Pastores dabo vobis 60

  II. Gli ambienti della formazione sacerdotale

60     La necessità del seminario maggiore – e dell’analoga casa religiosa – per la formazione dei candidati al sacerdozio, autorevolmente affermata dal concilio Vaticano II, è stata riaffermata dal sinodo con queste parole: “L’istituzione del seminario maggiore, come luogo ottimo di formazione, è certamente da riaffermarsi quale normale spazio, anche materiale, di una vita comunitaria e gerarchica, anzi quale casa propria per la formazione dei candidati al sacerdozio, con superiori veramente consacrati a questo ufficio. Questa istituzione ha dato moltissimi frutti lungo i secoli e continua a darli in tutto il mondo”.

          Il seminario si presenta sì come un tempo e uno spazio; ma si presenta soprattutto come una comunità educativa in cammino: è la comunità promossa dal vescovo per offrire a chi è chiamato dal Signore a servire come gli apostoli la possibilità di rivivere l’esperienza formativa che il Signore ha riservato ai dodici. In realtà, una prolungata e intima consuetudine di vita con Gesù viene presentata nei Vangeli come necessaria premessa al ministero apostolico. Essa richiede ai dodici di realizzare in modo particolarmente chiaro e specifico il distacco, in qualche misura proposto a tutti i discepoli, dall’ambiente di origine, dal lavoro consueto, dagli affetti anche più cari (cf.
Mc 1,16-20 Mc 10,28 Lc 9,23 Lc 9,57-62 Lc 14,25-27).

          Più volte abbiamo riportato la tradizione di Marco che sottolinea il legame profondo che unisce gli apostoli con Cristo e tra di loro: prima di essere mandati a predicare e a guarire, sono chiamati a “stare con lui” (Mc 3,14).

          L’identità profonda del seminario è di essere, a suo modo, una continuazione nella chiesa della comunità apostolica stretta intorno a Gesù, in ascolto della sua Parola, in cammino verso l’esperienza della pasqua, in attesa del dono dello Spirito per la missione. Una simile identità costituisce l’ideale normativo che stimola il seminario, nelle più diverse forme e nelle molteplici vicissitudini, che in quanto istituzione umana registra nella storia, a trovare una concreta realizzazione, fedele ai valori evangelici ai quali si ispira e capace di rispondere alle situazioni e necessità dei tempi.

          Il seminario è, in se stesso, un’esperienza originale della vita della chiesa: in esso il vescovo si rende presente attraverso il ministero del rettore e il servizio di corresponsabilità e di comunione da lui animato con gli altri educatori, per la crescita pastorale e apostolica degli alunni. I vari membri della comunità del seminario, riuniti dallo Spirito in un’unica fraternità, collaborano, ciascuno secondo il proprio dono, alla crescita di tutti nella fede e nella carità, perché si preparino adeguatamente al sacerdozio e quindi a prolungare nella chiesa e nella storia la presenza salvifica di Gesù Cristo, il buon pastore.

          Già sotto un profilo umano, il seminario maggiore deve tendere a diventare “una comunità compaginata da una profonda amicizia e carità, così da poter essere considerata una vera famiglia che vive nella gioia”. Sotto il profilo cristiano, il seminario si deve configurare, continuano i padri sinodali, come “comunità ecclesiale”, come “comunità dei discepoli del Signore nella quale si celebra la stessa liturgia (che permea la vita di spirito di preghiera), formata ogni giorno nella lettura e nella meditazione della parola di Dio e con il sacramento dell’eucaristia e nell’esercizio della carità fraterna e della giustizia, una comunità nella quale, nel progresso della vita comunitaria e nella vita di ciascun suo membro, risplendono lo Spirito di Cristo e l’amore verso la chiesa”. A conferma e a sviluppo concreto dell’essenziale dimensione ecclesiale del seminario, i padri sinodali continuano: “Come comunità ecclesiale, sia diocesana che interdiocesana, sia anche religiosa, il seminario alimenti il senso della comunione dei candidati con il loro vescovo e con il loro presbiterio, così che partecipino alla loro speranza e alle loro angosce e sappiano estendere questa apertura alle necessità della chiesa universale”.

          È essenziale per la formazione dei candidati al sacerdozio e al ministero pastorale, che per sua natura è ecclesiale, che il seminario sia sentito non in un modo esteriore e superficiale, ossia come un semplice luogo di abitazione e di studio, ma in un modo interiore e profondo: come una comunità, una comunità specificamente ecclesiale, una comunità che rivive l’esperienza del gruppo dei dodici uniti a Gesù.


61     Il seminario è, dunque, una comunità ecclesiale educativa, anzi una particolare comunità educante. Ed è il fine specifico a determinarne la fisionomia, ossia l’accompagnamento vocazionale dei futuri sacerdoti, e pertanto il discernimento della vocazione, l’aiuto a corrispondervi e la preparazione a ricevere il sacramento dell’ordine con le grazie e le responsabilità proprie, per le quali il sacerdote è configurato a Gesù Cristo capo e pastore ed è abilitato e impegnato a condividerne la missione di salvezza nella chiesa e nel mondo.

          In quanto comunità educante, l’intera vita del seminario, nelle sue più diverse espressioni, è impegnata nella formazione umana, spirituale, intellettuale e pastorale dei futuri presbiteri: è una formazione che, pur avendo tanti aspetti comuni con la formazione umana e cristiana di tutti i membri della chiesa, presenta contenuti, modalità e caratteristiche che discendono in modo specifico dal fine perseguito di preparare al sacerdozio.

          Ora i contenuti e le forme dell’opera educativa esigono che il seminario abbia una sua precisa programmazione, un programma di vita cioè che si caratterizzi, sia per la sua organicità-unità, sia per la sua sintonia o corrispondenza con l’unico fine che giustifica l’esistenza del seminario: la preparazione dei futuri presbiteri.

          In questo senso i padri sinodali scrivono: “In quanto comunità educativa (il seminario) deve servire a un programma chiaramente definito che, come nota caratteristica, abbia l’unità della direzione manifestata nella figura del rettore e dei collaboratori, nella coerenza dell’ordinamento di vita, dell’attività formativa e delle esigenze fondamentali della vita comunitaria, la quale comporta anche gli aspetti essenziali del compito formativo. Questo programma deve essere al servizio, senza esitazione e indeterminazione, della finalità specifica che sola giustifica l’esistenza del seminario, la formazione cioè dei futuri presbiteri, pastori della chiesa”. E perché la programmazione sia veramente adatta ed efficace occorre che le grandi linee programmatiche si traducano più concretamente in dettaglio, mediante alcune norme particolari destinate a ordinare la vita comunitaria, stabilendo alcuni strumenti e alcuni ritmi temporali precisi.

          Un altro aspetto è qui da sottolineare: l’opera educativa, per sua natura, è l’accompagnamento delle persone storiche concrete che camminano verso la scelta e l’adesione a determinati ideali di vita. Proprio per questo l’opera educativa deve saper armonicamente conciliare la proposta chiara della meta da raggiungere, la richiesta di camminare con serietà verso la meta stessa, l’attenzione al “viandante”, ossia al soggetto concreto impegnato in questa avventura, e dunque a una serie di situazioni, di problemi, di difficoltà, di ritmi diversificati di cammino e di crescita. Ciò esige una sapiente elasticità, che non significa affatto compromesso né sui valori né sull’impegno cosciente e libero, ma amore vero e rispetto sincero per chi, nelle sue condizioni personali, sta camminando verso il sacerdozio. Questo vale non solo in rapporto alla singola persona, ma anche in rapporto ai diversi contesti sociali e culturali entro cui vivono i seminari e alla diversa storia che essi hanno. In questo senso l’opera educativa esige un continuo rinnovamento. I padri l’hanno rilevato con forza anche in rapporto alla configurazione dei seminari: “Salva la validità delle forme classiche del seminario, il sinodo desidera che il lavoro di consultazione delle conferenze episcopali sulle necessità attuali della formazione prosegua come si è stabilito nel decreto Optatam totius (n. 1) e nel sinodo del 1967. Si rivedano opportunamente le Rationes delle singole nazioni o riti, sia in occasione delle richieste fatte dalle conferenze episcopali, sia nelle visite apostoliche nei seminari delle diverse nazioni, per integrare in esse diverse forme di formazione collaudate che devono rispondere alle necessità dei popoli di cultura cosiddetta indigena, delle vocazioni di uomini adulti, delle vocazioni per le missioni, ecc.”.


62     La finalità e la configurazione educativa specifica del seminario maggiore esigono che i candidati al sacerdozio vi entrino con una qualche preparazione previa. Una simile preparazione non poneva problemi particolari, almeno sino a qualche decennio fa, allorquando i candidati al sacerdozio provenivano abitualmente dai seminari minori e la vita cristiana delle comunità ecclesiali offriva facilmente a tutti, indistintamente, una discreta istruzione ed educazione cristiana.

          La situazione è in molte parti cambiata. Si dà una forte discrepanza tra lo stile di vita e la preparazione di base dei ragazzi, degli adolescenti e dei giovani, anche se cristiani e talvolta impegnati nella vita della chiesa, da un lato, e dall’altro lo stile di vita del seminario e le sue esigenze formative. In questo contesto, in comunione con i padri sinodali, chiedo che vi sia un periodo adeguato di preparazione che preceda la formazione del seminario: “È utile che ci sia un periodo di preparazione umana, cristiana, intellettuale e spirituale per i candidati al seminario maggiore. Questi candidati devono però presentare determinate qualità: la retta intenzione, un grado sufficiente di maturità umana, una conoscenza abbastanza ampia della dottrina della fede, una qualche introduzione ai metodi di preghiera e costumi conformi alla tradizione cristiana. Abbiano anche attitudini proprie delle loro regioni, mediante le quali viene espresso lo sforzo di trovare Dio e la fede (cf. Evangelii nuntiandi, 48)”.

          “Una conoscenza abbastanza ampia della dottrina della fede”, di cui parlano i padri sinodali, è richiesta prima della teologia: non si può sviluppare una “intellegentia fidei”, se non si conosce la “fides” nel suo contenuto. Una simile lacuna potrà essere più facilmente colmata dal prossimo Catechismo universale.

          Mentre si fa comune la convinzione della necessità di una simile preparazione previa al seminario maggiore, si dà una diversa valutazione dei suoi contenuti e delle sue caratteristiche, ossia dello scopo prevalente, se di formazione spirituale per il discernimento vocazionale o di formazione intellettuale e culturale. D’altra parte, non si possono dimenticare le molte e profonde diversità che esistono, non solo in rapporto ai singoli candidati, ma anche in rapporto alle varie regioni e paesi. Ciò suggerisce una fase ancora di studio e di sperimentazione, perché si possano definire in modo più opportuno e significativo i diversi elementi di questa preparazione previa o “periodo propedeutico”: il tempo, il luogo, la forma, i temi di questo periodo, che peraltro è da coordinarsi con gli anni successivi della formazione nel seminario.

          In questo senso assumo e ripropongo alla Congregazione per l’educazione cattolica la richiesta formulata dai padri sinodali: “Il sinodo chiede che la Congregazione per l’educazione cattolica raccolga tutte le informazioni sulle esperienze iniziali fatte o che si stanno facendo. A tempo opportuno, la congregazione comunichi alle conferenze episcopali le informazioni su questo argomento”.


63     Come attesta una larga esperienza, la vocazione sacerdotale ha un suo primo momento di manifestazione spesso negli anni della preadolescenza o nei primissimi anni della gioventù. E anche in soggetti che arrivano a decidere l’ingresso in seminario più avanti nel tempo non è raro costatare la presenza della chiamata di Dio in periodi molto precedenti. La storia della chiesa è una testimonianza continua di chiamate che il Signore rivolge anche in tenera età. San Tommaso, ad esempio, spiega la predilezione di Gesù verso l’apostolo Giovanni “per la sua tenera età” e ne trae la seguente conclusione: “Questo ci fa capire come Dio ami in modo speciale coloro che si danno al suo servizio fin dalla prima giovinezza”.

          La chiesa si prende cura di questi germi di vocazione seminati nei cuori dei fanciulli, curandone, attraverso l’istituzione dei seminari minori, un premuroso, benché iniziale, discernimento e accompagnamento. In varie parti del mondo, questi seminari continuano a svolgere una preziosa opera educativa, finalizzata a custodire e a far sviluppare i germi della vocazione sacerdotale, affinché gli alunni la possano più facilmente riconoscere e siano resi più capaci di corrispondervi. La loro proposta educativa tende a favorire in modo tempestivo e graduale quella formazione umana, culturale e spirituale che condurrà il giovane a intraprendere il cammino nel seminario maggiore con una base adeguata e solida.

          “Prepararsi a seguire Cristo Redentore con animo generoso e cuore puro”: questo è lo scopo del seminario minore, indicato dal concilio nel decreto Optatam totius, che così ne delinea il volto educativo: gli alunni “sotto la guida paterna dei superiori, coadiuvati opportunamente dai genitori, conducano un tenore di vita conveniente all’età, allo spirito e allo sviluppo degli adolescenti e in piena armonia con le norme della sana psicologia, senza trascurare una conveniente esperienza delle cose umane e i rapporti con la propria famiglia”.

          Il seminario minore potrà essere nella diocesi anche un punto di riferimento della pastorale vocazionale, con opportune forme di accoglienza e offerta di occasioni informative per quegli adolescenti che sono alla ricerca della vocazione o che, già determinati a seguirla, sono costretti a procrastinare l’ingresso in seminario per diverse circostanze, familiari o scolastiche.


64     Dove il seminario minore – che in molte regioni sembra necessario e molto utile – non trova possibilità di attuazione, occorre provvedere a costituire altre “istituzioni”, come potrebbero essere i gruppi vocazionali per adolescenti e per giovani. Pur non essendo permanenti, questi gruppi potranno offrire, in un contesto comunitario, una guida sistematica per la verifica e la crescita vocazionale. Pur vivendo in famiglia e frequentando la comunità cristiana che li aiuta nel loro cammino formativo, questi ragazzi e questi giovani non devono essere lasciati soli. Essi hanno bisogno di un gruppo particolare o di una comunità di riferimento cui appoggiarsi per compiere quello specifico itinerario vocazionale che il dono dello Spirito Santo ha iniziato in loro.

          Come è sempre avvenuto nella storia della chiesa, e con qualche caratteristica di confortante novità e frequenza nelle attuali circostanze, va registrato il fenomeno di vocazioni sacerdotali che si verificano in età adulta, dopo una più o meno lunga esperienza di vita laicale e di impegno professionale. Non è sempre possibile, e spesso non è neppure conveniente, invitare gli adulti a seguire l’itinerario educativo del seminario maggiore. Si deve piuttosto provvedere, dopo un accurato discernimento dell’autenticità di queste vocazioni, a programmare una qualche forma specifica di accompagnamento formativo così da assicurare, mediante opportuni adattamenti, la necessaria formazione spirituale e intellettuale. Un giusto rapporto con gli altri candidati al sacerdozio e periodi di presenza nella comunità del seminario maggiore potranno garantire il pieno inserimento di queste vocazioni nell’unico presbiterio e la loro intima e cordiale comunione con esso.

  III. I protagonisti della formazione sacerdotale

65     Poiché la formazione dei candidati al sacerdozio appartiene alla pastorale vocazionale della chiesa, si deve dire che è la chiesa come tale il soggetto comunitario che ha la grazia e la responsabilità di accompagnare quanti il Signore chiama a divenire suoi ministri nel sacerdozio.

          In tal senso proprio la lettura del mistero della chiesa ci aiuta a precisare meglio il posto e il compito che i suoi diversi membri, sia come singoli sia come membri di un corpo, hanno nella formazione dei candidati al presbiterato.

          Ora la chiesa è per sua intima natura la “memoria”, il “sacramento” della presenza e dell’azione di Gesù Cristo in mezzo a noi e per noi. È alla sua presenza salvifica che si deve la chiamata al sacerdozio: non solo la chiamata, ma anche l’accompagnamento perché il chiamato possa riconoscere la grazia del Signore e possa darle risposta con libertà e con amore. È lo Spirito di Gesù che fa luce e dona forza nel discernimento e nel cammino vocazionale. Non si dà, allora, autentica opera formativa al sacerdozio senza l’influsso dello Spirito di Cristo. Ogni formatore umano deve esserne pienamente cosciente. Come non vedere una “risorsa” totalmente gratuita e radicalmente efficace, che ha il suo “peso” decisivo nell’impegno formativo verso il sacerdozio? E come non gioire di fronte alla dignità di ogni formatore umano, che si configura, in un certo senso, quale visibile rappresentante di Cristo per il candidato al sacerdozio? Se la formazione al sacerdozio è essenzialmente la preparazione del futuro “pastore” a immagine di Gesù Cristo buon pastore, chi meglio di Gesù stesso, mediante l’effusione del suo Spirito, può donare e portare a maturità quella carità pastorale che egli ha vissuto sino al dono totale di sé (cf.
Jn 15,13 Jn 10,11) e che vuole sia rivissuta dai tutti i presbiteri?

          Primo rappresentante di Cristo nella formazione sacerdotale è il vescovo. Si potrebbe dire del vescovo, di ogni vescovo, quanto l’evangelista Marco ci dice nel testo più volte citato: “Chiamò a sé quelli che volle ed essi andarono da lui. Ne costituì dodici che stessero con lui e anche per mandarli...” (Mc 3,13-14). In realtà la chiamata interiore dello Spirito ha bisogno di essere riconosciuta come autentica chiamata dal vescovo. Se tutti possono “andare” dal vescovo perché pastore e padre di tutti, lo possono in una maniera particolare i suoi presbiteri per la comune partecipazione al medesimo sacerdozio e ministero: il vescovo, dice il concilio, deve considerarli e trattarli come “fratelli e amici”. E questo, in modo analogico, si può dire di quanti si preparano al sacerdozio. A proposito dello stare con lui, con il vescovo, risulta già quanto mai significativo della sua responsabilità formativa nei riguardi dei candidati al sacerdozio che il vescovo li visiti spesso e in qualche modo “stia” con loro.

          La presenza del vescovo ha un valore particolare, non solo perché aiuta la comunità del seminario a vivere il suo inserimento nella chiesa particolare e la sua comunione con il pastore che la guida, ma anche perché autentica e stimola quella finalità pastorale che costituisce lo specifico dell’intera formazione dei candidati al sacerdozio. Soprattutto, con la sua presenza e con la condivisione con i candidati al sacerdozio di tutto ciò che riguarda il cammino pastorale della chiesa particolare, il vescovo offre un apporto fondamentale alla formazione del “senso della chiesa”, quale valore spirituale e pastorale centrale nell’esercizio del ministero sacerdotale.


66     La comunità educativa del seminario si articola attorno a diversi formatori: il rettore, il direttore o padre spirituale, i superiori e i professori. Questi devono sentirsi profondamente uniti al vescovo, che a diverso titolo e in vario modo rappresentano, e devono essere tra loro in convinta e cordiale comunione e collaborazione: questa unità degli educatori non solo rende possibile un’adeguata realizzazione del programma educativo, ma anche e soprattutto offre ai candidati al sacerdozio l’esempio significativo e la concreta introduzione a quella comunione ecclesiale che costituisce un valore fondamentale della vita cristiana e del ministero pastorale.

          È evidente che gran parte dell’efficacia formativa dipende dalla personalità matura e forte dei formatori sotto il profilo umano ed evangelico. Per questo diventano particolarmente importanti, da un lato, la scelta accurata dei formatori e, dall’altro, lo stimolo ai formatori perché si rendano costantemente sempre più idonei al compito loro affidato. Consapevoli che proprio nella scelta e nella formazione dei formatori risiede l’avvenire della preparazione dei candidati al sacerdozio, i padri sinodali si sono soffermati a lungo nel precisare l’identità degli educatori. In particolare hanno scritto: “Il compito della formazione dei candidati al sacerdozio certamente esige non solo una qualche preparazione speciale dei formatori, che sia veramente tecnica, pedagogica, spirituale, umana e teologica, ma anche lo spirito di comunione e di collaborazione nell’unità per sviluppare il programma, così che sempre sia salvata l’unità nell’azione pastorale del seminario sotto la guida del rettore. Il gruppo dei formatori dia testimonianza di una vita veramente evangelica e di totale dedizione al Signore. È opportuno che goda di una qualche stabilità e abbia residenza abituale nella comunità del seminario. Sia intimamente congiunto con il vescovo, quale primo responsabile della formazione dei sacerdoti”.

          I vescovi per primi devono sentire la loro grave responsabilità circa la formazione di coloro che saranno incaricati dell’educazione dei futuri presbiteri. Per questo ministero devono essere scelti sacerdoti di vita esemplare, in possesso di diverse qualità: “la maturità umana e spirituale, l’esperienza pastorale, la competenza professionale, la stabilità nella propria vocazione, la capacità alla collaborazione, la preparazione dottrinale nelle scienze umane (specialmente la psicologia) corrispondente all’ufficio, la conoscenza dei modi per lavorare in gruppo”.

          Fatte salve la distinzione tra foro interno e foro esterno, l’opportuna libertà di scelta dei confessori e la prudenza e discrezione che convengono al ministero del direttore spirituale, la comunità presbiterale degli educatori si senta solidale nella responsabilità di educare i candidati al sacerdozio. Ad essa, sempre in riferimento all’autorevole valutazione sintetica del vescovo e del rettore, spetta in primo luogo il compito di promuovere e verificare l’idoneità dei candidati quanto alle doti spirituali, umane e intellettuali, soprattutto in riferimento allo spirito di preghiera, all’assimilazione profonda della dottrina della fede, alla capacità di autentica fraternità e al carisma del celibato.

          Tenendo presenti – come i padri sinodali hanno pure ricordato – le indicazioni dell’esortazione Christifideles laici e della lettera apostolica Mulieris dignitatem, che rilevano l’utilità di un sano influsso della spiritualità laicale e del carisma della femminilità su ogni itinerario educativo, è opportuno coinvolgere, in forme prudenti e adattate ai vari contesti culturali, la collaborazione anche dei fedeli laici, uomini e donne, nell’opera formativa dei futuri sacerdoti. Sono da scegliersi con cura, nel quadro delle leggi della chiesa e secondo i loro particolari carismi e le loro provate competenze. Dalla loro collaborazione, opportunamente coordinata e integrata alle responsabilità educative primarie dei formatori dei futuri presbiteri, è lecito attendersi benefici frutti per una crescita equilibrata del senso della chiesa e per una percezione più precisa della propria identità sacerdotale da parte dei candidati al presbiterato.


67     Quanti introducono e accompagnano i futuri sacerdoti nella “sacra doctrina” con l’insegnamento teologico hanno una particolare responsabilità educativa, che l’esperienza dice essere spesso più decisiva, nello sviluppo della personalità presbiterale, di quella degli altri educatori.

          La responsabilità degli insegnanti di teologia, prima che riguardare il rapporto di docenza che devono instaurare con i candidati al sacerdozio, riguarda la concezione che essi stessi devono avere della natura della teologia e del ministero sacerdotale, come pure lo spirito e lo stile secondo cui devono sviluppare l’insegnamento teologico. In questo senso i padri sinodali hanno giustamente affermato che “il teologo deve rimanere consapevole che con il suo insegnamento non si autorizza da sé, ma deve aprire e comunicare l’intelligenza della fede ultimamente nel nome del Signore e della chiesa. In questo modo, il teologo, pur utilizzando tutte le possibilità scientifiche, esercita il suo compito su mandato della chiesa e collabora con il vescovo nel compito di insegnare. Poiché i teologi e i vescovi sono al servizio della stessa chiesa nel promuovere la fede, devono sviluppare e coltivare una reciproca fiducia e in questo spirito superare anche le tensioni e i conflitti (cf. più ampiamente l’istruzione della Congregazione per la dottrina della fede su La vocazione ecclesiale del teologo)”.

          L’insegnante di teologia, come ogni altro educatore, deve rimanere in comunione e collaborare cordialmente con tutte le altre persone impegnate nella formazione dei futuri sacerdoti e presentare con rigore scientifico, generosità, umiltà e passione il suo contributo originale e qualificato, che non è solo la semplice comunicazione di una dottrina – sia pure la “sacra doctrina” –, ma è soprattutto l’offerta della prospettiva che unifica nel disegno di Dio tutti i diversi saperi umani e le varie espressioni di vita.

          In particolare, la specificità e l’incisività formativa degli insegnanti di teologia si misura sul loro essere anzitutto “uomini di fede e pieni di amore per la chiesa, convinti che il soggetto adeguato della conoscenza del mistero cristiano resta la chiesa come tale, persuasi pertanto che il loro compito d’insegnare è un autentico ministero ecclesiale, ricchi di senso pastorale per discernere non solo i contenuti ma anche le forme adatte nell’esercizio di questo ministero. In particolare, dagli insegnanti è richiesta la fedeltà piena al magistero. Insegnano, infatti, a nome della chiesa e per questo sono testimoni della fede”.


68     Le comunità da cui proviene il candidato al sacerdozio, pur con il necessario distacco che la scelta vocazionale comporta, continuano a esercitare un influsso non indifferente sulla formazione del futuro sacerdote. Devono allora essere coscienti della loro specifica parte di responsabilità.

          È da ricordare, anzitutto, la famiglia: i genitori cristiani, come anche i fratelli e le sorelle e gli altri membri del nucleo familiare, non dovranno mai cercare di ricondurre il futuro presbitero negli angusti limiti di una logica troppo umana, se non mondana, pur sostenuta da sincero affetto (cf.
Mc 3,20-21 Mc 3,31-35). Animati essi stessi dal medesimo proposito di “compiere la volontà di Dio”, sapranno, invece, accompagnare il cammino formativo con la preghiera, il rispetto, il buon esempio delle virtù domestiche e l’aiuto spirituale e materiale, soprattutto nei momenti difficili. L’esperienza insegna che, in tanti casi, questo aiuto molteplice si è rivelato decisivo per il candidato al sacerdozio. Anche nel caso di genitori e familiari indifferenti o contrari alla scelta vocazionale, il confronto chiaro e sereno con la loro posizione e gli stimoli che ne derivano possono essere di grande aiuto, perché la vocazione sacerdotale maturi in modo più consapevole e determinato.

          In profondo collegamento con le famiglie sta la comunità parrocchiale, e le une e l’altra si integrano sul piano dell’educazione alla fede; spesso poi la parrocchia, con una specifica pastorale giovanile e vocazionale, esercita un ruolo di supplenza nei riguardi della famiglia. Soprattutto, in quanto realizzazione locale più immediata del mistero della chiesa, la parrocchia offre un contributo originale e particolarmente prezioso alla formazione del futuro sacerdote. La comunità parrocchiale deve continuare a sentire come parte viva di sé il giovane in cammino verso il sacerdozio, lo deve accompagnare con la preghiera, accogliere cordialmente nei periodi di vacanza, rispettare e favorire nel formarsi della sua identità presbiterale, offrendogli occasioni opportune e stimoli forti per provare la sua vocazione alla missione sacerdotale.

          Anche le associazioni e i movimenti giovanili, segno e conferma della vitalità che lo Spirito assicura alla chiesa, possono e devono contribuire alla formazione dei candidati al sacerdozio, in particolare di quelli che escono dall’esperienza cristiana, spirituale e apostolica di queste realtà aggregative. I giovani che hanno ricevuto la loro formazione di base in tali aggregazioni e che si riferiscono a esse per la loro esperienza di chiesa, non dovranno sentirsi invitati a sradicarsi dal loro passato e a interrompere le relazioni con l’ambiente che ha contribuito al determinarsi della loro vocazione, né dovranno cancellare i tratti caratteristici della spiritualità che là hanno imparato e vissuto, in tutto ciò che di buono, edificante e arricchente essi contengono. Anche per loro, questo ambiente d’origine continua a essere fonte di aiuto e di sostegno nel cammino formativo verso il sacerdozio.

          Le occasioni di educazione alla fede e di crescita cristiana ed ecclesiale, che lo Spirito offre a tanti giovani, attraverso molteplici forme di gruppi, movimenti e associazioni di varia ispirazione evangelica, devono essere sentite e vissute come il dono di un’anima alimentatrice dentro l’istituzione e al suo servizio. Un movimento o una spiritualità particolare, infatti, “non è una struttura alternativa all’istituzione. È invece sorgente di una presenza che continuamente ne rigenera l’autenticità esistenziale e storica. Il sacerdote deve perciò trovare in un movimento la luce e il calore che lo rende capace di fedeltà al suo vescovo, che lo rende pronto alle incombenze dell’istituzione e attento alla disciplina ecclesiastica, così che più fertile sia la vibrazione della sua fede e il gusto della sua fedeltà”.

          È quindi necessario che, nella nuova comunità del seminario nella quale sono riuniti dal vescovo, i giovani provenienti da associazioni e da movimenti ecclesiali imparino “il rispetto delle altre vie spirituali e lo spirito di dialogo e di cooperazione”, si riferiscano con coerenza e cordialità alle indicazioni formative del vescovo e agli educatori del seminario, affidandosi con schietta fiducia alla loro guida e alle loro valutazioni. Questo atteggiamento, infatti, prepara e in qualche modo anticipa la genuina scelta presbiterale di servizio all’intero popolo di Dio, nella comunione fraterna del presbiterio e in obbedienza al vescovo.

          La partecipazione del seminarista e del presbitero diocesano a particolari spiritualità o aggregazioni ecclesiali è certamente, in se stessa, un fattore benefico di crescita e di fraternità sacerdotale. Ma questa partecipazione non deve ostacolare, bensì aiutare l’esercizio del ministero e la vita spirituale che sono propri del sacerdote diocesano, il quale “resta sempre il pastore dell’insieme. Non solo è il “permanente”, disponibile a tutti, ma presiede all’incontro di tutti – in particolare è a capo delle parrocchie – affinché tutti trovino l’accoglienza che sono in diritto di attendere nella comunità e nell’eucaristia che li riunisce, qualunque sia la loro sensibilità religiosa e il loro impegno pastorale”.


69     Non si può dimenticare, infine, che lo stesso candidato al sacerdozio deve dirsi protagonista necessario e insostituibile della sua formazione: ogni formazione, anche quella sacerdotale è ultimamente un’autoformazione. Nessuno, infatti, può sostituirci nella libertà responsabile che abbiamo come singole persone.

          Certamente anche il futuro sacerdote, per primo, deve crescere nella consapevolezza che il protagonista per antonomasia della sua formazione è lo Spirito Santo che, con il dono del cuore nuovo, configura e assimila a Gesù Cristo buon pastore: in tal senso il candidato affermerà nella forma più radicale la sua libertà nell’accogliere l’azione formativa dello Spirito. Ma accogliere quest’azione significa anche, da parte del candidato al sacerdozio, accogliere le mediazioni umane di cui lo Spirito si serve. Per questo l’azione dei vari educatori risulta veramente e pienamente efficace solo se il futuro sacerdote offre ad essa la sua personale convinta e cordiale collaborazione.


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