B. Paolo VI Omelie 19378

Domenica delle Palme, 19 marzo 1978: SANTA MESSA PER I GIOVANI

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Grande e comunitaria testimonianza di giovani, in Piazza San Pietro, in un momento in cui le coscienze sono turbate da gravi episodi di violenza e si sente più viva che mai l'istanza di un solido punto di riferimento nell'autentica fede che si traduce in rinnovamento di vita. Paolo VI, convalescente, non presiede al concelebrazione eucaristica, ma non fa mancare la sua parola di conforto, di incoraggiamento, di esortazione alle decine di migliaia di giovani che gremiscono il sagrato della Basilica, dapprima nel messaggio letto durante la Santa Messa dal Cardinale Vicario Ugo Poletti, e poi nel breve discorso rivolto direttamente ai presenti a mezzogiorno, dalla finestra dell'appartamento.

Ecco il testo dell’omelia del Santo Padre, letta al Vangelo dal Cardinale Poletti.

Carissimi Giovani!

Il vostro grido di giubilo «Osanna al Figlio di Davide» si è innalzato al cielo come un coro possente, mentre i rami di palma e di ulivo hanno palpitato, agitati dalle vostre mani.

In tal modo voi presentate uno spettacolo di pace, di speranza, di amore, che offre un sereno motivo di conforto nel tragico momento che stiamo vivendo. Siamo infatti ancor tutti sconvolti, turbati e sgomenti perché ancora una volta le forze disgregatrici della società hanno colpito con freddezza e cinismo. Giorni fa, cinque cittadini, che con il loro onesto lavoro si guadagnavano da vivere, sono stati barbaramente trucidati. Un’alta personalità politica è stata rapita in aperta sfida allo Stato. Al vile ed efferato comportamento degli assassini anonimi voi rispondete oggi con la vostra massiccia presenza di cattolici, che rifiutate qualsiasi tipo di violenza e proclamate il rispetto e l’amore universale.

E allora - possiamo chiederci - perché un così gran numero di giovani, lavoratori e studenti, i quali vivono in prima persona i problemi e le vicende di questo anno 1978, si sono riuniti in questo luogo per cantare, per pregare, per partecipare ad un rito?

La risposta a tale legittima domanda la date voi stessi con la vostra presenza: Voi siete venuti per rivivere, per rinnovare, per celebrare oggi l’ingresso trionfale di Gesù Cristo nella città santa, ingresso messianico, segno di passione ma altresì della imminente sua definitiva glorificazione. E voi, come gli abitanti di Gerusalemme, intendete «andare incontro» (Cfr.
Jn 12,12) a Gesù il Messia, il Signore, vero uomo e vero Dio, il Figlio prediletto del Padre. Il vostro vuole essere un gesto pubblico e comunitario di autentica fede, capace di rinnovare integralmente la vostra vita.

Chi è questo Gesù, al quale intendete andare incontro? Da duemila anni questa domanda fondamentale si è confitta al cuore stesso della storia e della cultura umana; ma è la stessa domanda che nella Palestina si ponevano i contemporanei di Gesù, uditori della sua parola, testimoni dei suoi segni prodigiosi: «Chi è costui?» (Mc 4,41 Mt 21,10). Il «mistero di Gesù» inquietava e continua ad inquietare gli uomini, i quali hanno risposto e rispondono o con il rifiuto preconcetto, o con la indifferenza abulica, o invece con l’adesione ardente di fede, che coinvolge e trasforma tutta la persona.

Per noi e per voi, giovani carissimi, Gesù di Nazareth non è semplicemente un grande genio religioso, da mettere accanto o anche al di sopra delle tante personalità che lungo il corso della storia hanno lanciato un messaggio su Dio all’umanità; non è soltanto un grande profeta, nel quale la presenza del divino si sarebbe manifestata in una maniera particolare e sovrabbondante; non è un superuomo o un supermistico, la cui azione o il cui insegnamento potrebbe ancora stimolare o affascinare anime particolarmente sensibili.

Alla pressante domanda di Gesù: «Voi chi dite che io sia?», noi rispondiamo con Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16), e con Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!» (Jn 20,28).

Egli è Colui che ha il potere di assicurare ad un povero paralitico: «Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati» (Mc 2,5), sanandolo altresì a riprova della sua sconvolgente affermazione; è Colui che, di fronte agli stupefatti scribi e farisei, si dichiara «padrone del sabato» (Mc 2,28), capace di rivedere e di modificare dall’interno la legislazione mosaica (Cfr. Mt 5,21 ss.). È Colui che afferma di essere «la via, la verità e la vita» (Jn 14,6), la «risurrezione e la vita» (Ibid. Jn 11,25) degli uomini tutti che crederanno in lui; è Colui che va incontro alla morte da dominatore e con la sua risurrezione sconvolge i piani meschini degli oppositori. Gesù di Nazareth è veramente il centro della storia, come ha proclamato San Paolo: «Egli è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle nella terra, quelle visibili e quelle invisibili. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è, prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui» (Col 1,15 ss.).

A Gesù Cristo, Verbo incarnato, Figlio eterno di Dio, la nostra umile adorazione, la nostra ferma fede, la nostra serena speranza, il nostro incondizionato amore. Vale veramente la pena, carissimi, di impegnare la propria vita per seguire Lui, solo Lui, pur sapendo che questa decisione comporterà rinunce, sacrifici, rischi, incomprensioni. Ma Gesù Cristo, ha scritto Pascal, «è un Dio a cui ci si avvicina senza orgoglio e sotto cui ci si abbassa senza disperazione» (PASCAL, Pensées, 528).

Voi giovani cercate appassionatamente la gioia, la cercate negli altri, nelle vicende, nelle cose. Gesù vi promette la sua gioia piena (Cfr. Jn 15,11 Jn 16,22 Jn 16,24 1Jn 1,4).

Voi cercate l’autenticità ed aborrite la doppiezza: Gesù ha smascherato l’ipocrisia di coloro che volevano strumentalizzare l’uomo specialmente nei suoi rapporti con Dio (Cfr. Mt 23,5-7 Mc 3,4).

Voi volete essere considerati per quello che siete e non per quello che possedete. Gesù ha detto: «Guardatevi e tenetevi lontani da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni» (Lc 12,15).

Voi avete paura della solitudine, che intristisce il cuore ed accentua l’individualismo egoistico. Gesù ci partecipa la comunione che esiste tra lui e il Padre (Cfr. Jn 14,23 ss.) e dilata il nostro cuore all’amore verso tutti gli uomini, figli dello stesso Padre (Cfr. Ibid. Jn 15,12 ss.).

Voi cercate la libertà dal peccato, che degrada l’uomo, la libertà dal male, dai condizionamenti sociali, dalle tenebre dell’ignoranza. Cristo è la luce che «illumina ogni uomo» (Ibid. Jn 1,9 Jn 8,12), è la nostra liberazione (Cfr. Ibid. Jn 8,36; Ga 4,31).

Voi giovani volete trasformare il mondo, renderlo più bello, più giusto: Cristo con la sua incarnazione, passione e risurrezione ha rinnovato la realtà e noi stessi: «Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove» (2Co 5,17).

Sia, pertanto, il Cristo al centro del vostro cuore, per donarvi generosamente agli altri, al centro della vostra intelligenza, per dare una prospettiva cristiana alla storia e alla cultura, al centro della vostra vita di cittadini in una società che ha sempre più bisogno delle idee e delle forze dei giovani. «Tutto abbiamo in Cristo - scriveva S. Ambrogio - . . . Tutto è per noi Cristo. Se desideri curare una tua ferita, egli è il medico; se bruci di febbre, egli è la sorgente ristoratrice; se sei oppresso dalla colpa, egli è la giustificazione; se hai bisogno di aiuto, egli è la forza; se temi la morte, egli è la vita; se desideri il cielo, egli è la via; se fuggi le tenebre, egli è la luce; se hai bisogno di alimento, egli è il cibo» (S. AMBROSII De Virginitate, XVI: PL 16, 291).

Così, carissimi, così; per voi e per tutti i giovani del mondo!




Domenica, 16 aprile 1978: BEATIFICAZIONE DI MARIA CATERINA KASPER

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Venerati Fratelli e carissimi Figli!

Una nuova Beata è additata alla venerazione dei fedeli: Suor Maria Caterina Kasper.

Ne avete or ora ascoltato il racconto della vita e l’esposizione delle virtù. Noi, pertanto, non ci soffermeremo a tracciarne il profilo biografico, ma ci limiteremo ad esprimere una breve parola sul messaggio insito in questa Beatificazione, che allieta la Chiesa intera proprio in questo periodo liturgico, caratterizzato dall’irradiazione spirituale della gioia pasquale; Beatificazione che riempie di gaudio e di conforto una non piccola famiglia religiosa, quella appunto delle «Povere Ancelle di Gesù Cristo», e presenta a comune edificazione l’esempio di una donna, che ha onorato la sua terra nativa, la Germania, offrendo al mondo la testimonianza operosa di un cattolicesimo proteso al servizio del prossimo per la gloria di Dio.

Già la stessa esistenza terrena di questa figura di donna, tutta fede e fortezza d’animo, è per noi un’autentica lezione di stile evangelico, in quanto essa si snodò integralmente sulla scia di quella del Divino Maestro. Semplice e povera contadina, Caterina (che poi prese il nome di Maria Caterina) visse come Lui tra il lavoro e le privazioni, accogliendo come volontà del Padre celeste le umiliazioni e le contrarietà che incontrò sul suo cammino. Come Lui, soprattutto, s’impegnò con instancabile sollecitudine a sollievo di molteplici forme di miseria fisica e spirituale: si consacrò ai bambini poveri e abbandonati, aprì scuole, aiutò e confortò i malati, assistette gli anziani, con un cuore sempre bruciante di un grande amore verso i fratelli bisognosi, alimentato da un continuo e quasi connaturato colloquio con quel Dio «di ogni consolazione» (
2Co 1,3) meglio conosciuto per via d’amore che di ansiosa speculazione.

Proprio questa umile donna, sprovvista di qualsiasi mezzo offerto dal progresso tecnico, senza cultura e senza denaro, riuscì a dar vita a una grande opera di cultura e di promozione sociale, confermando così la verità profonda delle parole di San Paolo, secondo cui «Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti» (1Co 1,27).

Perciò, anche la povertà volontaria e la carità ammirevole di Madre Maria Caterina, tradotte in generoso servizio per i più poveri e abbandonati, rappresentano un monito severo ed esigente rivolto alla nostra generazione, spesso tesa verso la ricchezza privata ed egoista e l’edonismo a qualunque costo. La nuova Beata oppone alle insidiose inclinazioni materialistiche e consumistiche della società odierna l’altruistica dedizione per ogni sofferente, così che la solidarietà e la socialità - di cui oggi tanto si parla - non rimangano soltanto parole, ma diventino esercizio concreto e quotidiano di un dovere, che il Cristianesimo porta alle sue vette più luminose. Per Madre Maria Caterina Dio era tutto, e il suo filiale amore per Lui ha trovato autentica espressione in un amore sconfinato per il prossimo.

Questa incomparabile lezione di amore a Dio, attuato nella carità verso i fratelli, è il vero messaggio che la nuova Beata ha lasciato alla Chiesa e al mondo.

Ed ecco una traduzione italiana dell’ultima parte del discorso del Papa.

Tanto l’operosa vita della Beata Maria Caterina Kasper quanto la sua personale santità sono soprattutto un dono della provvidenza e della grazia di Dio. «Io non lo potevo e non lo volevo», si premurava di dire, «è Dio che l’ha voluto». Ella desiderava soltanto di essere un docile strumento nelle mani del Maestro divino, una povera e umile ancella di Gesù Cristo.

Proprio il nome di «Povere Ancelle di Gesù Cristo», che Madre Maria Caterina ha dato alla sua Congregazione Religiosa secondo una provvidenziale disposizione, ci rivela l’intima personalità e la spiritualità della stessa Fondatrice. La povertà personale, l’amore per i poveri, la semplicità e l’umiltà, e la propria donazione al servizio del prossimo a motivo di Cristo, sono le connotazioni essenziali, che contrassegnano la pietà e l’apostolato della nostra nuova Beata. Di lei non ci sono stati tramandati comportamenti o azioni straordinarie. Essa ha vissuto in maniera semplice, ma incisiva, ciò che richiedeva alle sue Consorelle: «Tutte le nostre Suore devono diventare sante, ma sante nascoste». Madre Maria Caterina è per noi un modello soprattutto per la sua fedeltà e coscienziosità nei piccoli e insignificanti doveri di ogni giorno e nella sua aspirazione a compiere la volontà di Dio in tutte le situazioni della vita. Una chiara intuizione per ciò che è necessario e un amore costantemente disponibile per il prossimo si congiungono in lei alla perseveranza e alla risolutezza nel riconoscere e nel realizzare, quando occorre, i comandi e le disposizioni di Dio. La proposizione ispiratrice del suo comportamento suona così: «La santa volontà di Dio esige e deve compiersi in me, attraverso di me e per me». Sulla base di questa profonda connessione e consonanza con il volere e l’agire di Dio, la sua attività e la sua vita intera diventano una preghiera e una lode permanenti a Dio. Anche il servizio sociale è fondamentalmente per lei un servizio di Dio e un mezzo per la santificazione del mondo.

In occasione della solenne festa, che la Chiesa tributa a Madre Maria Caterina mediante l’odierna Beatificazione, Noi intendiamo onorare tutte le Suore della Congregazione Religiosa delle «Piccole Ancelle di Gesù Cristo», che la Chiesa invita a emulare da oggi in poi, in maniera ancor più intensa, il luminoso esempio della loro Beata Fondatrice e a conservarne fedelmente l’eredità spirituale.

Altrettanto cordialmente salutiamo tutti i pellegrini presenti provenienti da Dernbach, luogo natale della nuova Beata, e dalla sua Diocesi di origine, Limburg, assieme al loro Pastore Mons. Kempf. Ringraziamo anche i Rappresentanti delle Autorità Civili per la loro partecipazione a questa memorabile solennità, con la quale la Chiesa onora la memoria di una grande Figlia della loro patria tedesca.

Con profonda gioia vi raccomandiamo tutti alla materna intercessione della nuova Beata.





Domenica, 7 maggio 1978: BEATIFICAZIONE DI MARIA ENRICA DOMINICI

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Venerati Fratelli e carissimi Figli!

La Chiesa tutta è oggi in festa perché può presentare alla vene- razione ed alla imitazione dei suoi figli e delle sue figlie una nuova Beata: Maria Enrica Dominici delle Suore di Sant’Anna e della Provvidenza!

Ad una prima impressione, la vicenda terrena della Beata Maria Enrica - la cui biografia abbiamo or ora ascoltato - sembra quella ordinaria di una Religiosa vissuta nella seconda metà dell’ottocento, e pertanto legata e condizionata da una mentalità, che oggi potrebbe apparire sorpassata.

Ma appena noi ci addentriamo nell’approfondimento e nella contemplazione di quest’anima, vi scorgiamo una ricchezza, una fecondità, una modernità che ci affascinano e ci trascinano. Siamo aiutati in questo spirituale scandaglio sia dalle testimonianze di coloro che l’hanno conosciuta ed hanno vissuto per anni accanto a lei, come pure dall’«Autobiografia» e dal «Diario», scritti per ordine del Direttore spirituale, e dalle numerose Lettere, che di lei ci rimangono.

Maria Enrica Dominici è stata, anzitutto, una donna, una religiosa, che ha avuto e sperimentato, in maniera forte e viva, il sentimento della fragilità essenziale dell’essere umano e il senso della assoluta grandezza e trascendenza di Dio. È il messaggio fondamentale che, già nell’Antico Testamento, aveva trovato nel libro del profeta Isaia una delle sue più alte espressioni teologiche e poeti. Il che: «Ogni uomo è come l’erba e tutta la sua gloria è come un fiore del campo... Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del nostro Dio dura sempre... Dio eterno è il Signore, creatore di tutta la terra» (
Is 40,6 Is 40,8 Is 40,28 cfr. Is 1 Petr. Is 1,24). La grandezza di Dio manifesta, per contrasto, la povertà essenziale dell’uomo; e questi, pertanto, diventa qualcosa soltanto nella misura in cui riconosce la propria dipendenza da Dio, e vale nella misura in cui coscientemente agisce alla luce della volontà dell’Altissimo.

Un messaggio chiaro, che coinvolge in particolare l’uomo contemporaneo, il quale sente riecheggiare, a tutti i livelli, le contestazioni nate dal fenomeno della secolarizzazione.

Maria Enrica Dominici giovanissima comprende che val la pena consacrare tutta la propria vita a Dio, e - come ella stessa ci confessa - si deliziava «nel desiderio sempre crescente di farsi buona e di servire di vero cuore il Signore»; e, riecheggiando le celebri parole di S. Agostino (S. AUGUSTINI Confessiones, 1, 1), essa riconosce: «solo il mio Dio poteva riempire e saziare il mio povero cuore; di tutto il resto non mi curavo».

Ma Iddio, che essa fin da bimba ha cercato e trovato e al quale vuole servire per tutta la vita, le si presenta come il Padre di infinito amore. Alla scuola di Cristo, essa, nei suoi scritti, nelle sue lettere, nelle sue conversazioni, chiamerà Dio col nome familiare e dolcissimo di «Babbo mio», e con una semplicità e sicurezza, che solo le anime piene di fede possono avere, scriverà: «Mi pareva di stare tutta riposata in seno a Dio come una bambina in seno alla mamma, che dorme tranquillamente: amavo Dio, e direi quasi, se non temessi di esagerare, che gustavo la di lui bontà».

La donazione a Dio nella vita religiosa comporta un abbandono assoluto alla sua volontà (Cfr. Mt 7,21). Maria Enrica ha deciso di compiere sempre, a qualunque costo, la volontà di Dio: «Sono tutta del mio Dio ed Egli è tutto mio. Di che cosa potrò temere? - scrive - E che cosa non potrò io fare e patire per amore di Lui, essendo tutta sua?... Mio Dio, voglio fare la volontà vostra e nient’altro».

Questo, pare a noi, è il primo aspetto saliente della figura spirituale della nuova Beata; aspetto essenzialmente religioso, che comporta un duplice simultaneo riconoscimento, quello della infinita trascendenza dell’ineffabile Iddio, e quello non meno ineffabile dell’intimità, che Dio stesso, per il tramite misterioso di Cristo, concede a chi non la rifiuta autorizzando a rivolgersi a Lui col nome sommo e confidenziale di Padre, che immette in noi lo spirito ed il linguaggio di figli privilegiati dell’adozione (Cfr. Rm 8,15 Rm 9,4 Ga 4,5 Ep 1,5).

A questo primo aspetto, che potremmo dire teologico, della Beata Maria Enrica Dominici, un altro suo aspetto caratteristico (anche se condiviso da non poche altre figure religiose del suo tempo), ci sembra doveroso mettere in rilievo, ed è quello ascetico anch’esso proprio della vita religiosa. La consacrazione religiosa implica inoltre spogliazione, rinnegamento di sé, rinuncia, sofferenza, perché la religiosa deve essere la sposa fedele che segue il Cristo nel suo cammino verso la Croce (Cfr. Mt 16,24 Lc 9,23). Già nei propositi per la professione religiosa Maria Enrica, convinta del valore incomparabile della «sapienza della Croce», scriveva: «Farò sovente la mia dimora nell’orto degli Ulivi e sul monte Calvario, ove si ricevono lezioni importantissime e utilissime».

Giovanissima aveva sognato il chiostro. Dio invece aveva altri disegni. A 21 anni essa entrava nell’Istituto delle Suore di Sant’Anna e della Provvidenza, opera che era sorta nel 1834 a Torino per iniziativa dei pii coniugi piemontesi i Marchesi Falletti di Barolo, Carlo Tancredi e Giulia Colbert, con la scopo di offrire un’adeguata educazione alle ragazze di famiglie meno abbienti. A questa Congregazione, dalle finalità spirituali in sintonia con le esigenze dei tempi, Madre Enrica nei suoi 33 anni di Generalato darà uno slancio e un ardore straordinari, con una eccezionale apertura e lucida visione dei problemi che urgevano nell’Italia e nella Chiesa in quel periodo complesso e intricato che va dal 1861 - anno della prima elezione della Beata a Superiora Generale - fino al 1894, anno della sua pia dipartita.

Nella sua vita religiosa, prima come novizia, poi come professa, quindi come Superiora Generale, la Beata ha vissuto, con gioiosa generosità, la pienezza del messaggio evangelico: la povertà, la castità, l’obbedienza, ed ha dimostrato che la vita consacrata lungi dal chiudere l’anima in una specie di roccaforte individualistica, le spalanca orizzonti insospettati ed inesplorati, le dona misteriose capacità di interiore fecondità; e, terzo aspetto, quello sociale, che a noi sembra ben degno di rilievo nella nuova Beata, ella ha, inoltre, ancora una volta, confermato la grande verità evangelica che l’autentico amore verso Dio è anche vero amore verso gli altri, specialmente i poveri nel corpo e nello spirito (Mt 25,34 ss.; Jn 15,12 ss.; 1Jn 2,10 ss.; 1Jn 3,16 1Jn 3,23). Il suo grande modello è sempre Cristo : «Vivere per Gesù, patire per Gesù, sacrificarsi per Gesù».

La Beata Maria Enrica ha amato immensamente e teneramente la sua Congregazione, che - sotto la sua guida - ha visto crescere e dilatarsi mirabilmente fino alle Missioni in India; ha amato i bambini, le ragazze mediante le svariate e geniali iniziative dell’Istituto; ha amato la Chiesa, e il Papa; ha amato e pregato per la sua Patria, in un periodo in cui i rapporti fra il Piemonte e la Sede Apostolica si facevano sempre più difficili e complessi.

Le sue ultime parole rivolte alle sue Suore, prima di lasciare questa terra, furono: «Raccomando l’umiltà... e l’umiltà».

Pensiamo che in questa sua parola, semplice e suprema, sia sintetizzato il grande messaggio che la nuova Beata rivolge ai contemporanei.

Umiltà, che diventi, nei confronti di Dio, adorazione. L’uomo impari di nuovo il gesto fondamentale della fede religiosa, che non lo umilia, anzi lo esalta perché gli fa riconoscere la sua dimensione essenziale di creatura. «La fede è oscura - scriveva la Beata - ma ci lascia sempre un lume sufficiente per andare a Dio».

Umiltà, che diventi, nei confronti degli altri, carità, servizio, solidarietà, armoniosa convivenza, pace, con il conseguente rinnegamento, a livello personale e sociale, del sopruso e della violenza.

Umiltà, che diventi, nei confronti della Chiesa, amore e docilità, nella convinzione che essa è «in Cristo come un sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Lumen Gentium, LG 1).

Umiltà, che diventi, nei confronti di noi stessi, serena consapevolezza che la nostra esistenza umana può acquistare il suo globale ed autentico significato solo inserendoci nel disegno amoroso della volontà di Dio: «voler quello che Dio vuole, come Dio lo vuole e finché Egli lo vuole». Sono parole della Beata Maria Enrica, che affidiamo alla vostra riflessione.

E così sia!





Domenica, 28 maggio 1978: SOLENNITÀ DEL «CORPUS DOMINI»

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Venerati Fratelli e Figli carissimi,

Con paterna effusione di sentimento noi vogliamo innanzitutto rivolgere il nostro saluto a tutti voi, che, spinti dalla fede e dall’amore, siete convenuti in questa Basilica per celebrare con noi la festa del Corpo e del Sangue di Cristo, per tributare cioè a Gesù eucaristico un atto di culto pubblico e solenne, in Lui riconoscendo il Pastore buono che ci guida sulle strade dell’esistenza, il Maestro sapiente che dispensa luce ai nostri cuori ottenebrati, il Redentore, che con tanta prodigalità di amore e di grazia viene a noi incontro e si fa ineffabilmente il Pane di vita per questo nostro cammino nel tempo verso l’eterno possesso di Dio. Noi vorremmo raggiungere ciascuno di voi con una parola personale ed affettuosa, come si conviene tra persone che sono animate dalla medesima gioia, perché chiamate ad assidersi alla medesima mensa festiva. Non lo possiamo, purtroppo, e dobbiamo perciò affidarci alla vostra intuizione sollecita e cordiale, che saprà raccogliere nelle parole rivolte a tutti l’intenzione nostra sincera di accostarci, con tenerezza rispettosa e partecipe, alla situazione particolare di ognuno per invitarvi ad essere attenti, coscienti, esultanti della realtà del mistero eucaristico.

Figli carissimi, la solennità che oggi celebriamo è stata voluta dalla Chiesa, voi ben lo sapete, perché i suoi figli potessero tributare al sacramento dell’Eucaristia, che abitualmente resta nascosto nel silenzio raccolto dei tabernacoli, quella pubblica testimonianza di gioiosa riconoscenza di cui ogni cuore conscio della realtà di questa misteriosa presenza di Cristo non può non sentire l’impellente bisogno. Per questo oggi la fede dei cristiani prorompe, con sobria giocondità, nell’esultanza di preghiere corali e di canti festosi, che si riversa anche all’esterno dei templi portando ovunque una nota di letizia e un annuncio di speranza.

E come potrebbe essere diversamente, se sotto i bianchi veli dell’Ostia consacrata, sappiamo di avere con noi il Signore della vita e della morte, «Colui che è, che era e che viene»? (
Ap 1,4) Noi celebriamo una festa della gioia perché, malgrado tutto, Egli è con noi tutti i giorni sino alla fine (Cfr. Mt 28,28), una festa del passato, che è presente nella memoria della cena e della morte del Signore, al di là di ogni distanza temporale, una festa del futuro, perché già adesso sotto i veli del sacramento è presente Colui che porta con sé ogni futuro, il Dio dell’eterno amore (Cfr. K. RAHNER, La Fede che ama la terra, 1968, p. 114).

Quale messe di considerazioni suggestive e corroboranti si offre allo sguardo pensoso dell’anima in preghiera! È una meditazione che preferiremmo condurre nel silenzio di una contemplazione adorante, piuttosto che consegnare alle parole. Noi vogliamo proporvi, più suggerendo che sviluppando, qualche rapido spunto di riflessione.

Innanzitutto circa il valore di «memoria» del rito che stiamo celebrando. Voi sapete il perché delle due specie eucaristiche. Gesù volle restare sotto le apparenze del pane e del vino, figure rispettivamente del suo Corpo e del suo Sangue, per attualizzare nel segno sacramentale la realtà del suo sacrificio, di quella immolazione sulla croce, cioè, che ha portato al mondo la salvezza. Chi non ricorda le parole dell’apostolo Paolo: «Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché Egli venga» ? (1Co 11,26) Nella Eucaristia, dunque, Gesù è presente come «l’uomo dei dolori» (Cfr. Is 5 Is 3,3), come 1’«agnello di Dio», che si offre vittima per i peccati del mondo (Cfr. Jn 1,29).

Comprendere questo significa vedersi spalancare dinnanzi prospettive immense: in questo mondo non c’è redenzione senza sacrificio (Cfr. He 9,22) e non c’è esistenza redenta che non sia al tempo stesso un’esistenza di vittima. Nell’Eucaristia è offerta ai cristiani di tutti i tempi la possibilità di dare al quotidiano calvario di sofferenze, incomprensioni, malattie, morte, la dimensione di un’oblazione redentrice, che associa il dolore dei singoli alla passione di Cristo, avviando l’esistenza di ognuno a quella immolazione nella fede, che nell’ultimo compimento si apre sul mattino pasquale della risurrezione.

Come vorremmo poter ripetere ad ognuno personalmente, e soprattutto a chi è attualmente oppresso dalla tristezza, dalla malattia, questa parola di fede e di speranza! Il dolore non è inutile! Se unito a quello di Cristo, il dolore umano acquista qualcosa del valore redentivo della stessa passione del Figlio di Dio.

L’Eucaristia - è questa la seconda riflessione che vorremmo sottoporvi - è evento di comunione. Il Corpo e il Sangue del Signore sono offerti come nutrimento che ci redime da ogni schiavitù e ci introduce nella comunione trinitaria, facendoci partecipare alla vita stessa di Cristo e alla sua comunione con il Padre. Non a caso la grande preghiera sacerdotale di Gesù è intimamente connessa col mistero eucaristico e la sua appassionata invocazione «ut unum sint» (Jn 17) è situata proprio nell’atmosfera e nella realtà di questo mistero.

L’Eucaristia postula la comunione. Lo aveva ben capito l’Apostolo a cui è dedicata questa Basilica, il quale, scrivendo ai cristiani di Corinto, domandava loro: «il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il Sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il Corpo di Cristo?». Intuizione fondamentale, dalla quale l’Apostolo, con logica stringente, traeva la ben nota conclusione: «Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (1Co 10,16-17).

L’Eucaristia è comunione con Lui, Cristo, e perciò stesso si trasforma e si manifesta in comunione nostra con i fratelli: essa è invito a realizzare fra noi la concordia e l’unione, a promuovere ciò che insieme ci affratella, a costruire la Chiesa, che è quel mistico Corpo di Cristo, del quale il sacramento eucaristico è segno, causa e alimento. Nella Chiesa primitiva l’incontro eucaristico diventava la sorgente di quella comunione di carità, che costituiva uno spettacolo di fronte al mondo pagano. Anche per noi cristiani del ventesimo secolo, dalla nostra partecipazione alla mensa divina, deve scaturire l’amore vero, quello che si vede, che dilaga, che fa storia.

IN MEZZO AGLI UOMINI

C’è un terzo aspetto poi di questo mistero: 1’Eucaristia è anticipazione e pegno della gloria futura. Celebrando questo mistero la Chiesa pellegrina si avvicina, giorno dopo giorno, alla Patria e, camminando sulla via della passione e della morte, si approssima alla risurrezione e alla vita eterna. Il pane eucaristico è il viatico che la sorregge sulla strada, piena d’ombre, di questa esistenza terrena e che la introduce, in qualche modo già fin d’ora, alla esperienza dell’esistenza gloriosa del cielo. Ripetendo il gesto divino della Cena, noi costruiamo nel tempo fuggevole la città celeste, che permane. Spetta dunque a noi cristiani di essere, in mezzo agli altri uomini, testimoni di questa realtà, annunciatori di questa speranza. Il Signore, presente nella verità del sacramento, non ripete forse ai nostri cuori in ogni Messa: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente»? (Ap 1,17-18) Ciò di cui il mondo odierno ha forse più bisogno è che i cristiani levino alta, con umile coraggio, la voce profetica della loro speranza. Sarà precisamente da una vita eucaristica intensa e consapevole, che la loro testimonianza deriverà la calda trasparenza e la capacità di convinzione, che sono necessarie per far breccia nei cuori umani.

Fratelli e figli carissimi, stringiamoci dunque intorno all’Altare! Qui è presente Colui che, dopo aver condiviso la nostra condizione umana, regna ora glorioso nella gioia senza ombre del cielo. Lui, che un tempo domò le onde minacciose del lago di Tiberiade, quindi la navicella della Chiesa, sulla quale tutti noi siamo, attraverso le tempeste del mondo, fino alle sponde serene dell’eternità. Noi a Lui ci affidiamo, confortati dalla certezza che la nostra speranza non sarà delusa.





Giovedì, 29 giugno 1978: XV ANNIVERSARIO DELL’INCORONAZIONE DEL PAPA

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Solennità dei SS. Apostoli Pietro e Paolo



Venerati Fratelli e Figli carissimi,

Le immagini dei Santi Apostoli Pietro e Paolo occupano, oggi più che mai, il nostro spirito durante la celebrazione di questo rito. Non solo perché ci sono riportate, come di consueto, dal volgere dell’anno liturgico, ma anche per il particolare significato che riveste per noi questo xv anniversario della nostra elezione al Sommo Pontificato, quando, dopo il compimento dell’80° genetliaco, il corso naturale della nostra vita volge al tramonto.

Pietro e Paolo: «le grandi e giuste colonne» (S. CLEMENTE ROMANI, I, 5, 2) della Chiesa romana e della Chiesa universale! I testi della Liturgia della parola, or ora ascoltati, ce li presentano sotto un aspetto che suscita in noi profonda impressione : ecco Pietro, che rinnova nei secoli la grande confessione di Cesarea di Filippo; ecco Paolo, che dalla cattività romana lascia a Timoteo il testamento più alto della sua missione. Guardando a loro, noi gettiamo uno sguardo complessivo su quello che è stato il periodo durante il quale il Signore ci ha affidato la sua Chiesa; e, benché ci consideriamo l’ultimo e indegno successore di Pietro, ci sentiamo a questa soglia estrema confortati e sorretti dalla coscienza di aver instancabilmente ripetuto davanti alla Chiesa e al mondo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (
Mt 16,16); anche noi, come Paolo, sentiamo di poter dire: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4,7).


I. TUTELA DELLA FEDE

Il nostro ufficio è quello stesso di Pietro, al quale Cristo ha affidato il mandato di confermare i fratelli (Cfr. Lc 22,32): è l’ufficio di servire la verità della fede, e questa verità offrire a quanti la cercano, secondo una stupenda espressione di San Pier Crisologo: «Beatus Petrus, qui in propria sede et vivit et praesidet, praestat quaerentibus fidei veritatem» (S. PETRI CEIRYSOLOGI EP ad Etrtichen, inter Ep. S. Leonis Magni XXV, 2: PL 54, 743-744). Infatti la fede è «più preziosa dell’oro» (1Tm 6,13), dice San Pietro; non basta riceverla, ma bisogna conservarla anche in mezzo alle difficoltà («per ignem probatur» - 1P 1,7). Della fede gli Apostoli sono stati predicatori anche nella persecuzione, sigillando la loro testimonianza con la morte, a imitazione del loro Maestro e Signore che, secondo la bella formula di San Paolo «testimonium reddidit sub Pontio Pilato bonam confessionem» (Ibid.). Ora, la fede non è il risultato dell’umana speculazione (Cfr. 2P 1,16), ma il «deposito» ricevuto dagli Apostoli, i quali lo hanno accolto da Cristo che essi hanno «visto, contemplato e ascoltato» (). Questa è la fede della Chiesa, la fede apostolica. L’insegnamento ricevuto da Cristo si mantiene intatto nella Chiesa per la presenza in essa dello Spirito Santo e per la speciale missione affidata a Pietro, per il quale Cristo ha pregato : «Ego rogavi pro te ut non deficiat fides tua» (Lc 22,32) e al Collegio degli Apostoli in comunione con lui: «qui vos audit me audit» (Ibid. Lc 10,16). La funzione di Pietro si perpetua nei suoi successori, tanto che i Vescovi del Concilio di Calcedonia poterono dire dopo aver ascoltato la lettera loro mandata da Papa Leone: «Pietro ha parlato per bocca di Leone» (Cfr. H. GRISAR, Roma alla fine del tempo antico, I, 359). E il nucleo di questa fede è Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, confessato così da Pietro: «Tu es Christus, Filius Dei vivi» (Mt 16,16).

Ecco, Fratelli e Figli, l’intento instancabile, vigile, assillante che ci ha mossi in questi quindici anni di pontificato. «Fidem servavi»! possiamo dire oggi, con la umile e ferma coscienza di non aver mai tradito «il santo vero» (A. MANZONI). Ci sia consentito ricordare, a conferma di questa convinzione, e a conforto del nostro spirito che continuamente si prepara all’incontro col giusto Giudice (2Tm 4,8), alcuni documenti salienti del pontificato, che hanno voluto segnare le tappe di questo nostro sofferto ministero di amore e di servizio alla fede e alla disciplina: tra le encicliche e le esortazioni pontificie, la «Ecclesiam Suam» (9 augusti 1964: AAS 56 (1964) 609.659), che, all’alba del pontificato, tracciava le linee di azione della Chiesa in se stessa e nel suo dialogo col mondo dei fratelli cristiani separati, dei non-cristiani, dei non-credenti; la «Mysterium Fidei» sulla dottrina eucaristica (3 septembris 1965: AAS 57 (1965) 753.774); la «Sacerdotalis Caelibatus» (24 iunii 1967: AAS 59 (1967) 657.697) sul dono totale di sé che distingue il carisma e l’ufficio presbiterale; la «Evangelica Testificatio» (29 iunii 1971: AAS 63 (1971) 497-526) sulla testimonianza che oggi la vita religiosa, in perfetta sequela di Cristo, è chiamata a dare davanti al mondo; la «Paterna cum Benevolentia» (8 decembris 1974: AAS 67 (1975) 5-23), alla vigilia dell’Anno Santo, sulla riconciliazione all’interno della Chiesa; la «Gaudente in Domino» (9 maii 1975: AAS 67 (1975) 289-322) sulla ricchezza zampillante e trasformatrice della gioia cristiana; e, infine la «Evangelii Nuntiandi» (8 decembris 1975: AAS 68 (1976) 5-76), che ha voluto tracciare il panorama esaltante e molteplice dell’azione evangelizzatrice della Chiesa, oggi.

Ma soprattutto non vogliamo dimenticare quella nostra «Professione di fede» che, proprio dieci anni fa, il 30 giugno del 1968, noi solennemente pronunciammo in nome e a impegno di tutta la Chiesa come «Credo del Popolo di Dio» (PAOLO PP. VI, Credo del Popolo di Dio: AAS 60 (1968) 436-445), per ricordare, per riaffermare, per ribadire i punti capitali della fede della Chiesa stessa, proclamata dai più importanti Concili Ecumenici, in un momento in cui facili sperimentalismi dottrinali sembravano scuotere la certezza di tanti sacerdoti e fedeli, e richiedevano un ritorno alle sorgenti. Grazie al Signore, molti pericoli si sono attenuati; ma davanti alle difficoltà che ancor oggi la Chiesa deve affrontare sul piano sia dottrinale che disciplinare, noi ci richiamiamo ancora energicamente a quella sommaria professione di fede, che consideriamo un atto importante del nostro magistero pontificale, perché solo nella fedeltà all’insegnamento di Cristo e della Chiesa, trasmessoci dai Padri, possiamo avere quella forza di conquista e quella luce di intelligenza e d’anima che proviene dal possesso maturo e consapevole della divina verità. E vogliamo altresì rivolgere un appello, accorato ma fermo, a quanti impegnano se stessi e trascinano gli altri, con la parola, con gli scritti, con il comportamento, sulle vie delle opinioni personali e poi su quelle dell’eresia e dello scisma, disorientando le coscienze dei singoli, e la comunità intera, la quale dev’essere anzitutto koinonia nell’adesione alla verità della Parola di Dio, per verificare e garantire la koinonia nell’unico Pane e nell’unico Calice. Li avvertiamo paternamente: si guardino dal turbare ulteriormente la Chiesa; è giunto il momento della verità, e occorre che ciascuno conosca le proprie responsabilità di fronte a decisioni che debbono salvaguardare la fede, tesoro comune che il Cristo, il quale è Petra, è Roccia, ha affidato a Pietro, Vicarius Petrae, Vicario della Roccia, come lo chiama San Bonaventura (S. BONAVENTURAE Quaest. disp. de per/. evang., q. 4, a. 3; ed. Quaracchi, V, 1891, p. 195).



II. DIFESA DELLA VITA UMANA

In questo impegno offerto e sofferto di magistero a servizio e a difesa della verità, noi consideriamo imprescindibile la difesa della vita umana. Il Concilio Vaticano secondo ha ricordato con parole gravissime che «Dio padrone della Vita, ha affidato agli uomini l’altissima missione di proteggere la vita»! (Gaudium et Spes, GS 51) E noi, che riteniamo nostra precisa consegna l’assoluta fedeltà agli insegnamenti del Concilio medesimo, abbiamo fatto programma del nostro pontificato la difesa della vita, in tutte le forme in cui essa può esser minacciata, turbata o addirittura soppressa.

Rammentiamo anche qui i punti più significativi che attestano questo nostro intento.

a) Abbiamo anzitutto sottolineato il dovere di favorire la promozione tecnico-materiale dei popoli in via di sviluppo, con la enciclica «Populorum Progressio» (26 martii 1967: AAS 59 (1967) 257-299)

b) Ma la difesa della vita deve cominciare dalle sorgenti stesse della umana esistenza. È stato questo un grave e chiaro insegnamento del Concilio, il quale, nella Costituzione pastorale «Gaudium et Spes», ammoniva che «la vita, una volta concepita, dev’essere protetta con la massima cura; e l’aborto come l’infanticidio sono abominevoli delitti» (Gaudium et Spes, GS 51). Non abbiamo fatto altro che raccogliere questa consegna, quando, dieci anni fa, promanammo l’Enciclica «Humanae Vitae» (25 iulii 1968: AAS 60 (1968) 481-503): ispirato all’intangibile insegnamento biblico ed evangelico, che convalida le norme della legge naturale e i dettami insopprimibili della coscienza sul rispetto della vita, la cui trasmissione è affidata alla paternità e alla maternità responsabili, quel documento è diventato oggi di nuova e più urgente attualità per i vulnera inferti da pubbliche legislazioni alla santità indissolubile del vincolo matrimoniale e alla intangibilità della vita umana fin dal seno materno.

c) Di qui le ripetute affermazioni della dottrina della Chiesa cattolica sulla dolorosa realtà e sui penosissimi effetti del divorzio e dell’aborto, contenute nel nostro magistero ordinario come in particolari atti della competente Congregazione. Noi le abbiamo espresse, mossi unicamente dalla suprema responsabilità di maestro e di pastore universale, e per il bene del genere umano!

d) Ma siamo stati indotti altresì dall’amore alla gioventù che sale, fidente in un più sereno avvenire, gioiosamente protesa verso la propria auto-realizzazione, ma non di rado delusa e scoraggiata dalla mancanza di un’adeguata risposta da parte della società degli adulti. La gioventù è la prima a soffrire degli sconvolgimenti della famiglia e della vita morale. Essa è il patrimonio più ricco da difendere e avvalorare. Perciò noi guardiamo ai giovani: sono essi il domani della comunità civile, il domani della Chiesa.

Venerati Fratelli e Figli carissimi!

Vi abbiamo aperto il nostro cuore, in un panorama sia pur rapido dei punti salienti del nostro Magistero pontificale in ordine alla vita umana, perché un grido profondo salga dai nostri cuori verso il Redentore; davanti ai pericoli che abbiamo delineato, come di fronte a dolorose defezioni di carattere ecclesiale o sociale, noi, come Pietro, ci sentiamo spinti ad andare a Lui, come a unica salvezza, e a gridargli: «Domine, ad quem ibimus? verba vitae aeternae habes» (Jn 6,68). Solo Lui è la verità, solo Lui è la nostra forza, solo Lui la nostra salvezza. Da lui confortati, proseguiremo insieme il nostro cammino.

Ma oggi, in questo anniversario, noi vi chiediamo anche di ringraziarlo con noi, per l’aiuto onnipotente con cui ci ha finora fortificati, sicché possiamo dire, come Pietro, «nunc scio vere quia misit Deus angelum suum»( Ac 12,11) Sì, il Signore ci ha assistiti: noi lo ringraziamo e lodiamo; e chiediamo a voi di lodarlo con noi e per noi, per l’intercessione dei Patroni di questa «Roma nobilis» e di tutta la Chiesa, su di essi fondata.

O Santi Pietro e Paolo, che avete portato nel mondo il nome di Cristo, e a Lui avete dato l’estrema testimonianza dell’amore e del sangue, proteggete ancora e sempre questa Chiesa, per la quale avete vissuto e sofferto; conservatela nella verità e nella pace; accrescete in tutti i suoi figli la fedeltà inconcussa alla Parola di Dio, la santità della vita eucaristica e sacramentale, l’unità serena nella fede, la concordia nella carità vicendevole, la costruttiva obbedienza ai Pastori; che essa, la santa Chiesa, continui a essere nel mondo il segno vivo, gioioso e operante del disegno redentivo di Dio e della sua alleanza con gli uomini. Così essa vi prega con la trepida voce dell’umile attuale Vicario di Cristo, che a voi, o Santi Pietro e Paolo, ha guardato come a modelli e ispiratori; e così custoditela, questa Chiesa benedetta, con la vostra intercessione, ora e sempre, fino all’incontro definitivo e beatificante col Signore che viene.

Amen, amen.



B. Paolo VI Omelie 19378