B. Paolo VI Omelie 29178

Domenica, 29 gennaio 1978: SANTA MESSA PER LA XXV GIORNATA MONDIALE PER I LEBBROSI

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Venerati Fratelli, Fedeli tutti, e voi specialmente Giovani carissimi!

Avete attraversato in marcia silenziosa le strade di Roma e A siete venuti numerosissimi presso la Tomba del Principe degli Apostoli per ascoltare la Parola di Dio, per pregare insieme, per esprimere pubblicamente la vostra fede in Cristo, Signore e Salvatore, e per lanciare, ancora una volta, al mondo contemporaneo un messaggio di amore e di speranza.

Avete desiderato e chiesto di poter celebrare la XXV Giornata Mondiale per i Lebbrosi insieme con il Vicario di Cristo, e ben volentieri noi, come Vescovo della sede di Roma, che «presiede alla carità» (S. IGNATII ANTIOCHENI Epistola ad Romanos, Inscr.: FUNK, Patres Apostolici, I, 252), e come Pastore della Chiesa universale, vogliamo raccogliere la vostra voce implorante e dilatare il vostro cuore generoso, facendo nostro il vostro programma: «Lotta alla lebbra e a tutte le lebbre!».

Già la parola di Cristo, Verbo incarnato, è risuonata poco fa per la nostra riflessione. La liturgia ci ha fatto sentire il celebre brano del discorso della montagna, quale ci è riferito nel Vangelo di Matteo: le Beatitudini, uno dei punti chiave del messaggio evangelico, uno dei suoi testi più sconvolgenti e beneficamente rivoluzionari. Chi aveva osato, nella storia, proclamare «felici» i poveri di spirito, gli afflitti, i miti, gli affamati e gli assetati di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati, gli insultati? (Cfr.
Mt 5,1-12) Quelle parole seminate in mezzo ad una società fondata sulla forza, sul potere, sulla ricchezza, sulla violenza, sul sopruso, potevano essere interpretate come un programma di viltà e di abulia, indegne dell’uomo.

Ed invece esse erano il proclama della nuova «civiltà dell’amore» che nasceva, basata sui valori, misconosciuti e disprezzati dall’ottusa intelligenza dell’uomo, volto solo alla terra; ma che erano, nei disegni amorosi di Dio, strumenti di redenzione, di liberazione, di salvezza. Erano quei valori, analizzati dallo stupefatto S. Paolo, che aveva sperimentato nella propria persona il metodo di Dio, così lontano dalla logica umana: «Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono» (1Co 1,27 ss.). I poveri, gli afflitti, i miti, i misericordiosi, gli operatori di pace venivano ad essere i destinatari privilegiati del messaggio di Gesù e i beneficiari della grazia di Dio.

Già nel settimo secolo avanti Cristo, ad esempio, il profeta Sofonia si era scagliato contro le sicurezze presuntuose, sulle quali si fondavano gli israeliti a motivo della elezione divina. Ma l’alleanza con Dio supponeva impegno costante e fedeltà gioiosa alla sua volontà. Sarebbe nato un popolo nuovo, composto dagli umili, dai «poveri», che si sarebbero affidati esclusivamente e completamente a Dio.

Il proclama evangelico di «beatitudine», di felicità, conserva ed accresce la sua piena validità oggi, in cui i cattolici e tutti gli uomini di buona volontà del mondo intero sono invitati ad esprimere, con un gesto concreto e fattivo la loro solidarietà con i fratelli lebbrosi.

La lebbra! Il solo nome, ancor oggi, ispira a tutti un senso di sgomento e di orrore. Sappiamo dalla storia che tale sentimento era fortemente percepito presso gli antichi, in particolare presso i popoli dell’Oriente, ove, per motivi climatici ed igienici, tale morbo era molto avvertito. Nell’Antico Testamento (Cfr. Lev. Lv 13-14) riscontriamo una puntuale e minuta casistica e legislazione nei confronti dei colpiti dalla malattia: le paure ancestrali, la concezione diffusa circa la fatalità, l’incurabilità ed il contagio, costringevano il popolo ebraico ad usare le opportune misure di prevenzione, mediante l’isolamento del lebbroso, il quale, considerato in stato di impurità rituale, veniva a trovarsi fisicamente e psicologicamente emarginato ed escluso dalle manifestazioni familiari, sociali e religiose del popolo eletto. Inoltre, la lebbra si configurava come un marchio di condanna, in quanto la malattia era considerata un castigo di Dio. Non rimaneva se non la speranza che la potenza dell’Altissimo volesse guarire i colpiti.

Gesù, nella sua missione di salvezza, ha spesso incontrato i lebbrosi, questi esseri sfigurati nella forma, privi del riflesso dell’immagine della gloria di Dio nell’integrità fisica del corpo umano, autentici rottami e rifiuti della società del tempo.

L’incontro di Gesù con i lebbrosi è il tipo e il modello del suo incontro con ogni uomo, il quale viene risanato e ricondotto alla perfezione dell’originaria immagine divina e riammesso alla comunione del popolo di Dio. In questi incontri Gesù si manifestava come il portatore di una nuova vita, di una pienezza di umanità da tempo perduta. La legislazione mosaica escludeva, condannava il lebbroso, vietava di avvicinarlo, di parlargli, di toccarlo. Gesù, invece, si dimostra, anzitutto, sovranamente libero nei confronti della legge antica: avvicina, parla, tocca, e addirittura guarisce il lebbroso, lo sana, riporta la sua carne alla freschezza di quella di un bimbo. «Allora venne a lui un lebbroso - si legge in Marco -, lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi guarirmi!”. Mosso a compassione Gesù stese la mano lo toccò e gli disse: “Lo voglio, guarisci!”. Subito la lebbra scomparve ed egli guarì» (Mc 1,40-42 cfr. Mt 8,2-4 Lc 5,12-15). Lo stesso avverrà per altri dieci lebbrosi (Cfr. Lc 17,12-19). «I lebbrosi sono guariti!», ecco il segno che Gesù dà per la sua messianicità ai discepoli di Giovanni il Battista, venuti ad interrogarlo (Mt 11,5). E ai suoi discepoli Gesù affida la propria stessa missione: «Predicate che il regno dei cieli è vicino. ., sanate i lebbrosi» (Mt 10,7 ss.). Egli inoltre affermava solennemente che la purità rituale è completamente accessoria, che quella veramente importante e decisiva per la salvezza è la purezza morale, quella del cuore, della volontà, che non ha nulla a che vedere con le macchie della pelle o della persona (Cfr. Ibid. Mt 15,10-20).

Ma il gesto amorevole di Cristo, che si accosta ai lebbrosi confortandoli e guarendoli, ha la sua piena e misteriosa espressione nella passione, nella quale egli, martoriato e sfigurato dal sudore di sangue, dalla flagellazione, dalla coronazione di spine, dalla crocifissione, dal rifiuto escludente del popolo già beneficato, giunge ad identificarsi con i lebbrosi, diviene l’immagine e il simbolo di essi, come aveva intuito il profeta Isaia contemplando il mistero del Servo di Jahvé: «Non ha apparenza né bellezza... disprezzato e reietto dagli uomini.. . come uno davanti al quale ci si copre la faccia, .,. e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato» (Is 53,2-4). Ma è proprio dalle piaghe del corpo straziato di Gesù e dalla potenza della sua risurrezione, che sgorga la vita e la speranza per tutti gli uomini colpiti dal male e dalle infermità.

La Chiesa è stata sempre fedele alla missione di annunciare la Parola di Cristo, unita al gesto concreto di solidale misericordia verso gli ultimi. È stato nei secoli un crescendo travolgente e straordinario di dedizione nei confronti dei colpiti dalle malattie umanamente più ripugnanti, e in particolare dalla lebbra, la cui presenza tenebrosa continuava a sussistere nel mondo orientale ed occidentale. La storia pone in chiara luce che sono stati i cristiani ad interessarsi e a preoccuparsi per primi del problema dei lebbrosi. L’esempio di Cristo aveva fatto scuola ed è stato fecondo di solidarietà, di dedizione, di generosità, di carità disinteressata.

Nella storia dell’agiografia cristiana è rimasto emblematico l’episodio concernente Francesco d’Assisi: era giovane, come voi; come voi cercava la gioia, la felicità, la gloria; eppure egli voleva dare un significato totale e definitivo alla propria esistenza. Fra tutti gli orrori della miseria umana, Francesco sentiva ripugnanza istintiva per i lebbrosi. Ma ecco, un giorno ne incontrò proprio uno, mentre era a cavallo nei pressi di Assisi. Ne provò grande ribrezzo, ma, per non venir meno al suo impegno di diventare «cavaliere di Cristo», balzò di sella e, mentre il lebbroso gli stendeva la mano per ricevere l’elemosina, Francesco gli porse del denaro e lo baciò (Cfr. TOMMASO DA CELANO, Vita seconda di San Francesco d’Assisi, I, V: «Fonti Francescane», I, p. 561, Assisi 1977; S. BONAVENTURA DA BAGNOREGIO, Leggenda maggiore, I, 5: ed. cit., p. 842).

La grandiosa espansione delle Missioni nell’epoca moderna ha dato nuovo impulso al movimento in favore dei fratelli lebbrosi. In tutte le regioni del mondo i Missionari hanno incontrato questi malati, abbandonati, respinti, vittime di interdizioni sociali, legali e di discriminazioni, che degradano l’uomo e violano i diritti fondamentali della persona umana. I missionari, per amore di Cristo, hanno sempre annunziato il Vangelo anche ai lebbrosi, hanno cercato con ogni mezzo di aiutarli, di curarli con tutte le possibilità che la medicina, spesso primitiva, poteva offrire, ma specialmente li hanno amati, liberandoli dalla solitudine e dalla incomprensione e talvolta condividendo in pieno la loro vita, perché scorgevano nel corpo sfigurato del fratello l’immagine del Cristo sofferente. Vogliamo ricordare la figura eroica di Padre Damiano de Veuster, che spontaneamente scelse e chiese ai suoi Superiori di essere segregato in mezzo ai lebbrosi di Molokai, per rimanere insieme con loro e per comunicare ad essi la speranza evangelica, ed infine, colpito dal morbo, condivise la sorte dei suoi fratelli sino alla morte.

Ma vogliamo con lui ricordare e presentare all’ammirazione e all’esempio del mondo le migliaia di missionari, sacerdoti, religiosi, religiose, laici, catechisti, medici, che hanno voluto farsi amici dei lebbrosi, e la cui edificante ed esemplare generosità ci è oggi di conforto e di sprone, per continuare l’umana e cristiana «lotta alla lebbra e a tutte le lebbre», che dilagano nella società contemporanea, come la fame, la discriminazione, il sottosviluppo.

L’uomo in quest’ultimo secolo ha fatto in campo scientifico grandi progressi, di cui può essere legittimamente orgoglioso. Anche nel campo della medicina, ricerche rigorose e pazienti hanno permesso di rinvenire farmaci capaci di rendere meno pericolosa la lebbra, arrestando le devastazioni che essa produce nel corpo, e permettendo di curare i colpiti senza segregarli dalla convivenza civile.

Eppure, oggi nel mondo, a quanto dicono i competenti, ci sono ben 15 milioni di fratelli lebbrosi, specialmente in Asia, in Africa, in America centro-meridionale. È una cifra che deve far meditare tutti. Come possiamo vivere sereni nelle nostre città, dove la società opulenta ci ha offerto e ci offre il superfluo, condizionandoci con i suoi subdoli strumenti della comunicazione sociale, spingendoci a godere di tutto e di sprecare il necessario, mentre altri uomini come noi sono martoriati e disfatti nella loro carne perché mancano i mezzi, gli ospedali debitamente attrezzati, le medicine specifiche?

Ecco perché noi ci rivolgiamo oggi a tutti i nostri figli sparsi per il mondo, a tutti gli uomini di buona volontà, agli uomini del potere, della politica, dell’economia, della cultura perché un problema così bruciante, che ci riguarda direttamente perché colpisce nostri simili, non venga sottaciuto, ma venga affrontato coraggiosamente a tutti i livelli, specialmente sul piano internazionale.

Ma in modo del tutto speciale noi indirizziamo il nostro appello paterno e pressante a voi giovani, presenti in questa Basilica così vibranti di vita e di entusiasmo, e a tutti i giovani pensosi non soltanto del loro avvenire ma anche di quello degli altri: volete forse rimanere chiusi, arroccati nell’egoismo individualistico, chiudendo gli occhi di fronte a questa realtà dolorosa, oppure intendete aprire il vostro cuore ardente alla solidarietà, all’azione, offrendo il vostro personale contributo di idee, di iniziative, di sacrifici per i fratelli lebbrosi?

Ricordatelo bene, giovani carissimi, in pieno 1978 ci sono milioni di bambini, di giovani, di uomini, di donne, di anziani, colpiti dalla lebbra, che in questo momento invocano il vostro aiuto!

Che cosa, come risponderete a questa dolente implorazione?

Noi non dubitiamo che la vostra risposta sarà decisa e generosa, e ci rivolgiamo pieni di fiducia a voi, perché portate nelle vostre mani e nel vostro cuore il futuro della società, il futuro della Chiesa, e quindi il futuro, certamente più rasserenante, dei lebbrosi.

Voglia il cielo che alla fine della nostra avventura umana, alla fine e alla conclusione della nostra vicenda personale, Cristo, giudice supremo della storia, ci rivolga quelle commoventi e beatificanti parole: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo» (Mt 25,34), perché ero «lebbroso» ed avete fatto di tutto per sanarmi, per farmi ritrovare la piena dignità, per guarire non solo le piaghe della mia pelle, ma per rimarginare le ferite del mio cuore lacerato dalla solitudine, per reinserirmi in seno alla comunità, per ridarmi la serenità e la gioia di vivere. Venite! E così sia!






Mercoledì delle Ceneri, 8 febbraio 1978: SANTA MESSA NELLA BASILICA VATICANA

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Diletti figli e figlie!

E’ il «Mercoledì delle Ceneri», primo giorno di Quaresima. Lezione austera, quella che ci imparte oggi la Liturgia! Lezione drammatizzata in un rito di plastica efficacia. L’imposizione delle ceneri reca con sé un significato così chiaro ed aperto, che ogni commento si rivela superfluo: essa ci induce ad una riflessione realistica sulla precarietà della nostra condizione umana, votata allo scacco della morte, la quale riduce in cenere, appunto, questo nostro corpo, sulla cui vitalità, salute, forza, bellezza, intraprendenza tanti progetti ogni giorno noi costruiamo. Il rito liturgico ci richiama con energica franchezza a questo dato oggettivo: non c’è nulla di definitivo e di stabile quaggiù; il tempo fugge via inesorabile e come un fiume veloce sospinge senza sosta noi e le cose nostre verso la foce misteriosa della morte.

La tentazione di sottrarsi all’evidenza di questa constatazione è antica. Non potendo sfuggirle, l’uomo ha tentato di dimenticare o di minimizzare la morte, privandola di quelle dimensioni e risonanze, che ne fanno un evento decisivo della sua esistenza. La massima di Epicuro : «Quando ci siamo noi, la morte non c’è, e quando c’è la morte, noi non ci siamo» è la formula classica di questa tendenza, ripresa e variata in mille toni, dall’antichità ai giorni nostri. Ma in realtà, si tratta di «un artificio che fa sorridere più che pensare» (M. Blondel). La morte infatti fa parte della nostra esistenza e ne condiziona dall’interno lo sviluppo. Lo aveva ben intuito Sant’Agostino, il quale così argomenta: «se uno comincia a morire, cioè ad essere nella morte, dal momento in cui la morte comincia ad agire in lui, sottraendogli la vita..., allora certamente l’uomo comincia ad essere nella morte dal momento in cui comincia ad essere nel corpo» (S. AUGUSTINI De Civitate Dei, 13, 10).

Perfettamente in sintonia con la realtà, dunque, il linguaggio della Liturgia ci ammonisce: «Ricordati, o uomo, che sei polvere e che in polvere ritornerai»; sono parole, che mettono a fuoco il problema non eludibile del nostro lento sprofondare nelle sabbie mobili del tempo e pongono con drammatica urgenza la «questione del senso» di questo nostro provvisorio emergere alla vita, per essere poi fatalmente risucchiati nell’ombra buia della morte. Davvero «in faccia alla morte, l’enigma della condizione umana diventa sommo» (Gaudium et Spes,
GS 18 Gaudium et Spes 18).

A questo enigma, voi lo sapete, la fede reca una risposta non evasiva. È risposta che si articola innanzitutto in una spiegazione e poi in una promessa. La spiegazione ci è consegnata in sintesi da San Paolo con le celebri parole: «Come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato» (Rm 5,12). La morte, quale noi oggi la sperimentiamo, è dunque frutto del peccato: «stipendia peccati mors» (Ibid. Rm 6,23). È un pensiero difficile da accogliere ed infatti la mentalità profana concordemente lo rifiuta. La negazione di Dio o la perdita del senso vivo della sua presenza hanno indotto molti contemporanei a dare del peccato interpretazioni, a volta a volta, sociologiche, psicologiche, esistenzialistiche, evoluzionistiche, le quali tutte hanno in comune la caratteristica di svuotare il peccato della sua tragica serietà. Non così la Rivelazione, che lo presenta invece come una spaventosa realtà, di fronte alla quale ogni altro male temporale risulta sempre di secondaria importanza. Nel peccato, infatti, l’uomo infrange «il debito ordine in rapporto al suo ultimo fine e al tempo stesso tutto il suo orientamento sia verso se stesso, sia verso gli altri uomini e verso tutte le cose create» (Gaudium et Spes, GS 13). Il peccato segna il fallimento radicale dell’uomo, la ribellione a Dio che è la Vita, un «estinguere lo Spirito» (Cfr. 1 Thess. 1Th 5,19); e perciò la morte non ne è che l’esterna, più vistosa manifestazione.

Questa la parola esplicativa, che la Rivelazione ci offre e che l’esperienza conferma con sconfortante dovizia di prove. La fede, però, non si limita a spiegare il nostro dramma. Essa reca anche l’annuncio gioioso della sua possibile soluzione. Dio non si è rassegnato al fallimento della sua creatura: nel Figlio suo, incarnato, morto e risorto, Egli torna ad aprire il cuore dell’uomo alla speranza. «Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello - canteremo nel giorno di Pasqua - il Signore della vita era morto, ma ora, vivo, trionfa» (Sequentia Paschalis). Nel mistero pasquale Cristo ha preso su di sé la morte, in quanto essa è manifestazione della nostra natura ferita, e, trionfandone nella risurrezione, ha definitivamente debellato nella sua radice la potenza del peccato, operante nel mondo. Adesso ormai ogni uomo, che per la fede aderisce a Cristo ed a Lui si sforza di conformare la propria vita, può già sperimentare in sé la forza vivificante, che promana dal Risorto. Egli non è più schiavo della morte (Cfr. Rm 8,2); perché in lui già opera «lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti» (Ibid. 8, 11).

Ecco, dunque, il messaggio gioioso: in Cristo Gesù noi possiamo vincere la morte. La Chiesa non si stanca di ripetercelo, particolarmente all’inizio di un tempo forte dell’Anno Liturgico, come quello della Quaresima, durante il quale il popolo cristiano è chiamato a prepararsi alla celebrazione dell’annua ricorrenza della Pasqua. Possa trovare, questa voce, eco pronta e volenterosa nei nostri animi ed indurci a rinnovato fervore di vita cristiana in questo tempus acceptabile, che nelle intenzioni della Liturgia deve segnare per lo spirito, il quale ha pure le sue stagioni, il risveglio di una mistica primavera.

Siamo certi che all’invito è particolarmente aperto l’animo delle Religiose, presenti a questa celebrazione. Esse, che per l’impegno della vita perfetta e di una maggiore familiarità con Dio, assunto con i voti, più sono consapevoli del radicalismo delle esigenze evangeliche; esse che, d’altra parte, più viva hanno la percezione della abissale sproporzione, che v’è tra l’umana miseria e l’infinita santità di Colui, verso il quale le loro anime anelando si protendono, sono certamente nella condizione migliore per accogliere la proposta liturgica del faticoso ma corroborante itinerario quaresimale. Sentano esse la responsabilità di fare da scolta avanzata tra le avanguardie del popolo di Dio pellegrinante verso la Patria.

Mettiamoci dunque tutti in cammino. Cercheremo sostegno ai buoni propositi nella preghiera, una preghiera convalidata da una più volenterosa disponibilità di sacrificio ed anche dalla rinuncia generosa a qualcosa di nostro per avere di che venire in soccorso ai poveri. È il consiglio antico di quello sperimentato maestro di vita spirituale, che fu Sant’Agostino: «Vuoi che la tua preghiera voli fino a Dio?», egli domanda. «Fac illi duas alas, ieiunium et eleemosynam», «Mettile due ali, il digiuno e l’elemosina» (S. AUGUSTINI Enarr. in Ps 42,8).

Il programma è chiaro. Che il Signore ci conceda la generosità necessaria, per calarlo nella concretezza della nostra vita.







Domenica 5 marzo 1978: SANTA MESSA PER IL CENTENARIO DELLA MORTE DI PIO IX

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Venerati Confratelli e Figli carissimi!

La circostanza che ci vede oggi riuniti in questa Basilica Patriarcale è la celebrazione centenaria del "dies natalis" di un nostro Predecessore, il quale - come leggiamo nella lapide che fu apposta in suo onore, vicino alla Statua del Principe degli Apostoli, dal Capitolo Vaticano - Petri annos in Pontificatu Romano unus aequavit.

Quando il 7 febbraio del 1878, al vespro di una giornata invernale, il Servo di Dio Giovanni Mastai Ferretti, Papa Pio IX venne a morte, con lui si concludeva l'ampio ed intenso trentennio - esattamente trentadue anni - di un servizio pontificale che domina letteralmente l'intera scena del secolo XIX.

Fatidico fu questo secolo per la Chiesa e per il mondo. All'inizio, infatti, troviamo il Pontificato ultraventennale di Pio VII, attraversato per larga parte dal turbine della vicenda napoleonica, che anche per la società segna un faticoso sconvolgimento; alla fine del secolo incontriamo il Pontificato, durato anch'esso venticinque anni, dell'indimenticato Papa Leone XIII, mentre il mondo già si affaccia sul secolo nuovo; nel mezzo, in una centralità insieme reale ed ideale, scorgiamo l'amabile figura di Papa Pio IX, intorno al quale si alternano eventi gloriosi e sofferte tribolazioni, che costituiscono come la trama della sua vita, cosî il ritmo e quasi il respiro della Chiesa e, in generale, dell'umana famiglia in quel tempo.

La complessità dei fatti che si verificarono e dei problemi che si posero nel corso di tale lungo Pontificato è materia tuttora aperta, sotto l'aspetto storico, cioè del passato, alla perdurante riflessione ed alle approfondite indagini di una seria e documentata bibliografia. Ma forse - noi osiamo pensare - sarà necessario un ulteriore e non breve periodo di decantazione, perché la prospettiva si allarghi, perché si faccia maggior luce, perché si comprendano appieno gli avvenimenti e le loro motivazioni più profonde e più vere, in modo tale che, fugato ogni residuo di passionale animosità e di pregiudizio, la personalità di questo Pontefice possa emergere nella sua dimensione di autenticità umana, di irradiante bontà e di esemplare virtù.

Noi, però, ci siamo ora raccolti - ripetiamo - per commemorare la sua nascita al Cielo, avvenuta un secolo fa, allorché la sua anima apostolica, al suono dell'Ave Maria, lasciò il corpo ormai grave d'anni e d'affanni. Ciò vuol dire che limiteremo la nostra memore attenzione e la nostra devota meditazione sul profilo spirituale ed apostolico di un Pontefice che tanto fu amato, e su ciò che egli, con invitto coraggio, intraprese per l'incremento della fede cattolica e per il bene della Santa Chiesa. E siamo lieti che a questa cerimonia sia presente una cospicua e qualificata rappresentanza della terra che gli diede i natali, le Marche, insieme con i Vescovi di quella Regione.

Il Presule che nel giugno del 1846, dopo un conclave brevissimo, era stato elevato al supremo Pontificato, era un vero uomo di Dio, che si distingueva per le sue doti eminenti di religiosa pietà e di ardente zelo per le anime. Ancora nel vigore dell'età, egli portava nella missione di universale paternità che gli era stata affidata, il fervore di una fede profonda, una ricca esperienza pastorale maturata nel contatto assiduo con le popolazioni delle sedi vescovili di Spoleto e di Imola in precedenza occupate, la conoscenza diretta dei problemi che stavano affiorando sia all'interno della Comunità ecclesiale, sia nell'organizzazione dello Stato della Chiesa; ma portava, soprattutto, l'ansia di servire la causa di Cristo e del suo Vangelo. "Servire la Chiesa: questa fu l'unica ambizione di Pio IX", ha scritto uno storico autorevole (cfr Roger Aubert, Il Pontificato di Pio IX, ed. ital., Torino 1970, parte I, p.
1P 450). Ciò spiega l'instancabile sua dedizione ai doveri, anche i più gravosi e più ardui, dell'apostolico ministero: una qualità costante che è doveroso riconoscergli non senza ammirazione, al di là degli stessi impulsi dell'umano carattere e delle obiettive difficoltà che si frapposero alla sua azione di Pastore e di Sovrano.

La figura di Pio IX, a cento anni dalla morte di Lui, appare ormai riconoscibile in una duplice fisionomia convenzionale e fedele alla realtà, quella di Papa sconfitto sotto il crollo di quel potere temporale, nel quale il Pontificato Romano si era in certo modo identificato, e quella di Papa rinascente nell'aspetto suo proprio, non mai tradito, ma ora più palese ed evidente, di Pastore d'un Popolo, che da sé e nell'opinione pubblica non sapeva bene se e come chiamarsi cristiano. Il crollo del Potere temporale appariva indebito e grave, e comprometteva l'indipendenza, la libertà e la funzionalità del Papato; minaccia questa che pesò, fino ai giorni della Conciliazione, sulla Sede Apostolica, tenendo vivo con nostalgica amarezza il ricordo dei secoli, in cui il Potere temporale era stato lo scudo difensivo di quello spirituale e in pari tempo il tutore del territorio dell'Italia centrale, vi aveva conservato la memoria e il costume civile della tradizione classica romana, favorendo la promozione della compagine degli Stati del continente, alimentando una coscienza unitaria della civiltà scaturita dall'umanesimo greco-romano, e soprattutto sviluppando negli animi e nei costumi la fede cattolica. Ma lo sviluppo storico e civile dei Popoli e alla fine, dopo la Rivoluzione Francese e l'evoluzione post-napoleonica, verso la metà del secolo XIX, la loro maturità costituzionale, non consentivano più allo Stato Pontificio l'esercizio d'una supremazia ideologica e d'un primato temporale.

Il tentativo di coinvolgere lo Stato Pontificio in una guerra nazionale fallî davanti alla risvegliata coscienza del Papa circa la missione sua propria, religiosa non politica, né tanto meno militare (Pii IX Allocutio diei 29 aprilis 1848); donde l'inquietudine rivoluzionaria ch'ebbe il suo triste epilogo nell'uccisione di Pellegrino Rossi (il 15 novembre), e nella successiva fuga del Papa a Gaeta (25 novembre). Noi non facciamo ora la storia di quella infelice vicenda. Ci basta rilevare che quando il Papa ritornò a Roma (12 aprile 1850), non era più in grado di ripetere le serene parole di due anni prima (11 febbraio 1848): "Benedite, gran Dio, l'Italia"; sî bene con l'animo amareggiato dalla sofferenza patita e dall'avversa esperienza riprendeva, fino al 20 settembre 1870, la sua autorità di sovrano temporale, ma ormai alieno dalle correnti ideali e politiche del suo tempo; né la nuova situazione nazionale placò lo spirito esacerbato dell'afflitto Pontefice. La ferita inferta allora al Papato arrivò anche a grande parte del Popolo e della Chiesa intera, e ne tormentò per lunghi anni la coscienza civile e il sentimento cattolico.

Ma ecco, proprio in quella paradossale situazione il prodigio della immortalità di Pietro ("Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo", aveva detto Gesù (Mt 28,20), si rinnovò. Tutto il Pontificato di Pio IX fu, si può dire, una rivelazione delle inesauste energie che il Papato e la Chiesa, per una storia sempre nuova, possiedono in proprio.

Un'apertura di dilatata generosità fu la nota precipua del suo servizio, la quale, fondendosi con le innate caratteristiche di cordialità e di buon senso, ereditate dalla sua terra e dalla sua gente, valse a conciliargli la devozione delle classi umili e popolari e via via, in misura crescente, delle moltitudini dei figli della Chiesa.

Ora, se noi riguardiamo agli obiettivi precipui della sua fervida azione pastorale, dobbiamo nominare innanzitutto il Clero, al quale Pio IX, coadiuvato da tanti insigni Vescovi diocesani, rivolse con felice intuito delle necessità prioritarie una cura particolare, come dimostrano non pochi documenti del suo Pontificato. Fu cosî che si elevò grandemente la figura del sacerdote, il quale ormai veniva educato regolarmente nell'ambiente del Seminario, ed ivi formato alla vita interiore ed all'obbedienza, si sarebbe poi dimostrato, nel campo del lavoro, più cosciente delle proprie responsabilità e sempre vicino al suo gregge, non più predestinato al tranquillo godimento di facili prebende ecclesiastiche, ma a una più ardua e più assidua e amorosa cura pastorale. Non per nulla si parla di "Clero Piano", tale non solo per l'abito che indossa, ed è affermazione esatta e sicuramente documentabile che esso sia stato un Clero più disciplinato, più pio, più zelante che in passato. Anche se indubbiamente si avverte qualche lacuna, non si può negare questo miglioramento qualitativo nella spiritualità e nel ministero dei Sacerdoti, i quali, superando visioni ristrette e particolaristiche, avvertono sempre più il bisogno di coordinare gli sforzi e le iniziative.

Un'attività nuova anima la Chiesa di Pio IX. Si registrano, infatti, in quegli anni non pochi gruppi di Oblati, ed una fioritura di Società e di Associazioni sacerdotali, le quali promuovono nei ministri di Dio la crescita "secondo lo spirito", la perseveranza e la fedeltà alla vocazione, la disponibilità al servizio secondo non soltanto i voleri, ma i desideri stessi dei Superiori. In ciò è da ravvisare un precedente valido, che influirà nelle successive direttive giuridiche e pastorali della Chiesa (cfr Codex Iuris Canonici, cann. CIS 124-129; Presbyterorum Ordinis, PO 8 PO 12 PO 15-17).

La fraterna comunione dei Sacerdoti tra loro, come prelude ad un più organico loro collegamento con i laici ai fini dell'apostolato, cosî s'instaura parallelamente ad una decisiva ripresa degli Ordini e delle Congregazioni Religiose, le quali ultime, proprio verso la metà del secolo scorso, conoscono uno sviluppo senza precedenti. Se antichi Istituti si riprendono dopo le prove delle soppressioni, delle espulsioni e degli ostacoli che, in varia forma a seconda dei diversi Paesi, intralciano la loro opera in campo educativo e assistenziale, e minacciano perfino la vita contemplativa e monastica, bisogna soprattutto tener presente il grande numero di Istituti, maschili e femminili, che sorgono in questo stesso periodo, grazie specialmente all'intraprendenza di Sacerdoti coraggiosi, non estranei allo spirito che soffiava da Roma.

L'elenco degli Istituti, fondati o approvati durante il Pontificato di Pio IX, sarebbe troppo lungo se si volesse qui prospettare e cadremmo facilmente in deplorevoli omissioni. Merito del Pontefice fu anche quello di aver promosso la riforma degli Istituti esistenti, correggendo gli abusi, scegliendo - talora, con interventi personali - superiori capaci, introducendo l'importante norma, recepita successivamente nel "Codice di Diritto Canonico" (cfr Codex Iuris Canonici, CIS 574), della professione dei voti semplici da premettere alla professione definitiva; mentre, per quanto riguarda i nuovi Istituti, le sue preferenze si volgevano a quelli di apostolato attivo, aventi come fine la cura dei poveri, l'assistenza dei malati, la buona stampa, l'insegnamento e le scuole, e soprattutto le Missioni.

Arriviamo cosî alle Missioni, ed a questo riguardo, come si può dimenticare l'ampiezza che assunse dopo il 1850 l'azione evangelizzatrice della Chiesa? In effetti, l'età di Pio IX è una fecondissima stagione missionaria, la quale ci presenta nomi prestigiosi e vede gli araldi del Vangelo muoversi verso tutte le parti del mondo, intessendo, per cosî dire, una fittissima rete che si estende dalle due Americhe all'Estremo Oriente, dalle Regioni dell'Africa, allora esplorate, al Continente Australiano.

Nello stesso periodo si avverte chiara tra i Cattolici la preoccupazione "unionista", e si hanno i primi appelli diretti dal Pontefice alle Chiese di Oriente e di Occidente separate da Roma. Anche se da ciò non derivano risultati concreti, viene tuttavia avviato un moto ecumenico "ante litteram" che, alla lontana, serve a preparare nella carità e nella preghiera i futuri incontri e contatti tra i Fratelli Cristiani, contribuendo almeno a rasserenare gli spiriti, a sopire le polemiche, ad instaurare il necessario clima di fraternità che ad essi conviene. Né si può tacere il riavvicinamento a Roma che si verifica nelle Isole Britanniche e che produce, tra i suoi frutti, uno incomparabile, il Card. John Henry Newman, e poi la restaurazione della Gerarchia Cattolica prima in Inghilterra, poi in Scozia.

Ma Pio IX è passato alla storia soprattutto perché fu il Papa dell'Immacolata e del Concilio Vaticano I, ed è indubbio che un nesso religioso ed affinità interne collegano i due atti del magistero pontificio. All'uomo immemore ed al mondo dell'indifferenza e del razionalismo, estraneo o chiuso alla fede ed alla grazia, il Pontefice fece brillare la luce della Vergine Maria, quale "signum magnum" di trascendente bellezza ed insieme profetica immagine di quel piano di restaurazione religiosa, ch'egli infaticabilmente perseguiva come capo visibile della Chiesa. E la celebrazione del Concilio Vaticano fu evento ecclesiale di incalcolabile portata storica, i cui pronunciamenti e definizioni sono come fari luminosi nel secolare sviluppo della teologia, e come altrettanti punti fermi nel turbine dei movimenti ideologici che caratterizzarono la storia del pensiero moderno, e posero i presupposti di un dinamismo di studi e di opere, di pensiero e di azione che doveva culminare, nella nostra epoca, nel Vaticano Secondo, che espressamente si è richiamato al Vaticano Primo. Occorre, infatti, rilevare che promulgando la Costituzione dogmatica "Pastor Aeternus", Pio IX non fece che porre l'architrave di quella solida costruzione ecclesiologica, che è stata poi completata e perfezionata dalla Costituzione "Lumen Gentium" ch'è la "magna charta" del Concilio Vaticano II. È questa una mirabile, duplice continuità, perché riguarda oggettivamente la Chiesa e, altresî, la dottrina che di se stessa la Chiesa professa.

Ci piace, poi, ricordare come sotto Pio IX, anche per l'incidenza delle circostanze storico-politiche, si delineò la prima idea di un'organizzazione dei cattolici al fine non solo di tutelare i valori della propria fede, ma anche di promuovere una loro collaborazione attiva all'apostolato gerarchico. Difatti, proprio nell'età piana ha origine l'Azione Cattolica, allora chiamata Società della Gioventù Cattolica Italiana, alla quale si deve, tra l'altro, la decisione di fondare quella che sarà, dal 1874, l'Opera dei Congressi. Certo, si tratta di strutture embrionali che troveranno definizione e sviluppo nei decenni successivi, ma l'idea allora lanciata si doveva dimostrare valida. Anche da questo punto di vista, come per i dati di fatto sopra ricordati, Pio IX appare nella storia della Chiesa come un solerte animatore ed un operoso costruttore, il cui carisma e la cui eredità si protendono fino all'età contemporanea, se è vero che non poco di quanto egli intuî e volle e attuò è rimasto vivo e perdura anche oggi.

Concludiamo con un episodio per noi commovente che riguarda la nostra diletta famiglia naturale.

Nel 1871 un giovinetto di Brescia venne presentato dai suoi Genitori a Pio IX che, per l'innata tenerezza verso la gioventù, gli pose la mano sul capo dicendo: "Giorgio, sei qui anche tu, piccolo deputato" (cfr A. Fappani, Pio IX e la famiglia Montini alla luce di documenti inediti, in Pio IX, I, 1972, p. 317). Dopo 49 anni Giorgio, divenuto effettivamente deputato, firmò il registro dei visitatori nel Palazzo Mastai, casa natale del Papa in Senigallia. Quel giovinetto era nostro padre... Cosî un sottile filo storico particolare ci unisce al nostro venerato Predecessore, ed esso vale a spiegare il legame d'ordine personale e affettivo che, oltre ai più alti motivi spirituali ed ecclesiali, ci unisce alla memoria benedetta ed alla cara figura di questo Pontefice.

Noi oggi abbiamo voluto commemorarlo per tributargli un doveroso omaggio se pur assai impari al merito, e per manifestare, altresî, quei sensi di viva riconoscenza che il Pastore della Chiesa di oggi deve al Pastore della Chiesa di ieri, che la Chiesa del Concilio Vaticano II deve alla Chiesa del Concilio Vaticano I, che tutto il Popolo di Dio, nella mirabile realtà unitaria della comunione dei santi, deve a coloro - fedeli e pastori - che l'hanno preceduto "nel segno della fede" e, con in mano questa fiaccola di luce (cfr Mt 25,1 Mt 5,15), sono già andati incontro a Cristo Signore. Cosî sia (cfr Le Pontificat de Pie IX, in R. Aubert, Histoire de l'Eglise, vol. 21, Bloud et Gay, 1952; Giacomo Martina, Pio IX [1846-1850], Università Gregoriana Editrice, Roma 1974; Idem, Pio IX, Chiesa e mondo moderno, Editrice Studium, Roma 1976).





B. Paolo VI Omelie 29178