spesso, pur con nobili eccezioni, un panorama nel quale ben si rispecchiano certe tristi esperienze di oggi.

Fu quello l’ambiente nel quale la nostra Beatrice maturò la sua scelta: resasi conto ben presto delle passioni, che la sua eccezionale bellezza le suscitava attorno, come fiore che, spuntato in terreno melmoso, si protende verso l’alto con l’intatta corolla per raccogliere il primo raggio di sole, così la nobile fanciulla «senza più dilazione nel decidere - è il suo primo biografo che racconta - prese la strada e abbandonò l’inquietudine della corte, fuggendo da essa, per venire a ricevere la legge della conversazione salutare, dopo il cui adempimento entrasse nella terra promessa ai Santi». Né a questo si limitò lo slancio della sua determinazione verginale: «Ricordandosi - è ancora il suo antico biografo che parla – della bellezza che aveva ricevuto da Dio, decise che nessun uomo e nessuna donna avrebbe visto la sua faccia finché vivesse».

Esagerazione? I Santi rappresentano sempre una provocazione al conformismo delle nostre abitudini, spesso ritenute sagge semplicemente perché comode. Il radicalismo della loro testimonianza vuol essere una scossa alla nostra pigrizia e un invito alla riscoperta di qualche valore dimenticato; il valore, ad esempio, della castità come coraggioso autocontrollo degli istinti e gioiosa esperienza di Dio nella limpida trasparenza dello spirito. Non è, questa, lezione attualissima per gli uomini d’oggi?

Ma un’ultima parola vuole dirci stamane Santa Beatrice da Silva. È forse la parola più importante, perché in essa è racchiuso il segreto della sua esperienza spirituale e della sua santità; questa parola è il nome di Maria e precisamente di Maria Immacolata. La candida nitidezza della Vergine fu l’ideale della sua vita; lo sottolinea il suo primo biografo: «le fu accresciuta la grazia di una particolare devozione alla Concezione senza macchia della Regina del cielo, della quale, dacché seppe qualcosa, fu intimamente devota». Tale devozione Ella lasciò, in significativa eredità, alle sue figlie spirituali, disponendo che quella fosse la caratteristica distintiva del nuovo Ordine, « un ordine - per usare le parole di un altro suo antico biografo - dove per ufficio, come pure per significazione d’abito e regola, approvata dalla santa Chiesa di Roma, fosse questa Santissima Concezione della gloriosa Vergine onorata, dichiarata e con lodi continue esaltata ». In tal modo, non pochi secoli prima della proclamazione del dogma e mentre ancora fervevano le dispute teologiche, l’Immacolata Concezione si rivelava forza viva nella storia della salvezza e nella vita della Chiesa, suscitando un Ordine contemplativo che dal niveo fulgore della «Tutta pura» traeva ispirazione e slancio per una più generosa consacrazione a Cristo, nel quotidiano sforzo di nulla sottrarre alla dolce sovranità del suo amore.

Questo è messaggio valido anche per noi, artefici di un progresso che ci esalta e ci spaventa insieme per la sua intrinseca ambiguità, portatori di aspirazioni nobilissime e succubi tuttavia di umilianti debolezze, per noi uomini moderni «tormentati tra la speranza e l’angoscia» (Gaudium et Spes, GS 4). Come non sentire il fascino di Maria, che «con la sua materna carità si prende cura dei fratelli del Figlio suo ancora peregrinanti e posti in mezzo a pericoli ed affanni» (Lumen Gentium, LG 62), come non provare il bisogno di protendere verso di Lei le nostre mani, spesso incerte e brancolanti, per essere da Lei sorretti e guidati sulle strade sicure che conducono al suo Figlio?

Questo è l’invito che, quale sintesi di tutta la sua esperienza spirituale, ci rivolge oggi Santa Beatrice da Silva: guardare a Maria Immacolata, seguirne l’esempio, invocarne la protezione, perché nel provvido disegno di salvezza «la Madre di Gesù ,., sulla terra brilla . . . innanzi al peregrinante Popolo di Dio quale segno di sicura speranza e di consolazione, fino a quando non verrà il giorno del Signore (Cfr. 2P 3,10)» (Lumen Gentium. LG 68).

Prima di concludere, il Santo Padre così saluta la Nazione Portoghese e quella Spagnola.

Honra e gloria a Portugal nobre Pais de fidalga tradicao de fidelidade eclesial, hoje em festa com a festa da Igreja, ao ser canonizada urna sua filha: apelo e estimulo em particular para os portugueses. Por vos, amados filhos presentes, com realce para os parentes da nova Santa, o Nosso cordial saudar e votos de todo o bem, com o celeste valimento de Santa Beatriz da Silva, para o querido Portugal.

¡Honor y alabanza a España, que ha sabido cultivar y conservar con tanto esmero este nuevo brote de santidad! El viene a acrecentar el rico patrimonio espiritual de esta Nación bendecida, que ha dado al mundo ejemplares tan eximios en el camino de la virtud, del seguimiento de Cristo, de fidelidad a la Iglesia.

Pueda el ejemplo de la nueva Santa suscitar, sobre todo en las jóvenes generaciones, una floración abundante de espiritualidad.

Así lo pedimos a Santa Beatriz da Silva, mientras le suplicamos que proteja constantemente a España y a la Iglesia.





Domenica, 17 ottobre 1976: SOLENNE CANONIZZAZIONE IN SAN PIETRO DEL BEATO GIOVANNI OGILVIE

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We have great joy in being able to announce to all of God’s pilgrim Church on earth the glorious name of a new Saint, that of John Ogilvie, who died a martyr in Glasgow, on 10 March 1615, and who has already been accorded the honour of beatification by our venerable predecessor Pope Pius XI, on 22 December 1929.

Voi avete testé ascoltato la lettura d’un breve profilo biografico di Giovanni Ogilvie, fatta dal Cardinale Corrado Bafile, Prefetto della Sacra Congregazione per le Cause dei Santi. Voi sapete dunque già molto di lui; sapete che era figlio della terra benedetta dalla storia di altri Santi cari alla Chiesa, come San Columba e Santa Margherita: era Scozzese; sapete che venuto nel Continente si era risolutamente convertito al cattolicesimo; sapete che egli era un giovane membro della Compagnia di Gesù, nel periodo originario (fine del secolo XVI e principio del XVII) della sua ardente e feconda milizia apostolica; sapete che il martirio troncò la vita di lui a trentacinque anni di età. E come avviene di solito al momento in cui un cittadino mortale della terra è solennemente riconosciuto cittadino immortale del cielo, cioè è canonizzato, la gioia così prevale nei cuori fedeli, che ogni altro sentimento ne rimane quasi abbagliato, e ogni altra considerazione superflua alla nostra spirituale letizia; è Santo, noi diciamo, e tanto ci basta per ammirarne la figura, per tributargli la nostra devozione, per invocarne la celeste intercessione.

Ma poi due momenti succedono negli animi attenti, quello della riflessione agiografica e quello dell’imitazione ascetica. E cioè la luce, che il nuovo Santo proietta d’intorno a sé, ci invita ad osservare le vicende della sua vita ed a cercarne il significato storico e spirituale: Santo, perché? ci si chiede. Quali sono i titoli che giustificano l’attribuzione di questa somma prerogativa, ch’è la santità? qual è il significato storico, psicologico e morale di questa vita eccezionale? E alla fine il valore tipico di essa c’incanta, e la sua irradiazione religiosa e morale ci fa ammiratori, discepoli, seguaci, amici del Santo, al quale vorremmo essere legati da una qualche parentela spirituale.

Basta la vita d’un Santo, osservata con amorosa intelligenza, per rivelarci molte cose del Regno di Dio. Vi è sopra un bel colle romano, una villa ben nota al pellegrino, che accostando l’occhio allo spiraglio della serratura della porta chiusa vede con sorpresa profilarsi sul cielo la cupola perfetta e maestosa della Basilica di San Pietro, quasi una visione d’oltremondo. Così la vicenda vissuta di chi, come ogni Santo, lascia intravedere attraverso di sé il Cristo, che è suo e che egli, in modo sempre personale e originale, rivela. Ed ecco che la breve biografia del Santo, che noi oggi celebriamo, molte, moltissime cose d’immenso interesse ci lascia intravedere! il quadro storico, per primo, caratterizzato dalle grandi crisi delle varie espressioni della Riforma protestante, luterana, anglicana, calvinista e presbiteriana, arginate con immensa, ma non invalida fatica del Concilio di Trento, e con l’intensa ripresa della vita cattolica, spesso tormentata da guerre, da lotte religiose e, anche, da decadenti costumi. La cristianità si scompone, e sopporta ormai la permanenza d’insanabili divisioni confessionali, a cui l’ecumenismo moderno vorrebbe porre qualche risolutivo rimedio. La figura del nostro Santo non è comprensibile al di fuori di questa agitata tempesta spirituale.

Ma non qui noi fermeremo in questo momento la nostra attenzione, pensando bastare per la nostra devozione la ricerca del punto focale della vita del nuovo Santo. Questo punto è innanzi tutto soggettivo; è evidente; è il punto focale d’ogni martire, quello che forma la ragione profonda della sua santità, e quindi della sua gloria; e cioè: vi è nella vita umana un valore superiore alla vita stessa; vi è un dovere che supera tutti gli altri; vi è una certezza che messa a confronto con qualsiasi altra non può essere mai smentita; vi è una cosa necessaria per la quale ogni altra cosa dev’essere posposta e, se occorre, sacrificata. Questo valore, questo dovere, questa certezza, questa cosa necessaria è la fede, è la verità della fede. Questa assolutezza riconosciuta alla fede è il nucleo centrale della psicologia del martire, cioè del testimonio di Cristo. Lo è anche per Giovanni Ogilvie.

Noi siamo spesso portati a considerare nei martiri le sofferenze fisiche, le atroci e crudeli sofferenze alle quali essi sono sottoposti, più che il loro motivo, tanto è l’orrore ch’esse provocano nella nostra mente e nella nostra sensibilità. Ma non sono le sofferenze il titolo supremo specifico della loro grandezza e della loro autorità a nostro riguardo. Ce lo ricorda S. Agostino dicendo che non è la pena, ma la loro causa che fa i martiri veri: «quod martyres veros non faciat poena, sed causa» (S. AUGUSTINI EP 89, PL 2, 310).

E quale fu la causa del martirio dell’Ogilvie? È facile scoprirla: la fede, dicevamo. Ma la fede è un mondo: quale punto della fede, quale verità della fede fece da centro al combattimento del suo martirio? La voce autorizzata da Cristo ad annunciarla: «voi mi sarete testi» (
Ac 1,8), testimoni, araldi, martiri. «Andate e insegnate» (Mt 28,19): «chi ascolta voi, ascolta me» (Lc 10,16) disse Gesù. La Chiesa maestra, la fede insegnata da un’autorità, anteriore al libro stesso che la documenta; noi, diremmo oggi l’ecclesiologia autentica, la quale dalla Riforma in poi è diventata l’epicentro delle controversie che turbano l’unità religiosa fondata da Cristo.

Scoperto questo punto centrale e dolente della testimonianza di Giovanni Ogilvie noi non andremo oltre nel nostro discorso; ci basterà registrare che la santità del nostro eroe è caratterizzata dalla sua testimonianza di devozione al magistero della Chiesa e di fede nella Messa, atto di culto che celebra la Parola di Dio e realmente la rende presente. Ma ora noi vogliamo fare dell’elogio di Ogilvie un’apologia polemica. Vogliamo piuttosto esprimere la sovrana speranza che il suo martirio giovi a confermare la nostra fede nel magistero della Chiesa e nel prodigio sacramentale e sacrificale dell’Eucaristia. La speranza che intorno a queste somme verità testimoniate dal nuovo Santo convergano i passi, convergano i cuori di quelli che allora, al momento del suo martirio, lo condannarono come traditore della lealtà dovuta alla Potestà civile della sua patria, mentre altro non fu che assertore dell’autonomia della Potestà religiosa secondo la sentenza eterna di Cristo Signore: «Date a Cesare ciò ch’è di Cesare, e date a Dio ciò ch’è di Dio» (Mt 22,21).

Così, che, con serena comprensione dei drammi della storia passata, e con amico presagio d’una più felice storia avvenire, noi possiamo oggi attribuire a gloria del nostro Martire, con quanti altri soffrirono per la medesima causa, il merito d’aver eroicamente contribuito col suo sacrificio a rivendicare alla civiltà la libertà religiosa, quale il recente Concilio ha illustrata nella sua dichiarazione «Dignitatis Humanae»: nessuno dev’essere costretto, nessuno dev’essere impedito a professare la religione, mentre per tutti esiste il grave obbligo morale di cercare e seguire la verità, quella religiosa specialmente (Dignitatis Humanae, DH 2 DH 6 DH 9; S. AUGUSTINI Contra litteras Petiliani: PL 43, 315). Perciò il Santo da noi venerato, lungi dall’essere emblema di discordia civile o spirituale, placherà l’infausta memoria della violenza o dell’abuso d’autorità per causa religiosa, e ci aiuterà tutti a risolvere le vertenze relative al nostro credo rispettivo in propositi di mutuo rispetto, di serena ricerca e di fedele adesione alla Verità per ricomporre quella sospirata unità di fede e di carità, che Cristo ci insegnò essere espressione suprema del suo Vangelo (Cfr. Jn 17).

Ed affinché noi tutti siamo resi degni di giungere a questo epilogo della nostra celebrazione agiografica, ed a questa sorgente di ascetica imitazione, invocheremo umili e fidenti: San Giovanni Ogilvie, prega per noi!

The conclusion of this very simple talk of ours cannot be without a word of ardent satisfaction for you, sons and daughters of Scotland, who have come to this solemn and culminating canonization of the new Saint-the Saint whom you, above all others, have the right to call your own.

We are happy to recognize in this sympathetic and heroic figure of a man, a saint and a martyr the symbol of your own religious, strong and generous land. And in Saint John Ogilvie we willingly greet a glorious champion of your people, an ideal exemplar of your past history, a magnificent inspiration for your happy future. We honour in Saint John Ogilvie an outstanding member of that Society of Jesus which has given so many other valiant soldiers like him to the cause of Christ and of civilization. In him we jubilantly greet a beloved son of the Catholic Church, a typical citizen of the world who is called to discover the light for its harmony, progress and peace in the faith of Christ.

Honour to you, representatives of a Scotland that has given to humanity such a great hero of freedom and of faith.






B. Paolo VI Omelie 8876