Lezionario "I Padri vivi"



Anno A

Ia Domenica di Avvento

10 Letture:

    
Is 2,1-5 Rm 13,11-14 Mt 24,37-44

1. L’incertezza della fine è stimolo alla vigilanza

       Quando verrà l’anticristo, i malvagi e coloro che disperano della salvezza si abbandoneranno ancor più ai loro turpi piaceri. Allora vi saranno orge, canti e danze sfrenate, ubriachezza. Ecco perché cita quell’esempio che si adatta ottimamente alla situazione: quando Noè costruiva l’arca, gli uomini non credevano al diluvio, benché l’arca esposta alla vista di tutti preannunciasse le sventure che dovevano accadere, tutti, nonostante ciò, si davano ai piaceri, come se nulla di terribile dovesse succedere. Allo stesso modo, all’apparire dell’anticristo, seguirà la fine coi suoi castighi e tormenti intollerabili. Eppure gli uomini, in preda all’ebrezza della loro malvagità, non saranno affatto intimoriti da quello che accadrà. Ecco perché anche Paolo afferma che, come una donna incinta è colta all’improvviso dalle doglie del parto, allo stesso modo si verificheranno quei terribili e irrimediabili mali...

       "Riflettete bene: Se il padrone di casa sapesse in quale ora della notte il ladro debba venire, veglierebbe certamente e non lascerebbe spogliare la sua casa. Quindi voi state preparati, perché il Figlio dell’uomo verrà in quell’ora che meno pensate" (Mt 24,43-44). Non rivela quel giorno perché siano vigilanti e sempre pronti, e dichiara che in quell’ora che meno pensano allora egli verrà, perché siano sempre preparati alla battaglia e costantemente dediti alla virtù. Le sue parole in definitiva vogliono dire questo: se gli uomini conoscessero il momento della loro morte, si preparerebbero con grande impegno e con ogni cura per quell’ora.

       Ma allo scopo di non limitare il loro fervore a quel giorno, non rivela né il giorno del giudizio universale, né il giorno del giudizio particolare volendo che essi siano costantemente in attesa e sempre fervorosi: ecco il motivo per cui lascia nell’incertezza la fine di ciascun uomo... Mi pare inoltre che intenda scuotere e confondere i pigri, che non hanno per la loro anima tutto quell’impegno che manifestano invece per le loro ricchezze quelli che temono l’assalto dei ladri. Costoro, quando suppongono la visita dei ladri, stanno in guardia per impedire che sia sottratto alcunché della casa. Voi al contrario - sembra dire Cristo - benché sappiate che il vostro Signore verrà sicuramente, non vigilate né state pronti per evitare di essere portati via da questo mondo impreparati. Quel giorno, pertanto, verrà a rovina di coloro che dormono. Se infatti il padrone sapesse il momento del furto, lo impedirebbe; così anche voi, se foste pronti, evitereste di essere colti di sorpresa.

       Crisostomo Giovanni, In Matth. 77, 2 s.


2. Esser pronti all’incontro con il Signore

       "Tieniti pronto all’incontro col Signore, o Israele, poiché egli viene" (Am 4,12).

       E anche voi, fratelli, tenetevi pronti, perché "il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate" (Lc 12,40).

       Nulla è più certo che egli verrà, ma nulla più incerto di quando egli verrà. Infatti, è così poco in nostro potere conoscere i tempi o i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta (Ac 1,7) che non è dato neppure agli angeli che lo assistono conoscere il giorno né l’ora (Mt 24,36). Anche il nostro ultimo giorno verrà, è certissimo; ma quando, dove o come sopraggiungerà, questo è molto incerto; noi sappiamo soltanto, come è stato detto prima di noi: per i vecchi, esso è alla porta, mentre per i giovani è in agguato. E almeno vegliassero su sé stessi coloro che vedono la morte pronta ad entrare anzi, che la vedono già entrare. Che non è forse già parzialmente entrata quando alcune parti del corpo sono già morte? E tuttavia in molti semimorti è dato vedere ancora viva la brama del mondo; le membra diventano fredde, e l’avarizia l’arde: la vita finisce, ma l’ambizione si prolunga. Visto che a noi pure, cui forse l’età o la salute sembrano promettere più lungo spazio, quanto meno la morte si profila all’orizzonte, tanto più allora, se noi siamo saggi, ci deve apparire piccola cosa. Affinché non accada che quel giorno ci sorprenda all’improvviso incauti e non preparati come un ladro nella notte (1Th 5,2). Poiché esso sta in agguato, tanto più va temuto quanto meno lo si può vedere o ci se ne può guardare. Per cui l’unica sicurezza è quella di non esser mai sicuri; giacché il timore, non tenendo all’erta, fa stare sempre pronti, finché la sicurezza prenda il posto del timore e non il timore quello della sicurezza...

       Com’è bello, fratelli, e quale beatitudine, non solo rimanere sicuri di fronte alla morte, ma altresì trionfare con gloria per la testimonianza della coscienza; ...aprire con gioia al Giudice che viene e che bussa alla porta. Allora invero si vedranno, ahimè, gli uomini come me tremare per la paura; chiedere una dilazione, e non ottenerla; voler comprare con lacrime di penitenza dell’olio per la coscienza e non averne il tempo; voler evitare quei vizi spettrali e non poterlo; volersi nascondere nel corpo davanti alla collera che tuona, ed essere costretti a uscirne. Esalerà, "esalerà il suo spirito", e il peccatore "ritornerà alla terra" donde venne: "In quel giorno svaniranno tutti i loro disegni" (Ps 145,4). So che è della condizione umana essere turbati al momento decisivo della partenza; quando anche i perfetti non vogliono essere spogliati, ma rivestire il loro vestito di gloria sull’altro, e coloro che non si sentono colpevoli, poiché non per questo si trovano giustificati, sono costretti a temere un giudizio di cui ignorano il contenuto. Ma che la mia anima sia turbata a motivo della sua condizione, o per mancanza di santità, o per timore del giudizio, dice il giusto: Tu, o Signore, ricordati della tua misericordia, invia la tua misericordia e la tua verità, e libera la mia anima dai lioncelli, e io che prima ero turbato, poi in pace mi corico e subito mi addormento (Ps 41,7)...

       Pertanto "tieniti pronto", o vero "Israele, per l’incontro col Signore", affinché non solo quando viene e bussa tu gli apra, ma quando ancora è lontano tu gli vada incontro allegramente e col cuore pieno di gioia, e avendo fiducia per il giorno del giudizio, tu preghi con tutta l’anima che venga il suo regno. Se dunque in quel momento vuoi essere trovato pronto, "prima del giudizio preparati la giustizia" (Si 18,19) secondo il consiglio del Saggio; sii pronto a compiere ogni opera buona e non meno pronto a sopportare qualsiasi male...

       Tu dunque "vieni incontro a me" (Ps 58,5-6), che ti vengo incontro; poiché io non posso elevarmi alla tua altezza, se tu chinandoti "all’opera delle tue mani non mi porgi la destra" (Jb 14,15). "Vienimi incontro e vedi se c’è via di menzogna in me" (Ps 58,6 Ps 138,24); e se trovi in me una "via di menzogna" che io ignoro, "allontanala" e avendo misericordia di me, con la tua legge guidami sulla via eterna (Ps 138,24) cioè Cristo, che è la via per la quale si va e l’eternità alla quale si perviene, la via immacolata, la beata dimora.

       Guerric d’Igny, III serm. 1-2




IIa domenica di Avvento

11 Letture:

    
Is 11,1-10 Rm 15,4-9 Mt 3,1-12


1. La figura del Battista

       In quei giorni venne Giovanni a predicare nel deserto della Giudea, dicendo: "Pentitevi, perché il regno dei cieli è vicino", ecc. In Giovanni bisogna esaminare il luogo, la predicazione, il vestito, il cibo, e ciò per ricordarci che la verità dei fatti non è compromessa, se la ragione di una intelligenza interiore soggiace al compimento dei fatti. Avrebbe potuto esserci, per lui che predicava, un luogo più opportuno, un vestito più comodo e un cibo più appropriato, ma sotto i fatti c’è un esempio nel quale l’atto compiuto è di per sé una preparazione. Giunge infatti nel deserto della Giudea, regione deserta quanto alla presenza di Dio, non del popolo, e vuota quanto all’abitazione dello Spirito Santo, non degli uomini, di modo che il luogo della predicazione attestava l’abbandono di coloro ai quali la predicazione era stata indirizzata. Siccome il regno dei cieli è vicino, egli lancia anche un invito a pentirsi, grazie al quale si torna indietro dall’errore, ci si distoglie dalla colpa e ci si impegna a rinunziare ai vizi dopo averne arrossito, perché egli voleva che la deserta Giudea si ricordasse che doveva ricevere colui nel quale si trova il regno dei cieli, per non essere più vuota in futuro, a condizione di essersi purificata dai vizi di un tempo mediante la confessione del pentimento. La veste intessuta anche con peli di cammello sta a indicare la fisionomia esotica di questa predicazione profetica: è con spoglie di bestie impure, alle quali siamo pareggiati, che si veste il predicatore di Cristo; e tutto ciò che in noi era stato in precedenza o inutile o sordido è reso santo dall’abito di profeta. Il circondarsi di una cintura è una disposizione efficace per ogni opera buona, nel senso che abbiamo la nostra volontà cinta per ogni forma di servizio a Cristo. Per cibo inoltre egli sceglie delle locuste che fuggono davanti all’uomo e che volano via ogni volta che ci sentono arrivare: siamo noi, quando ci allontaniamo da ogni parola dei profeti e da ogni rapporto con essi lasciandoci analogamente portar via dai salti dei nostri colpi. Con una volontà errante, con opere inefficaci, con parole lamentose, con una dimora da stranieri, noi siamo ora quel che costituisce il nutrimento dei santi e l’appagamento dei profeti, essendo scelti nello stesso tempo del miele selvatico per fornire proveniente da noi, il cibo più dolce, estratto non dagli alveari della Legge, ma dai nostri tronchi di alberi silvestri.

       Predicando dunque in quest’abito, Giovanni chiama i Farisei e i Sadducei che vengono al battesimo "razza di vipere": li esorta a produrre un "frutto degno di penitenza" e a non gloriarsi di "avere Abramo per Padre", perché Dio, da pietre, è capace di suscitare figli ad Abramo. Non è richiesta infatti la discendenza carnale, ma l’eredità della fede. Pertanto il prestigio della discendenza consiste nel carattere esemplare delle azioni e la gloria della razza è conservata dall’imitazione della fede. Il diavolo è senza fede, Abramo ha la fede; l’uno infatti ha dimostrato la sua cattiva fede al tempo della disobbedienza dell’uomo, l’altro invece è stato giudicato mediante la fede. Si acquisiscono dunque i costumi e il genere di vita dell’uno o dell’altro grazie all’affinità di una parentela che fa sì che quanti hanno la fede sono discendenza di Abramo per la fede, e quanti non l’hanno sono mutati in progenie del diavolo per l’incredulità, giacché i Farisei sono chiamati razza di vipere e il gloriarsi di avere un padre santo è loro vietato, giacché da pietre e rocce sorgono figli ad Abramo ed essi sono invitati a produrre frutti degni di penitenza, di modo che coloro che avevano avuto prima per padre il diavolo ridiventino figli d’Abramo per la fede con quelli che sorgeranno dalle pietre. La scure posta alla radice degli alberi testimonia il diritto della potenza che agisce in Cristo, perché essa indica che, abbattendo e bruciando gli alberi sterili, si prepara la rovina dell’inutile incredulità in vista della conflagrazione del giudizio. E col pretesto che l’opera della legge era ormai inutile per la salvezza e che egli si era presentato come messaggero a coloro che dovevano essere battezzati in vista del pentimento il dovere dei profeti, infatti, consisteva nel distogliere dai peccati, mentre era proprio di Cristo salvare i credenti,Giovanni dice che egli battezza in vista del pentimento, ma che verrà uno più forte, i cui sandali egli non è degno di incaricarsi di portare, lasciando agli apostoli la gloria di portare ovunque la predicazione, poiché ad essi era riservato di annunciare coi loro bei piedi la pace di Dio. Fa dunque allusione all’ora della nostra salvezza e del nostro giudizio, quando dice a proposito del Signore: "Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco" - poiché a quanti sono battezzati in Spirito Santo resta di essere consumati dal fuoco del giudizio - "e avendo in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile". L’opera del ventilabro consiste nel separare ciò che è fecondo da ciò che non lo è. Messo nella mano del Signore, indica il verdetto della sua potenza che calcina col fuoco del giudizio il grano che deve essere riposto nei granai e sono i frutti giunti a maturità dei credenti e, d’altra parte, la pula, vacuità degli uomini inutili e sterili.

       Ilario di Poitiers, In Matth. 2, 2-4



2. La preghiera deve essere unita alle opere

       E ancora, coloro che pregano non si presentino a Dio con preghiere spoglie, non accompagnate da frutti. È inefficace la preghiera a Dio, se è sterile. Come ogni albero che non dà alcun frutto è tagliato e gettato nel fuoco (Mt 3,10), così pure una preghiera che non ha frutto non può propiziarsi Iddio, non essendo feconda di opere. Appunto la divina Scrittura dice: "Buona è la preghiera unita al digiuno e all’elemosina" (Tb 12,8).

       Ecco, colui che nel giorno del giudizio renderà a ciascuno il premio per le sue opere ed elemosine, oggi ascolta benigno colui che viene alla preghiera con le opere.

       Cipriano di Cartagine, De orat. dom. 32


3. La tolleranza nella Chiesa

       Abbi oltremodo per certo e non dubitare in alcun modo, che il campo di Dio è la Chiesa cattolica, e nel suo recinto sono contenuti, sino alla fine del mondo, la paglia assieme al grano, cioè si mischiano, nella comunione dei sacramenti, buoni e cattivi; e in ogni ufficio, sia di chierici, come di monaci o di laici, ci sono, insieme, buoni e cattivi. Né sono da abbandonare i buoni per il fatto che ci sono i cattivi, ma in considerazione dei buoni, devono essere tollerati i cattivi nella misura richiesta dalla fede e dalla carità, cioè, se nella Chiesa non spargono semi di eresia, o con esiziale imitazione non portano i fratelli a qualche malvagia impresa. Neppure è possibile che chi nella Chiesa cattolica crede con rettitudine e vive bene si macchi mai del peccato di altri, se egli non offre a colui che pecca né consenso, né favore. Ed è ben utile che i cattivi siano tollerati, all’interno della Chiesa, dai buoni, se con essi si agisce così, vivendo bene e ammonendo bene, affinché vedendo e sentendo le cose che sono buone, essi guardino le proprie opere malvagie, e giudicando sé stessi da Dio per le proprie opere malvagie si ravvedano; e così, prevenuti dal dono della grazia, arrossiscano delle loro iniquità, e per la misericordia di Dio si convertano ad una vita buona. Ora poi, per la diversità delle opere, nella Chiesa, in quanto cattolica, i buoni devono essere separati dai cattivi, affinché con coloro con i quali comunicano i divini sacramenti non abbiano in comune le cattive opere, per le quali questi sono biasimevoli. Alla fine del mondo, per certo, i buoni dovranno essere separati dai cattivi anche nel corpo, quando verrà Cristo col "ventilabro in mano e pulirà la sua aia e ammasserà il suo grano nel granaio, e brucerà la paglia col fuoco inestinguibile" (Mt 3,12), allorché con giusto giudizio separerà i giusti dagli ingiusti, i buoni dai cattivi, i retti dai perversi; e metterà i buoni alla destra, i cattivi alla sinistra, e pronunciata dalla sua bocca di giudice giusto ed eterno l’immutabile sentenza, i cattivi tutti "andranno al fuoco eterno, i giusti poi alla vita eterna" (Mt 25,46); i cattivi bruceranno sempre col diavolo, i giusti invece regneranno senza fine con Cristo.

       Fulgenzio di Ruspe, De fide ad Petrum, 86




III domenica di Avvento

12 Letture:

    
Is 35,1-6 Is 35,10 Jc 5,7-10 Mt 11,2-11 (Is 35,1-6a.10)

1. I discepoli di Giovanni

       È evidente ormai a tutti che i discepoli del precursore avevano un certo risentimento nei confronti di Gesù, e che avevano sempre manifestato gelosia nei suoi confronti. Questo loro atteggiamento era già apparso evidente da quanto avevano detto al loro maestro: Colui che era con te di là dal Giordano, cui tu hai reso testimonianza, eccolo che battezza e tutti accorrono a lui (Jn 3,26). In un’altra circostanza vi fu anzi una disputa tra i discepoli di Giovanni e i Giudei a proposito della purificazione, ed i primi si avvicinarono a Gesù chiedendogli: Perché noi e i Giudei digiuniamo spesso e i tuoi discepoli non digiunano affatto? (Mt 9,14).

       Essi infatti non sapevano ancora chi era il Cristo e ritenevano che Gesù fosse un semplice uomo, mentre stimavano moltissimo Giovanni e lo consideravano più che un uomo: pertanto sopportavano amaramente che la fama di Gesù crescesse a discapito di quella del loro maestro, secondo le parole che Giovanni stesso aveva pronunziate. E questa gelosia impediva loro di accostarsi e di credere in Gesù: l’invidia era come un muro che sbarrava loro la via per arrivare al Salvatore. Finché Giovanni era con loro, li esortava e li ammoniva spesso, ma con scarso successo. Quando infine Giovanni si rende conto, in prigione, che la sua morte è vicina, allora compie un supremo sforzo per convincere i suoi discepoli ad abbandonare ogni invidia verso Gesù e a riconoscere in lui il Salvatore. Teme di lasciar loro qualche motivo per una falsa idea e che essi per sempre restino separati da Cristo. In realtà, lo scopo profondo di tutta la sua predicazione, sin dall’inizio, era stato quello di condurre tutti i suoi discepoli al Salvatore. Ma siccome essi non si persuadevano, compie ora che la sua morte è imminente quest’ultimo, più efficace tentativo. Se avesse detto ai suoi discepoli di andare da Gesù perché‚ era più grande di lui, l’attaccamento che essi avevano per il loro maestro li avrebbe indotti a non obbedire a un tale ordine. Avrebbero considerato il suo invito come una conseguenza della sua umiltà, il che li avrebbe spinti, anziché ad abbandonarlo, a raddoppiare il loro affetto per lui. E neppure avrebbe ottenuto qualcosa di più se avesse taciuto. Che risolve di fare allora? Non gli resta altro che attendere ch’essi personalmente costatino i miracoli che Gesù va compiendo e tornino a riferirglieli. Allora non li esorta e non li invia tutti da Gesù: sceglie i due che ritiene più disposti a credere, in modo che le loro domande non dimostrino prevenzione e sospetto e comprendano, da ciò che vedranno, quale differenza vi è tra lui e il Cristo. Andate - dice ai due discepoli - e chiedete a Gesù: "Sei tu dunque colui che ha da venire, oppure dobbiamo aspettarne un altro?" (Mt 11,3). Cristo, che capisce subito il vero motivo per cui Giovanni gli ha mandato questa ambasciata, non risponde direttamente alla domanda dei due: - Si, sono io, - benché‚ sarebbe stato logico che facesse così. Egli sa che una simile diretta dichiarazione li avrebbe feriti nella stima che avevano per Giovanni, e preferisce perciò lasciare che i due discepoli riconoscano chi egli è dagli stessi miracoli che compie sotto i loro occhi. Il Vangelo narra infatti che, dopo l’arrivo dei discepoli di Giovanni, Gesù guarì molti malati. Quale altra conseguenza avrebbero potuto trarre i messi di Giovanni da questa sua indiretta risposta alla loro domanda? Il Salvatore si comporta così perché sa benissimo che la testimonianza delle opere è ben più attendibile e meno sospetta di quella delle parole. Insomma, Gesù Cristo, essendo Dio, e ben conoscendo i motivi per cui Giovanni gli aveva invitato i suoi discepoli, guarisce ciechi, zoppi, e altri infermi, non per dimostrare a Giovanni la sua reale natura - perché‚ avrebbe dovuto manifestarlo a Giovanni che già credeva e gli obbediva? - ma soltanto per ammaestrare i seguaci del precursore che ancora nutrivano dubbi. Per questo, avendo sanato molti infermi, disse loro: "Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete; i ciechi recuperano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risorgono, ai poveri si annunzia la buona novella. E beato è colui che non troverà in me occasione di scandalo" (Mt 11,4-6). Con queste parole mostra chiaramente di conoscere i loro segreti pensieri.

       Crisostomo Giovanni, In Matth. 36, 1-2


2. Elogio del Precursore

       Ma ascoltiamo quello che [Gesù] dice di Giovanni, dopo che i discepoli di questo si sono allontanati: "Cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna agitata dal vento?" (Mt 11,7). Così dicendo certamente intendeva negare, non affermare. La canna, infatti, alla brezza più lieve si piega in un’altra parte. E cosa s’intende per canna se non un animo carnale, che appena è sfiorato dalla lode o dal biasimo subito si piega da questa o da quella parte? Se infatti dalla bocca degli uomini soffia il vento della lode, si rallegra, si riempie di orgoglio e tutto si strugge in tenerezza. Ma se da dove veniva il vento della lode soffia il vento del biasimo, subito s’inclina dall’altra parte accendendosi d’ira. Giovanni però non era una canna agitata dal vento, poiché‚ non si lasciava blandire dal favore né il biasimo lo irritava, da qualunque parte venisse. La prosperità non lo rendeva orgoglioso e le avversità non potevano prostrarlo. Pertanto, Giovanni non era una canna agitata dal vento, dal momento che nessuna vicissitudine umana riusciva a smuoverlo dalla sua fermezza. Impariamo perciò, fratelli carissimi, a non essere come una canna agitata dal vento, rafforziamo l’animo nostro in mezzo ai soffi delle lingue, e rimanga inflessibile lo stato della mente. Nessun biasimo ci spinga all’ira, nessun favore ci inclini a una sterile debolezza. La prosperità non ci faccia insuperbire, le avversità non ci turbino, di modo che, radicati in una solida fede, non ci lasciamo smuovere dalla mutevolezza delle cose transitorie.

       Così continua ad esprimersi [Gesù] riguardo a Giovanni: "Ma che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito di morbide vesti? Ecco, quelli che portano morbide vesti abitano nei palazzi dei re" (Mt 11,8). Infatti descrivono Giovanni vestito con peli di cammello intrecciati. E cos’è questo: "Ecco, quelli che portano morbide vesti abitano nei palazzi dei re", se non un dire apertamente che quanti rifuggono dal soffrire amarezze per amore di Dio e sono dediti soltanto alle cose esteriori, militano non per il regno celeste, ma per quello terreno? Nessuno dunque creda che nel lusso e nella preoccupazione delle vesti non ci sia alcun peccato, poiché se non ci fosse colpa, il Signore non avrebbe affatto lodato Giovanni per l’asprezza delle sue vesti...

       E già Salomone aveva detto: "Le parole dei savi sono come pungoli, e come chiodi piantati profondamente" (Qo 12,11). A chiodi e a pungoli sono paragonate le parole dei sapienti, perché esse non sanno accarezzare le colpe dei peccatori, ma bensì le pungono.

       "Ma chi siete andati a vedere nel deserto? Un profeta? Sì, vi dico; e più che un profeta" (Mt 11,9). È infatti compito del profeta predire le cose future, non indicarle. Giovanni è più che un profeta, perché indicò, mostrandolo, colui del quale nel suo ufficio di precursore aveva profetato. Ma poiché‚ [Giovanni] non è una canna agitata dal vento, poiché non è vestito di morbide vesti, poiché‚ il nome di profeta non basta a dire il suo merito, ascoltiamo dunque in che modo possa essere degnamente chiamato. Continua [il Vangelo]: "Egli è colui del quale sta scritto: Ecco io ti mando innanzi il mio angelo, perché prepari la tua via dinanzi a te" (Ml 3,1). Ciò che in greco viene espresso col termine angelo, tradotto, significa messaggero. Giustamente, dunque, viene chiamato angelo colui che è mandato ad annunziare il sommo Giudice: affinché‚ dimostri nel nome la dignità dell’azione che compie. Il nome è certamente alto, ma la vita non gli è inferiore.

       Gregorio Magno, Hom. 6, 2-5




IV Domenica di Avvento

13 Letture:
    
Is 7,10-14 Rm 1,1-7 Mt 1,18-24

1. La nuova Eva

       Di fatto, Maria dette i natali senza il concorso di un uomo. Così come all’origine, Eva è nata da Adamo senza che vi sia stato incontro carnale, del pari è successo per Giuseppe e Maria, la Vergine sua sposa. Eva mise al mondo l’assassino Caino, Maria il Vivificatore. Quella mise al mondo colui che sparse il sangue di suo fratello (Gn 4,1-16), questa colui il cui sangue fu sparso dai suoi fratelli. Quella vide colui che tremava e fuggiva a causa della maledizione della terra (Gn 4,10-14); questa colui che, avendo assunto su di sé la maledizione, la inchiodò alla croce (Col 2,14). Il concepimento della Vergine ci insegna che colui che, senza legame di carne, ha messo al mondo Adamo facendolo uscire dalla terra vergine, ha anche formato senza legame di carne il secondo Adamo nel seno della Vergine. Il primo Adamo era ritornato nel seno di sua madre da questo secondo Adamo, che non vi ritornò, colui che era sepolto nel seno di sua madre, ne fu tratto.

       Maria cercava di convincere Giuseppe che il suo concepimento era opera della Spirito, ma egli non le credette, perché era cosa insolita. Al vedere in lei, nonostante la sua gravidanza, un atteggiamento sereno, "egli, nella sua giustizia, non voleva denunciarla pubblicamente" (Mt 1,19); ma non per questo fu maggiormente disponibile ad accettarla, come marito, visto che pensava che si fosse unita ad un altro. Decise perciò «nella sua giustizia», di non prenderla, ma anche di non calunniarla. Così "un angelo gli apparve e gli disse: Giuseppe, figlio di David" (Mt 1,20). Cosa meravigliosa che lo chiami, anche lui, «figlio di David»!, ricordandogli il primo dei suoi antenati, David, al quale Dio aveva promesso che "dai frutti delle sue viscere" (Ps 132,11), avrebbe suscitato il Messia secondo la carne. "Non temere di prendere Maria come tua sposa, perché ciò che è in lei è opera dello Spirito Santo" (Mt 1,20). E se tu dubiti del concepimento senza legami carnali della Vergine, ascolta le parole di Isaia: "Ecco, la vergine concepirà" (Is 7,14). E quelle di Daniele: "La pietra si staccò senza l’aiuto delle mani" (Da 2,34). Non si tratta di quest’altra parola: "Guardate la montagna e i pozzi" (Is 51,1). Qui, in effetti, si tratta dell’uomo e della donna; là, invece, è detto: «Senza l’aiuto delle mani». Così come, per Eva, Adamo aveva ricoperto il ruolo di padre e di madre, del pari Maria per Nostro Signore.

       Efrem, Diatessaron, 2, 2 s.


2. La cooperazione della natura umana alla redenzione

       Per questo motivo il Verbo di Dio, incorporeo ed incorruttibile ed immateriale, si calò nella nostra dimensione, benché mai neppure prima ne sia stato lontano, dal momento che, unito com’è al Padre suo, non ha lasciato alcuna parte della creazione vuota di sé e riempie ogni cosa.

       Il Verbo di Dio si degna così di venire e di manifestarsi a noi, in virtù della sua filantropia nei nostri confronti. Vedendo che gli esseri ragionevoli si perdono e che la corruzione della morte regna su di loro; vedendo che la minaccia formulata da Dio contro la trasgressione trova efficace realizzazione attraverso questa corruzione e che sarebbe assurdo che questa legge venisse violata prima ancora d’esser compiuta; vedendo come fosse disdicevole che le opere di cui egli era l’autore fossero distrutte; vedendo la soverchiante cattiveria degli uomini accrescersi pian piano ai danni di loro stessi e divenire intollerabile; vedendo che tutti gli uomini si rendevano schiavi della morte, il Signore ebbe pietà della nostra stirpe e si fece misericordioso nei rispetti della nostra debolezza. Volle rimediare alla nostra corruzione e non sopportò che la morte la spuntasse su di noi, amnché la sua creatura non perisse e l’opera compiuta dal Padre suo, nel creare gli uomini, non si dimostrasse inutile. Assunse dunque un corpo, ed un corpo che non è diverso dal nostro. Egli, infatti, non ha voluto semplicemente «trovarsi in un corpo», come non ha voluto unicamente «mostrarsi»: in quest’ultimo caso, altrimenti, avrebbe potuto realizzare questa teofania in un essere più potente d’un uomo. Il Signore assume, invece, un corpo come il nostro, né si accontenta semplicemente di rivestirsene, ma vuole farlo nascendo da una vergine senza colpa né macchia, che non conosceva uomo, prendendo così un corpo puro e del tutto incontaminato da qualsiasi unione carnale. Benché onnipotente e demiurgo dell’universo, all’interno di questa vergine egli si edifica il proprio corpo come un tempio e, manifestandosi e dimorando in esso, se ne serve come d’uno strumento. Dal nostro genere, pertanto, il Signore acquista una natura analoga alla nostra e, allo stesso modo come tutti noi siamo condannati alla corruzione ed alla morte, non diversamente anch’egli, per il beneficio di tutti, consegna il proprio corpo alla morte, presentandolo al Padre; e tutto questo egli conduce a termine per filantropia.

       In tal modo, dal momento che tutti muoiono in lui (Rm 6,8), la legge della corruzione, diretta contro gli uomini, sarà infranta. Essa, infatti, dopo aver esercitato tutto il suo potere sul corpo del Signore, da quell’istante non sarà più in grado di infierire sugli uomini, essendo ormai costoro simili a lui.

       Il Verbo di Dio, pertanto, ripristina nell’incorruttibilità quegli uomini che erano divenuti nuovamente preda della corruzione. Appropriandosi d’un corpo, egli dona loro una nuova vita e li riscatta dalla morte. In virtù della grazia della risurrezione, il Signore fa sparire la morte lontano dagli uomini, come un fuscello di paglia distrutto nel fuoco.

       Il Verbo, dunque, costatava che la corruzione degli uomini non poteva assolutamente esser cancellata, se non attraverso la morte. D’altronde, essendo immortale e figlio del Padre, non era possibile che il Verbo potesse morire. Pertanto egli si riveste di un corpo suscettibile di morire affinché, partecipando del Verbo che sta al di sopra di tutto, questo corpo sia in grado di morire per tutti e, d’altronde, grazie al Verbo che ha preso dimora in lui, rimanga incorruttibile e faccia ormai cessare in tutti, in virtù della risurrezione, la corruzione. Così, come nel sacrificio d’una vittima innocente, egli offre alla morte questo corpo, dopo essersene spontaneamente rivestito, e, tosto, fa sparire la morte in tutti i suoi simili, attraverso l’offerta d’una vittima somigliante a loro.

       È giusto che il Verbo di Dio, superiore com’è a tutti, offrendo il suo tempio e lo strumento del suo corpo come prezzo del riscatto per tutti, paghi, con la sua morte, il nostro debito. Così, unito a tutti gli uomini attraverso un corpo simile al loro, il Figlio incorruttibile di Dio può a giusta ragione rivestire tutti gli uomini d’incorruttibilità, promettendo altresì loro la risurrezione. La corruzione stessa della morte, perciò, non ha più alcun potere contro gli uomini, grazie al Verbo che dimora fra questi, in un corpo simile al loro.

       Allorché un re illustre fa il suo ingresso in una grande città e prende dimora in una delle sue case, questa città si sente oltremodo onorata, né nemici né briganti, ormai, marceranno più contro di essa per devastarla e vien fatta oggetto d’ogni attenzione per il fatto che il re risiede in una sola delle sue case. Così avviene anche al riguardo del re dell’universo: da quando egli è venuto nella nostra terra ed ha abitato un corpo simile al nostro, ogni iniziativa dei nemici contro gli uomini ha avuto termine e la corruzione della morte, che per lungo tempo aveva imperversato contro di essi, è scomparsa. Il genere umano sarebbe completamente perito, se il Figlio di Dio, signore dell’universo e salvatore, non fosse disceso a porre termine alla morte.

       Atanasio, De incarnat. Verbi, 8 s.




Lezionario "I Padri vivi"