B. Paolo VI Omelie 23177

Domingo 23 de enero de 1977: MISA DE CANONIZACIÓN DE RAFAELA MARIA PORRAS Y AYLLÓN

23177
In spagnolo

Il Papa cosi prosegue in lingua italiana.

Non possiamo in questa entusiasmante assemblea non esprimere i voti che spontaneamente salgono dall’intimo del Nostro animo in questo momento solenne, che cioè la missione spirituale di Santa Raffaella Maria del Sacro Cuore continui a lasciare un solco luminoso e fecondo nella vita della Chiesa. In ciò, per prime, siete impegnate voi, Ancelle del Sacratissimo Cuore di Gesù che avete ricevuto in preziosa eredità il carisma della vostra venerata Fondatrice. Vivetene fedelmente lo spirito, e si traduca in opere di carità l’ardore del suo cuore assetato di Dio ed il suo amore spoglio di ogni affetto terreno per potersi consacrare totalmente all’adorazione del Signore e al servizio delle anime.

E in questo impegno desideriamo vedere associata la Spagna cattolica, la quale con questa Santa ha saputo offrire alla Chiesa un nuovo fiore di santità dal seno delle gloriose tradizioni morali e spirituali del suo popolo. Oh! possa questa Santa, che noi siamo felici di innalzare alla gloria degli Altari, esserle propizia interceditrice delle grazie, di cui oggi sembra avere maggiore bisogno: la fermezza nella vera fede, la fedeltà alla Chiesa, la santità del suo Clero, la fratellanza sincera fra tutti i ceti sociali della Nazione, così degnamente rappresentata in special modo dalla Delegazione governativa presente a questo rito. E possa la sua fulgida figura, coronata oggi dall’aureola della santità, effondere sulla Chiesa intera e sul mondo la verità, la carità, la pace di Cristo.



Mercoledì, 23 febbraio 1977: SACRO RITO DELLE CENERI

23277

«Voi tutti conoscete - esordisce Paolo VI - i riti e il loro significato in questo giorno singolare e benedetto in cui comincia la preparazione alla Santa Pasqua, e sapete quanto questi riti siano espressivi, tanto che darne anche in questo momento una rapida e fugace memoria può essere utile a sentirli fecondi, attuali, provvidi e, Dio voglia, operanti nei nostri spiriti». Nel sottolineare l’importanza di quella realtà, di quel mistero naturale che si chiama il tempo, il Papa ricorda una celebre pagina delle «Confessioni» di Sant’Agostino in cui si prospetta la difficoltà di definire questa realtà, questa manifestazione del mondo fisico naturale. È una pagina rimasta celebre anche quando gli studi successivi hanno dato nuove definizioni del tempo e della relazione fra tempo e spazio.

Ma il tempo per noi è degno di particolare considerazione perché lo troviamo nella Bibbia e nel Vangelo. Il Signore ripete molte volte «Questa è l’ora», «Questa non è ancora l’ora», «Viene l’ora» e così via. Gesù vive calcolando gli eventi della sua presenza nel mondo nella misura di un tempo che egli solo conosce e determina. Noi abbiamo l’abitudine di parlare del tempo come di una estensione, la storia, che consideriamo ancora come una realtà presente e vivente. Ma Sant’Agostino dice: il momento precedente a questo, il passato, non esiste più. Il momento successivo a questo non esiste ancora. Noi viviamo in questo attimo fuggente, in questo momento solo, e il resto è nulla e non ritorna più. Questa irrevocabilità della corsa del tempo, del succedersi degli avvenimenti dovrebbe veramente impressionarci; siamo abituati invece a considerare globalmente le realtà che ci circondano, la storia che si svolge intorno a noi, a prevedere gli avvenimenti e quasi a conferire ad essi una realtà che non hanno, mentre a pensarci bene noi viviamo in questo attimo fuggente che corre e che porta via la nostra esistenza. Essa è collegata a questa nostra permanenza passeggera e fugace in quella realtà difficilmente definibile che si chiama il tempo.

«Noi abbiamo bisogno del tempo - dice il Papa - come della cosa più preziosa di cui possiamo fruire. E il dono grande del Signore, la vita, che cos’è se non il tempo che il Signore ci ha dato da godere? È una vita che non ritorna, che passa, che fugge, e che dovrebbe essere piena di opere buone, di pensieri alti e di azioni tali da trasfigurarla in un volo spirituale, mentre invece la calcoliamo con il metro, con le misure delle cose passeggere e diamo alla nostra coscienza, alla nostra maniera di pensare una irrealtà. Viviamo nella fantasia del tempo che era e del tempo che sarà credendo che questa sia l’immagine reale della nostra esistenza mentre la nostra esistenza è fugace ma quanto mai preziosa».

Il rito delle Ceneri ci ricorda la fugacità, la precarietà, la nullità della nostra vita presente e nello stesso tempo la sua preziosità. Dobbiamo afferrare il momento perché non ritorna più. È la sola disponibilità di beni che abbiamo; in un istante possiamo decidere del nostro destino che va oltre i secoli, per l’eternità. Ed ecco che appare chiara la preziosità enorme del vivere in vigilanza, in attenzione, in intensità, in propositi continui perché il corso dei nostri atti e degli avvenimenti della nostra vita possa essere coerente col grande disegno che il Signore vi ha sovrapposto, quello del nostro rapporto di creature così deboli, così fugaci, con l’eternità, con la pienezza dell’esistenza alla quale il Signore ci invita e ci ha destinati. Guardiamo di non vivere nell’illusione - ammonisce il Papa -. La mentalità degli uomini in gran parte è tutta assorbita dall’illusione che siano valori, che siano cose davvero degne di essere conquistate e vissute quelle che noi adoperiamo, e viviamo, e cerchiamo, mentre a ben guardare non hanno nessun valore. Forse ci possono essere anche nemiche, perché fugacemente ma perdutamente ne abbiamo fatto un uso illecito o non approvato dalla legge di Dio.

«Questo pensiero della rapacità del tempo che divora la nostra vita e la incenerisce - dice il Santo Padre - dovrebbe essere il nostro pensiero dominante. Guardiamo di non sopravvalutare le cose che passano nella scena fugace della nostra vita presente; guardiamo invece di cercare in questa stessa vita presente, in questa scena fugace i valori più validi quelli che restano per l’eternità».

Quid hoc ad aeternitatem? insegna Sant’Ignazio. A cosa serve questo per l’eternità? Il metro della nostra considerazione, del nostro giudizio dovrebbe essere proprio questo. In proposito, il Papa richiama alla memoria la figura del Principe di Machiavelli. Questo famoso personaggio aveva tutto pensato, tutto provveduto, tutto calcolato, eccetto una cosa, che doveva morire. E la sua vita fu, come si sa, rapidamente stroncata, e tutto il grande disegno di creare una forza politica ed una espressione nazionale fuori della storia, fuori del tempo andò in fumo. Paolo VI richiama inoltre alla memoria un altro personaggio storico vissuto mezzo secolo dopo, il quale nella stessa visione della fugacità delle cose trovò la sua salvezza. Si tratta di Francesco Borgia, che era alla corte di Spagna quando morì l’imperatrice Isabella. Incaricato di verificare la salma, restò così impressionato dalla corruzione di quel povero corpo ormai divorato dalla morte che sentì come la sua stessa vita sarebbe stata così consumata. Sentì la fugacità e quindi la falsità delle cose, e diventò poco tempo dopo, passando di fase in fase, figlio della Compagnia di Gesù, figlio di Sant’Ignazio. E fu lui a donare a Roma la Chiesa del Gesù, come terzo successore di Sant’Ignazio. La visione della fugacità delle cose fu per lui una lezione che portò alla ricerca delle cose che restano e delle cose che valgono.

«Che cosa dobbiamo fare - prosegue il Papa - di questo tempo che fugge, che trascina e divora le realtà cui crediamo di poter affidare il nostro cuore? È qui ancora il Vangelo che parla: Convertitevi. È la metanoia. Dobbiamo cambiare la nostra mentalità. Gesù lo ripete due volte al principio della sua predicazione: Convertitevi, convertitevi, perché viene il regno di Dio. Convertirsi vuol dire modificare la nostra mentalità, non fissarla nelle cose fugaci e false ma in valori e in beni che restano, in azioni che valgono per l’eternità. Guardiamo di convertirci e di fare di questa vita una preparazione alla celebrazione pasquale anzitutto, e poi alla Pasqua eterna, quella del nostro incontro con Dio, con Cristo, con lo Spirito in cui siamo stati battezzati e in cui speriamo di poter vivere per l’eternità».





Domenica, 3 aprile 1977: CELEBRAZIONE LITURGICA DELLA DOMENICA DELLE PALME

30477

Fratelli e Figli carissimi!

Procuriamo di comprendere. Perché siamo qua convocati? Perché è la «Domenica delle Palme». E che cosa vuol dire «Domenica delle Palme»? Vuol dire che oggi il pensiero della Chiesa è molto interessato a ricordare, a rievocare un fatto nella vita di Gesù molto importante; così importante che riguarda anche noi. Fate attenzione: non si tratta soltanto di un rito commemorativo; cioè di una memoria celebrata per ricordare un episodio della storia evangelica. Lo ricordate l’episodio.

Gesù è a Betania, a pochi chilometri da Gerusalemme. A Betania Gesù aveva risuscitato Lazzaro, fatto questo che aveva commosso il popolo; la notizia aveva prodotto grande meraviglia; e la gente era accorsa per vedere non solo Gesti, ma per vedere altresì Lazzaro, il risuscitato. Vi era una grande folla, anche perché era vicina la Pasqua ebraica, la ricorrenza annuale in cui da tutta la Palestina accorreva gente a Gerusalemme. Vi era dappertutto grande eccitazione e fervore nella moltitudine; e vi era grande rabbia nei Capi giudaici, tanto che fino da questo momento pensavano come uccidere non solo Gesù, ma anche Lazzaro per reprimere la popolarità che si era fatta intorno a Gesù stesso (
Jn 12,10-11). Voi sapete il resto: Gesù, a Bethfage prima di entrare in Gerusalemme, monta sopra un asinello, e si avvia verso la città, e l’entusiasmo del popolo non si contiene più, e scoppia in applausi; in applausi espressi da acclamazioni speciali: Hosanna! cioè evviva al Figlio di David! benedetto Colui che viene nel nome del Signore! e va agitando le palme, cioè rami strappati dagli alberi, operazione questa che caratterizza la scena, e che per l’entusiasmo dei giovani e dei fanciulli si prolungò accompagnando essi Gesù fino al Tempio, con grande indignazione dei nemici di Lui, che prese alla fine le difese di quella turba giovanile: «Sì, disse allora il Maestro, dalla bocca di bambini è scaturita la lode», come Davide, in un suo salmo, aveva predetto (Ps 8,3).

Quale significato aveva questa accoglienza fatta a Gesù dal popolo di Gerusalemme e dalla gente del Paese affluita nella città? Aveva un significato specialissimo, quello di riconoscere in Gesù il Messia. E che voleva dire allora questo titolo di Messia? Messia voleva dire una persona consacrata rappresentante di Dio, il Cristo, cioè uno rivestito di dignità sacerdotale e regale, un personaggio in cui erano realizzate le speranze profetiche del Popolo ebraico, colui che avrebbe compiuto in se stesso la figura del Re ideale, liberatore dalla dominazione straniera e assertore della gloria e dei destini superlativi a cui Israele era misteriosamente destinato (Cfr. Jn 1,41 Jn 4,25). Era un titolo ancora dal significato impreciso, ma che ai giorni di Gesù dominava le fantasie e gli spiriti impazienti e fiduciosi che il suo tempo era venuto (Cfr. Mt 24,23). Era il titolo della speranza escatologica, cioè finale per Israele, per il Popolo eletto.

L’episodio delle palme segna perciò nel Vangelo un momento risolutivo, d’una importanza straordinaria: Gesù è riconosciuto, è proclamato Messia; è acclamato come il Cristo, tanto atteso, tanto amato. Ormai la vita, la storia, la sorte d’Israele non avrà più senso che in Lui. Gesù di Nazareth (Cfr. G. RICCIOTTI, Vita di Gesù Cristo, p. 606, n. 505).

Ecco allora il senso, il valore di questa nostra solennità liturgica. Noi riconosciamo in Gesù di Nazareth il Messia, cioè il Cristo. Questa celebrazione significa per noi un grande atto di fede. Noi accettiamo, anzi noi esaltiamo il Messia, il Messia! Il Cristo salvatore, nell’umile Gesù, che nacque a Betlemme, che fino ai trenta anni visse a Nazareth come modesto artigiano, e che poi fu presentato e battezzato da Giovanni al Giordano, e cominciò a predicare il Regno di Dio, a fare miracoli strepitosi (come la moltiplicazione dei pani), a diffondere messaggi straordinari (pensate al discorso delle beatitudini), a risuscitare perfino i morti (pensate alla risurrezione di Lazzaro). Gesù è il Messia, è il Cristo, è il Re inviato da Dio, è il Figlio dell’uomo ed è il Figlio di Dio. La sua definizione è raggiunta! Quale sarà il seguito di questa certezza vedremo successivamente; il dramma messianico, nel suo aspetto pubblico universale e drammatico comincia qui: Gesù è il Cristo.

Cominciò per i contemporanei di Gesù. Comincia per noi, con una formidabile domanda: noi, noi riconosciamo in quel Gesù di Nazareth, del Vangelo, il Messia, il Cristo, il Re divino, il dominatore della storia, il Salvatore perenne, Colui che ha detto: «Io sarò con voi tutti (presente ed invisibile, ma vivo e reale), sino alla fine del mondo»? (Mt 28,20) Ecco l’importanza per noi, figli del secolo ventesimo, per noi Romani, per ciascuno di noi, personalmente, del rito che stiamo compiendo: riconosciamo noi, riconoscete voi in Gesù il Messia, l’inviato da Dio, anzi il Verbo di Dio fatto uomo, che si mette al centro della nostra vita, al cardine dei nostri destini? Lo riconosciamo?

Ecco: la questione ci investe come un uragano. La memoria del fatto evangelico diventa attualità. Lo riconosciamo quel Gesù come l’arbitro delle nostre sorti? Abbiamo paura? Noi vediamo molte assenze! perché? che cosa sarà di tanti assenti? Noi vediamo molti pavidi, timidi, opportunisti: perché, dicono, esporsi al pericolo che l’essere cristiani comporta? V’è chi suggerisce: fuggi, che è meglio! Noi sappiamo che altri, e non pochi, sono guidati da interessi immediati: piacere, possedere, vivere senza pensieri superiori: vite senza ideali, esaltate e divorate dal tempo che passa!

E voi, Figli carissimi, voi che dite? Oh! noi vi vediamo con la palma in mano, col ramo primaverile dell’ulivo in mano, pronti ad agitarlo con gesto festivo, che dice: noi siamo presenti! Siete presenti, giovani? avete scoperta la vostra ora messianica? avete capito che la soluzione vera della vita è quella offerta dal Vangelo, dalla Chiesa che lo predica, da Cristo, alla vita del quale voi potete essere uniti? avete espresso nel cuore e nell’azione la vostra adesione al duplice invito di Cristo, essere con Lui figli di Dio, cioè uomini illuminati sul senso della vita e de1 mondo, e così divinamente salvati; ed essere poi con Lui figli dell’uomo, cioè fratelli di quanti condividono la sorte di questa nostra esistenza ed hanno bisogno d’essere amati, serviti, curati?

Avete compreso la verità, la bellezza, Ia forza della fede, che il Cristo offre alla vostra singola personalità e alla famiglia umana, alla società intera a cui appartenete? Siete davvero agitatori dell’ulivo della pace e della giustizia? Sì? Allora noi vi diremo: Cristo è vostro! Non temete più! Neanche la croce, la sua croce, che Egli pure vi destinerà. Il trionfo regale di Gesù Cristo conduce anche alla Croce . . . Ma non temete, vi ripetiamo: la vita, la vera vita vi è così domani assicurata!

Chers Fils et Filles de langue française,

Nous vous exhortons vivement, vous aussi, à vous unir à tette acclamation de Jésus, entrant à Jérusalem au milieu d’une foule immense et remplie de joie, et reconnu comme le Messie, le Christ, Ie Sauveur, le nouveau roi d’Israel, le fils de David. C’est l’événement qui inaugure le «Règne de Dieu», les nouvelles relations religieuses entre l’humanité croyante et la Divinité, relations qui continuent encore aujourd’hui, mais qui ont coûté à Jésus-Christ le sacrifice rédempteur de la Croix, suivi de sa Résurrection. Oui, reconnaissons tous en Jésus, le Messie, le Christ, notre Roi, notre Sauveur!

Dear pilgrims from English-speaking countries, we call on you also to welcome Jesus as he Comes amid the rejoicing throug and is recognized as the Son of David, the King of Israel, the Messiah. He Comes to bring us the peace he gained by his Cross and resurrection. Let us join in the acclamations and accept him as our King and our Saviour.

Liebe Gläubige aus den Länd ern deutscher Sprache!

Auch sie laden Wir herzlich dazu ein, zusammen mit allen an- A wesenden heute Jesus zu huldigen, der inmitten einer grossen Volksmenge seinen festlichen Einzug hält. Jesus wird auf diese Weise als der Messias, als Christus, der Erlöser, der neue König von Israel und der Sohn Davids von den Menschen anerkannt. Dieses Ereignis bezeichnet den Beginn des »Reiches Gottes«. Es begründet den neuen messianischen Bund zwischen der gläubigen Menschheit und Gott, der auch noch heute besteht. Jesus Christus selbst hat ihn uns durch sein Erlosungsopfer am Kreuz erworben und durch seine Auferstehung endgültig besiegelt. Lasst uns alle in Jesus den Messias, Christus, unseren König und unseren Erlöser anerkennen und ihn dankbaren Herzens preisen und verherrlichen!

También a vosotros, queridos fieles de lengua española, os invitamos a que os unais y aclameis a Jesús, que entra en medio de una muchedumbre festiva y es reconocido como Mesias, como Cristo, como Salvador, como nuevo Rey de Israel. Se trata de un acontecimiento que inaugura el «Reino de Dios», la nueva relación religiosa entre la humanidad creyente y Ia Divinidad, relación todavia actual, pero que le costó a Jesucristo el sacrificio redentor de la Cruz, seguido de su Resurrección. Reconozcamos todos en Jesús al Mesias, a Cristo, a nuestro Rey, a nuestro Salvador.

E voi, Ragazzi, avete compreso?

Abbiamo detto che Gesù, prima della sua Passione e Morte e della sua Risurrezione, è stato, umilmente ma anche solennemente, riconosciuto come Re, successore del Re David, come Messia, cioè come Cristo, tanto che ora sempre lo chiamiamo Gesù Cristo, cioè come mandato da Dio per salvare il mondo, per salvare ciascuno di noi, per salvare proprio voi, ognuno di voi.

Sentite: voi davvero riconoscete che Gesù è il nostro Salvatore? Sì? gli promettete di essergli sempre fedeli? Sì?

Allora adesso agitate in suo onore le Palme, e i rami d’olivo che tenete in mano, e gridate con noi: Evviva Gesù! evviva il Signore!






Giovedì, 7 aprile 1977: SANTA MESSA «IN CENA DOMINI»

7477
Noi tutti siamo in qualche modo coscienti della gravità, della densità, dell’importanza del rito religioso che oggi, commemorando, anzi rinnovando il Giovedì Santo, cioè la vigilia della Passione e della morte di Gesù Cristo, noi celebriamo. Vero è che sempre il significato di questo rito, ch’è la Messa, la santa Messa ogni giorno celebrata nella Chiesa di Dio, pesa e splende negli animi di chi ha l’inestimabile ventura di farne la religiosa oblazione, o di assistervi con spirituale partecipazione, né l’abitudine di questo atto religioso, sommo per eccellenza, attenua la commozione dei sentimenti che gli sono propri, ma il fatto che oggi, con atto riflesso e totale, la liturgia ci invita a fissare la nostra pietà sul momento storico, e reso rinnovabile e perenne, della istituzione della santissima Eucaristia ci obbliga a tentare una considerazione comprensiva del mistero, perché veramente mistero esso è, che stiamo compiendo; e dovere di brevità, specialmente parlando a Fedeli competenti, ci consente di condensare in tre riflessioni quanto su tale mistero è dovere ricordare.

La prima riflessione, che potremmo qualificare come una convergenza, riguarda il fatto che la scena evangelica posta davanti alla nostra attenzione è una cena, l’ultima cena di Gesù con i suoi Discepoli, una cena rituale, la cena dell’agnello pasquale, ebraica, anticipata ma identica a quella che il giorno dopo, venerdì, il ceto sadduceo e sacerdotale celebrerà (Cfr. G. RICCIOTTI, Vita di Gesù Cristo, nn. 75 et 536 ss.). Chi non sa quale importanza storica e rituale aveva nel costume del popolo ebraico la consumazione di questa cena, in cui l’agnello era simbolo della liberazione dalla soggezione all’Egitto? Gesù era già stato acclamato da Giovanni Battista: «l’agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo» (
Jn 1,29 Jn 1,36; et cfr. Jr 11,19 et Is 53,7). Ebbene, Gesù, vittima, la sola veramente liberatrice dalla schiavitù del peccato, subentra alla figura che lo aveva rappresentato durante l’antico Testamento e inaugura il nuovo Testamento; e stabilisce così un rapporto religioso più perfetto, immensamente più intimo ed operante con quanti avranno la fortuna di credere in Lui e d’essere associati alla vita stessa del Cristo (Cfr. 1P 1,19). L’era nuova, la nostra, quella della Redenzione, è così aperta al genere umano seguace di Cristo.

La seconda riflessione riguarda il punto focale della Cena d’addio. Qui domina l’Amore. Si direbbe che trabocca dalle parole del Signore, trabocca dall’azione: «. . . . dopo d’aver amato i suoi ch’erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Jn 13,1). Voi avete presente certamente nei vostri animi, e il gesto di somma umiltà compiuto dal Signore con la lavanda dei piedi ai suoi apostoli, indarno renitente Pietro, e soprattutto l’istituzione dell’Eucaristia, mediante la quale, si direbbe, violando con amoroso impero onnipotente le inesorabili leggi fisiche, Gesù si rende presente sotto le apparenze del pane e del vino per farsi alimento sacrificale e vitale dei suoi commensali . . .! Impossibile! impossibile! noi staremmo per gridare, se non fosse stato Lui stesso Gesù ad affermare con invincibile asseveranza: «Io sono il pane della vita . . . Chi mangia questo pane vivrà in eterno . . .». Questo linguaggio è duro, commentano gli ancora increduli discepoli. E Gesù di rincalzo: «Questo vi scandalizza? . . . le parole che Io vi ho dette sono spirito e vita!» (Jn 6,58 Jn 6,63), mentre nella scena stessa della Cena Egli rendeva universale e perenne la possibilità del prodigio eucaristico con l’istituzione simultanea d’un altro Sacramento, quello dell’Ordine sacerdotale, trasfondendo nei discepoli esterrefatti la divina sua potestà: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19 1Co 11,24).

Ma una terza riflessione s’impone: durante la Cena parlano ancora le figure: il pane diventa Corpo, ma conserva le apparenze di pane; il vino diventa Sangue ma a vederlo appare ancora come vino: cioè qui la morte di Cristo è incruenta, è tuttora rappresentata. La Croce è nascosta, ma l’oblazione che sarà consumata sulla Croce è già in atto: l’Eucaristia è sacrificio! (Cfr. DE LA TAILLE, Mysterium Fidei, c. III, p. 33 ss.; S. THOMAE Summa Theologiae, III 48,0; P. NAU, Le mystère du Corps et du Sang du Seigneur.)

Così che il Sacrificio dell’altare e quello della Croce sono la stessa misteriosa realtà: nell’uno l’altro riflette realmente il dramma della Croce (Cfr. S. AUGUSTINI In PR 21,27, PL 36, 178).

Qui le nostre forze speculative sembrano arrestarsi. Il capo si inchina, e adora, e la mente vacilla davanti a Realtà così superiori alla nostra capacità di misurarle e di contenerle. Vengono alle labbra le parole del povero padre dell’epilettico nel Vangelo del Signore: «Credo, sì, ma tu aiutami nella mia incredulità» (Mc 9,24). Ma il cuore prosegue, come il nostro qui, questa sera, ed esclama come San Pietro dopo il discorso di Cristo sull’Eucaristia-sacrificio: «Signore, da chi andremo noi? Tu hai parole di vita eterna» (Jn 6,68).






Domingo 8 de mayo de 1977: MISA DE BEATIFICACIÓN DE MARÍA ROSA MOLAS Y VALLVÉ

8577
In spagnolo...

La Figlia della nobile Nazione Spagnola, che abbiamo proclamata Beata, ci suggerisce una speciale parola per i fedeli di lingua italiana che partecipano numerosi a questo sacro rito. Ce la suggerisce non soltanto perché anche in Italia, anche qui a Roma, è presente ed attivo 1’Istituto delle Suore di Nostra Signora della Consolazione, fondato da Madre Maria Rosa Molas, ma anche e soprattutto perché l’ardore di carita, di tui Ella diede prova luminosamente esemplare nella sua vita, ha oltrepassato di moho i confini geografici della sua terra d’origine.

Proprio questa virtù, che in Lei fu caratteristica, vogliamo celebrare ed esaltare: attinta nella preghiera e nell’unione filiale con Dio, essa si esprimeva nella più viva sollecitudine per i poveri, i malati, i bisognosi, in un’illimitata disponibilità, che fece di questa Donna un autentico «strumento di misericordia e di consolazione». E ideale che additiamo non solo alle sue figlie spirituali, ma a quanti vogliono esser fedeli a Cristo ed al suo Vangelo.



Domenica, 12 giugno 1977: SOLENNITÀ DEL «CORPUS DOMINI»

12677

Venerati Fratelli e Figli carissimi!

Noi celebriamo oggi la festa del «Corpus Domini», non già nel giorno che le era tradizionalmente prefisso, il Giovedì successivo alla Domenica dedicata ad onorare la SS.ma Trinità, ma nella Domenica dopo questa solennità, e ciò per uniformare a quello civile il nostro calendario liturgico; ma dichiariamo subito che questo spostamento di ricorrenza puramente cronologica, reso opportuno anche in Italia, non vuole e non deve minimamente significare una diminuzione del culto alla santissima Eucaristia, sì bene lo vuole praticamente riaffermare e rendere più accessibile ed osservato da tutto il Popolo fedele. A voi, Pastori della Chiesa di Dio, a voi Sacerdoti, ministri di tanto sacrificio e sacramento, a voi Religiosi e Religiose, che ne professate particolarmente la devozione, a voi Cattolici tutti, sempre invitati al misterioso e santissimo convito eucaristico, noi raccomandiamo vivissimamente di rinnovare l’impegno perenne di celebrare con inalterata, anzi con accresciuta convinzione questa bellissima festività, sommamente dovuta al Cristo, che con tale prodigalità di amore e di grazia viene a noi incontro, e per ciascuno di noi, come per tutta la comunità cattolica è veramente, ineffabilmente il Pane di vita per questo nostro cammino nel tempo verso l’eterno possesso di Dio.

Venerabili Fratelli e Figli carissimi!

Ascoltate! dunque anche quest’anno una breve parola per l’adorante intelligenza del «Corpus Domini». Il primo scopo di questa celebrazione è pedagogico, cioè educativo; quello di renderci attenti, coscienti, esultanti della realtà del mistero eucaristico. L’uomo è un essere che si abitua alle cose straordinarie e spesso ne riconduce l’impressione eccezionale d’un dato momento entro un’espressione convenzionale e superficiale ordinaria. L’uomo si abitua; ed anche a riguardo di realtà, che eccedono la sua consueta capacità di comprensione, egli le considera spesso normali e come contenute nell’involucro puramente verbale che le qualifica, senza più attribuire e riconoscere la esuberante ricchezza di significato interiore loro proprio. Così avviene sovente a noi per questo ineffabile sacramento dell’Eucaristia, che non offre alla nostra conoscenza sensibile se non le immagini apparenti, le specie, del pane e del vino, mentre celano in realtà, queste specie, la carne e il sangue, e loro stesse contengono sull’altare gli elementi d’un sacrificio, d’una vittima immolata, di Cristo crocifisso, Corpo unito al proprio sangue, alla sua anima e alla Divinità del Verbo. Sì, questo è il «mistero di fede», presente nell’Eucaristia (Cfr. CONC. TRIDENT. De Eucharistia, 3); e questo è il primo sforzo spirituale, al quale questo sacramento ci invita e ci obbliga, uno sforzo conoscitivo, non sorretto da un’esperienza sperimentale, che vada oltre le sembianze (anch’esse pur tanto eloquenti, ma significative d’altro concetto che non quello materiale e ordinario (Cfr.
Jn 6,63), ma uno sforzo di fede, di adesione cioè ad una Parola dominatrice delle cose create, una Parola, un Verbo divino, presente.

Per accedere al sacramento dell’Amore bisogna varcare la soglia della fede (Cfr. S. THOMAE Summa Theologiae, III 73,3 ad 3). Mistero della Fede! Entrati che noi siamo nella sfera della Fede, la quale ci invita a leggere nei segni sacramentali l’ineffabile Realtà ch’essi localizzano e raffigurano, Cristo sacrificato e fattosi alimento spirituale per noi, una timida-audace domanda affiora al nostro animo trasognato: perché? Perché, o Signore, hai voluto assumere codeste sembianze? perché vieni a noi così nascosto e così svelato? Tratteniamo un istante il respiro, e ascoltiamo. Sì, una parola di Gesù è pronunciata, per così dire, dal dono eucaristico che ci è messo davanti; la riascoltiamo dal Vangelo; Gesù dice ancora e sempre: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e Io vi ristorerò» (Mt 11,28). Dunque Gesù è in un atteggiamento di invito, di conoscenza e di compassione per noi, anzi di offerta, di promessa, di amicizia, di bontà, di rimedio ai nostri mali, di confortatore, e ancor più di alimento, di pane, di sorgente di energia e di vita. «Io sono il pane della vita» (Jn 6,48), soggiunge nel suo eloquente silenzio il Signore, Gesù pane! Gesù alimento? ma dove vuole arrivare il Signore? Non è già troppo ch’Egli sia venuto nel mondo per noi? anzi, che Egli si sia reso così accessibile da moltiplicare la sua sacramentale presenza per ogni altare, per ogni mensa, dove un’altra sua presenza rappresentativa e operativa, quella d’un Sacerdote, renda possibile la moltiplicazione indefinita di questo prodigio? (Cfr. DE LA TAILLE, Mysterium Fidei, Eluc. 36 ss.)

Gli aspetti di questa dottrina si dilatano e si moltiplicano a mano a mano ch’essa si fa oggetto di riflessione, fino a confondere la nostra mente, se l’intenzione sovrana del Signore non ci fosse palese dalla celebre parola dell’Apostolo Paolo, a cui questa basilica è dedicata, parola resa comunissima nel nostro consueto linguaggio religioso. E qual è questa divina e suprema intenzione, e quale parola per noi la esprime? La parola «comunione», in greco «koinonía», termine verbale questo che ricorre sempre su le nostre labbra, quando appunto voglia indicare l’assunzione di questo sacramento; «fare la comunione» significa accostarsi all’Eucaristia, ricevere Gesù nel sacramento che nella sua profonda realtà consiste nell’unità del Corpo mistico del Signore (Cfr. S. THOMAE Summa Theologiae, III 73,3). Noi parlando umanamente diamo piuttosto un senso nostro, soggettivo alla parola «comunione», quasi che questo atto fosse adeguatamente espresso dalla nostra azione di accostarci all’Eucaristia, mentre meno badiamo all’iniziativa di Cristo che rende a noi possibile di ricevere Lui, che a noi si offre istituendo e rinnovando questo mirabile sacramento con le parole benedette: «Prendete e mangiate; Questo è il mio corpo dato in sacrificio per voi . . . Questo è il calice del mio sangue versato per voi . . .». Qui è svelata l’intenzione estrema di Cristo verso gli uomini chiamati alla sua religione, ch’è finalmente dichiarata, l’amore: «nessun amore maggiore di questo, il dare la propria vita per i propri amici, e voi siete i miei amici . . .» (Jn 15,13 cfr. Pr 8,31. ss.).

Siamo noi degni, no, certo! -, siamo noi capaci d’entrare nel cuore di questa «esaltazione» religiosa? Quanti uomini non la sanno comprendere; e quanti, se pur ne intravedono il segreto, non la sanno accettare. Qui l’amore a Dio, il grande, il sommo precetto, diventa il grande il sommo dono di Dio. Noi siamo gli amati, prima che noi siamo disposti ad amare; Egli ci ha amati per primo (1Jn 4,10-19) e noi ci siamo, quante volte, sottratti al suo amore, noi creati da Lui, fatti per Lui, noi abbiamo ricusato d’incontrarci con Lui (cfr. parabola dell’invito al grande pranzo - Mt 22,1-10 Lc 14,15-24), forse per il vile e segreto timore d’essere conquistati ad un Amore, che avrebbe mutato la nostra vita . . . L’Eucaristia è l’invito più diretto, più forte all’amicizia, alla sequela di Cristo. L’Eucaristia è per di più l’alimento che dà l’energia e la gioia per corrispondervi. L’Eucaristia pone così il problema della nostra vita sopra un gioco supremo d’amore, di scelta, di fedeltà, il quale gioco, se accettato da religioso si fa sociale, secondo le rivelatrici parole dell’Apostolo Paolo, che noi a noi stessi ripeteremo a conclusione e a ricordo di questa nostra celebrazione. L’Amore ricevuto da Cristo nell’Eucaristia è comunione con Lui e per ciò stesso si trasforma e si manifesta in comunione nostra con i fratelli, effettivi o possibili quali sono tutti gli uomini per noi. Nutriti del Corpo reale e sacramentale di Cristo, noi diventiamo sempre più intimamente il Corpo mistico di Cristo: «il calice della benedizione, che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane, che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo : tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (1Co 10,16 ss.).

Ripetiamo con S. Agostino: «O Sacramento di pietà! o segno d’unità! o vincolo di carità! Chi vuol vivere, ha di che vivere» (S. AUGUSTINI Tr. 26, 19: PL 35, 1615). E così sia per noi, Fratelli e Figli carissimi!






B. Paolo VI Omelie 23177