Lezionario "I Padri vivi" 33

IV domenica di Pasqua

33 Letture:
    
Ac 2,14a. Ac 2,36-41
     1P 2,20-25
     Jn 10,1-10

2. Il Logos salvatore, pastore, pedagogo

       Le persone in buona salute non hanno bisogno del medico (Mt 9,12e parall.), almeno finché stanno bene; i malati al contrario richiedono la sua arte. Allo stesso modo, noi che in questa vita siamo malati di desideri riprovevoli, di intemperanze biasimevoli, di tutte le altre infiammazioni delle nostre passioni, abbiamo bisogno del Salvatore. Egli ci applica dolci medicamenti, ma del pari amari rimedi: le radici amare del timore bloccano le ulcere dei peccati. Ecco perché il timore, anche se amaro, è salutare.

       Dunque noi, i malati, abbiamo bisogno del Salvatore; gli smarriti, di colui che ci guiderà; i ciechi, di colui che ci darà la vista; gli assetati, della sorgente di acqua viva, e coloro che ne berranno non avranno più sete (cf. - Jn 4,14); i morti, abbiamo bisogno della vita; il gregge, del pastore; i bambini, del pedagogo; e tutta l’umanità ha bisogno di Gesù: per paura che, senza educazione, peccatori, cadiamo nella condanna finale; è necessario, al contrario, che siamo separati dalla paglia ed ammassati "nel granaio" del Padre. "Il ventilabro è nella mano" del Signore e con esso separa il grano dalla pula destinata al fuoco (Mt 3,12).

       1) Se volete, Possiamo comprendere la suprema sapienza del santissimo Pastore e Pedagogo, che è il Signore di tutto e il Logos del Padre, quando impiega un’allegoria e si dà il nome di pastore del gregge (cf. Jn 10,2s); ma è anche il Pedagogo dei piccolini.

       2) È così che egli si rivolge diffusamente agli anziani, attraverso Ezechiele, e dà loro il salutare esempio di una sollecitudine quanto mai accorta: "Io medicherò colui che è zoppo e guarirò colui che è oppresso; ricondurrò lo smarrito (Ez 34,16) e lo farò pascolare sul mio monte santo" (Ez 34,14). Tale è la promessa di un buon pastore. Facci pascere, noi piccolini, come un gregge;

       3) sì, o Signore, dacci con abbondanza il tuo pascolo, che è la giustizia; sì, Pedagogo, sii nostro pastore fino al tuo monte santo, fino alla Chiesa che si eleva, che domina le nubi, che tocca i cieli! (Ps 14,1 Ap 21,2). "E io sarò", egli dice, "loro pastore e starò loro vicino" (Ez 34,23), come tunica sulla loro pelle. Egli vuole salvare la mia carne, rivestendola con la tunica dell’incorruttibilità (1Co 15,53); ed ha unto la mia pelle.

       Clemente di Alessandria, Paedagogus, 83, 2 - 84, 3


1. Gesù è la porta

       "In verità, in verità vi dico, chi non entra per la porta nell’ovile delle pecore, ma vi sale da qualche altra parte, è ladro e malandrino" (Jn 10,1).

       Essi avevano detto di non essere ciechi: e in effetti avrebbero potuto vedere, se fossero stati pecore di Cristo. Ma come potevano pretendere di avere la luce, coloro che si scagliavano con furore contro il giorno? È proprio alla loro vana, superba e incurabile arroganza, che il Signore oppone questo discorso, nel quale noi possiamo trovare, se staremo attenti, salutari insegnamenti. Sono molti infatti coloro che ordinariamente sono considerati uomini dabbene, uomini virtuosi, oppure donne irreprensibili e innocenti. Essi sembrano osservare tutti i comandamenti della legge, onorano i loro genitori, non commettono fornicazione, né omicidio, né furto, non rendono contro nessuno falsa testimonianza, e rispettano tutti gli altri precetti della legge e tuttavia cristiani non sono, e spesso con fierezza ci dicono, come quei farisei a Gesù: "Forse che anche noi siamo ciechi?" (Jn 9,40).

       Il Signore, nel passo del Vangelo che ci è stato letto oggi, parlando del suo gregge e della porta per cui si entra nell’ovile, suggerisce un paragone, per dimostrare la inutilità delle cose che fanno costoro, in quanto essi non sanno per qual fine le compiono. Dicano pure i pagani: Noi viviamo rettamente. Se non entrano per la porta, a che giova loro gloriarsene? Vivere rettamente deve assicurare a ciascuno il dono di vivere per sempre: e a chi non è dato di vivere per sempre, a che giova vivere rettamente? Costoro non possono neppure affermare di vivere nel bene, se per cecità non conoscono il fine che deve avere una vita onesta, oppure per orgoglio lo disprezzano. E nessuno può avere speranza vera e certa di vivere in eterno, se non riconosce che Cristo è la vita, e non entra per la porta nell’ovile...

       Avete capito fratelli la profondità di tale questione. Io dico: "Il Signore conosce i suoi" (2Tm 2,19). Li conosce nella sua prescienza, conosce i predestinati. È di Dio che l’Apostolo dice: "Quelli che ha distinti nella sua prescienza, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, affnché egli sia il primogenito tra molti fratelli. Coloro poi che ha predestinati, li ha pure chiamati; e quelli che ha chiamati, li ha anche giustificati; e quelli che ha giustificati li ha anche glorificati. Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?" (Rm 8,29-31). E aggiunge anche: "Lui che neppure risparmiò il suo Figlio, ma lo diede per tutti noi, come non ci accorderà ogni altra cosa insieme con lui?" (Rm 8,32).

       Di chi parla dicendo: noi? Parla di quelli che Dio ha conosciuti nella sua prescienza, dei predestinati, dei giustificati, dei glorificati, e di questi ancora dice: "Chi accuserà gli eletti di Dio?" (Rm 8,33). Dunque «il Signore conosce i suoi»: essi sono pecore. Qualche volta neppure essi sanno di esserlo, ma lo sa il pastore, in forza di questa predestinazione, in forza della prescienza di Dio, della scelta fatta tra le pecore prima della creazione del mondo, secondo quanto ancora dice l’Apostolo: "come in lui prima della fondazione del mondo ci ha eletti" (Ep 1,4). Secondo questa prescienza e predestinazione di Dio, quante pecore fuori e quanti lupi dentro l’ovile! Così come ci sono pecore dentro e lupi fuori. Cosa vuol dire che ci sono molte pecore fuori? Vuol dire che molti, che ora sono preda della lussuria, saranno casti; molti, che ora bestemmiano Cristo, crederanno in Cristo; molti, che si ubriacano, saranno sobri; molti, che oggi rubano i beni altrui, doneranno i propri! Ma, purtuttavia, ora ascoltano la voce estranea, e la seguono.

       Ugualmente, molti che oggi dentro l’ovile levano lodi al Signore, lo bestemmieranno, sono casti e saranno fornicatori, sono sobri, e poi affogheranno nel vino, stanno in piedi e cadranno!...

       Ma che diremo del mercenario? Egli non è certo considerato tra i buoni: "Il buon pastore dà la sua anima per le pecore. Il mercenario, che non è il pastore, e che non è proprietario delle pecore, vede venire il lupo e abbandona le pecore e fugge; e il lupo rapisce e disperde le pecore" (Jn 10,11-12).

       Il mercenario non fa qui la figura dell’uomo dabbene, ma tuttavia a qualcosa è utile: non si chiamerebbe mercenario se non ricevesse una mercede da chi lo ha assunto. Chi è dunque questo mercenario, che è insieme colpevole e utile? Che il Signore, fratelli, ci illumini, in modo che noi si intenda chi è questo mercenario, e non si divenga a nostra volta mercenari. Chi è dunque il mercenario? Vi sono alcuni nella Chiesa che sono preposti in autorità, e di cui l’apostolo Paolo dice: "Cercano gli interessi loro e non quelli di Cristo" (Ph 2,21). Che vuol dire: «cercano i loro interessi»? Vuol dire che il loro amore per Cristo non è disinteressato, non cercano Dio per Dio; cercano vantaggi e comodità temporali, sono avidi di denaro, desiderano gli onori terreni. Costoro che amano queste cose e per esse servono Dio, sono dei mercenari; non si tengano in conto di figli. Di essi il Signore dice: "In verità, vi dico che essi hanno già ricevuto la loro ricompensa" (Mt 6,5)...

       Ascoltate ora perché anche i mercenari sono necessari.

       Molti sono coloro che nella Chiesa cercano vantaggi materiali, e tuttavia annunziano Cristo e per loro mezzo la voce di Cristo si fa sentire. Li seguono le pecore, che sentono non la voce del mercenario, ma per mezzo di questa la voce del pastore. Ascoltate cosa dice lo stesso Signore di costoro: "Gli scribi e i farisei sono seduti sulla cattedra di Mosè: fate ciò che dicono, ma non fate ciò che fanno" (Mt 23,2). In altre parole, egli dice: Ascoltate la voce del pastore per mezzo del mercenario. Sedendo sulla cattedra di Mosè, insegnano la legge di Dio; quindi per loro mezzo Dio insegna. Ma se essi vogliono insegnare le loro idee e non la Legge, non ascoltateli e non imitateli. Certamente costoro cercano i loro interessi, e non quelli di Gesù Cristo; tuttavia nessun mercenario ha mai osato dire al popolo di Cristo: occupati dei tuoi interessi e non di quelli del Signore. Quanto egli fa di male, non lo annunzia dalla cattedra di Cristo; il male che fa è nocivo certamente, ma non lo è il bene che dice. Cogli l’uva, ma stai attento alle spine.

       Agostino, In Ioan. 45, 2.12; 46, 5 s.

3. Le porte del Logos

       Quanto a voi, se desiderate davvero vedere Dio, prendete parte a cerimonie di purificazione degne di Dio, senza foglie di lauro, né nastri ornati di lana e di porpora; essendovi coronati di giustizia e con la fronte cinta delle foglie della continenza, occupatevi con cura di Cristo; poiché "io sono la porta" (Jn 10,9), dice egli in un certo passo; porta che occorre imparare a conoscere, se si vuol conoscere Dio, in modo tale che egli apra davanti a noi tutte le porte del cielo.

       Sono infatti ragionevoli, le porte del Logos, che la chiave della fede ci apre: "Nessuno conosce Dio, se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo ha rivelato" (Mt 11,27). Questa porta chiusa fino ad ora, ne sono sicuro, rivela inoltre a chi la apre ciò che sta all’interno e mostra quel che non si poteva conoscere in precedenza, senza essere passati per il Cristo, unico intermediario che conferisce l’iniziazione rivelatrice di Dio.

       Clemente di Alessandria, Protrepticon, I, 10, 2-3

V Domenica di Pasqua

34 Letture:
    
Ac 6,1-7
     1P 2,4-9
     Jn 14,1-12

1. La via universale della salvezza

       Questa è la religione che indica la via aperta a tutti per la liberazione dell’anima. Senza di essa non se ne libera alcuna. Questa è, analogamente parlando, la via regia, perché essa soltanto conduce non a un regno vacillante per altezza terrena ma a un regno duraturo nella stabile eternità. Dice Porfirio alla fine del primo libro "Sul regresso dell’anima" che ancora non è stata accolta in una qualche setta la dottrina che indichi la via aperta a tutti per la liberazione dell’anima, né per derivazione da una filosofia sommamente vera o dalla dottrina ascetica degli Indiani o dalla iniziazione dei Caldei o da un’altra qualsiasi via e che non era ancora venuta a sua conoscenza una via trasmessa dalla storiografia. Senza dubbio quindi ammette che ve n’è una ma che ancora non era venuta a sua conoscenza. Perciò non gli bastava la dottrina che sulla liberazione dell’anima aveva appreso con tanta diligenza e di cui sembrava avere una profonda conoscenza non tanto per sé quanto per gli altri. Sentiva che gli mancava ancora una dottrina sommamente autorevole da cui era necessario lasciarsi guidare in un problema tanto importante. Quando poi dice che neanche da una filosofia sommamente vera era giunta a sua conoscenza una scuola che indichi la via aperta a tutti per la liberazione dell’anima, dichiara, per quanto ne capisco io, che neanche la filosofia, nella quale egli attese al filosofare, è sommamente vera e che neanche in essa è indicata la via suddetta. E come potrebbe essere sommamente vera se in essa non è indicata questa via? Infatti la via aperta a tutti per la liberazione dell’anima è quella soltanto in cui tutte le anime sono liberate e senza di cui non se ne libera alcuna. Aggiunge poi le parole: "O dalla dottrina ascetica degli Indiani o dall’evocazione dei Caldei o da qualsiasi altra via" (Porfirio). Dichiara dunque in termini molto espliciti che la via aperta a tutti per la liberazione dell’anima non era indicata nelle dottrine che aveva appreso dagli Indiani e dai Caldei. Eppure non poté passare sotto silenzio che dai Caldei aveva appreso gli oracoli divini. Ne parla in continuazione. Quale via dunque vuol far intendere come aperta a tutti per la liberazione dell’anima? Essa non era ancora accolta né per derivazione da una filosofia sommamente vera né dalle dottrine dei popoli, che erano considerate importanti per presunte esperienze religiose, perché presso di loro si verificò l’interesse smodato di conoscere e onorare certi angeli e comunque non era ancor giunta a sua conoscenza mediante la storiografia. Qual è questa via valevole per tutti? Non certamente quella propria di un popolo ma quella che è stata offerta da Dio perché fosse comune a tutti i popoli. E questo uomo dotato di non mediocre ingegno non dubita che vi sia. Non può ammettere che la divina provvidenza abbia potuto abbandonare il genere umano senza una via aperta a tutti per la liberazione dell’anima. Non ha dichiarato che non v’è ma che un così grande bene e aiuto non è ancora stato riconosciuto e che ancora non è stato fatto giungere a sua conoscenza. Non c’è da meravigliarsene. Porfirio attendeva alla cultura quando Dio permetteva che la via aperta a tutti per la liberazione dell’anima, non altra dalla religione cristiana, fosse attaccata dagli adoratori degli idoli e demoni e dai re della terra; e questo per accrescere ed immortalare il numero dei martiri, cioè dei testimoni della verità. Per loro mezzo si dimostrava appunto che tutti i mali fisici si devono sopportare per la fedeltà alla religione e la difesa della verità. Porfirio conosceva questi fatti e pensava che a causa di persecuzioni di quel genere questa via sarebbe scomparsa e che pertanto non fosse quella aperta a tutti per la liberazione dell’anima. Non capiva che il fatto che lo turbava e che temeva di subire nello sceglierla si volgeva al consolidamento e irrobustimento della religione stessa.

       Questa è dunque la via aperta a tutti per la liberazione dell’anima, cioè concessa per divina bontà a tutti i popoli. La notizia della sua esistenza ad alcuni è venuta, ad altri verrà. Non le si doveva né le si dovrà dire: «Perché adesso? così tardi?». La decisione di chi la invia non si può penetrare dall’intelligenza umana. Lo capì anche Porfirio quando disse che questo dono di Dio non era ancora conosciuto e che non ancora era stato fatto giungere a sua conoscenza. Per questo si è guardato dal ritenerlo falso, perché non l’aveva accolto nella sua fede o non ne aveva ancora avuto conoscenza. Questa, ripeto, è la via aperta a tutti per la liberazione dei credenti. In proposito Abramo uomo di fede ricevette il responso di Dio: "Nella tua discendenza saranno benedetti tutti i popoli" (Gn 22,18). Egli era caldeo di stirpe; ma gli si ordinò di uscire dalla propria terra, dal proprio clan, dalla casa di suo padre per accogliere le promesse. Da lui si sarebbe propagata la discendenza ordinata al fine per mezzo dei santi angeli in mano al Mediatore (Ga 3,19), nel quale fosse la via aperta a tutti per la liberazione dell’anima, cioè concessa a tutti i popoli (Gn 12,1). Egli stesso liberato per primo dalle superstizioni dei Caldei adorò seguendolo un solo vero Dio e credette fedelmente a queste sue promesse. Questa è la via aperta a tutti. Di essa nel libro ispirato è stato detto: "Dio abbia pietà di noi e ci benedica, faccia risplendere il suo volto sopra di noi affinché conosciamo la tua via in terra e la tua salvezza in tutti i popoli" (Ps 66,2-3). Per questo, tanto tempo dopo, il Salvatore presa la carne dalla discendenza di Abramo diceva di se stesso: "Io sono la via, la verità e la vita" (Jn 14,6). Questo è la via aperta a tutti, di cui tanto tempo prima fu preannunciato: "Negli ultimi tempi il monte della casa del Signore sarà manifesto, perché sarà sulla montagna e si alzerà sopra tutti i colli. Verranno ad esso tutti i popoli e lo saliranno molte nazioni e diranno: venite, saliamo sul monte del Signore e nella casa del Dio di Giacobbe. Ci annunzierà la sua via ed entreremo in essa. Da Sion infatti uscirà la legge e la parola del Signore da Gerusalemme" (Is 2,2-3). Questa via dunque non è di un popolo ma di tutti i popoli, la legge e la parola del Signore non rimasero in Sion e in Gerusalemme ma di lì avanzarono per diffondersi in tutto il mondo. E per questo il Mediatore stesso dopo la sua Risurrezione dichiarò ai discepoli impauriti: "Era necessario che si adempissero le cose che sono state scritte su di me nella Legge, nei Profeti e nei Salmi. Allora manifestò loro il significato perché intendessero le Scritture e disse loro che era necessario che il Cristo subisse la passione e risorgesse da morte il terzo giorno e che fossero annunziate da loro in mezzo e tutte le genti, cominciando da Gerusalemme, la conversione e la remissione dei peccati" (Lc 24,44-47). Questa è dunque la via aperta a tutti per la liberazione dell’anima. Gli angeli santi e i santi profeti l’hanno significata col tabernacolo, col tempio, col sacerdozio e i sacrihci e l’hanno preannunciata con parole, qualche volta aperte, più spesso allegoriche, dapprima a pochi uomini che scoprivano, se riuscivano, la grazia di Dio, soprattutto fra il popolo ebraico. Il suo stato, analogicamente parlando, era stato consacrato alla predizione e al preannuncio del raduno della città di Dio da tutti i popoli... Questa via purifica tutto l’uomo e sebbene mortale lo dispone all’immortalità dalla prospettiva di tutte le sue componenti. Infatti perché non si cercasse una purificazione a quella componente che Porfirio chiama intellettuale, un’altra a quella che chiama spirituale e un’altra al corpo stesso, il Purificatore e Salvatore, che è sommamente veritiero e potente, ha assunto tutto l’uomo. Fuori di questa via che mai è mancata al genere umano, né prima quando questi fatti si attendevano come futuri, né poi quando si rivelarono come passati, nessuno fu liberato, nessuno è liberato, nessuno sarà liberato...

       ...Chi non ha fede e per questo neanche intelletto che questa via è la linea retta fino alla visione di Dio e alla eterna unione con lui, in base alla verità delle Scritture da cui viene formalmente dichiarata, può combatterla non abbatterla.

       Agostino, De civit. Dei, 10, 32

2. Tutti sono chiamati alla casa del Padre

       Ma che cosa vogliono dire le parole che seguono: "Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore" (Jn 14,2)? È proprio perché i discepoli temevano anche per sé medesimi, che il Signore dice loro: «non si turbi il vostro cuore». E chi tra loro poteva evitare di esser colto da timore, dopo che Gesù aveva detto a Pietro, tra loro il più fiducioso e pronto: «Non canterà il gallo, che tu mi avrai rinnegato tre volte»? Giustamente si turbano, in quanto temono di perire lontano da lui. Ma quando ascoltano il Signore che dice: «Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore»; "se non fosse così ve lo avrei detto, perché vado a preparare un posto per voi (Jn 14,2)", il loro turbamento si calma e sono sicuri e fiduciosi che, al di là dei pericoli della tentazione essi resteranno presso Dio, con Cristo.

       Uno sarà più forte dell’altro, uno più sapiente, un altro più giusto, un altro ancora più santo; ma «nella casa del Padre vi sono molte dimore», nessuno di essi sarà tenuto fuori da quella casa, dove ognuno avrà, secondo i meriti, la sua dimora. Uguale denaro viene dato a tutti, quel denaro che il padre di famiglia ordina di dare a coloro che hanno lavorato nella vigna, senza far distinzione tra chi ha faticato di più e chi di meno. Questo denaro significa la vita eterna, dove nessuno vive più a lungo dell’altro, poiché nell’eternità non vi può essere una diversa durata della vita. E le molte dimore significano i diversi gradi di merito che vi sono nell’unica vita eterna. Uno è lo splendore del sole, un altro quello della luna, un altro ancora quello delle stelle: e una stella differisce dall’altra quanto a splendore. Così accade nella risurrezione dei morti (1Co 15,41 1Co 15,42 1Co 15,48). Come le stelle nel cielo, i santi hanno nel regno dimore diverse per il loro fulgore; ma nessuno è escluso dal regno, poiché tutti hanno ricevuto la stessa mercede. E così Dio sarà tutto in tutti, in quanto, essendo Dio carità, per effetto di questa carità ciascuno avrà quello che hanno tutti. È così infatti che ognuno possiede, a motivo della carità, non le cose che ha veramente, ma le cose che ama negli altri. La diversità dello splendore non susciterà invidia, perché l’unità della carità regnerà in tutti e in ciascuno.

       Agostino, In Ioan. 67, 2

3. Noi siamo il regno di Cristo

       Il Figlio dunque consegnerà al Padre il suo regno? Non vien meno a Cristo il regno che egli dà, ma anzi progredisce. Siamo noi il regno, poiché è stato detto a noi: "Il regno di Dio è in mezzo a voi" (Lc 17,21). E siamo prima regno di Cristo, poi del Padre; poiché sta scritto: "Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me" (Jn 14,6). Mentre sono in cammino, sono di Cristo; quando arriverò, sarò del Padre: ma ovunque per Cristo, e ovunque sotto Cristo.

       Ambrogio, De fide, V, 12, 150

4. «Io e il Padre siamo una cosa sola»

       Se, come scrive Paolo agli Ebrei, l’Unigenito è lo splendore della gloria, il carattere della sostanza e l’immagine del Dio incorruttibile, invisibile ed eterno (Rm 1,20 1Tm 1,17), e se egli è verace quando afferma "Chi ha visto me ha visto il Padre" (Jn 14,9) e "Io e il Padre siamo una cosa sola" (Jn 10,30), certamente è consustanziale eterno e uguale, al punto che è simile in tutto a Dio Padre e in nulla differisce da lui. Infatti, luce da luce e non «eterousio «(cioè con "diversità di sostanza") è generato, né inferiore. Il carattere della sostanza indica l’identità ed esclude ogni diversità di natura, di gloria e di onnipotenza; l’immagine razionale denota l’uguaglianza e la somiglianza; e chi vede una creatura, non vede l’Increato. Afferma infatti che le ipostasi sono una cosa sola per la divinità, e distingue le persone nell’unità dell’essenza.

       Didimo di Alessandria, De Trinit. III, 2, 8

5. «Il Padre è maggiore di me»

       Ma poiché professiamo che nel Figlio vi sono due nature, cioè che egli è vero Dio e vero uomo, dotato di corpo e di anima, tutto quello dunque che le Scritture dicono di lui, con eminente e sublime efficacia, noi riteniamo che si debba riferire alla sua ammirevole divinità; ciò che invece è detto di lui stesso in maniera più dimessa e inferiore all’onore dovuto alla sua dignità celeste, noi lo riferiamo non a Dio Verbo, ma all’umanità di lui assunta. Si riferisce dunque alla natura divina quello che più sopra abbiamo riferito, dove dice: "Io e il Padre siamo una cosa sola" (Jn 10,30) e: "Chi vede me, vede anche il Padre" (Jn 14,9), e: "Tutto quello che ta il Padre, lo stesso ugualmente lo fa anche il Figlio" (Jn 5,9)... Queste sono, invece, le affermazioni che sono dette di lui con riguardo alla sua natura umana: "Il Padre è maggiore di me" (Jn 14,28).

       Vittore di Vita, De persecutione, II, 4, 63

VI Domenica di Pasqua

35 Letture:
    
Ac 8,5-8 Ac 8,14-17
     1P 3,15-18
     Jn 14,15-21

1. Vivere in Cristo

       Che significa «perché io vivo e voi vivrete» (Jn 14,19)? Perché disse che egli viveva, usando il tempo presente, mentre di essi disse che avrebbero vissuto nel futuro, se non perché egli stava per risorgere anche nella carne, cioè li precedeva su quella via della risurrezione, su cui aveva promesso che i discepoli lo avrebbero seguito più tardi? E, siccome il tempo della sua risurrezione era ormai prossimo, usò il tempo presente per indicarne la rapidità; di essi, la cui risurrezione doveva avvenire alla fine dei secoli, non disse: vivete, ma: «vivrete «. Con stile rapido e significativo, usando due verbi, uno al presente e l’altro al futuro, promise le due risurrezioni, la sua, che stava per accadere, e la nostra, alla fine dei secoli: «Perché io» - disse - «vivo e voi vivrete»; cioè noi vivremo perché egli vive ora. "Come infatti tutti muoiono in Adamo, così tutti in Cristo riavranno la vita" (1Co 15,21-22). Nessuno muore se non per colpa di Adamo, e nessuno riottiene la vita, se non per mezzo di Cristo. È perché noi vivemmo, che siamo morti; è perché egli vive, che noi vivremo. Noi siamo morti per Cristo, se viviamo per noi; è invece perché egli è morto per noi, che vive per sé e per noi. Insomma, perché egli vive, noi vivremo. Potremmo infatti da noi stessi darci la morte, ma non potremo ugualmente darci da noi stessi la vita.

       "In quel giorno" - egli continua - " voi conoscerete che io sono nel Padre mio, e voi in me e io in voi" (Jn 14,20).

       In quale giorno? Nel giorno di cui ha parlato prima quando ha detto: «e voi vivrete «. Allora noi potremo finalmente vedere ciò in cui oggi crediamo. Infatti, anche ora egli è in noi e noi siamo in lui: è vero in quanto ci crediamo, mentre allora sapremo. Ciò che ora sappiamo con la nostra fede, allora lo sapremo perché vedremo. In effetti, finché siamo in questo corpo quale è ora, cioè corruttibile e che appesantisce la nostra anima (Sg 9,15), peregriniamo per il mondo lontani dal Signore; e camminiamo verso di lui per mezzo della fede, non perché abbiamo di lui la chiara visione (2Co 5,6). Allora, invece, lo vedremo chiaramente, perché lo vedremo qual è (cf. 1Jn 3,2). Se Cristo non fosse in noi anche ora, l’Apostolo non potrebbe dire: "Se poi Cristo è in noi, il nostro corpo è morto per causa del peccato, ma lo spirito è vita per ragione di giustizia" (Rm 8,10). Egli stesso apertamente mostra che anche ora noi siamo in lui, laddove dice: "Io sono la vite, voi tralci" (Jn 15,5). Dunque in quel giorno, quando vivremo in quella vita che avrà completamente distrutto la morte, conosceremo che egli è nel Padre, e noi in lui e lui in noi; perché allora vedremo compiersi ciò che egli stesso ha incominciato, affinché appunto noi si fosse finalmente in lui e lui in noi.

       Agostino, In Ioan. 75, 3-4


2. Gli effetti della presenza di Cristo in me

       Vivo e attivo è lui, e appena è entrato ha destato l’anima mia assopita; ha commosso, reso molle e ferito il mio cuore, poiché era duro e di sasso, e insensato. Ha cominciato anche a strappare e a distruggere, a edificare e a piantare, a irrigare ciò che era arido, a illuminare ciò che era tenebroso, a spalancare ciò che era chiuso, a riscaldare ciò che era freddo, e così pure a raddrizzare ciò che era storto, e a cambiare le asperità in vie piane, affinché l’anima mia, e tutto ciò che è in me, benedicesse il Signore e il suo santo nome. Entrando così più volte in me il Verbo, mio sposo, non ha fatto mai conoscere la sua venuta da nessun indizio: non dalla voce, non dall’aspetto, non dal passaggio. Nessun gesto suo insomma lo ha fatto scoprire, nessuno dei miei sensi si è accorto che penetrava nel mio intimo soltanto dal moto del cuore, come ho detto prima ho sentito ia sua presenza; dalla fuga dei vizi, dalla stretta dei desideri carnali, ho avvertito la potenza della sua virtù; dallo scuotimento e dalla riprensione delle mie colpe nascoste, ho ammirato la profondità della sua sapienza; dalla sia pur piccola correzione delle mie abitudini, ho sperimentato la bontà della sua mitezza, dalla trasformazione e dal rinnovamento dello spirito della mia mente, cioè del mio uomo interiore, mi son fatto comunque l’idea della sua bellezza; e nel contempo dall’esame di tutte queste cose, ho avuto timore delle sue grandezze senza numero.

       Bernardo di Chiarav., In Cant. Cant. Sermo 74, 6


3. Lo Spirito trasforma interiormente

       Quanto debole e pauroso, prima della venuta dello Spirito, fosse questo pastore della Chiesa [Pietro], presso il cui corpo santissimo ora ci troviamo, ce lo dice quella serva che custodiva la porta. Turbato alla voce di una donna, per paura di morire, rinnegò la vita (Jn 18,17). E Pietro rinnegò, stando a terra, quando il ladrone diede la sua testimonianza stando sulla croce (Lc 23,41 Lc 23,42). Ma ascoltiamo come diventò quest’uomo così pauroso, dopo la venuta dello Spirito. Si raduna il consiglio dei magistrati e degli anziani, e agli apostoli, dopo che sono stati flagellati, viene ingiunto di non predicare più nel nome di Gesù. Pietro risponde con grande autorità: "Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini" (Ac 5,29). E ancora: "Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi più che a lui giudicatelo voi stessi; noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato (Ac 4,19-20). Ma essi se ne andarono dalla presenza del sinedrio lieti di essere stati giudicati degni di patire oltraggi per il nome di Gesù" (Ac 5,41). Ecco, quel Pietro che prima temeva davanti a una parola, ora gode sotto le percosse. E colui che aveva avuto paura della voce di una serva, dopo la venuta dello Spirito Santo, pur flagellato umilia la potenza dei principi. Piace alzare gli occhi della fede sulla virtù di questo Artista e considerare qua e là i padri del Vecchio e del Nuovo Testamento. Ecco che, aperti questi stessi occhi della fede, io osservo David, Amos, Daniele, Pietro, Paolo, Matteo, e voglio considerare quale Artista sia questo Spirito Santo, ma mentre sono intento a ciò sento che non riesco. Infatti [questo Artista] riempie un fanciullo che suonava la cetra e lo fa diventare il Salmista (1S 16,18), riempie un pastore d’armenti che sbucciava fichi selvatici, e ne fa un profeta (Am 7,14); riempie un fanciullo dedito all’astinenza, e ne fa un giudice di vecchi (cf. s); riempie un pescatore, e ne fa un predicatore (Mt 4,19); riempie un persecutore, e ne fa il Dottore delle genti (cf. Ac 9,1s); riempie un pubblicano, e ne fa un evangelista (Lc 5,27-28). Quale Artista è questo Spirito! Tutto ciò che vuole avviene senza indugio. Appena tocca la mente, insegna, e il suo solo tocco è già insegnare. Appena illumina l’animo umano, lo cambia; subito gli fa rinnegare ciò che era, subito lo rende ciò che non era.

       Gregorio Magno, Hom. 30, 8


4. Lo Spirito Santo nei profeti e nei cristiani

       Consideriamo allora - riprendo infatti la parte finale del discorso - che nei santi profeti c’è stata come una seconda illuminazione e preilluminazione dello Spirito, che potesse orientare alla comprensione delle cose future, e alla conoscenza di quelle nascoste; in coloro che credono in Cristo, non pensiamo che si tratti semplicemente di manifestazione dello Spirito, ma confidiamo che lo stesso Spirito abiti e quasi sia ospitato. Per cui, a buon diritto, veniamo detti anche templi di Dio, mentre nessuno dei santi profeti è mai stato chiamato tempio di Dio.

       Cirillo di Alessandria, In Ioan. Evang. V, 2


Pentecoste

38 Letture:
    
Ac 2,1-11
     1Co 12,3-7 1Co 3,12-13
     Jn 20,19-23

1. L’opera mirabile dello Spirito Santo

       Qualcosa di grande, e onnipotente nei doni, e ammirabile, lo Spirito Santo. Pensa, quanti ora sedete qui, quante anime siamo. Di ciascuno egli si occupa convenientemente; e stando in mezzo (Ag 2,6) (a noi) vede di che cosa ciascuno è fatto; vede anche il pensiero e la coscienza, ciò che diciamo e abbiamo nella mente. È certamente cosa grande ciò che adesso ho detto, ma ancora poco. Vorrei che tu considerassi, illuminato da lui nella mente, quanti sono i cristiani di tutta questa diocesi, e quanti di tutta la provincia della Palestina. Di nuovo spazia col pensiero da questa provincia a tutto l’impero romano; e da questo rivolgi lo sguardo a tutto il mondo; le stirpi dei Persiani, e le nazioni degli Indi, Goti e Sarmati, Galli, e Ispani, Mauri ed Afri ed Etiopi, e tutti gli altri, dei quali non conosciamo neanche i nomi; ci sono molti popoli, infatti, dei cui nomi non ci venne neppure notizia. Considera di ciascun popolo i vescovi, i presbiteri, i diaconi, i monaci, le vergini, e tutti gli altri laici; e guarda il grande reggitore e capo, e largitore dei doni; come in tutto il mondo a uno dà la pudicizia, a un altro la perpetua verginità, a un altro ancora la misericordia (o la passione dell’elemosina), a uno la passione della povertà, ad un altro la forza di fugare gli spiriti avversi; e come la luce con un solo raggio illumina tutto, così anche lo Spirito Santo illumina coloro che hanno occhi. Poiché se uno che vede poco con l’aiuto della grazia non si dona affatto, non accusi lo Spirito ma la sua propria incredulità.

       Avete visto la sua potestà che egli esercita in tutto il mondo. Ora, perché la tua mente non sia rivolta alla terra, tu sali in alto: sali col pensiero fino al primo cielo, e contempla le innumerevoli miriadi di angeli che ivi esistono. Sempre col pensiero, sforzati di salire a cose ancora più alte, se puoi; mira gli arcangeli, mira gli spiriti; guarda le virtù, guarda i principati; guarda le potestà, i troni, le dominazioni. Di tutti questi è stato dato da Dio chi stia loro a capo, il Paraclito. Di lui hanno bisogno Elia ed Eliseo e Is tra gli uomini; di lui, tra gli angeli, Michele e Gabriele. Nessuna delle cose generate (o meglio create) è pari a lui nell’onore; infatti tutti i generi degli angeli, e gli eserciti tutti insieme riuniti, non possono avere alcuna parità ed uguaglianza con lo Spirito Santo. Tutte queste cose ricopre e oscura totalmente la buona potestà del Paraclito. Quelli infatti sono inviati per il ministero e questi scruta anche le profondità di Dio; come dice l’Apostolo: "Lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio" (1Co 2,10ss).

       Fu lui a predicare del Cristo nei profeti: lui ad operare negli apostoli: ed è lui che fino ad oggi segna le anime nel Battesimo. E il Padre dà al Figlio e il Figlio comunica allo Spirito Santo. È lo stesso Gesù, infatti, non io, che dice: "Tutto mi è stato dato dal Padre mio" (Mt 11,27); e dello Spirito Santo dice: "Quando però verrà lo Spirito di verità, ecc., egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l’annunzierà" (Jn 16,13-14). Il Padre dona tutto attraverso il Figlio con lo Spirito Santo. Non è che una cosa sono i doni del Padre, e altri quelli del Figlio, e altri quelli dello Spirito Santo; una infatti è la salvezza, una la potenza, una la fede. Un solo Dio, il Padre un solo Signore, il suo Figlio unigenito; un solo Spirito Santo, il Paraclito.

       Cirillo di Alessandria, Catechesis XVI, De Spir. Sancto, I, 22-24

2. Lo Spirito del Signore

       Paolo, scrivendo a Timoteo, dice: "Custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi" (2Tm 1,14). Ai Rm poi: "Non oserei infatti parlare di ciò che Cristo non avesse operato per mezzo mio per condurre i pagani all’obbedienza, con parole e opere, con la potenza di segni e di prodigi, con la potenza dello Spirito Santo (Rm 15,18). E ancora: "Vi esorto perciò, fratelli, per il Signore Nostro Gesù Cristo e l’amore dello Spirito Santo, a lottare con me nelle preghiere che rivolgete per me a Dio" (Rm 15,30). Ai Corinzi: "O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio"? (1Co 6,19). E ancora: "Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito" (1Co 6,17). Ecco che apertamente qui afferma che c’è lo Spirito del Signore e facendolo ancora più apertamente, così di nuovo scrive ai Giudei: "Fino ad oggi quel medesimo velo rimane, non rimosso, alla lettura dell’Antico Testamento, perché‚ è in Cristo che esso viene eliminato. Fino ad oggi, guando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo sarà tolto. Il Signore è Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà" (2Co 3,14-17). E ancora: "E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore" (2Co 3,18). Poiché dunque uno è il Signore Gesù Cristo, secondo la sentenza di Paolo, [questi] chiama il Signore veramente Spirito, e non riconosce alcuna differenza del Figlio e dello Spirito, ma lo chiama col nome del Signore in quanto in lui e per lui naturalmente esistente.

       Cirillo di Alessandria, De Sanct. Trinit., Assertio 34


3. Il ruolo dello Spirito Santo

       Quanto all’«economia» stabilita per l’uomo dal nostro magnifico Dio e Salvatore Gesù Cristo, secondo la bontà di Dio, chi dunque rifiuterà [di attribuirne] la piena realizzazione della grazia dello Spirito? Si considerino pure il passato, le benedizioni dei Patriarchi, l’aiuto portato dal dono della Legge, i «tipi», le profezie, le azioni brillanti in guerra, i miracoli compiuti dai giusti, o le disposizioni relative alla venuta del Signore nella carne, tutto fu realizzato dallo Spirito.

       Egli fu all’inizio presente alla carne del Signore, quando di lui divenne l’«unzione» e l’inseparabile compagno, come è scritto: "Colui sul quale vedrai discendere e posarsi lo Spirito, è il mio Figlio diletto" (Jn 1,33 Lc 3,22) e "Gesù di Nazaret, che Dio consacrò in Spirito Santo" (Ac 10,38). Poi tutta l’attività di Cristo si compì in presenza dello Spirito. Egli era là anche quando fu tentato dal diavolo, poiché sta scritto: "Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato" (Mt 4,1). Ed era ancora con lui, inseparabilmente, quando Gesù compiva i suoi miracoli, perché "io scaccio i demoni per virtù dello Spirito di Dio..." (Mt 12,28). Egli non l’ha lasciato dopo la sua Risurrezione dai morti: quando il Signore, per rinnovare l’uomo e per restituirgli - giacché l’aveva perduta - la grazia ricevuta dal soffio di Dio, quando il Signore soffiò sulla faccia dei discepoli, che cosa ha detto? "Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi" (Jn 20,22-23).

       E l’organizzazione della Chiesa? Non è evidentemente, e senza contraddizione, opera dello Spirito Santo? Infatti, secondo san Paolo, è lui che ha dato alla Chiesa "in primo luogo degli apostoli, in secondo luogo dei profeti, in terzo luogo dei dottori; poi il dono dei miracoli, poi i carismi di guarigione, di assistenza, di governo, di lingue diverse" (1Co 12,28). Lo Spirito distribuisce quest’ordine secondo la ripartizione dei suoi doni.

       Basilio di Cesarea, De Spir. Sancto, 16, 39


4. Nello Spirito invochiamo il Padre

       Ma ora, è solo una parte del suo Spirito che noi riceviamo, per disporci in anticipo e prepararci all’incorruttibilità, abituandoci a poco a poco a comprendere e a portare Dio. È ciò che l’Apostolo chiama «caparra» - cioè una parte soltanto di quell’onore che ci è stato promesso da Dio -, allorché nella lettera agli Efesini dice: "È in lui che anche voi, dopo aver ascoltato la parola di verità, il vangelo della vostra salvezza, è in lui che, dopo aver creduto, voi siete stati segnati con il sigillo dello Spirito Santo della promessa, che è la caparra della vostra eredità" (Ep 1,13-14). Se dunque questa caparra, dimorando in noi ci rende già spirituali e se ciò che è mortale è assorbito dall’immortalità (2Co 5,4) - infatti "quanto a voi", dice egli, "non siete nella carne, ma nello Spirito, se è vero che lo Spirito di Dio abita in voi" (Rm 8,9) -, e se, d’altra parte, ciò si realizza non con il rifiuto della carne, bensì per la comunione dello Spirito - in effetti coloro a cui egli scriveva non erano degli esseri disincarnati, ma persone che avevano ricevuto lo Spirito di Dio "nel quale gridiamo: Abbà, Padre" (Rm 8,15) -; se dunque, fin da ora, per aver ricevuto questa caparra, noi gridiamo "Abbà, Padre", che sarà quando, risuscitati, "lo vedremo a faccia a faccia" (1Co 13,12)? Quando tutte le membra, a fiotti straripanti, faranno sgorgare un inno di esultanza, glorificando colui che li ha risuscitati dai morti e li ha gratificati della vita eterna? Infatti, se già una semplice caparra, avvolgendo in se stessa l’uomo da ogni parte, lo fa gridare: "Abbà, Padre", cosa non farà la grazia intera dello Spirito, una volta data agli uomini da Dio? Essa ci renderà simili a lui e compirà la volontà del Padre, poiché farà l’uomo ad immagine e somiglianza di Dio (Gn 1,26).

       Ireneo di Lione, Adv. Haer. V, 8, 1

5. Il Logos e lo Spirito

       E questo discendente di David, che esisteva prima di David, il Logos di Dio, avendo disprezzato la lira e la cetra, strumenti senz’anima, regolò per mezzo dello Spirito Santo il nostro mondo e in modo particolare questo microcosmo, l’uomo, anima e corpo: egli si serve di questo strumento dalle mille voci per celebrare Dio, e canta egli stesso in accordo con questo strumento umano. «Poiché tu sei per me una cetra, un flauto e un tempio» (Anonimo): una cetra, per la tua armonia; un flauto, per il tuo soffio; un tempio, per la tua ragione, in guisa che l’una vibra, l’altro respira e quest’ultimo accoglie il Signore.

       Clemente di Alessandria, Protrepticon, I, 5, 3





Lezionario "I Padri vivi" 33