Lezionario "I Padri vivi" 97

III DOMENICA DI PASQUA

97 Letture:
    
Ac 3,13-15 Ac 3,17-19
     1Jn 2,1-5a
     Lc 24,35-48

1. Cristo e la vera risurrezione e la vita

       Come sapete, quando egli "venne" a loro "a porte chiuse e stette in mezzo a loro, essi, stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma (Jn 20,26 Lc 24,36-37); ma egli alitò su di loro e disse: "Ricevete lo Spirito Santo" (Jn 20,22-23). Poi, inviò loro dal cielo lo stesso Spirito, ma come nuovo dono. Questi doni furono per loro le testimonianze e gli argomenti di prova della risurrezione e della vita.

       È lo Spirito infatti che rende testimonianza, anzitutto nel cuore dei santi, poi per bocca loro, che "Cristo è la verità" (1Jn 5,6), la vera risurrezione e la vita. Ecco perché gli apostoli, che erano rimasti persino nel dubbio inizialmente, dopo aver visto il suo corpo redivivo, "resero testimonianza con grande forza della sua risurrezione" (Ac 4,33), quando ebbero gustato lo Spirito vivificatore. Quindi, più proficuo concepire Gesù nel proprio cuore che il vederlo con gli occhi del corpo o sentirlo parlare, e l’opera dello Spirito Santo è molto più poderosa sui sensi dell’uomo interiore, di quanto non lo sia l’impressione degli oggetti corporei su quelli dell’uomo esteriore. Quale spazio, invero, resta per il dubbio allorché colui che dà testimonianza e colui che la riceve sono un medesimo ed unico spirito? (1Jn 5,6-10). Se non sono che un unico spirito, sono del pari un unico sentimento e un unico assenso...

       Ora perciò, fratelli miei, in che senso la gioia del vostro cuore è testimonianza del vostro amore di Cristo? Da parte mia, ecco quel che penso; a voi stabilire se ho ragione: Se mai avete amato Gesù, vivo, morto, poi reso alla vita, nel giorno in cui, nella Chiesa, i messaggeri della sua risurrezione ne danno l’annuncio e la proclamano di comune accordo e a tante riprese, il vostro cuore gioisce dentro di voi e dice: «Me ne è stato dato l’annuncio, Gesù, mio Dio, è in vita! Ecco che a questa notizia il mio spirito, già assopito di tristezza, languente di tiepidità, o pronto a soccombere allo scoraggiamento, si rianima». In effetti, il suono di questo beato annuncio arriva persino a strappare dalla morte i criminali. Se fosse diversamente, non resterebbe altro che disperare e seppellire nell’oblio colui che Gesù, uscendo dagli inferi, avrebbe lasciato nell’abisso. Sarai nel tuo diritto di riconoscere che il tuo spirito ha pienamente riscoperto la vita in Cristo, se può dire con intima convinzione: «Se Gesù è in vita, tanto mi basta!».

       Esprimendo un attaccamento profondo, una tale parola è degna degli amici di Gesù! E quanto è puro, l’affetto che così si esprime: «Se Gesù è in vita, tanto mi basta!». Se egli vive, io vivo, poiché la mia anima è sospesa a lui; molto di più, egli è la mia vita, e tutto ciò di cui ho bisogno. Cosa può mancarmi, in effetti, se Gesù è in vita? Quand’anche mi mancasse tutto, ciò non avrebbe alcuna importanza per me, purché Gesù sia vivo. Se poi gli piace che venga meno io stesso, mi basta che egli viva, anche se non è che per se stesso. Quando l’amore di Cristo assorbe in un modo così totale il cuore dell’uomo, in guisa che egli dimentica se stesso e si trascura, essendo sensibile solo a Gesù Cristo e a ciò che concerne Gesù Cristo, solo allora la carità è perfetta in lui. Indubbiamente, per colui il cui cuore è stato così toccato, la povertà non è più un peso; egli non sente più le ingiurie; si ride degli obbrobri; non tiene più conto di chi gli fa torto, e reputa la morte un guadagno (Ph 1,21). Non pensa neppure di morire, poiché ha coscienza piuttosto di passare dalla morte alla vita; e con fiducia, dice: «Andrò a vederlo, prima di morire».

       Guerric d’Igny, Sermo I, in Pascha, 4-5


2. Le Scritture sono profezia di Cristo

       Se uno, invero, legge le Scritture con intendimento, vi troverà una parola concernente il Cristo e la prefigurazione della vocazione nuova. Questo è infatti il tesoro nascosto nel campo (Mt 13,44), ovvero nel mondo, poiché il campo è il mondo (Mt 13,38). Tesoro nascosto nelle Scritture, poiché era significato in figure e in parabole che, dal punto di vista umano, non potevano essere comprese prima del compimento delle profezie, cioè prima della venuta di Cristo. Per questo, veniva detto al profeta Daniele: "Chiudi queste parole e sigilla questo libro, fino al tempo della fine: allora molti lo scorreranno e la loro conoscenza sarà accresciuta. Quando infatti la dispersione sarà finita, essi comprenderanno tutte queste cose" (Da 12,4 Da 12,7) .

       Anche Geremia dice: "Alla fine dei giorni, comprenderete tutto" (Jr 23,20). Invero, ogni profezia, prima del suo compimento, non appariva che enigmi ed è per gli uomini; ma, venuto il momento del suo compimento, essa acquista il suo esatto significato. Ecco perché, letta oggi dai Giudei, la Legge somiglia ad una favola: manca loro infatti la chiave interpretativa di tutto, cioè la venuta del Figlio di Dio come uomo. Per contro, letta dai cristiani, essa è quel tesoro un tempo nascosto nel campo, ma che la croce di Cristo rivela e spiega. essa arricchisce l’intelligenza degli uomini, mostra la sapienza di Dio, rendendo manifesti i propri disegni di salvezza verso l’uomo; prefigura il regno di Cristo e annuncia l’eredità della santa Gerusalemme; predice che l’uomo che ama Dio progredirà fino a vedere Dio e udire la sua parola, e per l’ascolto di tale parola sarà glorificato, al punto che gli altri uomini non potranno fissare i loro occhi sul suo volto di gloria (2Co 3,7), secondo quanto è stato detto per bocca di Daniele: "I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro cbe avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre" (Da 12,3).

       Se dunque uno legge le Scritture nel modo che abbiamo indicato - ovvero, nel modo in cui il Signore le spiegò ai discepoli dopo la sua risurrezione dai morti, provando loro, attraverso le Scritture, come "era necessario che Cristo soffrisse ed entrasse così nella sua gloria" (Lc 24,26 Lc 24,46) "e nel suo nome fosse predicata in tutto il mondo la remissione dei peccati" (Lc 24,47) -, sarà un discepolo perfetto, "simile ad un padrone di casa che trae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche" (Mt 13,52).

       Ireneo di Lione, Adv. haer., IV, 26, 1


3. Il forziere chiuso delle divine Scritture

       Fratelli e Padri, la conoscenza spirituale somiglia ad una casa costruita in mezzo alla conoscenza mondana e pagana, in cui, come un forziere solido e ben custodito, la conoscenza delle Scritture divinamente ispirate e il tesoro di ineffabile ricchezza che esso racchiude sono depositati - ricchezza che mai potranno contemplare coloro che entrano nella casa, a meno che il forziere non venga loro aperto. Ma non è cosa dell’umana sapienza (1Co 2,13) poter mai arrivare ad aprirlo, motivo per cui resta sconosciuta a tutti gli uomini del mondo la ricchezza depositatavi dallo Spirito.

       Un uomo che ignorasse il tesoro che vi è deposto, potrebbe caricarsi persino il forziere, in tutto il suo peso, recandoselo persino sulle spalle; del pari, egli potrebbe leggere e imparare a memoria, nella sua totalità, la Scrittura, citandola come si trattasse di un sol salmo, ignorando il dono dello Spirito Santo che vi è dissimulato. Infatti, non è per il forziere che è svelato il contenuto del forziere, né per la Scrittura che è svelato il contenuto della Scrittura. Di che dono si tratta, dunque? Ascolta.

       Tu vedi un cofanetto solidamente chiuso da ogni lato e per quanto tu possa supporre - dal suo peso e dalla sua eleganza esterna, o semplicemente perché qualcuno te ne ha parlato - che racchiude al suo interno un tesoro, avrai un bel prenderlo in tutta fretta e andartene: qual profitto, dimmi, ne trarrai a portartelo sempre appresso, chiuso e sigillato, senza aprirlo? Tu non vedrai mai, in questa vita, il tesoro che vi sta dentro, non ammirerai mai lo splendore delle sue pietre, l’oriente delle perle, il bagliore folgorante dell’oro. Che ci guadagnerai, se non sei ritenuto degno di prenderne la benché minima parte per acquistarti un po’ di cibo o qualche vestito, mentre invece, pur portandoti dietro il forziere sigillato che include un tesoro immenso e senza prezzo, tu soccombi alla fame, alla sete e alla nudità? Niente, punto e basta!...

       Alla stregua di uno che prende un libro sigillato e chiuso e non può leggervi cosa c’è scritto o riuscire a capire di che si tratta - abbia pure appreso tutta la sapienza del mondo -, finché il libro resta sigillato (Is 29,11), così avverrà di chi, come abbiamo detto, potrà aver sempre in bocca le Scritture, ma non potrà mai conoscere e considerare la mistica e divina gloria e virtù che ad un tempo vi sono celate, a meno di percorrere la via di tutti i comandamenti di Dio e di ricevere l’assistenza del Paraclito, che gli apra le parole come un libro e gli mostri misticamente la gloria che esse racchiudono; di più, che gli riveli. insieme alla vita eterna che li fa scaturire, i beni di Dio nascosti in quelle parole, beni che rimangono velati e assolutamente invisibili per tutti coloro che li disprezzano e peccano per negligenza.

       Simeone Nuovo Teologo, Catech., 24


4. Le apparizioni agli apostoli

       Qualcuno dirà: in che modo dunque Tommaso, quando ancora non credeva, toccò tuttavia Cristo? (Jn 20,27). Sembra però che egli dubitasse non della risurrezione del Signore ma del modo della risurrezione. Era necessario che egli mi istruisse toccandolo, come mi istruì anche Paolo: "Bisogna infatti che questa corruttibilità si rivesta d’incorruttibilità, e questo corpo mortale indossi l’immortalità" (1Co 15,53), in modo che creda l’incredulo e l’esitante non possa più dubitare. Più facilmente infatti crediamo quando vediamo. Tommaso ebbe motivo di stupirsi, quando vide che, essendo ogni porta chiusa, un corpo passava attraverso barriere impenetrabili ai corpi, senza danno alla sua struttura. Era fuori dell’ordinario che un corpo passasse attraverso corpi impenetrabili; senza che lo si avesse visto arrivare, eccolo visibile a tutti, facilmente palpabile, difficilmente riconoscibile.

       Pertanto, turbati, i discepoli credevano di avere davanti un fantasma. Per questo il Signore, allo scopo di mostrarci il carattere della sua risurrezione, dice: "Toccate e vedete, poiché uno spirito non ha carne ed ossa, come vedete che ho io" (Lc 24,39). Non è dunque per la sua natura incorporale, ma per le qualità particolari della sua risurrezione corporale che egli è potuto passare attraverso barriere di solito impenetrabili. È un corpo quello che si può toccare, un corpo quello che si può palpare. Ebbene è nel corpo che noi risuscitiamo; infatti "si semina un corpo carnale, e risorge un corpo spirituale" (1Co 15,44); uno è più sottile, l’altro più pesante, essendo reso tale dalle condizioni della sua terrestre debolezza.

       Come potrebbe non essere un corpo questo, in cui restavano i segni delle ferite, le tracce delle cicatrici, che il Signore invita a toccare? Così facendo non solo conferma la fede, ma rende più viva la devozione: egli ha preferito portare in cielo le ferite ricevute per noi, non ha voluto cancellarle, per mostrare a Dio Padre il prezzo della nostra libertà. È così che il Padre lo fa sedere alla sua destra, accogliendo i trofei della nostra salvezza; tali sono le testimonianze che la corona delle sue cicatrici mostra per noi.

       Ambrogio, Exp. in Luc., 10, 168-170


5. I corpi spiritualizzati dopo la risurrezione

       Siccome a tua volta mi chiedevi il mio parere circa la risurrezione dei corpi e le funzioni delle membra nello stato futuro d’incorruttibilità e d’immortalità, ascolta cosa in breve ne penso; e, se non ti soddisferà, ne potremo discutere più a lungo, con l’aiuto di Dio. Si deve credere con tutta la forza quanto nella Sacra Scrittura è affermato in modo veridico e chiaro: che cioè i nostri corpi visibili e terreni, che ora chiamiamo animali, nella risurrezione dei fedeli e dei giusti, diventeranno spirituali. Ignoro d’altronde come si possa comprendere o far comprendere ad altri di quale specie sia un corpo spirituale, di cui non abbiamo conoscenza sperimentale. È certo però che in quello stato i corpi non avranno corruzione di sorta e perciò non sentiranno, come ora, il bisogno di questo cibo corruttibile; potranno tuttavia prenderlo e consumarlo realmente, non costretti da necessità, ma assecondando una possibilità. Altrimenti neppure il Signore avrebbe preso cibo dopo la sua risurrezione dandoci in tal modo l’immagine della risurrezione corporea; per cui l’Apostolo dice: "Se i morti non risorgono, non è risorto neppure Cristo" (1Co 15,16). Il Signore infatti, apparendo con tutte le sue membra, e servendosi delle loro funzioni, mostrò pure il posto delle ferite. Io ho sempre creduto che non si tratti di ferite, ma di cicatrici, conservate dal Signore non già per necessità, ma per sua volontà. E la facilità di attuare questa sua volontà, la dimostrò soprattutto e quando apparve sotto altre sembianze e quando apparve com’era realmente, a porte chiuse, nella casa dove si erano adunati i discepoli.

       Agostino, Epist., 95, 7




IV DOMENICA DI PASQUA

98 Letture:
    
Ac 4,8-12
     1Jn 3,1-2
     Jn 10,11-18

1. Il buon pastore e il mercenario

       Avete udito, fratelli carissimi, dalla lettura evangelica odierna, un ammaestramento per voi e un pericolo per me. Infatti colui che è buono non per un dono aggiuntivo, ma per sua stessa natura, dice: "Io sono il buon pastore" (Jn 10,11). Poi, subito evidenzia l’elemento costitutivo della sua bontà, per far sì che noi possiamo imitarlo, ed aggiunge: "Il buon pastore dà la vita per le sue pecore ()". Inoltre, egli fece quel che insegnò, e mostrò con l’esempio quanto comandava. Il buon pastore dette la sua vita per le pecore del suo gregge, cambiando il suo corpo e il suo sangue nel nostro Sacramento, per sfamare con il cibo della sua carne coloro che aveva redento. In tal modo ci viene indicata la via del disprezzo della morte, perché possiamo seguirla; ci viene proposto un modello da imitare. Anzitutto noi pastori di anime dobbiamo dare i nostri beni per le pecore del Signore; poi, se si rende necessario, per esse dobbiamo affrontare la morte. Dal dono delle cose esteriori che poi è il meno si arriva al dono della vita, che è il massimo tra tutti i doni. E siccome l’anima che ci fa dei viventi è incommensurabilmente più preziosa delle cose terrene in nostro possesso, chi non dà per le pecore del Signore i beni esteriori, come farà a dare per loro la propria anima? Eppure quanti sono coloro che per l’attaccamento ai beni del mondo si alienano il diritto di essere chiamati pastori! Di costoro, la divina Parola dice: "Il mercenario, e chi non è pastore, a cui non appartengono le pecore, quando vede venire il lupo abbandona le pecore e fugge " (Jn 10,12).

       Non pastore, bensì mercenario è detto chi pasce le pecore del Signore animato non dall’amore sincero, ma dalla bramosia della ricompensa materiale. Mercenario è chi esercita l’ufficio di pastore, ma, invece di cercare il bene delle anime, ricerca i propri agi, il guadagno terreno, gli onori delle dignità ecclesiastiche e si pavoneggia alle riverenze degli uomini. Ecco i compensi del mercenario! Egli trova quaggiù la ricompensa che va cercando per il suo lavoro di pastore di anime, ma alla fine sarà escluso dalla eredità del gregge. Finché non si presenta un’occasione straordinaria, non è possibile distinguere il buon pastore dal mercenario. In tempo ordinario, pastore e mercenario custodiscono il gregge nell’identico modo. È quando sopraggiunge il lupo che si svela la interiore disposizione con la quale ciascuno dei due stava a guardia del gregge. Il lupo cala sul gregge ogni qualvolta un ingiusto o un rapitore affligge gli umili e fedeli servi del Signore. Allora, colui che appariva pastore, senza esserlo, lascia le pecore e fugge, per paura del pericolo che gli incombe e non si arrischia a resistere all’ingiustizia. Dire che fugge non vuol dire che egli cambia dimora, bensì che non dà il proprio aiuto. Fugge, perché pur vedendo l’ingiustizia, tace; fugge, perché si nasconde dietro il silenzio. Di tali pseudo-pastori, il profeta Ezechiele dice: "Non siete saliti sulle brecce, e non avete costruito alcun baluardo in difesa degli israeliti, perché potessero resistere al combattimento nel giorno del Signore" (Ez 13,5).

       Salire sulle brecce significa resistere con parola franca e coraggiosa a tutti i potenti che agiscono male. In più, resistiamo al combattimento nel giorno del Signore e ricostruiamo le mura della casa d’Israele, se difendiamo i fedeli innocenti, con l’autorità della giustizia, contro l’ingiustizia dei malvagi. Per evitare di far questo, il mercenario scappa al sopraggiungere del lupo.

       C’è però un altro lupo che, senza desistere, ogni giorno, dilania non i corpi, bensì le anime. È lo spirito maligno che si aggira attorno ai recinti in cui stanno le pecore e cerca di ucciderle. Di questo lupo, il Signore, subito dopo, aggiunge: "Il lupo rapisce e disperde le pecore" (Jn 10,12). Viene il lupo e il mercenario scappa. Come dire: Lo spirito maligno dilania le anime con le sue tentazioni, mentre colui che riveste il ruolo di pastore non sente premura e sollecitudine. Le anime si perdono e il pastore si gongola nei suoi guadagni terreni.

       Il lupo rapisce e disperde il gregge, quando attrae qualcuno alla lussuria, accende un altro d’avarizia, fa insuperbire un terzo infiamma d’ira un quarto; pungola questo con l’invidia, inganna quell’altro con la falsità. Il lupo, insomma, disperde le pecore, allorché il diavolo uccide con le tentazioni il popolo fedele.

       Epperò, contro tutte queste cose, il mercenario non s’accende minimamente di zelo, non si risveglia in lui alcun fervore d’amore: mentre è alla ricerca soltanto dei propri vantaggi esteriori, all’interno sopporta con negligenza tutti i danni spirituali del gregge. Per questo, il Maestro divino aggiunge: "Il mercenario fugge proprio perch‚ è mercenario e non gli importa nulla delle pecore" (Jn 10,13). L’unica causa della fuga del mercenario è che egli è appunto un mercenario. Come dire: Non può stare al pericolo insieme alle pecore, chi ricopre il suo ufficio non per amore alle pecore, ma per desiderio di guadagni terreni. Il mercenario che accetta gli onori e si gongola nei propri lucri terreni, paventa di esporsi al rischio e di sfidare il pericolo, perch‚ corre l’alea di perdere ciò che più ama. Ma, dopo aver denunciato le colpe del falso pastore, il Signore ci prospetta ancora il modello, quasi la forma in cui dobbiamo calarci. Afferma difatti: "Io sono il buon pastore". Quindi, aggiunge: "Io conosco", ovvero amo, "le mie pecore, e le mie pecore conoscono me" (Jn 10,14). Come se intendesse dire: Le anime che mi amano, mi obbediscono, perché chi non ama la verità è segno che non la conosce ancora.

       Avendo udito, fratelli carissimi, il pericolo cui siamo esposti noi pastori di anime, sforzatevi di scoprire nelle parole del Signore i pericoli che del pari correte voi. Interrogatevi se siete davvero le sue pecore, chiedetevi se lo conoscete, se possedete la luce della verità. Dico possedere la luce della verità, non soltanto per fede, ma per amore; non soltanto perciò credendo, ma anche operando. Infatti, lo stesso evangelista Giovanni, autore del brano evangelico odierno, ci ammonisce che: "Colui che dice di conoscere Dio, e poi non osserva i suoi comandamenti è un bugiardo" (1Jn 2,4). Ecco perché, nel brano letto, il Signore aggiunge: "Come il Padre conosce me, così io conosco il Padre, e do la mia vita per le mie pecore" (Jn 10,15). In altri termini: Da questo si dimostra chiaramente che io conosco il Padre e da lui sono conosciuto: dal fatto che do la mia vita per le mie pecore. Cioè: Dall’amore con cui mi voto alla morte per le mie pecore, si può intuire quanto grande sia l’amore che ho per il Padre.

       Siccome però il Signore era venuto per la redenzione di tutti, non solo degli Ebrei, ma anche dei Gentili, la Scrittura prosegue: "Ho altre pecore che non sono di questo ovile, anche quelle io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore" (Jn 10,16).

       Quando asseriva di voler condurre e chiamare anche altre pecore, il Signore prevedeva la nostra redenzione. Noi, in effetti, veniamo dal paganesimo. Il che, fratelli potete vedere realizzato ogni giorno; e questo potete verificare, dal momento che i pagani si sono riconciliati con Dio.

       Egli fa di due greggi quasi un solo ovile, poiché unifica nella sua fede il popolo ebreo e quello pagano. E quanto attesta Paolo, che afferma: "Egli è la nostra pace; è colui che ha unito i due in un sol popolo" (Ep 2,14). Quando egli, da entrambe le nazioni, chiama i semplici alla vita eterna, conduce le pecore al proprio ovile.

       Gregorio Magno, Hom. in Ev., 14, 1-4


2. Gesù, porta dell’ovile e pastore del gregge

       Il Signore propone la parabola della porta dell’ovile e del buon pastore. Chi non entra nell’ovile attraverso la porta è un ladro e un bandito. Chi entra per la porta, è il pastore del gregge. Il Signore applica a se stesso la similitudine dicendo: "Io sono la porta e Io sono il buon pastore".

       Quanto alla similitudine della porta, mentre afferma d’esser lui la porta dell’ovile, parla anche di ladri e banditi e afferma: "Tutti quelli che son venuti prima di me son ladri e banditi". E la similitudine è introdotta con le parole: "Disse loro, dunque, di nuovo Gesù: - In verità, in verità vi dico"; e la solennità della formula introduttiva vuole evidentemente richiamare l’attenzione dei discepoli e sottolineare l’importanza di quanto il Maestro vuol dire.

       "Io sono la porta": L’ufficio della porta è quello d’immettere nella casa. E questo s’addice bene a Cristo, perché, chi vuol entrar nel mistero di Dio, bisogna che passi per lui (Ps 117,10): "Questa è la porta del Signore" - Cristo - "e i giusti entreranno in essa". Precisa: "Porta del gregge", perché non solo i pastori sono immessi nella Chiesa presente e poi nella beatitudine eterna attraverso Cristo, ma tutto il gregge, com’è detto appresso: "Le mie pecore ascoltano la mia voce... e mi seguono, e io do loro la vita eterna".

       Poi, quando dice: "Tutti quelli che son venuti prima di me son ladri e banditi", dice chi siano i ladri e i banditi e quali ne sian le note.

       Quanto alla identificazione dei ladri e dei banditi, bisogna evitar l’errore dei Manichei, i quali da queste parole presumono di ricavar la condanna di tutti i Patriarchi e Profeti del Vecchio Testamento. Ma l’interpretazione dei Manichei è falsa per tre motivi.

       Prima di tutto perché contrasta con le parole precedenti della stessa parabola. Infatti tutti questi venuti prima che son condannati come ladri e banditi son certamente quegli stessi li cui il Signore ha detto: "Chi non entra per la porta è ladro e bandito". Non sono, dunque, ladri e banditi coloro che semplicemente son venuti "prima" di Cristo, ma coloro che non son passati "attraverso la porta", che è Cristo. È chiaro, allora, che Patriarchi e Profeti del Vecchio Testamento, entrarono attraverso la porta, che è Cristo, perch‚ proprio Cristo, che doveva venire, li mandava; lui, fatto uomo nel tempo, ma presente nell’eternità, come Verbo di Dio (He 13,8, "Gesù Cristo ieri e oggi e in tutti i secoli"). I Profeti poi furono mandati nel nome del Verbo e della Sapienza (Sg 7,27, "La Sapienza di Dio si diffonde attraverso i popoli nelle anime sante dei Profeti e li fa amici di Dio"). Perciò, a proposito dei Profeti, leggiamo continuamente «La Parola di Dio è giunta al Profeta», proprio perché, attraverso la comunicazione del Verbo, i Profeti annunziarono la parola di Dio.

       "Coloro che sono venuti": Questo verbo sta a dire che il loro venire non dipendeva da una divina missione, ma era una loro presunzione, e di tali Geremia disse (Jr 22,21): "Io non li mandai, ma essi correvano". Questi, certo, non erano messaggeri del Verbo di Dio (Ez 13,3, "Guai ai profeti sprovveduti, che seguono il loro stesso spirito e non vedono niente"). Ma questo non lo si può dire dei Patriarchi e Profeti del Vecchio Testamento, perché essi erano proprio figure e annunziatori di Cristo.

       Ed è anche falsa l’interpretazione dei Manichei per la conseguenza che deriva dalle parole: Le pecore non diedero loro ascolto. Il segno, quindi, di riconoscimento dei ladri e banditi sta nel fatto che le pecore non li ascoltarono. Ma questo non lo si può dire così in generale dei Patriarchi e dei Profeti; i quali furono vere guide del popolo d’Israele e nella Scrittura sono biasimati coloro che non li ascoltarono (Ac 7,52, "Quale dei Profeti non hanno perseguitato i vostri padri?" e Mt 23,37, "Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i Profeti e tiri sassi a quelli che sono stati mandati a te!)".

       Bisogna dire dunque: "Tutti quelli che son venuti", non attraverso me, senza divina ispirazione e mandato, e con l’intenzione di cercare non la gloria di Dio, ma la propria, questi sono ladri, in quanto si appropriano di un’autorità d’insegnamento che non gli spetta (Is 1,23, "I tuoi principi infedeli sono alleati di ladri)"; e "sono banditi", perché uccidono attraverso la loro malvagia dottrina Mt 21,13: "Voi ne avete fatto una spelonca di ladri"; e Os 6,9: "Compagno di ladri, che ammazzano coloro che passano per la strada)". Ma "costoro", cioè i ladri e banditi, "le pecore non li ascoltarono", almeno in modo costante, perch‚ altrimenti non avrebbero fatto più parte del gregge di Cristo, perché "non segue un forestiero e fugge da lui".

       "Io sono la porta; chi entra attraverso me, sarà salvo".

       Qui il Signore, prima di tutto, vuol dire che il diritto di uso della porta è suo e che fa parte del piano della salvezza. Il modo della salvezza è accennato nelle parole: "Potrà entrare e uscire". La porta salva quelli che son dentro, trattenendoli dall’esporsi ai pericoli, che son fuori, e li salva, impedendo al nemico di entrare. E questo s’addice a Cristo, poiché in lui abbiamo protezione e salvezza; ed è questo ch’egli vuol dire con le parole: "Se uno entrerà attraverso me" nella Chiesa, "sarà salvo". Aggiungi anche la condizionale, se persevererà (Ac 6,12, "Non è stato dato agli uomini nessun altro nome nel quale salvarsi"; e Rm 5,10, "Tanto più saremo salvi nella sua vita").

       Il modo della salvezza è significato con le parole: "Entrerà e uscirà e troverà pascoli"; ma queste parole possono essere spiegate in quattro modi.

       Secondo il Crisostomo non significano altro che la sicurezza e la libertà di coloro che sono con Cristo. Infatti, colui che non entra per la porta, non è padrone di entrare e uscire quando vuole; lo è, invece, colui che entra per la porta. Dicendo, dunque: "entrerà e uscirà", vuol significare che gli apostoli, in comunione con Cristo, entrano con sicurezza e hanno accesso ai fedeli, che sono nella Chiesa, e agli infedeli, che ne son fuori, poiché essi sono stati costituiti padroni del mondo e nessuno li può cacciare fuori (Nb 27,16, "Il Signore di tutti gli spiriti provveda per il popolo un uomo che possa entrare e uscire, perché il popolo del Signore non sia come un gregge senza pastore"). "E troverà pascoli", cioè la gioia nella conversione e anche nelle persecuzioni che gli capiterà di affrontare per il nome di Cristo (Ac 5,41, "Gli Apostoli uscivano dal sinedrio pieni di gioia, perché erano stati fatti degni di subir ignominia per il nome di Gesù").

       La seconda spiegazione è di sant’Agostino nel commento al Vangelo di Giovanni.

       Chi fa il bene realizza un’armonia tra ciò ch’è dentro di lui e con ciò ch’è fuori di lui. Al di dentro dell’uomo c’è lo spirito, al di fuori c’è il corpo (2Co 6,16, "Sebbene il nostro uomo esteriore si corrompa, l’uomo interiore si rinnova di giorno in giorno). Colui dunque, ch’è unito a Cristo, "entrerà" attraverso la contemplazione per custodire la sua coscienza (Sg 8,16, Entrando nella mia casa - la coscienza -, "mi riposerò con essa" -la Sapienza -); e "uscirà" fuori, per controllare il suo corpo con le opere buone (Ps 103,23, "Uscirà l’uomo per i suoi impegni e per il suo lavoro fino a sera"); "e troverà pascoli", nella coscienza pura e devota (Ps 16,15, "Verrò al tuo cospetto, mi sazierò alla vista della tua gloria") e anche nel lavoro (Ps 125,6, "Al ritorno verranno esultanti, portando i loro covoni").

       La terza interpretazione di san Gregorio.

       "Entrerà" nella Chiesa, credendo (Ps 41,5, "Andrò dov’è una tenda meravigliosa"), il che vuol dire entrare nella Chiesa militante; "e uscirà", cioè passerà dalla Chiesa militante alla Chiesa trionfante (Ct 3,11, "Uscite, figlie di Sion, e vedete il re Salomone col diadema di cui lo cinse sua madre il giorno delle nozze"); "e troverà pascoli" di dottrina e di grazia nella Chiesa militante (Ps 22,2, "Mi pose nel luogo del cibo"); e pascoli di gloria nella Chiesa trionfante (Ez 34,14, "Pascolerò le mie pecore in pascoli ubertosissimi").

       La quarta spiegazione è nel libro "De Spiritu et Anima", che viene erroneamente attribuito ad Agostino; e ivi è detto che i santi "entreranno" per contemplare la divinità di Cristo e "usciranno" per ammirare la sua umanità; e nell’una e nell’altra "troveranno pascoli", perché nell’una e nell’altra gusteranno le gioie della contemplazione (Is 33,17, "Vedranno il re nel suo splendore").

       Si tratta poi del ladro. Il Signore prima dice quali sono le proprietà del ladro e poi afferma che egli ha le proprietà opposte a quelle del ladro: "Io son venuto, perché abbiano la vita". Dice, dunque, che quelli che non entrano per la porta - che è lui - sono ladri e banditi e la loro condizione è malvagia. Infatti, "il ladro non viene che per rubare", per portar via ciò che non è suo, e questo avviene, quando eretici e scismatici tirano a sè coloro che appartengono a Cristo. Il ladro poi viene "per uccidere", diffondendo una falsa dottrina o costumi perversi (Os 6,9, "Compagno di ladri che ammazzano sulla strada quelli che vengono da Sichem"). Il ladro viene ancora, in terzo luogo, per distruggere, avviando alla dannazione eterna le sue vittime (Jr 50,6, "Il mio popolo è diventato un gregge perduto"). Queste condizioni non son certo nel buon pastore.

       "Io venni perché abbiano la vita". E pare che il Signore volesse dire: Costoro non son venuti attraverso me; se fossero venuti attraverso me, farebbero cose simili a quelle che faccio io, ma essi fanno tutto l’opposto; essi rubano, uccidono, distruggono. "Io son venuto perché abbiano la vita" della giustizia, entrando nella Chiesa militante attraverso la fede (He 10,38 Rm 1,17, "Il giusto vive di fede"). Di questa fede, è detto in Jn 3,14: "Noi sappiamo che siamo stati trasferiti dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. E perché l’abbiano più abbondantemente"; abbiano cioè la vita eterna all’uscita dal corpo; la vita eterna della quale appresso è detto (Jn 17,8) ch’essa consiste "nel conoscere te solo vero Dio".

       Che Cristo poi sia pastore è evidente dal fatto che, come il gregge è guidato e alimentato dal pastore, così i fedeli sono alimentati dalla dottrina e dal corpo e sangue di Cristo (1P 2,25, "Eravate pecore senza pastore, ma ora vi siete rivolti al pastore delle vostre anime"; e Is 40,11, "Pascolerà i suoi, come il pastore pascola il suo gregge"). Ma, per distinguersi dal ladro e dal cattivo pastore, aggiunge l’aggettivo "buono". Buono perché compie l’ufficio del pastore, come si chiama buon soldato colui che compie l’ufficio del soldato. Ma, poiché Cristo ha già detto che il pastore entra per la porta e che lui stesso è la porta, bisogna concludere ch’egli entra nell’ovile attraverso se stesso. Ed è proprio così, perché egli manifesta se stesso e attraverso se stesso conosce il Padre. Noi, invece, entriamo attraverso lui, perché attraverso lui otteniamo la gioia. Ma guarda che nessun altro è la porta, se non lui, perché nessun altro è la luce vera; gli altri son luce riflessa. Lo stesso Battista non era lui la luce, ma uno che testimoniava per la luce. Ma di Cristo è detto: "Era la luce vera che illumina ogni uomo" (Jn 1,8). Perciò, nessuno presume di esser la porta; solo Cristo poté dir questo di sè; ma concesse anche ad altri di essere pastori: difatti, Pietro fu pastore, e tutti gli apostoli e tutti i buoni vescovi furono pastori (Jr 3,5, Vi darò dei pastori secondo il mio cuore). Sebbene però i capi della Chiesa sian tutti pastori, tuttavia egli dice al singolare: "Io sono il buon pastore", per suggerire la virtù della carità. Nessuno infatti è pastore buono, se non diventa una sola cosa con Cristo, attraverso la carità, e si fa membro del vero pastore.

       Ufficio del pastore è la carità; perciò dice: "Il pastore buono dà la vita per le sue pecore". Bisogna sapere che c’è una differenza tra il pastore buono e il cattivo; il pastore buono guarda al vantaggio del gregge; il cattivo guarda al proprio vantaggio; e questa differenza è segnalata in Ez 34,2: "Guai ai pastori che pascono se stessi. Ma non è il gregge che dovrebbe essere pascolato dal pastore"? Colui, dunque, che si serve del gregge, per pascolar se stesso, non è un pastore buono. E da questo deriva che il pastore cattivo, anche quello materiale, non vuole subire nessun danno per il suo gregge, perché non si cura del bene del gregge, ma del proprio. Invece il pastore buono, anche quello materiale, si sobbarca a molte cose per il gregge, perché ne vuole il bene; perciò, Giacobbe in Gen 31,40, disse: "Giorno e notte ero bruciato dal freddo e dal caldo". Ma nel caso di pastori materiali, non si chiede che un buon pastore rischi la sua vita per la salvezza del gregge. Ma, poiché la salute spirituale del gregge è più importante della vita corporale del pastore, quando è in pericolo la salute eterna del gregge, il pastore spirituale deve affrontare anche la morte, per il suo gregge. Ed è questo che il Signore dice con le parole: "Il buon pastore dà la sua vita per le sue pecore"; è pronto a dar la vita sua temporale con responsabilità e amore. Due cose son necessarie: che le pecore gli appartengano e che le ami; la prima, senza la seconda, non basta. Di questa dottrina si fece modello Gesù Cristo. Leggi in 1Jn 3,16: Se Cristo ha offerto la sua vita per noi, dobbiamo anche noi offrire la nostra vita per i nostri fratelli.

       Tommaso d’Aquino, Ev. sec. Ioan., 10, 3, 1s.


3. Il Padre ci ha affidati al suo Verbo, nostro divino Pedagogo

       Gesù, Logos di Dio, pedagogo al quale Dio ci ha affidati come un padre affida i suoi bambini ad un vero maestro; e ci ha espressamente prescritto questo: "Questi è il mio Figlio diletto, ascoltatelo " ( parr.).

       Il divino Pedagogo è del tutto degno della nostra fiducia, poiché ha ricevuto i tre ornamenti più belli: scienza, benevolenza e autorità. La scienza, perché egli è la sapienza del Padre - "ogni sapienza viene dal Signore ed essa è presso di lui per sempre" (Si 1,1) -; l’autorità, perché egli è Dio e Creatore - "tutto fu fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di ciò che esiste (Jn 1,3) -; la benevolenza, perché si è offerto da sè come vittima unica in nostro favore: "Il buon pastore dà la vita per le sue pecore" (Jn 10,11), e la dette, senza alcun dubbio. Ora la benevolenza altro non è se non volere il bene del prossimo, per se stesso.

       Clemente di Alessandria, Paedagogus, XI, 97, 2-3


4. Non ricerca di gloria o di potere, ma solo la volontà di Dio

La gloria in questo mondo, gloria vana, non darmi, o mio Maestro;

Non datemi la ricchezza transeunte, né talenti d’oro;

Non un trono eccelso, né potere su realtà che passano!

Mettimi con gli umili, con i poveri e tra i miti,

Divenga anch’io umile e mite

Quanto al mio ufficio, se non posso rivestirlo in modo utile,

Sì da piacerti e da stare al tuo servizio,

Permetti che ne sia discacciato

E ch’abbia a piangere solo, o Maestro, i miei peccati:

Mio solo intento sia il tuo giusto giudizio

E il modo di difendermi dopo averti tanto offeso!

Sì, o dolce, buono e compassionevole Pastore,

Che salvi vuoi tutti i credenti in te,

Abbi pietà, la prece che invio esaudisci:

Non irritarti, il volto tuo da me non sia distolto,

Insegnami a compiere il tuo divin volere,

Poiché non chiedo che si faccia la volontà mia,

Bensì la tua, e che servirti io possa, o Misericordioso!

       Simeone Nuovo Teologo, Hymn., 17





Lezionario "I Padri vivi" 97